martedì 18 Novembre 2025
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La CIA voleva rapire e uccidere Julian Assange

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assange

Che gli Stati Uniti non nutrano simpatie per Julian Assange, uomo a capo del portale WikiLeaks, era cosa nota, tuttavia un report pubblicato domenica offre uno spaccato sui retroscena della persecuzione politica subita dall’attivista australiano, dando voce a testimonianze che hanno dell’incredibile.

I dissapori tra USA e WikiLeaks partono dall’ormai remota amministrazione Obama, ovvero da quel 2010 in cui il discusso portale ha pubblicato diversi documenti che il Governo a stelle e strisce si era accuratamente assicurato di insabbiare. Già allora le Intelligence erano trepidanti, pronte all’azione, tuttavia il Presidente ha frenato ogni genere di intervento, invocando l’importanza di preservare il Primo Emendamento: la libertà di parola e di stampa.

Stando agli informatori della testata, dopo appena tre anni persino Barack Obama avrebbe però iniziato a cambiare prospettiva sulla faccenda. Nel 2013 WikiLeaks ha infatti contribuito non poco nel permettere a Edward Snowden di rivelare al mondo intero che gli USA stavano spiando illegalmente i propri cittadini e i leader politici esteri, nonché ha avuto un ruolo essenziale nel permettere all’ex agente NSA di fuggire in Russia.

Da allora, la CIA avrebbe formato un team interamente impegnato a fare le pulci ad Assange e ai suoi collaboratori, il tutto nella speranza di incappare in eventuali legami occulti intessuti con il Cremlino. Fallito questo tentativo, le Intelligence hanno scomodato i propri consulenti legali con lo scopo di trovare qualche cavillo con cui dimostrare che i membri del portale non siano da considerare giornalisti, ma “informatori”. La Casa Bianca di Obama ha ripudiato questo escamotage, ma quella di Donald Trump ci è andata a nozze.

Mike Pompeo, divenuto nel 2017 capo della CIA, ha immediatamente etichettato WikiLeaks come un «servizio di intelligence ostile», di fatto sottraendo agli attivisti del portale quelle tutele che sarebbero loro garantite dal già citato Primo Emendamento. Il controspionaggio ha ottenuto dunque massima libertà d’azione e si è messo in moto per recuperare i preziosi dati del “Vault 7”, una serie di documenti trafugati da terzi dalla CIA che erano finiti nelle mani dell’organizzazione. Considerando che il Vault 7 ha messo in mostra molti dei trucchetti di sorveglianza digitale e di guerra cibernetica messi in campo dagli USA, impedire agli uomini di Assange di renderne pubblici i contenuti era un obiettivo prioritario.

Anche in questo caso, però, gli sforzi sono stati fallimentari. Il report suggerisce che i membri di WikiLeaks, ormai paranoici, abbiano difeso bene le informazioni raccolte e neppure le effrazioni domestiche e i furti perpetrati dagli agenti segreti americani sono stati in grado di arginare le scomode rivelazioni. Al culmine della frustrazione, l’Amministrazione Trump avrebbe iniziato a perdere la pazienza, avanzando strategie d’azione sempre più estreme e autoritarie.

A questo punto, la Casa Bianca si è interamente focalizzata sul trovare stratagemmi con cui mettere le mani su Assange, all’epoca ospitato dal consolato ecuadoregno di Londra. Spie e informatori si sono assiepati fuori e dentro le mura dell’edificio diplomatico e la CIA ha largamente discusso la possibilità di rapire con la forza l’uomo, opzione che il Regno Unito ha stroncato sul nascere. Testimoni hanno accennato al fatto che si sia brevemente valutata persino l’opzione dell’omicidio, con l’avvelenamento che dominava la lista delle strategie papabili.

Impossibilitate ad agire immediatamente, le Intelligence statunitensi hanno iniziato a temere che Assange potesse sfuggirli da sotto il naso, che potesse uscire strategicamente dall’ambasciata per poi fuggire in Russia grazie all’aiuto di agenti avversari. Dopo quanto successo con Snowden, un’evenienza simile sarebbe stata disastrosa e gli 007 americani si sarebbero dunque preparati a reagire violentemente a ogni sfida: qualora il capo di WikLeaks fosse salito su un qualsiasi veicolo, gli uomini della CIA erano pronti a lanciarsi in sparatorie per le strade di Londra, speronare la vettura per mandarla fuoristrada o bloccare con ogni mezzo l’aeroplano pronto a portare l’attivista fuori dalla portata degli Stati Uniti.

Alla fine, i tecnici vicini alla Casa Bianca sono riusciti a convincere l’establishment a non cedere a queste strategie da Guerra Fredda, piuttosto hanno intrapreso le vie legali. Questo approccio si sta dimostrando certamente lento, tuttavia sta rovinando la vita di Assange senza neanche vi sia effettivo bisogno di un’estradizione in terra statunitense.

[di Walter Ferri]

L’Afghanistan si ritira: non prenderà parte all’Assemblea generale Onu

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L’Afghanistan, nella giornata conclusiva dei lavori, si è ritirato dalla lista dei paesi che sarebbero dovuti intervenire al dibattito dell’Assemblea Generale Onu. Monica Grayley, portavoce del presidente dell’Assemblea Generale, ha in tal senso affermato: «Abbiamo appreso che lo Stato membro ha ritirato la sua partecipazione al dibattito, prevista per oggi». Sarebbe infatti dovuto intervenire, come da programma, l’ambasciatore Ghulam Issaczai, nominato dall’ex presidente Ghani. Tuttavia, i talebani stanno cercando di mandarlo via e di assumere dunque il controllo del seggio alle Nazioni Unite.

Svelato il lobbying dell’industria della carne sulle Nazioni Unite

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La settimana scorsa si è tenuto a New York il “Food System Summit”, il vertice delle Nazioni Unite che mira a rendere i sistemi agricoli globali più sostenibili e conseguentemente a contrastare la fame nel mondo ed a raggiungere entro il 2030 i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS). Nel periodo che ha preceduto lo svolgimento dello stesso, però, le Nazioni Unite hanno a quanto pare ricevuto pressioni da parte delle lobby della carne: Unearthed, il braccio investigativo della Ong ambientalista Greenpeace, ha infatti reso noto di essere in possesso di alcuni documenti dai quali emerge chiaramente il fatto che l’industria zootecnica abbia sollecitato le Nazioni Unite a sostenere una maggiore produzione di carne e latticini ed a promuovere dunque l’allevamento intensivo.

Per comprendere precisamente la questione, però, c’è bisogno di fare una breve premessa: nei mesi che hanno preceduto il vertice, i “cluster”, ossia i gruppi di discussione, hanno lavorato per produrre documenti che offrissero soluzioni sostenibili per il sistema alimentare. A tal proposito, in una bozza del documento elaborato dal gruppo “allevamento sostenibile”,  a cui hanno partecipato gli esponenti di alcune associazioni industriali tra cui l’International Meat Secretariat e l’International Poultry Council, era stato affermato che «i progressi nei sistemi di allevamento intensivo» potessero «contribuire alla conservazione delle risorse planetarie». Tali tesi, però, hanno successivamente innescato una spaccatura tra l’industria della carne ed alcuni scienziati e Ong, che si sono aggiunti al gruppo solo in seguito alla stesura della bozza.

Detto ciò, secondo Unearthed alcune associazioni dell’industria della carne, tra cui Meat Secretariat e Poultry Council, hanno per questo successivamente scritto una lettera a esponenti di spicco delle Nazioni Unite all’interno della quale hanno accusato i nuovi membri di «promuovere una posizione ideologica anti-bestiame» e hanno minacciato di ritirarsi dal vertice in segno di protesta. Alla fine, però, i funzionari delle Nazioni Unite che sovrintendono al vertice hanno risolto la vicenda permettendo al cluster di produrre tre documenti di posizione anziché uno.

Le industrie della carne hanno quindi evidentemente vinto questa battaglia, dato che solo uno dei documenti descrive gli svantaggi dell’agricoltura industriale e afferma chiaramente la necessità di ridurre significativamente il consumo globale di carne e latticini. Inoltre ora, a pochi giorni dal vertice (tenutosi, come detto, la scorsa settimana) tra gli «impegni presi» compare anche quello di sviluppare «sistemi di allevamento sostenibili».  In tal senso, si legge sul sito del Summit, «i sistemi zootecnici e le catene del valore contribuiscono a molti degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite».

Si tratta però di un impegno che si pone in contrasto con le evidenze scientifiche: gran parte degli esperti a livello mondiale concorda sul fatto che gli allevamenti siano responsabili di almeno il 14% delle emissioni globali, mentre uno studio pubblicato recentemente ha evidenziato che le emissioni globali di gas serra derivanti dagli alimenti di origine animale sono il doppio di quelle derivanti dagli alimenti di origine vegetale.

[di Raffaele De Luca]

Perché, anche all’interno della strategia vaccinale, puntare sulla terza dose è insensato

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Nell’affrontare la pandemia di Covid-19 la strategia globale si è da subito concentrata sulla vaccinazione di massa come unica arma. Ogni altra possibile soluzione che, di fatto, avrebbe potuto quantomeno integrare e potenziare la stessa campagna vaccinale, è passata invece in secondo piano. Timidamente, dopo quasi due anni, si è giunti ad approvare alcune terapie monoclonali, mentre però è già cominciata la somministrazione di una terza dose vaccinale a favore, si badi bene, dei soli paesi ricchi. Un richiamo che ha letteralmente scatenato una bufera nella Food and Drug Administration (Fda) statunitense e che, a conti fatti, risulta approvato in una pressoché totale assenza di evidenze scientifiche. Un piano che, come vedremo, anche all’interno della strategia della vaccinazione di massa, ha scarse possibilità di successo, se il suo obiettivo è, come dichiarato, quello di sconfiggere la pandemia.

I dubbi nella comunità scientifica

Al momento dell’approvazione, gli unici studi condotti sull’efficacia e la sicurezza della terza dose erano quelli avanzati dalle stesse aziende produttrici. Discorso a parte per i soggetti immunologicamente fragili per i quali, se non altro, qualche evidenza c’era già. Motivo per cui si è deciso di partire proprio da questi, ma per il resto della popolazione la comunità scientifica chiede cautela e resta divisa. Ciononostante, Israele e Regno Unito sembrano già propensi all’estensione graduale del richiamo a tutta la popolazione, basando però tale scelta più sulla speranza che sui dati. Non a caso, negli Stati Uniti, la Fda ha recentemente frenato una strategia simile, ribadendo come, al massimo, la terza dose possa essere utile solo per gli over 65. Misura quanto meno sostenuta da un recente studio. Sulla questione, per i primi di ottobre è atteso anche il parere dell’Agenzia europea del farmaco (Ema).

Questi i punti di partenza, ma il nocciolo della questione è un altro. Per arrivarci è giusto chiedersi quale sia l’obiettivo di fondo della strategia in corso: si punta a sconfiggere la pandemia o più modestamente si cerca di ridurre i ricoveri nei paesi ricchi? Se la risposta è la prima, siamo fuori strada. Se è la seconda, potrebbe non funzionare a lungo.

Perché si tratta di una strategia insensata

Anche fosse basata su solide ricerche scientifiche, la terza dose vaccinale continua infatti a non avere senso, almeno nella logica di risoluzione dell’emergenza pandemica.

Il virus muta rapidamente, già il vaccino attuale venne progettato sul ceppo originario e la diffusione ormai totalitaria della cosiddetta variante Delta ha cambiato le carte in tavola. I vaccini attuali, secondo gli studi, non saranno in grado di procurare l’immunità di gregge. Come abbiamo già spiegato con dovizia di fonti: la spinta alla vaccinazione di massa sarebbe mossa dall’auspicio (non dalla certezza) che una popolazione nel complesso più immunizzata – come spiega una simulazione – possa determinare una riduzione della circolazione virale e favorire quindi il passaggio da una condizione epidemica ad una endemica. Si verificherà questo scenario? Nessuno è disposto a scommetterci. Per provarci il presupposto sarebbe uno: fare in modo che ad essere vaccinata con doppia dose nel più rapido tempo possibile sia la gran parte della popolazione umana, in tutti i Paesi. Questo per il semplice fatto che, qualora emergesse una ulteriore variante in grado di diventare dominante, ci sono ampie possibilità che questa sarebbe in grado di superare del tutto la barriera dei vaccini attualmente in commercio, rendendoli di fatto inutili anche per chi si fosse sottoposto a tre o magari più dosi.

Anche l’OMS è decisamente contraria

Ma la campagna vaccinale non marcia in questa direzione, tutt’altro. E anche vedendo l’immunizzazione di massa come la strategia migliore a nostra disposizione, si fa difficoltà a comprendere i criteri scientifici dell’accelerazione data al cosiddetto ‘booster’. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, si è da subito opposta alla terza dose, «almeno finché – ha precisato – non si siano immunizzati con due dosi i più vulnerabili in tutto il mondo». Secondo un editoriale di Nature, a metà agosto, il 58% delle persone nei paesi ad alto reddito aveva ricevuto almeno una dose di vaccino, mentre nei paesi a basso reddito questo numero si è attestava solo all’1,3%. Dello stesso parere, inoltre, il prestigioso British Medical Journal (BMJ). Sfruttare l’iniquità dei vaccini: un crimine contro l’umanità?, questo il titolo di un loro documento che denuncia un vero e proprio apartheid vaccinale nei confronti dei 50 paesi più poveri. Questi, dove vive oltre il 20% della popolazione globale – spiegano – hanno infatti ricevuto solo il 2% delle dosi di vaccino disponibili, mentre le potenze del Nord del mondo si sono assicurate dosi extra. Ad esempio, lo strumento dell’Oms che raccoglie dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento di vaccini in rapporto alla popolazione (IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker), evidenzia come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata tra il 200 e il 400% della loro popolazione.

Una nuova variante taglierà fuori gli attuali vaccini

Le potenzialità della vaccinazione di massa, quindi, vacillano a causa delle strategie di mercato e delle solite disparità. I possibili vantaggi di fornire un’immunizzazione globale allo scopo di eradicare il Sars-Cov-2 vengono quindi meno dal momento in cui persistono divari nella distribuzione delle dosi. Secondo un recente studio, tanto più rapida è la somministrazione dei vaccini, tanto più si riduce il rischio che nuove varianti emergano. A patto però che, nel mentre, si mantengano altre misure protettive. D’altra parte – commentano i ricercatori – «i nostri dati suggeriscono anche che i ritardi nella vaccinazione in alcuni paesi renderanno più probabile l’emergere, in questi, di un ceppo resistente. Senza un coordinamento globale, questa possibilità, sebbene eradicata in alcune popolazioni, potrebbe persistere in altre». Come detto: cosa accadrebbe agli individui largamente immunizzati se una variante resistente ai vaccini varcasse i confini dei paesi più fortunati? Così, in quest’ottica, la situazione attuale, oltreché ingiusta, appare sconsiderata, quindi, pericolosa.

Salute globale e liberismo sono incompatibili

Salute globale e interessi farmaceutici non marciano nella stessa direzione. E intanto, pur persistendo una situazione di emergenza, la possibilità che vengano sospesi i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini, resta remota. «Pfizer si aspetta che le nazioni ricche ignorino l’Oms e raccomandino i richiami contribuendo ad aumentare le sue entrate», ha poi denunciato senza filtri il BMJ. D’altronde – ha aggiunto la rivista – «nei primi tre mesi del 2021 ha già incassato 3 miliardi di euro e ha registrato utili per centinaia di milioni». Stesso discorso per Moderna, «che ha ricevuto aiuti pubblici per il suo vaccino e guadagnerà diversi miliardi di dollari dalla vendita di questo». La start up americana, inoltre, ha partorito 5 degli 8 nuovi miliardari farmaceutici emersi grazie alla pandemia. Il tutto poi, a fronte di tasse statali irrisorie. «Bisogna smetterla di proteggere i profitti e i monopoli delle grandi case farmaceutiche a scapito della vita delle persone», chiedeva già tempo fa la People’s Vaccine Alliance, un gruppo di organizzazioni – tra cui ActionAid, Oxfam, Frontline AIDS e UNAIDS – che ha lanciato una petizione sottoscritta da oltre un milione di persone. A livello politico, invece, magra consolazione solo l’ultimo G20 salute: di colmare i divari internazionali, se non altro, se ne inizia a parlare.

Nel frattempo mentre metà del mondo continua a non avere accesso ai vaccini, nei paesi ricchi si procede con l’approvazione delle terze dosi, nonostante i rischi siano stati scarsamente valutati e i benefici appaiano tutt’altro che certi.

[a cura di Andrea Legni e Simone Valeri]

Cina: stretta su aborti effettuati per scopi non medici

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In Cina, si è deciso di limitare il numero di aborti effettuati per «scopi non medici». Il Consiglio di Stato ha infatti pubblicato oggi le nuove linee guida che mirano a migliorare «l’accesso generale delle donne ai servizi sanitari pre-gravidanza». Esse fanno parte delle politiche per incoraggiare le famiglie ad avere più figli ed il loro obiettivo sembra essere proprio quello di affrontare il calo del tasso di natalità nazionale. Detto ciò, il Paese aveva già adottato misure volte a prevenire gli aborti selettivi in base al sesso e le autorità sanitarie nel 2018 avevano affermato che l’uso dell’aborto per porre fine alle gravidanze indesiderate fosse «dannoso per le donne».

I berlinesi hanno detto sì: le case potranno essere espropriate ai colossi immobiliari

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A Berlino, il diritto alla casa dovrà essere protetto anche a costo di espropriare gli appartamenti di proprietà di grandi fondi immobiliari: è questa la richiesta della maggior parte dei suoi cittadini. Ieri, infatti, in Germania non si sono tenute solo le elezioni politiche: nella capitale tedesca si sono altresì svolte le votazioni per un referendum locale avente ad oggetto tale proposta, e la maggioranza degli elettori si è pronunciata a favore della stessa, con il 56,4% che ha votato “sì” alla confisca delle abitazioni ed il 39% che ha optato per il “no”. Seppur si tratti ancora di risultati intermedi la vittoria è ormai certa: in tal senso, il conteggio dei voti è stato effettuato in più di 3700 aree e quella mancante è solo una. Si tratta dunque di una differenza ormai incolmabile.

Proprio per questo, il comitato promotore dell’iniziativa, Deutsche Wohnen & Co enteignen, ha cantato vittoria affermando che «la maggioranza dei berlinesi si è schierata a favore della socializzazione dei gruppi immobiliari». A tal proposito, nello specifico il referendum chiede l’espropriazione degli appartamenti dei colossi dell’immobiliare che ne possiedono oltre 3.000 nella capitale tedesca per concederli in affitto, a prezzi calmierati, ai tanti cittadini che non possono più permettersi una casa a causa del continuo aumento dei prezzi. Nel complesso, si tratta di circa 240.000 immobili.

I prezzi delle locazioni sono infatti raddoppiati negli ultimi dieci anni, arrivando ad una media di 13 euro al metro quadro nei nuovi contratti. A Berlino però solo il 15% della popolazione ha una casa di proprietà, motivo per cui i grandi fondi immobiliari hanno praticamente deciso di rendere il diritto ad avere una casa un privilegio sempre più costoso. Già, perché proprio questi ultimi da anni ampliano i propri acquisti con finalità essenzialmente speculative: molti dei loro appartamenti vengono mantenuti sfitti per influenzare artificialmente il mercato, in modo che la domanda di abitazioni sia sempre maggiore rispetto all’offerta. Da ciò, dunque, deriva il vertiginoso aumento dei prezzi.

Detto ciò, bisogna però ricordare che il referendum tenutosi ieri non è vincolante: dovrà essere la politica locale a ratificare eventualmente la volontà popolare. Tuttavia, la socialdemocratica Franziska Giffey, che succederà a Michael Mueller come sindaca della capitale, non è sembrata essere molto a favore del contenuto del referendum ed ha affermato: «spero vivamente che il referendum non ottenga la maggioranza». Ad ogni modo, però, non è detto che esso non possa divenire realtà, dato che la nuova sindaca ha anche aggiunto che, se il referendum avesse ottenuto la maggioranza, sarebbe stato affrontato «con rispetto e responsabilità».

[di Raffaele De Luca]

Grecia: scossa terremoto di magnitudo 6.1 a Creta

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In Grecia, sull’isola di Creta, questa mattina si è verificata una scossa di terremoto di magnitudo 6.1 della scala Richter. Essa, come riferito dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), è stata registrata ad una profondità di 13 chilometri ed è avvenuta precisamente alle 08:17 (ora italiana). Il bilancio provvisorio è di almeno una vittima: nel villaggio di Arkalochori, infatti, un operaio che stava svolgendo dei lavori all’interno di una chiesa ha perso la vita a causa del crollo del tetto di quest’ultima.

 

La Cina ha deciso di rendere illegali le criptovalute

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La Repubblica Popolare Cinese ha deciso di assumere una posizione netta nei confronti delle criptovalute, rendendole di fatto illegali in ogni accezione che non sia puramente cumulativa. Nove branche amministrative si sono dette pronte a punire chiunque operi con le monete digitali decentralizzate, mentre la Banca Centrale ha espressamente vietato ogni attività legata a Bitcoin e omologhi, ricordando alle aziende off-shore che non è mossa saggia avvicinarsi al popolo cinese.

Si tratta di una risoluzione netta, ma tutt’altro che inattesa: sono anni che la Cina si sta lanciando in grandi e piccoli interventi mirati a ostacolare la produzione, l’uso e lo scambio delle criptomonete. Questa draconiana svolta era pertanto già nell’aria, ancor più se si considera che nell’ultimo anno l’establishment cinese si sia assicurato di normare ogni sfaccettatura delle imprese digitali. Dai giganti dell’ecommerce agli influencer, passando attraverso i videogame, l’intero settore tecnologico della Cina si sta vedendo impartiti rigidi binari che permetteranno al Governo di riprendere il controllo di una situazione che stava minacciando di sfuggire di mano.

Le critiche al sistema economico cinese espresse dall’imprenditore tech Jack Ma nell’ottobre del 2020 sono state certamente uno campanello d’allarme per il Presidente Xi Jinping, tuttavia è facile intuire che una simile impostazione fosse nei piani della sua Amministrazione già a priori. La Cina sta infatti cercando di farsi un’idea chiara di come i soldi girino nel Paese e lo sta facendo impegnandosi massimamente per far sì che gli yuan digitali diventino una valuta di ampia diffusione, un proposito che è agli antipodi del concetto delle valute decentralizzate.

Alcuni analisti non mancano di notare che la repentina evoluzione delle politiche cinesi possa essere collegata anche all’impellente crisi energetica globale, o che il Governo si stia accanendo sulle criptovalute nell’ottica di compiere un primo passo verso la neutralizzazione delle emissioni di carbonio promessa entro il 2060. Più verosimilmente, questa evoluzione si inserisce nel progetto che vede lo Stato allontanarsi progressivamente dal mercato immobiliare per muoversi con forza sulla ricerca digitale. Uomini d’affari che non sanno sottomettersi all’establishment e sistemi di pagamento paralleli a quelli ufficiali rischierebbero di depauperare la Repubblica Popolare del suo potere amministrativo, insidia che il Partito non ha intenzione di tollerare, soprattutto ora che l’Occidente sta cercando disperatamente di mantenere il suo claudicante dominio digitale.

[di Walter Ferri]

Oltre 1.400 Comuni stanno cercando di boicottare il referendum sulla cannabis

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Oltre mille e quattrocento Comuni italiani non hanno ancora spedito i certificati elettorali necessari per validare le firme in favore del referendum per la depenalizzazione della cannabis. I Comuni, a norma di legge, avevano 48 ore di tempo per farlo ma alla scadenza del termine erano stati spediti solo 150.000 certificati a fronte di 580.000 firme raccolte. Durissimo il comunicato del Comitato promotore del referendum che parla di “boicottaggio della volontà popolare” e si appella al presidente Mattarella affinché la il diritto dei cittadini ad esprimersi venga garantito, mentre diversi esponenti della galassia radicale hanno iniziato questa mattina uno sciopero della fame a oltranza.

«Abbiamo ricevuto 37.500 Pec dai comuni con allegati 150.000 certificati. A venerdì sera, 1.400 amministrazioni comunali non hanno risposto del tutto. Altre non hanno rispettato le 48 ore previste dalla legge, ormai diventate 96, e hanno inviato in ritardo certificazioni d’iscrizione nelle liste elettorali delle oltre 580.000 firme raccolte online in modo parziale», ha dichiarato Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni e Presidente del Comitato promotore, sul cui sito internet è stata pubblicata la lista dei Comuni reticenti, accusati di voler impedire ai cittadini italiani di esprimersi sul tema tramite il voto. Le firme vanno infatti depositate entro il 30 settembre presso la Corte Costituzionale, e senza le certificazioni in possesso dei Comuni questo non sarà possibile.

In meno di una settimana il Comitato promotore era riuscito a raggiungere e superare il mezzo milione di firme necessarie per depositare il referendum di iniziativa popolare.  Una testimonianza della grande attenzione pubblica sul tema e della volontà crescente di spronare la politica ad adottare provvedimenti volti a modificare l’impianto proibizionista della legge italiana sulle droghe. Il quesito referendario si pone tre obiettivi: l’eliminazione del reato di coltivazione a scopo di esclusivo consumo personale; la rimozione delle pene detentive per detenzione e produzione a scopo di consumo personale; l’annullamento della sanzione amministrativa che prevede il ritiro della patente per coloro in possesso della sostanza, mantenendola solo per chi viene trovato effettivamente alla guida in stato di alterazione psicofisica. Entro il 10 febbraio 2022 la Corte Costituzionale dovrebbe valutarne l’ammissibilità, sempre che i Comuni consegnino in tempo i certificati rispettando quanto prevede la legge.

 

 

A San Marino vince il si per l’aborto legale

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Circa il 77% dei votanti sanmarinesi hanno approvato la norma che legalizza l’aborto con una legge quasi fotocopia di quella italiana, che venne approvata nell’ormai lontano 1978. Con 43 anni di ritardo anche nella repubblica più antica d’Europa le donne potranno abortire legalmente nelle prime 12 settimane di gravidanza e nei casi in cui la vita della donna sia in pericolo o  a causa di anomalie o malformazioni fetali. La piccola enclave era uno degli ultimi stati in Europa – insieme ad Andorra, Malta e Vaticano – a vietare del tutto l’aborto.