Cinque droni non identificati hanno sorvolato giovedì sera la Île Longue, la base della marina francese che ospita sottomarini nucleari della forza di deterrenza. I militari hanno attivato i sistemi di difesa e hanno aperto il fuoco nel tentativo di neutralizzare i velivoli. È stata aperta un’inchiesta per chiarire l’origine e le finalità dell’incursione.
Una manovra per il Paese reale: la contro-finanziaria di Sbilanciamoci!
Mentre il Parlamento discute il Disegno di Legge di Bilancio 2025-27 del Governo Meloni, la società civile risponde presentando la propria legge di bilancio alternativa. Si tratta, nello specifico, del Rapporto 2025 della campagna Sbilanciamoci!, la “contro-finanziaria” che ogni anno viene pubblicata dalla rete di organizzazioni che vi partecipano e sottoposta all’attenzione del Parlamento. Quest’anno, il documento – presentato nella sala stampa di Camera e Senato – racchiude 102 proposte concrete per una manovra da «oltre 54 miliardi di euro, a saldo zero». Un piano che rovescia le priorità, ponendo al centro la giustizia sociale, la transizione ecologica e i servizi pubblici, finanziati attraverso una radicale revisione della spesa e del prelievo fiscale.
Cuore della proposta è un nuovo indirizzo per un fisco equo. Il rapporto chiede una netta sterzata verso la progressività, a partire da «un’imposta progressiva sulle grandi ricchezze per chi detiene patrimoni superiori al milione di euro», misura che varrebbe 24 miliardi. A questa si affiancano l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie, una riduzione della franchigia sulla tassa di successione e «una vera tassa sulle transazioni finanziarie applicabile a tutte le azioni e a tutti i derivati». Sul fronte Irpef, si propongono tre nuovi scaglioni per i redditi più alti (45%, 50% e 55%) per un gettito aggiuntivo di 2,8 miliardi. Parte di queste risorse, 4 miliardi, andrebbero ai Comuni per «lo sblocco dei vincoli ad assunzioni e investimenti».
La sezione più simbolica per la fase storica che si sta vivendo è sicuramente quella su pace e disarmo. Di fronte a una spesa militare record, Sbilanciamoci! propone «una netta diminuzione delle spese militari, con un risparmio di 7,5 miliardi», ottenuto tagliando programmi d’arma, riducendo gli effettivi e tassando gli extraprofitti del settore. Queste risorse finanzierebbero la cooperazione internazionale, le attività coinvolte nella risoluzione dei conflitti armati e la «riconversione a fini civili dell’industria a produzione militare». Istruzione e cultura riceverebbero un investimento di oltre 10 miliardi, con interventi che vanno dalla sicurezza degli edifici scolastici all’aumento dei fondi ordinari per università e scuola. Specifiche risorse sono destinate al diritto allo studio: più borse, più posti letto negli studentati, abbonamenti agevolati ai trasporti e «l’abbattimento del numero chiuso nelle facoltà». Per la cultura, si propone l’istituzione di un «Sistema Culturale Nazionale» e il potenziamento degli organici del Ministero.
Il capitolo lavoro e industria denuncia l’assenza da trent’anni di una politica industriale orientata alla sostenibilità. La ricetta prevede l’istituzione di «un’Agenzia nazionale per le politiche industriali e il lavoro» (6 miliardi) per guidare la riconversione ecologica, insieme a fondi per le nuove competenze e missioni industriali green. Si chiede il «superamento del Jobs Act», la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di salario e una misura strutturale di «sostegno al reddito ispirata a un principio di universalità» da 5,6 miliardi. Per la mobilità, si invoca il ripristino del Fondo automotive e un aumento da 1,7 miliardi del Fondo per il trasporto pubblico locale.
La svolta ambientale, secondo Sbilanciamoci!, non è più rinviabile. La proposta chiave è la «cancellazione dei Sussidi Ambientalmente Dannosi destinati alle fonti fossili» (7 miliardi risparmiati) e l’istituzione di fondi dedicati alla riconversione energetica, al ripristino della natura e all’adattamento climatico. Viene chiesta anche la cancellazione del «progetto del Ponte sullo Stretto di Messina» (oltre 1 miliardo risparmiato). Il welfare viene trattato come investimento: si chiedono 9 miliardi in più per la sanità pubblica e oltre 1,5 miliardi per fondi sociali a sostegno di disabilità, non autosufficienza e diritto alla casa. Sul fronte migrazioni, si propone l’abolizione dei CPR e del protocollo Italia-Albania, e l’avvio di una «missione pubblica di ricerca e soccorso in mare». Sul fronte della gestione dell’universo penitenziario, si destinano inoltre 1,5 miliardi per misure alternative al carcere. Completano il quadro proposte per sostenere le economie trasformative nei territori, con fondi per comunità energetiche, cooperative di riconversione ecologica gestite dai lavoratori e biodistretti.
«Il Disegno di Legge per il Bilancio dello Stato 2025-27 del Governo Meloni attualmente in discussione alle Camere è una manovra economico-finanziaria modesta, di galleggiamento, iniqua socialmente e, dal punto di vista fiscale e ambientale, regressiva», scrivono nel documento illustrativo della “contro-finanziaria” i membri di Sbilanciamoci!, che affermano come la legge di Bilancio concepita dall’esecutivo sia «sostanzialmente dedicata al rifinanziamento delle misure dello scorso anno – a partire dal taglio del cuneo fiscale –, centrata sulle priorità della Difesa e dell’industria militare, collocata all’interno dei vincoli ristretti delle compatibilità finanziarie e del nuovo Patto di Stabilità». Secondo l’organizzazione, essa «non offre prospettive di sviluppo – il suo effetto sulla crescita è dello “zero virgola” – e non affronta i grandi problemi del Paese: le crescenti disuguaglianze e povertà, gli effetti del cambiamento climatico, la deindustrializzazione, il progressivo indebolimento del welfare e dei servizi pubblici». Tutti nodi che, invece, costituiscono il cuore della contro-proposta di Sbilanciamoci!.
UE multa X, Musk dovrà pagare 120 milioni di euro
La Commissione Europea ha comminato una sanzione di 120 milioni di euro alla piattaforma X (ex Twitter), di proprietà di Elon Musk, per violazioni del Digital Services Act. L’inchiesta, iniziata nel 2023, ha rilevato tre gravi mancanze: la “spunta blu” a pagamento, che può ingannare gli utenti sull’identità reale degli account; l’opacità sull’archivio pubblicitario e il rifiuto di concedere ai ricercatori l’accesso ai dati pubblici necessari a studiare fenomeni come disinformazione e algoritmi. Altre due indagini contro X sono ancora in corso: una riguarda il modo in cui la piattaforma tratta i contenuti illegali, l’altra si concentra sui suggerimenti degli algoritmi.
RD Congo e Ruanda firmano la pace dopo tre anni di guerra e 15mila morti
È stato firmato ieri un importante accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo (RDC) e il Ruanda – al centro di una cruenta guerra che solo negli ultimi tre anni ha causato circa 15.000 morti – con la mediazione del presidente statunitense Donald Trump. I presidenti dei tre Paesi hanno firmato un documento che formalizza il precedente accordo raggiunto a giugno tra le due nazioni africane sempre con la mediazione Usa e la cerimonia della firma si è svolta all’Istituto per la pace a Washington. Secondo il capo della Casa Bianca, l’intesa segna «una grande giornata per l’Africa, per il mondo e per questi due Paesi», risolvendo «una guerra che andava avanti da decenni» e che ha ucciso «milioni e milioni di persone». Il documento firmato ieri formalizza i termini dell’accordo di pace concordati lo scorso giugno che includono un cessate il fuoco permanente, il disarmo delle forze non statali, misure per consentire ai rifugiati di tornare a casa e giustizia contro chi ha commesso atrocità. La Casa Bianca ha definito l’accordo «storico» e Trump ha affermato che la sua amministrazione ha «avuto successo dove altri hanno fallito».
Entusiasti anche i due protagonisti dell’accordo di pace: secondo il Presidente della Repubblica democratica del Congo, Felix Tshisekedi, gli accordi firmati a Washington «non sono un documento come un altro, ma un punto di svolta: si tratta di un’architettura coerente per una dichiarazione di principio a favore di un accordo di pace e dell’integrazione economica regionale». Il presidente del Ruanda, Paul Kagame, invece, ha detto che i patti firmati garantiscono «tutto il necessario per mettere fine al conflitto una volta per tutte», e la presenza di diversi capi alla cerimonia organizzata nella capitale statunitense «conferma che questi sforzi godono del sostegno necessario per avere successo». Lo stesso ha asserito che in trent’anni di conflitto ci sono stati «innumerevoli sforzi di mediazione, ma nessuno ha avuto successo nel risolvere le questioni alla base» della guerra.
Nel dettaglio, il testo dell’accordo tra Congo e Ruanda comprende cinque punti principali: rispetto dell’integrità territoriale della RDC; cessazione delle ostilità; disimpegno e disarmo dei gruppi armati non statali; integrazione condizionata di tali gruppi; creazione di un quadro di cooperazione economica regionale tra Kinshasa e Kigali (rispettivamente capitali della RDC e del Ruanda). L’accordo prevede poi che entrambi i Paesi si impegnino a non fornire alcun supporto ai gruppi armati attivi nella regione, tra cui le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) e l’Alleanza del fiume Congo (Afc)-Movimento 23 marzo (M23). Inoltre, l’intesa comprende l’istituzione di un meccanismo congiunto di coordinamento della sicurezza, che include il Concetto operativo (Conops), un quadro di condivisione di intelligence negoziato a Luanda nell’ottobre 2024.
Tuttavia, nonostante i presupposti favorevoli, le tensioni sul campo permangono e un completo cessate il fuoco potrebbe essere più lontano di quanto si possa sperare: anche dopo la firma dell’accordo, infatti, i combattimenti proseguono in diversi punti della linea del fronte nella provincia del Sud Kivu (RDC), dove l’M23 (principale gruppo armato ribelle sostenuto dal Ruanda) sta guadagnando terreno da diverse settimane. Altri combattimenti sono in corso anche nella pianura di Ruzizi (al confine meridionale tra la Repubblica Democratica del Congo ed il Ruanda), dove le parti in conflitto si contendono il controllo della città di Katogota, secondo diverse fonti locali. Migliaia di soldati burundesi sono schierati nel Sud Kivu e combattono contro l’M23 al fianco delle forze congolesi. Secondo alcuni analisti è improbabile che il patto di giovedì ponga fine immediata ai combattimenti, in quanto un accordo separato tra Congo e M23 rimane inapplicato sul campo.
Oltre agli aspetti militari e diplomatici, ci sono poi anche quelli economici: la grande ricchezza di risorse minerarie del Congo, infatti, non è solo una delle cause di uno dei conflitti più cruenti degli ultimi decenni, ma è anche uno dei motivi che ha spinto l’amministrazione statunitense a mediare la pace. L’intesa raggiunta a Washington crea «un nuovo quadro per la prosperità economica», ha affermato il presidente Usa, aggiungendo che «In questa terra bellissima, anche se macchiata da enormi quantità di sangue, c’è una ricchezza incredibile: i due Paesi hanno accettato di integrare maggiormente le rispettive economie invece di combattere, e lo faranno. Sono sicuro che avranno successo e che andranno molto d’accordo». Il capo della Casa Bianca ha quindi annunciato che gli Stati Uniti hanno firmato accordi bilaterali sia con il Congo che con il Ruanda per ampliare l’accesso americano a minerali essenziali, un interesse strategico per Washington nel tentativo di ridurre la dipendenza dalla Cina. «Manderemo alcune delle nostre più grandi e prestigiose aziende statunitensi nei due Paesi» ha detto Trump.
La crisi nel Congo orientale risale alle conseguenze del genocidio ruandese del 1994 (uno dei più sanguinosi episodi del Novecento), dovuto a conflitti etnici locali e in seguito al quale quasi due milioni di rifugiati hutu fuggirono in Congo. Il Ruanda accusa alcune milizie hutu di aver partecipato al genocidio e sostiene che elementi dell’esercito congolese abbiano offerto loro protezione. Da parte sua, il Congo insiste sul fatto che una pace duratura non è possibile se il Ruanda non ritira il suo sostegno ai ribelli dell’M23. Oltre ad aver provocato milioni di morti, il conflitto ha causato milioni di sfollati, creando una gravissima crisi umanitaria. Per questo, l’accordo raggiunto a Washington, per quanto fragile, rappresenta pur sempre un punto di svolta per l’emergenza in questa regione.
Gaza: ucciso Abu Shabab, il collaborazionista su cui puntava Israele
Yasser Abu Shabab, il leader della milizia palestinese collaborazionista delle “Forze Popolari”, è stato ucciso. Le circostanze della sua morte non sono ancora chiare: secondo alcuni, sarebbe stato ucciso da una cellula affiliata alle Brigate di Al Qassam, il braccio armato di Hamas, mentre secondo altri la sua morte sarebbe avvenuta dopo una lite con i membri di un clan rivale; secondo le ricostruzioni, Abu Shabab sarebbe stato ferito assieme al suo vice, per poi venire trasportato nell’ospedale israeliano Soroka di Be’er Sheva, dove sarebbe deceduto. Abu Shabab ha creato le proprie milizie a maggio 2024, con lo scopo dichiarato di fornire aiuti alla popolazione palestinese; il gruppo è stato più volte accusato di lavorare al soldo di Tel Aviv, ipotesi poi confermata dallo stesso Stato ebraico. In Israele, la sua morte sta venendo universalmente descritta come una dura sconfitta, che dimostrerebbe le politiche fallimentari del governo Netanyahu.
Non si sa tanto della morte di Abu Shabab. I primi a dare la notizia sono stati i giornalisti dell’emittente israeliana Channel 12, che hanno inizialmente attribuito la sua uccisione a uno scontro con un gruppo affiliato ad Hamas. Successivamente, lo stesso media ha diffuso una versione secondo cui sarebbe stato ucciso in seguito a uno scontro interno scoppiato a causa della detenzione di un ragazzo da parte di Abu Shabab: secondo tale versione, un parente del ragazzo sarebbe andato da Abu Shabab accompagnato da un amico, per chiedergli di rilasciarlo; Abu Shabab avrebbe risposto in malo modo, «umiliando» l’uomo, che avrebbe così aperto il fuoco, uccidendo il leader delle Forze Popolari. Secondo altre ricostruzioni, invece, Abu Shabab sarebbe stato accoltellato, mentre altre riportano che sarebbe stato picchiato a morte dalle tribù che lo hanno rinnegato a causa della sua politica di collaborazionismo.
Per essere precisi, non è possibile neanche confermare che sia effettivamente morto, perché non esistono fonti accreditate che possano accertarne il decesso. La notizia tuttavia sta venendo data per certa tanto dalle fonti israeliane quanto da quelle arabe; è stata confermata da Hamas e dal gruppo “Rada” affiliato alle brigate di Al Qassam, attivo proprio nel Governatorato di Rafah, dove Abu Shabab è stato ucciso; è poi comparso un comunicato in una pagina Facebook che pare legata alla milizia, che ne conferma la morte. Nel suo comunicato, il gruppo scrive che Abu Shabab non è stato ucciso da Hamas, bensì da un colpo di arma da fuoco mentre cercava di risolvere un conflitto interno, confermando parzialmente la versione di Channel 12.

Tra Israele e Palestina, la notizia della sua morte ha fatto parecchio rumore. I media ufficiali di Hamas dedicano parecchio spazio alla notizia, con commenti di analisti, dichiarazioni ufficiali, e notizie di cronaca. Il gruppo ha commentato la sua morte sostenendo che essa proverebbe la politica fallimentare del governo israeliano: «Il destino toccato al collaboratore morto, che collaborava con l’occupazione, Yasser Abu Shabab, è il destino inevitabile di chiunque tradisca il suo popolo e la sua patria e accetti di essere uno strumento nelle mani dell’occupazione»; il medesimo gruppo Rada di Rafah ha pubblicato una immagine con una sua foto barrata da una croce, accompagnata da un commento che recita «ti avevamo detto che Israele non ti avrebbe protetto».
In Israele la sua morte non sta avendo la stessa centralità che ha avuto in Palestina, ma sta venendo descritta come una netta sconfitta per lo Stato ebraico e il governo Netanyahu. La cronista Sapir Lipkin ha affermato che la morte di Abu Shabab sarebbe «il risultato di una politica miope» e proverebbe «che la “fantasia dei clan” coltivata nell’apparato di sicurezza israeliano non regge», e che a Gaza «il potere sta ancora nelle mani di Hamas». L’analista di guerra Avi Ashkenaz ha descritto Abu Shabab come una «risorsa tattica» per le IDF nell’area di Rafah, affermando che la sua morte fosse «un peccato»; tuttavia, «chiunque pensasse e contasse sul fatto che un gruppo di spacciatori di droga e tossicodipendenti [ndr. si riferisce ad Abu Shabab e alle Forze Popolari] potesse esercitare il governo nella Striscia di Gaza sbagliava, e sbagliava di grosso». Elior Levy, caporedattore della sezione di Channel 11 dedicata ai palestinesi, ha dedicato alla vicenda un commento in cui osserva che la sua «eliminazione» a Rafah, area controllata dall’esercito da oltre un anno, «non fa bene né all’esercito né alla sua reputazione». L’uccisione di Abu Shabab, continua, «dimostra ciò che tutti sapevano, ma che Israele ha preferito ignorare: Hamas controlla la popolazione e i gruppi palestinesi anche in aree in cui non li controlla ufficialmente, come Rafah».
Yasser Abu Shabab, classe 1990, era già noto ai gruppi palestinesi, in quanto incarcerato per traffico di stupefacenti. Dopo l’invasione della Striscia, riuscì a fuggire grazie a un bombardamento dell’esercito israeliano, per poi riapparire sulla scena a metà 2025, quando il gruppo delle Forze Popolari salì alla ribalta grazie al sostegno israeliano. La milizia, dichiaratamente anti-Hamas, conta tra i 100 e i 300 membri attivi nell’area orientale di Rafah; il gruppo è stato spesso accusata dalla resistenza palestinese, da media internazionali, e da operatori umanitari di saccheggiare i camion di aiuti per poi vendere i beni alimentari a prezzi esorbitanti. Per tale motivo, Abu Shabab è stato rinnegato dal suo stesso clan, la tribù Tarabin, una delle più note nella Palestina meridionale. Col tempo sono emersi rapporti tra la milizia e lo Stato ebraico, confermati, tra i tanti, da media e analisti israeliani e – indirettamente – dallo stesso Netanyahu, che ha affermato apertamente di armare milizie per opporsi ad Hamas.
Ex Ilva Genova: operai sospendono il blocco
Dopo giorni di proteste e presidi, gli operai dello stabilimento Ex Ilva di Cornigliano (Genova) hanno deciso di rimuovere il blocco stradale e di tornare al lavoro. La decisione arriva dopo una nota del Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit), che ha escluso un piano di chiusura degli impianti e ha chiarito che la produzione a Taranto è in fase di manutenzione per ripristinare una capacità di 4 milioni di tonnellate. La svolta avviene dopo l’incontro a Roma tra il ministro del Made in Italy Adolfo Urso, il presidente della Regione Liguria Marco Bucci e il sindaco di Genova Silvia Salis.
L’addio alle RAM di Crucial ci ricorda che le aziende non guardano più al consumatore
Micron Technology ha annunciato che entro febbraio 2026 abbandonerà il mercato consumer, sancendo di fatto la fine del marchio di RAM Crucial, storicamente utilizzato da appassionati e professionisti nell’assemblaggio dei computer. La scelta è motivata dai profondi cambiamenti strutturali nel settore dei semiconduttori, che spingono l’azienda a concentrare tutte le risorse sulla crescente domanda di memoria e storage destinati all’intelligenza artificiale e ai data center. Per Micron risulta dunque più vantaggioso servire grandi clienti aziendali, caratterizzati da volumi elevati e margini ben superiori rispetto al mercato tradizionale, tuttavia non è affatto l’unica a seguire questa strategia e la conseguenza per i consumatori sarà un ulteriore aumento dei prezzi dei dispositivi e dell’elettronica.
Crucial, nato nel 1996 come marchio consumer di Micron, è stato per decenni un punto di riferimento tra le soluzioni più affidabili e accessibili per moduli RAM, SSD e memorie flash. Con la sua uscita di scena, gli utenti alla ricerca di componenti dal buon rapporto qualità-prezzo per desktop e portatili vedranno restringersi l’offerta, subendo maggiori difficoltà nel reperire kit economici o di fascia media. Quella esercitata dall’azienda sembra quindi una scelta ovvia: i consistenti investimenti pubblici e privati nei data center hanno alimentato una domanda massiva di componenti ad alto margine di reddito, fomentando un mercato dove la vendita su larga scala riduce l’incertezza sui volumi e garantisce guadagni più elevati.
L’annuncio di Micron e la sua rivoluzione interna potrebbero però essere anche frutto di una strategia miope. Per un’azienda tecnologica, concentrare gli sforzi sul settore corporate legato all’intelligenza artificiale consente oggi di massimizzare il ritorno degli investimenti. Tuttavia, persino i leader del comparto riconoscono che il mercato dell’IA si trovi oggi al centro di una bolla speculativa, il cui destino resta incerto: non è chiaro se esploderà o si limiterà a sgonfiarsi, né quando ciò accadrà. In caso di normalizzazione dei prezzi, Micron potrebbe dunque ritrovarsi con una filiera produttiva che ha sacrificato diversificazione e fedeltà al brand per privilegiare una concentrazione del fatturato, il che la espone a rischi strutturali.
La decisione di Micron non rappresenta però un caso isolato, si inserisce in un trend che segna un vero punto di svolta per l’intero settore tecnologico. Come riportato da Dexerto, a fine novembre NVIDIA – colosso dei processori grafici e oggi tra le aziende più ricche al mondo – ha ammesso candidamente “essere evoluta negli ultimi 25 anni da un’azienda specializzata in GPU per videogiocatori alla realtà odierna, ovvero a un’azienda di infrastrutture per data center”. Secondo alcune indiscrezioni, l’azienda starebbe inoltre valutando di modificare i propri standard di vendita, smettendo di includere le RAM nei prodotti finiti e trasferendo così sugli acquirenti l’intero costo dei moduli di memoria.
La corsa all’intelligenza artificiale – dopata dalle sovvenzioni governative – ha già di per sé spinto in modo significativo la domanda delle componenti informatiche, inoltre il quadro è complicato ulteriormente dai capricciosi dazi statunitensi, spesso mutevoli e imprevedibili, i quali generano forti incertezze sui prezzi delle materie prime, dei semilavorati e, di riflesso, dei prodotti finiti, siano essi computer, smartphone o console videoludiche. Ecco dunque che molte aziende che ricorrono a comunicare i prezzi dei propri dispositivi solo a ridosso del lancio, mentre altre hanno introdotto rincari su prodotti già in commercio da anni, i quali, in un contesto di normalità, avrebbero dovuto progressivamente svalutarsi.
Per i consumatori, il risultato è un aumento dei costi che cresce a vista d’occhio e con una rapidità allarmante. La produzione di RAM e GPU è sempre stata soggetta a occasionali picchi di prezzo, tuttavia oggi l’inflazione appare ormai sistematica e fatalista. Secondo Gerry Chen, general manager di TeamGroup intervistato da DigiTimes, nel solo mese di dicembre i prezzi di alcune memorie sono saliti di circa l’80~100%. Una crisi che non sembra destinata a risolversi a breve: alcuni analisti prevedono che la curva dei prezzi continuerà a crescere per tutto il 2026 e potrebbe protrarsi addirittura fino oltre il 2028.
Caporalato nella moda, altri 13 marchi del lusso coinvolti nelle indagini
Non si ferma l’inchiesta sui casi di caporalato nella moda della Procura di Milano, che ha rivelato come altri 203 operai lavorerebbero in condizioni di sfruttamento in centri di produzione che forniscono 13 grandi aziende del lusso ancora non coinvolte nelle indagini. Si tratta di marchi di alta moda come Dolce e Gabbana, Versace, Prada, Gucci, e Yves Saint Laurent; nella lista appaiono anche Off-White, Missoni, Ferragamo, Alexander McQueen, Givenchy, Pinko, Coccinelle e Adidas. La Procura ha chiesto alle aziende di consegnare una serie di documenti al fine di appurare il loro eventuale grado di coinvolgimento nel fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori. Nelle indagini erano già finite coinvolte Tod’s Alviero Martini spa, Armani Operations, Dior, Loro Piana e Valentino.
La Procura di Milano allarga così in modo significativo il suo fronte d’indagine sul caporalato e lo sfruttamento del lavoro nelle filiere del made in Italy, coinvolgendo alcune delle più prestigiose firme della moda globale. Il pubblico ministero Paolo Storari, con i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro, ha notificato ordini di consegna che riguardano committenti e fornitori. Ai marchi è stato richiesto di fornire documentazione per «appurare il grado di coinvolgimento» delle società e «l’idoneità dei modelli organizzativi» a prevenire tali fenomeni. Si concede dunque tempo alle aziende per autocorreggersi, presentando spontaneamente i propri modelli di prevenzione, gli audit interni e la documentazione sui fornitori. Negli atti notificati, la Procura precisa di aver «rilevato che, nell’ambito delle indagini svolte, sono emersi episodi di utilizzo di manodopera di etnia cinese in condizioni di pesante sfruttamento» che ha lavorato anche per queste aziende. Per ciascun brand, vengono indicati i fornitori critici già individuati, il numero di lavoratori trovati in condizioni di bisogno e gli articoli di lusso sequestrati, pronti per essere rimessi in commercio.
Questa mossa arriva dopo settimane di tensione, in seguito al caso che ha coinvolto il marchio Tod’s: nell’inchiesta sul gruppo sono emerse accuse che potrebbero configurare consapevolezza nella certificazione delle linee di produzione. Davanti al giudice il management ha dichiarato la volontà di collaborare per la «dignità» dei lavoratori, ma la Procura avverte che la linea può irrigidirsi e tradursi in commissariamenti qualora non vengano cambiati gli assetti degli appalti, come già avvenuto per altre grandi case. Dal marzo 2024, il Tribunale di Milano ha infatti disposto l’amministrazione giudiziaria per Alviero Martini spa, Armani Operation, Manufacture Dior, Valentino Bags Lab e Loro Piana di Lvmh: non risultano formalmente indagate, ma si ritiene abbiano agevolato in modo colposo e inconsapevole lo sfruttamento. Il sistema illegale era emerso in tutta la sua gravità già con il caso della fornitura Crocolux di Trezzano sul Naviglio, dove nel 2023 morì un giovane operaio bengalese.
Le indagini mostrano un modello trasversale, con filiere ramificate e fino a sette livelli di subappalto, dove il cuore del profitto illegale è la compressione estrema di costi e diritti. Il cosiddetto “metodo Storari”, molto discusso in ambito giuridico, segna un’inversione di prospettiva: per la prima volta si risale in modo sistematico alla committenza finale, cercando di attribuire responsabilità lungo l’intera catena di produzione. L’azione della Procura meneghina è infatti volta a riportare al centro della responsabilità non solo le piccole officine abusive, ma l’intero sistema del lusso che da esse trae beneficio, con ricarichi che dagli atti risultano poter raggiungere anche il 10.000%.
Roma, blitz dei carabinieri alla criminalità organizzata: 14 arresti
I carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma si è resto protagonista di un’ondata di arresti contro la criminalità organizzata a Roma, arrestando 14 persone. Le persone sono accusate a vario titolo di tentato omicidio, detenzione illecita di armi da fuoco, tentato sequestro di persona ed estorsione, col fine di agevolare le attività del cosiddetto “clan Senese”. Alcune delle ipotesi di reato sono aggravate dal metodo di stampo mafioso. Le indagini sono state coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Capitale, e hanno fatto emergere responsabilità riguardo a due omicidi avvenuti nella medesima città, ad attività di spaccio, e a un tentativo di estorsione.
Israele all’Eurovision: Irlanda, Olanda, Slovenia e Spagna annunciano il boicottaggio
Dopo mesi di discussioni è arrivato l’annuncio ufficiale: Israele parteciperà all’Eurovision Song Contest del 2026, che si terrà il prossimo maggio a Vienna. A non farlo, tuttavia, saranno Irlanda, Paesi Bassi, Slovenia e Spagna, che, come preannunciato, hanno ritirato la loro partecipazione dall’evento proprio a causa della presenza israeliana; Spagna e Irlanda hanno anche precisato che non trasmetteranno l’evento nelle proprie reti. Le emittenti dei quattro Paesi hanno comunicato il loro ritiro subito dopo l’annuncio ufficiale della partecipazione di Israele, facendo eco alle dichiarazioni rilasciate nel corso degli ultimi mesi. Da tempo, infatti, si sono fatte promotrici di una campagna di boicottaggio verso l’emittente israeliana Kan, come forma di solidarietà al popolo palestinese e condanna del genocidio. La discussione sull’eventuale esclusione di Israele dalla competizione va avanti da anni, ma è esplosa da aprile 2025, poco prima dell’apertura dell’ultima edizione.
L’annuncio della partecipazione di Israele all’Eurovision 2026 è arrivato ieri, 4 dicembre, a seguito di una votazione sul cambio delle regole della kermesse. Il voto riguardava i criteri di assegnazione dei punteggi, diventati oggetto di revisione a causa di un polverone alzatosi durante l’ultima edizione che ha interessato proprio l’emittente Kan e il governo israeliano, accusati di avere interferito nei risultati; a tal proposito, l’Unione europea di radiodiffusione (EBU) – l’emittente che produce l’evento – ha deciso di ridurre il peso dei voti da casa e di introdurre una giuria di esperti. Oltre a ciò, centrale nelle discussioni era anche l’ipotesi di partecipazione di Israele alla competizione. L’emittente slovena RTVSLO, ha spiegato che i partecipanti non hanno votato direttamente sulla partecipazione di Israele; 11 Stati volevano aprire un voto esclusivo sulla sua esclusione, 5 si sono astenuti e gli altri hanno votato contro. Per tale motivo, la questione non è neanche stata votata.
Già a settembre, le emittenti di Irlanda, Islanda, Paesi Bassi, Spagna e Slovenia avevano annunciato che non avrebbero partecipato alla kermesse se Israele fosse stata nuovamente ammessa, e prima della discussione di ieri avevano richiesto che la questione fosse votata a scrutinio segreto, richiesta che non è stata loro concessa. A tale richiesta avevano partecipato anche Montenegro, Turchia e Algeria. La Germania, invece, si era schierata apertamente a favore di Tel Aviv, annunciando che avrebbe considerato l’opzione di non partecipare se fosse stata esclusa. Nei loro comunicati, Avotros (l’emittente olandese), RTE (l’emittente irlandese), RTVE (l’emittente spagnola) e RTVSLO reiterano le motivazioni già fornite in precedenza, affermando in linea generale che la partecipazione di Israele risulta in contrasto con i valori promossi dall’evento e da esse stesse in quanto emittenti, e che dunque non parteciperanno alla competizione. Il segretario generale di RTVE, Alfonso Morales, ha inoltre fatto riferimento al caso dell’anno scorso e all’uso «politico» dell’evento da parte di Israele, alludendo al fatto che lo Stato ebraico sfrutterebbe la competizione per ripulire la propria immagine. Per tale motivo, sostiene Morales, l’Eurovision non può essere considerato un «evento culturale neutrale».
Il tentativo di boicottare la partecipazione di Israele all’Eurovision va avanti da ben prima del 7 ottobre 2023, ma l’opzione è stata pubblicamente messa sul piatto solo nel 2024, proprio dalla emittente slovena RTVSLO. Il tema è poi esploso nell’aprile di quest’anno, quando anche Islanda e Spagna si sono schierate contro la presenza di Israele all’evento, accusando l’EBU di applicare un doppio standard, escludendo la Russia da una parte e permettendo a Israele di partecipare dall’altra. A maggio, in occasione dell’apertura dei concerti, le proteste sono poi arrivate direttamente in piazza, con decine di manifestanti che si sono riuniti davanti al Turquoise Carpet di Basilea (sede dell’edizione 2025) per contestare la cantante israeliana Yuval Raphael.









