mercoledì 20 Agosto 2025
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Negli ultimi 10 anni è crollata la produzione mondiale di pellicce

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La produzione globale di pellicce è scesa a picco, registrando nel 2023 un calo del 40% rispetto all’anno precedente. Un dato che conferma una tendenza in atto da almeno un decennio: dal 2013 a oggi, l’industria ha perso oltre l’85% del suo volume produttivo. Dietro ai numeri, ci sono milioni di animali – visoni, volpi, procioni – che non sono stati allevati in gabbie anguste né uccisi per trasformarsi in capi d’abbigliamento.
Nella sola Unione Europea, la produzione di pellicce di visone è crollata da 18 milioni nel 2020 a 7,5 milioni nel 2022, mentre le volpi sono passate da 1,2 milioni a 70...

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Hamas avrebbe accettato la proposta di cessate il fuoco

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Secondo quanto riportato da un funzionario anonimo di Hamas all’emittente qatariota Al Jazeera, il movimento palestinese avrebbe accettato una proposta di cessate il fuoco proveniente dai mediatori. La notizia è stata ripresa da una emittente ritenuta affiliata al gruppo. La proposta sarebbe stata avanzata da Egitto e Qatar, e i suoi dettagli rimangono ancora poco chiari; negli ultimi giorni è circolato un piano che prevedrebbe una tregua di 60 giorni e la creazione di corridoi umanitari in cambio di 10 ostaggi israeliani ancora in vita e 18 corpi. Si attende ancora una risposta da parte di Israele.

Israele revoca i visti per diplomatici australiani

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Il ministro degli Esteri israeliano ha dichiarato di aver revocato i visti dei diplomatici australiani presso l’Autorità Nazionale Palestinese. La scelta arriva in seguito alla decisione di Canberra di riconoscere uno Stato palestinese, e in risposta a un analogo annullamento di visto disposto dal governo australiano nei confronti di un parlamentare israeliano. Simcha Rothman, parlamentare del partito Sionismo religioso guidato dal ministro delle finanze Bezalel Smotrich, avrebbe dovuto visitare l’Australia questo mese, su invito di un’organizzazione ebraica conservatrice; l’Australia ha tuttavia impedito il suo ingresso nel Paese a causa delle sue richieste di annessione della Cisgiordania e della sua ferma opposizione alla creazione di uno Stato palestinese.

Le elezioni in Bolivia segnano la fine di 20 anni di socialismo

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Con le elezioni tenutesi ieri, domenica 17 agosto, in Bolivia è terminato il regno della sinistra. Il candidato del Movimento al Socialismo, il partito di sinistra dell’ex presidente indigeno Evo Morales, è infatti arrivato sesto con poco più del 3% dei voti; niente da fare neanche l’ex delfino dello stesso Morales, Andrónico Rodríguez, quarto con l’8%. A pesare parecchio è stata la chiamata dell’ex presidente indigeno, che ha invitato i propri concittadini a votare scheda nulla e a boicottare un ormai sfaldato MAS e «il traditore» Rodríguez. I cittadini hanno preferito il candidato del Partito Democratico Cristiano, Rodrigo Paz, e l’ex presidente conservatore Jorge Quiroga, detto Tuto, che si scontreranno in un ballottaggio. I risultati di ieri sanciscono la fine di vent’anni di dominio assoluto del MAS, ma non possono in alcun modo definirsi inaspettati; da tempo infatti era in corso un braccio di ferro tra l’attuale presidente Luis Arce e Morales, che ha spezzato in due la sinistra del Paese.

Ieri in Bolivia i cittadini sono stati chiamati a votare sia per il nuovo presidente sia per il parlamento. Alle presidenziali, ha trionfato, con il 32,14% delle preferenze, Rodrigo Paz, sindaco di Tarija, candidato per il PDC, di orientamento centrista. Al secondo posto, Tuto, con il 26,81%. Terzo l’imprenditore Samuel Doria Medina con il 19,86%, che appoggerà Paz. Alleanza Popolare dell’indigeno Andrónico Rodríguez, giovane erede di Morales, si è fermata all’8,22% e il MAS ha superato appena il 3%. Dopo quasi vent’anni dalla salita al potere del MAS, insomma, la sinistra socialista non arriverà al governo. Come alle presidenziali, la sinistra ha fatto male anche alle politiche. Le proiezioni assegnano – alla Camera – 45 seggi al PDC, 37 ad Alianza Libre (il partito di Tuto), 28 a Unidad (di centro), 6 a Súmate, di centrodestra, 5 ad Alleanza Popolare e 1 al MAS; al Senato, invece, 13 seggi al PDC, 11 a Libre, 6 a Unidad, 4 ad AP, 1 a Súmate e 1 al MAS. Il Tribunale elettorale ha ricordato che i risultati, tanto delle presidenziali quanto delle politiche, sono solo parziali, e che i riscontri ufficiali arriveranno la prossima settimana.

I motivi dietro la disfatta del MAS e 0in generale della sinistra socialista sono stati il duro scontro al vertice che ha interessato il presidente uscente Luis Arce e l’ex presidente indigeno Evo Morales. Tutto è iniziato quando, in mezzo a una situazione di profonda instabilità politica ed economica, Morales ha annunciato che si sarebbe presentato alle presidenziali. Avendo già raggiunto il limite di mandati, tuttavia, sia il Tribunale elettorale che la Corte costituzionale hanno annullato la sua candidatura; Arce si è schierato con gli organi giuridici e ha avviato una campagna per screditarlo, che ha presto spezzato la sinistra del Paese a metà. Morales era sostenuto prevalentemente dalle comunità indigene, mentre Arce ha perso sempre più sostegno e, toccati i picchi al ribasso nei sondaggi, ha ritirato la propria candidatura, invitando il rivale a fare lo stesso. Sullo sfondo, la mancanza di carburante, l’inflazione al galoppo, la scarsa reperibilità di dollari e la svalutazione della moneta locale, che hanno fatto esplodere proteste sempre più violente, alimentate dalla scissione politica della sinistra socialista.

Il caso “Lava Café”: l’operazione social per minimizzare la catastrofe umanitaria a Gaza

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La guerra in Medio Oriente non si combatte soltanto con i bombardamenti incessanti, ma si consuma ogni giorno anche su Instagram, X e TikTok. È sui social che Israele ha aperto un fronte parallelo: un campo di battaglia mediatico fatto di immagini patinate, reel virali e slogan confezionati, dove influencer e volti noti vengono arruolati per esaltare il “diritto alla difesa” di Tel Aviv e cancellare sistematicamente il massacro dei civili palestinesi. Questa macchina della propaganda bellica, studiata per manipolare e orientare i contenuti online in modo da smentire il genocidio e legittimare la repressione, trova terreno fertile e amplificatori anche in Italia.

Un esempio lampante è quello di Andrea Lombardi, costretto dopo essere stato sommerso dagli insulti e dopo una presunta rimozione da parte YouTube per hate speech, a chiedere “scusa” al pubblico e a cancellare la diretta di quasi due ore, intitolata La bella vita a Gaza? Te la faccio vedere…, in cui negava che Gaza fosse ridotta in polvere (si tratterebbe a suo dire di sabbia), sosteneva che i palazzi siano ancora in piedi e paragonava la Striscia a Napoli. Lo youtuber si spingeva a dichiarare che «non è vero che la popolazione sta morendo di fame», echeggiando così le parole di Netanyahu quando derubricò a fake news la fame a Gaza. Lombardi aveva rilanciato su Instagram e X anche un breve reel con il profilo di un presunto locale, il “Lava Café” di Gaza City: interni eleganti, dolci succulenti e cappuccini decorati. Tra risatine, parolacce e battute di dubbio gusto, minacciava di «far andare di traverso il caffè a tanta gente» e prometteva di smontare “i pregiudizi” di chi non vuole vedere “la realtà”. La tesi era tanto semplice quanto fuorviante: se il locale esiste, allora Gaza non è in emergenza e la narrazione di fame e distruzione sarebbe una mera messinscena.

Coloro che hanno condiviso il profilo di Lava Cafè in Italia e nel resto del mondo ignorano volutamente dati e contesto: secondo OCHA e OMS, a Gaza oltre il 90% della popolazione soffre di insicurezza alimentare acuta, i casi di malnutrizione infantile sono in vertiginoso aumento e centinaia di civili muoiono ogni settimana sotto raid, bombardamenti e fame. La stampa internazionale, le Nazioni Unite, l’OMS e le principali ONG descrivono Gaza come una «fossa comune per i palestinesi e per coloro che accorrono in loro aiuto»: un luogo disumano, dove procurarsi il cibo è ormai “come gli Hunger Games”. È dentro questo quadro di assedio totale, che c’è ancora chi dubita della catastrofe umanitaria e dell’emergenza sanitaria, condividendo le teorie del complotto orchestrate da Gazawood o Pallywood, o minimizzando le immagini atroci che arrivano quotidianamente dalla Striscia. 

Sul caso specifico del Lava Café, peraltro, le incongruenze abbondano. L’account @lava.cafe.official, creato nel 2024, ha poche decine di post, nessun legame con pagine locali indipendenti e non fornisce indirizzo, numero di telefono o licenza. I video su Instagram mostrano solo interni, senza un singolo elemento urbanistico riconoscibile, mentre in un video su Facebook datato 11 maggio 2025, in cui si mostrerebbe la ristrutturazione del locale, si intravedono dei palazzi e delle tende nel luogo in cui sarebbe situato il locale, senza definire, però, il periodo esatto in cui sarebbero state realizzate le riprese. Le immagini non hanno geotag precisi e si limitano al toponimo generico «مفترق الإتصالات» («Incrocio delle Telecomunicazioni»). La presunta collocazione «di fronte alla Scuola Americana» è inverosimile: la American International School in Gaza è sempre stata a Beit Lahia, nel nord della Striscia, ed è stata bombardata nel 2009. Non esiste un’università americana a Gaza: l’AAUP ha sede in Cisgiordania.

La visibilità del profilo sembra alimentata da un circuito di rilanci provenienti in gran parte da account filoisraeliani o da utenti fuori dalla Striscia. Nessuna testimonianza locale, nessuna recensione su piattaforme di geolocalizzazione. Anche l’analisi delle immagini satellitari disponibili su Google Earth, concentrata sull’area di Sheikh Zayed, non consente di confermare attualmente l’esistenza del locale: i danni della guerra, la densità edilizia e l’assenza di etichette nei layer pubblici rendono impossibile l’identificazione visiva. Tutto questo colloca il Lava Café in un terreno scivoloso: non è detto che sia una messinscena, ma il modo in cui viene usato è funzionale a un’operazione di framing ben precisa. È persino probabile che i video e le immagini siano reali, ma precedenti ai bombardamenti e che siano stati condivisi successivamente spacciandoli per attuali, così come è possibile che possa costituire un baluardo di resistenza morale di chi prova a sopravvivere ancora oggi in mezze alle macerie. La propaganda, invece, rovescia, banalizza e decontestualizza, facendolo diventare una “prova” per negare la sofferenza. Il profilo del locale è rimbalzato, infatti, su X su account apertamente sionisti che si spacciano per agenzie di stampa, ma diffondono contenuti falsi, e da profili anonimi, come quello di @persianjewess, che cita casi simili, di locali come Shagaf Cafe a Khan Younis per sostenere che la narrazione della carestia sia un “inganno”, avvalorando l’ipotesi che il Lava Café possa essere un espediente simile per minimizzare la crisi umanitaria in corso. 

Il caso del Lava Café rappresenta il classico esempio di propaganda sporca: non si nega apertamente la tragedia, ma si propongono immagini di apparente normalità per insinuare che le testimonianze di sofferenza siano gonfiate o false. È una Gazawood invertita: la fabbricazione di una normalità sospetta per erodere la percezione della catastrofe. Che il locale esista o meno, è un elemento secondario. Nel conflitto mediatico, il Lava Café è diventato un costrutto narrativo, un dispositivo retorico per riscrivere i fatti e confezionare un universo parallelo in cui i palestinesi sorseggiano cappuccini come in un quartiere chic occidentale. Brandire le immagini di un locale per cancellare il genocidio in corso è un atto ideologico e disumano, che cancella la verità e legittima la violenza e i sanguinari piani di conquista e di distruzione di Israele.

La Danimarca rilancia il Chat Control: l’UE verso la sorveglianza di massa delle comunicazioni private

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Con il pretesto della tutela dei minori, l’Unione Europea si appresta a introdurre una delle più intrusive misure di sorveglianza di massa digitale mai concepite nel mondo occidentale: il Regolamento per la rilevazione di materiale di abuso sessuale su minori (CSAM) – ribattezzato «Chat Control» dai suoi critici.

Dopo i tentativi falliti sotto la presidenza polacca, a rilanciarlo è la Danimarca, che dal 1° luglio ha assunto la guida del Consiglio dell’UE, ponendo un nuovo testo della normativa tra le priorità legislative del semestre. Il regolamento è sostenuto dalla maggioranza qualificata: 19 Stati su 27, tra cui l’Italia, sarebbero d’accordo. Il voto al Parlamento Europeo è atteso per metà ottobre, anche se è slittato più volte a causa delle perplessità legate alla privacy. 

La proposta, inizialmente, era stata presentata nel 2022 dall’ex commissaria agli Affari Interni, Ylva Johansson, con l’obiettivo dichiarato di combattere la pedopornografia online. Il cuore della normativa è rappresentato dalla client-side scanning, una tecnologia che prevede la scansione automatica dei contenuti – messaggi, immagini, video – direttamente sui dispositivi personali degli utenti, prima che vengano criptati e inviati. In altre parole, l’algoritmo entra in azione prima ancora che la crittografia end-to-end possa proteggere i dati. 

L’impatto potenziale della normativa è devastante: non solo le app di messaggistica come WhatsApp, Signal, Telegram, ma anche servizi di posta elettronica, VPN, cloud, database aziendali e perfino sistemi operativi verrebbero coinvolti. Il rischio? La fine della messaggistica privata, per come la conosciamo oggi. Con la scusa della sicurezza, si scardinano le fondamenta della privacy e dei diritti civili e si legalizza un meccanismo che ribalta il principio di presunzione d’innocenza: tutti sono potenziali sospetti, tutti devono essere scansionati. È una logica da panopticon digitale, che nulla ha a che fare con la tutela dei minori, quanto semmai con la normalizzazione di una tecno-sorveglianza preventiva e totalizzante. A lanciare l’allarme non sono solo attivisti e tecnici, ma le stesse istituzioni garanti della privacy a livello europeo: il GEPD e l’EDPB, in un parere congiunto già nel luglio 2022, hanno parlato di «serie preoccupazioni sulla proporzionalità dell’ingerenza», avvertendo che la scansione lato client viola i diritti umani, a prescindere dalla tecnologia impiegata.

La presidente di Signal, Meredith Whittaker, ha già annunciato che l’app potrebbe ritirarsi dal mercato europeo qualora il regolamento venisse approvato. E c’è di più: ogni indebolimento della crittografia apre la porta non solo ai governi, ma anche a hacker, gruppi criminali, potenze straniere.

Una vulnerabilità sistemica creata intenzionalmente, in nome di una guerra al crimine che potrebbe già essere combattuta con gli strumenti legali esistenti, attraverso mandati giudiziari e indagini mirate. Nulla impedisce, infatti, alle forze dell’ordine di avvalersi di ordinanze giudiziarie e poteri legali già in loro possesso per ottenere informazioni o prove dai singoli individui. Ma questo, evidentemente, non interessa a chi, sotto il mantello della “protezione”, vuole mettere le mani sulle comunicazioni di tutti. 

Il punto non è la tutela dei minori – su cui tutti, ovviamente, concordano – ma l’uso strumentale di un’emergenza morale per giustificare una sorveglianza di massa preventiva. Una logica di guerra permanente alla privacy, che riproduce il paradigma post-11 settembre: creare un nemico assoluto o una minaccia per sospendere i diritti e introdurre misure liberticide e provvedimenti draconiani. Lo dimostra la discutibile proroga della deroga alla direttiva e-Privacy, che dal 2021 consente ai provider (come Facebook) di scansionare i messaggi degli utenti alla ricerca di CSAM, pur in assenza di obbligo giuridico. Il risultato? Il 95% delle segnalazioni arriva da un solo soggetto privato, il colosso di Zuckerberg, con una valanga di falsi positivi che finiscono per colpire utenti innocenti. E ora, con la scadenza della deroga prevista nel 2026, la Commissione vuole trasformare una “pratica volontaria” in un obbligo di legge, estendendola a tutti i cittadini e a tutte le piattaforme, anche quelle che oggi tutelano la riservatezza degli utenti. 

Intanto, il fronte dei contrari resiste, ma si assottiglia. Patrick Breyer, ex europarlamentare dei Pirati tedeschi, afferma che i governi che si erano opposti al controllo delle chat l’anno precedente stanno ora cedendo «anche se il piano 2025 è ancora più estremo». Austria e Paesi Bassi si sono dichiarati contrari, la Germania è ambigua, la Francia ondeggia. La Spagna guida il blocco dei sostenitori. Il prossimo voto del 14 ottobre potrebbe segnare un punto di non ritorno. Basterà l’appoggio di Parigi per far passare il regolamento, grazie al sistema di voto a maggioranza qualificata. 

Quaranta organizzazioni per i diritti digitali e civili hanno scritto alla Commissione Europea chiedendo di abbandonare il progetto, mentre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa contro qualsiasi intervento che possa indebolire o addirittura aggirare la crittografia.

L’Europa nata dal trauma dei totalitarismi del Novecento si avvia, passo dopo passo, verso un modello di tecno-controllo permanente, invocando la scusa di un bene superiore. Se dovesse passare, una volta introdotta, una tecnologia di sorveglianza così invasiva non potrà più essere disinnescata. Non si costruisce un’architettura globale di sorveglianza senza usarla: se oggi è per combattere la pedopornografia, domani sarà per il terrorismo, poi per la disinformazione, infine, per il dissenso.

Incendi in Spagna, situazione ancora critica: morto vigile del fuoco

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In Castiglia e León, un vigile del fuoco è morto e un altro è rimasto ferito a causa del ribaltamento di un’autopompa durante i continui incendi che da una settimana stanno devastando la Spagna. I roghi, che hanno già bruciato oltre mille chilometri quadrati, sono alimentati dalle alte temperature e dai venti forti. Più di 23.000 persone sono state evacuate, mentre molti altri hanno deciso di rimanere per aiutare a spegnere le fiamme, soprattutto nelle zone rurali. Anche il vicino Portogallo è segnato dai roghi, con cinque incendi boschivi di grandi dimensioni in corso e molti altri roghi minori o in via di spegnimento.

La nuova immagine scattata dal telescopio Webb che immortala 2.500 galassie

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Ci sono più di 2.500 galassie e sono tutte racchiuse in un piccolissimo angolo di cielo: è quanto rivelato dalla nuova immagine ottenuta grazie al telescopio spaziale James Webb, una delle più profonde mai realizzate dell’universo. Lo rivela l’Agenzia Spaziale Europea, aggiungendo che la regione osservata corrisponde al celebre Hubble Ultra Deep Field, rivisitata questa volta attraverso lo sguardo congiunto della Near-Infrared Camera (NIRCam) e dello strumento Mid-Infrared Instrument (MIRI). Dopo quasi cento ore complessive di analisi dei dati ottenuti, il tempo più lungo dedicato a Webb con un unico filtro sul medio infrarosso, i ricercatori hanno persino individuato galassie risalenti alle fasi iniziali della storia cosmica. Alcune sono apparse estremamente rosse, segno della presenza di polveri o di stelle molto antiche, mentre altre sono bianche e verdastre, tra le più lontane mai registrate. «Webb continua e amplia la tradizione dei campi profondi, rivelando nuovi dettagli e scoprendo galassie precedentemente nascoste», commentano i ricercatori a capo del progetto.

Lanciato nel dicembre 2021, il telescopio spaziale James Webb è progettato per osservare l’universo nell’infrarosso, con lo scopo di studiare la formazione delle prime galassie, l’evoluzione stellare e i sistemi planetari. Grazie ai suoi strumenti principali, NIRCam e MIRI, Webb riesce a penetrare la polvere cosmica e a rilevare oggetti estremamente lontani, la cui luce è stata spostata verso lunghezze d’onda più lunghe dall’espansione dell’universo, offrendo una visione più profonda e dettagliata rispetto a quella dei predecessori. Nel 2004, spiegano gli esperti, lo stesso campo era stato reso celebre dal telescopio spaziale Hubble (NASA/ESA) come Hubble Ultra Deep Field: un’area della costellazione della Fornace larga appena un decimo del diametro apparente della Luna piena, osservata per mesi tra settembre 2003 e gennaio 2004. All’epoca Hubble mostrò migliaia di galassie mai viste prima, aprendo la strada allo studio delle prime epoche dell’universo, ma la differenza principale rispetto a Webb è lo spettro osservato: Hubble operava principalmente nell’ultravioletto e nel visibile, mentre Webb si concentra sull’infrarosso, permettendo così di rilevare oggetti molto lontani la cui luce è “arrossata” dall’espansione cosmica o oscurata dalla polvere interstellare. Questa capacità, aggiungono, consente di osservare galassie formatesi pochi centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, approfondendo la comprensione dell’evoluzione galattica e delle prime strutture cosmiche.

L’immagine realizzata dal telescopio James Webb. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, G. Östlin, PG Perez-Gonzalez, J. Melinder, la collaborazione JADES, la collaborazione MIDIS, M. Zamani (ESA/Webb)

In particolare, lo strumento ha catturato immagini con i tre filtri a lunghezza d’onda più corta, integrate dai dati NIRCam, producendo una delle viste più profonde mai ottenute. Il risultato mostra centinaia di galassie estremamente rosse, probabilmente sistemi massicci oscurati dalla polvere o galassie evolute con stelle mature, e piccole galassie bianco-verdastre con elevato redshift, quindi tra le più distanti. I colori nell’immagine evidenziano caratteristiche diverse: arancione e rosso indicano galassie con polveri, intensa formazione stellare o nucleo attivo, mentre blu e ciano rappresentano galassie più luminose alle lunghezze d’onda più corte del vicino infrarosso. «Grazie all’elevata risoluzione del Webb, anche a lunghezze d’onda del medio infrarosso, i ricercatori possono risolvere le strutture di molte di queste galassie e studiare come viene distribuita la loro luce, gettando luce sulla loro crescita ed evoluzione», commentano gli scienziati, aggiungendo che l’immagine conferma la continuità con Hubble, ma offre dettagli senza precedenti, fornendo alla comunità scientifica dati preziosi per svelare nuove evidenze.

Olbia: un uomo è morto di arresto cardiaco dopo essere stato colpito col taser dai carabinieri

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Nella serata dello scorso 16 agosto, i Carabinieri intervengono nel centro di Olbia. Un uomo, Gianpaolo Demartis, 57 anni e sotto l’effetto di droghe, sta «manifestando ostilità» contro i passanti. Gli agenti, per fermarlo, lo colpiscono con un taser, la pistola elettrica in dotazione alle forze dell’ordine. Poco dopo, l’uomo morirà a bordo dell’ambulanza intervenuta in suo soccorso a causa di un arresto cardiaco. Il fatto costituisce solamente l’ultimo di una lunga serie di episodi simili che, come già sottolineato da Amnesty, riportano al centro del dibattito «interrogativi gravi e urgenti» circa le modalità di impiego da parte delle forze dell’ordine del taser, arma che, ad oggi, viene ancora considerata non letale. 

Il Sindacato Indipendente dei Carabinieri (SIC), nel difendere l’operato dei colleghi, riferisce che i militari hanno agito dopo che l’uomo ha colpito al volto uno di loro, «causandogli lesioni tali da richiedere il trasporto in ospedale». Per neutralizzarlo, gli agenti hanno quindi impiegato il taser, la cui scarica elettrica causa una paralisi temporanea dei muscoli. Sarà l’autopsia, disposta dalla procura di Tempio, a cercare di stabilire se vi sia un nesso tra il decesso e l’impiego della pistola elettrica. In soggetti con le funzionalità cardiache alterate o compromesse (per cardiopatie o per utilizzo di sostanze stupefacenti, ad esempio, ma anche a conseguenza di attività fisiche intense, come la corsa), questo può infatti comportare conseguenze potenzialmente letali. E il problema legato al suo utilizzo risiede proprio nel fatto che si tratta di condizioni spesso non verificabili a propri. All’indomani della morte di Demartis, Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna, ha definito l’arma uno strumento di «tortura legalizzata», impiegato per «contenere il disagio, provocando effetti fisici e psichici devastanti». Ad oggi, un registro riguardo la mortalità da taser non esiste – anche se, secondo quanto stabilito da Amnesty, negli Stati Uniti, dove il dispositivo è in uso da più tempo, le morti sono state migliaia negli ultimi 20 anni.

Sono numerosi gli episodi simili che si sono verificati nel tempo. A Pescara, Riccardo Zappone, 30 anni, è morto per arresto cardio-circolatorio dopo che due agenti lo avevano colpito con un taser a causa di un alterco per strada. Un anno prima, a Chieti, era toccato a Simone Di Gregorio, 35 anni, affetto da problemi psichiatrici. Lo stesso è accaduto a Bolzano e a Roma. In molti di questi casi, l’esame autoptico non si è rivelato conclusivo nello stabilire una correlazione tra l’utilizzo della pistola elettrica e il decesso. Eppure, secondo Amnesty, alla luce anche degli eventi di cronaca l’utilizzo di tali armi dovrebbe essere vietato «immediatamente», oltre che per le conseguenze fisiche – tra le quali sono comprese dislocazioni, fratture e ferite di altro genere, come effetti secondari delle convulsioni dovute alle scosse – anche per quelle psicologiche. In Italia, tuttavia, l’attuale governo punta a estenderne l’utilizzo: un emendamento del decreto Milleproroghe ha infatti esteso il loro utilizzo alla polizia municipale di tutti i Comuni con più di 20 mila abitanti.

Nubifragio in Pakistan: si cercano 150 persone sotto le macerie

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Dopo le forti inondazioni che hanno colpito il Pakistan nordoccidentale negli scorsi giorni, i soccorritori sono ancora alla ricerca di oltre 150 persone che risultano disperse nell’area. Il bilancio delle vittime nel distretto montuoso di Buner, nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, ha raggiunto lunedì quota 277, dopo che i soccorritori hanno recuperato tre corpi. Le operazioni di ricerca sono state estese alle aree remote per trovare i residenti travolti dai detriti, ha dichiarato il portavoce dei servizi di emergenza Mohammad Suhail. L’esercito ha schierato ingegneri e macchinari pesanti per rimuovere le macerie.