giovedì 20 Novembre 2025
Home Blog Pagina 2

Ex Ilva, sciopero e stabilimento occupato a Genova

0

I sindacati hanno annunciato la rottura con il governo, lo stop delle trattative sul futuro di Acciaierie d’Italia e uno sciopero di 24 ore. I lavoratori dello storico sito siderurgico dell’ex Ilva a Genova hanno occupato lo stabilimento e avviato un corteo verso la stazione di Cornigliano, proclamando un presidio a oltranza per protestare contro il blocco degli impianti del Nord e un piano che prevede l’aumento della cassa integrazione straordinaria fino a 6 mila persone. Le sigle sindacali denunciano che nella città potrebbero essere a rischio circa mille posti di lavoro.

“Framing Gaza”: lo studio che smaschera la parzialità dei media occidentali

1

Le principali testate di otto Paesi occidentali hanno sistematicamente privilegiato la narrazione israeliana e marginalizzato le prospettive palestinesi nella copertura del genocidio di Gaza, omettendo le loro rivendicazioni storiche e il contesto dell’occupazione. È quanto rivela il rapporto di Media Bias Meter, Framing Gaza: A Comparative Analysis of Media Bias in Eight Western Outlets, che ha analizzato 54.449 articoli pubblicati in cento settimane, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025, dallo statunitense The New York Times, dalla britannica BBC, dal canadese The Globe and Mail, dal francese Le Monde, dal tedesco Der Spiegel, dal belga La Libre Belgique, dall’italiano Corriere della Sera e dall’olandese De Telegraaf. Dalla ricerca emerge uno schema coerente: una distorsione strutturale del racconto a favore del frame israeliano. Il risultato è un’informazione che, pur proclamandosi equilibrata, finisce per legittimare la violenza di Stato come «autodifesa», normalizzare l’occupazione e relegare le vittime palestinesi a un ruolo secondario, deumanizzandole e filtrandole attraverso «la lente del terrorismo».

Il pregiudizio che unisce i media occidentali

Lo studio mostra come, al di là delle linee ideologiche, l’architettura comunicativa risponda allo stesso schema: Israele al centro del discorso, la Palestina confinata a nota a margine o a cornice funzionale. La genesi di questo processo, sostiene G.G. Darwiche – coautrice del rapporto e portavoce del collettivo che riunisce professionisti della tecnologia che analizzano i bias dei media occidentali sulla Palestina per promuovere una narrazione più equa, sostenuto dalla coalizione TechforPalestine – risale almeno ai primi anni Duemila, in cui già diversi articoli descrivevano i palestinesi come «una minaccia per l’esistenza di Israele». «Non si tratta nemmeno di destra contro sinistra», continua Darwiche, smontando il mantra che vorrebbe il pluralismo politico come antidoto alla distorsione informativa. Dall’analisi delle testate emergono dei pattern chiari e definiti che trasformano «accuse vaghe di faziosità in prove inconfutabili». La sorpresa non è che mezzi di informazione esplicitamente conservatori alimentino tale narrazione, ma che i media centristi e progressisti – come il New York Times, Der Spiegel, Globe and Mail e BBC – risultino persino più sbilanciati di tabloid di destra come De Telegraaf. Secondo il rapporto, per preservare un’immagine moralmente accettabile di Israele presso un pubblico più critico, queste testate avrebbero «corretto eccessivamente», finendo per riprendere senza verifica le comunicazioni ufficiali israeliane e per mettere in ombra dati, testimonianze e violazioni documentate ai danni del popolo palestinese. «I media centristi o progressisti adottano forme di distorsione molto più sottili, ma costanti e pervasive, basate soprattutto sull’omissione del contesto, che finisce per cancellare la realtà dei fatti», spiega ancora Darwiche, che ci racconta come il gruppo di lavoro sia rimasto “sorpreso” dai risultati, essendo partito dall’ipotesi opposta, ossia che «i giornali di destra, populisti o conservatori, sarebbero risultati i più faziosi».

Come si costruisce il frame

il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici

Il conflitto in Medio Oriente viene spesso raccontato come una contrapposizione in cui l’esistenza di un popolo esclude quella dell’altro e in cui a essere sacrificati sono sempre i palestinesi. Questa logica si riflette nella narrazione mediatica, che li relega al ruolo di “antagonisti” e li frammenta in “abitanti di Gaza” o “della Cisgiordania”, evitando di riconoscerli come un unico popolo. E già l’analisi dei titoli è rivelatrice: il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici. In questo modo, la Palestina come soggetto politico svanisce, sostituita da un’astrazione. Il contesto dell’occupazione – cuore del conflitto – viene cancellato: su Der Spiegel, soltanto due articoli su oltre tremila riferimenti riconoscono i Territori Palestinesi come “occupati”. Il risultato è che si «oscura sia l’illegalità degli insediamenti sia le loro conseguenze materiali per i palestinesi». Agli artifici semantici si affianca la gerarchia dei temi: perfino durante la carestia, il lessico del “terrorismo” ha doppiato quello della “crisi umanitaria”, mentre il diritto all’“autodifesa” viene implicitamente riconosciuto a Israele, ma non ai palestinesi che vengono associati alla categoria di “terroristi”. In questo modo, «il lettore interiorizza il frame dei palestinesi come minaccia più che come vittime, e dell’azione militare israeliana come “risposta” anziché aggressione». BBC e Le Monde, in due terzi degli articoli, hanno riprodotto tale linguaggio, contribuendo a perpetuare stereotipi coloniali, dipingendo arabi e musulmani come intrinsecamente violenti, barbari e irrazionali.

Spersonalizzazione e disumanizzazione

Le accuse israeliane secondo cui i giornalisti palestinesi sarebbero militanti o simpatizzanti di Hamas vengono spesso accolte dai media quasi senza contestazione. A volte, basta aver intervistato un funzionario del governo di Hamas per essere etichettati come “operativi” o collusi con l’organizzazione. La disumanizzazione emerge anche nel modo in cui i minori palestinesi vengono descritti. Bambini detenuti in regime amministrativo e spesso senza accuse, raramente vengono chiamati per quello che sono: “bambini”. Al loro posto compaiono etichette come “adolescenti” o “giovani adulti”. Questo “rebranding” li priva della loro infanzia e ne attenua l’innocenza e la vulnerabilità, rendendo la loro detenzione più accettabile. Così, il ricorso a frasi-template, ripetute ossessivamente centinaia di volte, fissa il frame “Israele risponde al 7 ottobre”. Emblematica la diffusione, mai verificata né tantomeno rettificata, di fake news usate per presentare la risposta israeliana come “inevitabile”. È il caso di Der Spiegel e del Corriere della Sera, che hanno rilanciato la falsa storia dei “bambini decapitati”, senza poi smentirla né correggerla, mostrando come narrazioni emotive e sensazionalistiche possano oscurare i fatti e alimentare processi di disumanizzazione.

Ciò che non si dice: diritto al ritorno, Nakba e lessico militarizzato

Palestinesi detenuti durante la cosiddetta ”Nakba” del 1948

Un altro aspetto rivelatore è ciò che l’informazione sceglie sistematicamente di non dire. Il rapporto mostra come concetti fondamentali per comprendere la storia palestinese – dal “diritto al ritorno” alla Nakba – siano quasi assenti dal lessico mediatico: in oltre 50.000 articoli, il diritto al ritorno viene citato solo 38 volte, mentre i riferimenti alla Nakba compaiono raramente e spesso in forma edulcorata, come una “fuga” o un “esodo”. Allo stesso tempo, espressioni desunte dal linguaggio militare, come “attacchi di precisione” o “scudi umani”, ricorrono decine di volte in tutte le testate, contribuendo a costruire un’immagine di razionalità, controllo e necessità. Ancora più sbilanciata è la copertura del “diritto all’esistenza”, invocato per Israele in modo schiacciante rispetto alla Palestina, quasi che il riconoscimento di un popolo debba essere meritato e non intrinseco. Sommati, questi elementi concorrono a rimuovere la dimensione coloniale del conflitto e trasformano una popolazione assediata in un soggetto privo di diritti.

Cosa resta nella memoria collettiva

Le conseguenze non sono solo simboliche: i frame mediatici orientano la percezione pubblica, le scelte dei governi e, più in generale, ciò che passerà alla storia. «Raccogliere ora le prove di un inquadramento fazioso garantisce che il resoconto non possa essere cancellato», si legge nel report. Un’informazione che minimizza le violazioni, che evita parole come “blocco”, “apartheid”, “insediamenti illegali”, produce un immaginario depoliticizzato, dove la sofferenza palestinese appare inevitabile, quasi naturale. È in questo vuoto che si legittimano politiche estere compiacenti, ritardi nelle condanne e ambiguità diplomatiche. Il metodo impiegato dal rapporto non pretende di misurare l’intero spettro delle responsabilità giornalistiche, ma offre un dato oggettivo: l’omissione è una forma di parzialità quanto la menzogna. E quando coinvolge otto tra le più influenti testate occidentali, non è più un’anomalia: è un paradigma che impone di ripensare il ruolo dell’informazione, il suo rapporto con il potere e la sua capacità – o volontà – di raccontare ciò che avviene davvero, anche quando la verità disturba.

 

Il piano di Crosetto: 5.000 uomini per preparare l’Italia alla “guerra ibrida”

3

«Siamo sotto attacco: il tempo per agire è subito»: così riporta il documento redatto dal ministro della Difesa Guido Crosetto, ora al vaglio del Parlamento. A minacciare l’Occidente è l’Italia sarebbe la «guerra ibrida» portata avanti, in particolare, da Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, combattuta tanto a colpi di disinformazione e pressione politica quanto di minacce cibernetiche. Per questo, l’Italia avrebbe bisogno della creazione di un’Arma Cyber, composta di almeno cinquemila unità tra personale civile e militare. La nuova unità sarebbe operativa tutto il giorno e tutti i giorni, contando su una capacità di 1.200-1.500 persone che aumenterebbero poi gradualmente. Solamente due settimane fa, Crosetto aveva dichiarato che l’esercito italiano avrebbe bisogno di almeno trentamila soldati in più.

Con «minaccia ibrida» si intendono «azioni coordinate in più domini condotte da attori statuali e non-statuali, al di sotto della soglia del conflitto armato e spesso non attribuibili, mirate a danneggiare, destabilizzare o indebolire». Si tratterebbe, in sostanza, della «disinformazione» e della «influenza politica» (tra le altre cose) esercitate dalla Russia, o della «strategia multi-vettoriale» della Cina, che «combina leve economiche, tecnologiche, informative e diplomatiche per indebolire l’UE e acquisire know-how strategico», o ancora di «azioni di terrorismo e attacchi cibernetici» da parte dell’Iran e dell’uso di «leve di pressione strategica» (quali «strumenti cibernetici, finanziari e informativi») da parte della Corea del Nord. A richiedere una protezione particolare, spiega il ministro, sarebbero tanto le infrastrutture critiche (energia, trasporti, telecomunicazioni, sanità, finanza) quanto la società civile, attraverso la costruzione di una resilienza alla disinformazione, alfabetizzazione digitale e co-regolamentazione dello spazio digitale. «Siamo sotto attacco e “bombe hybrid continuano a cadere”: il tempo per agire è subito», si legge nel rapporto.

I pericoli, per l’Italia, riguarderebbero in particolar modo settore energetico, infrastrutture critiche (porti, aeroporti, reti elettriche, sistemi di comunicazione) ed «ecosistema politico-sociale», il quale può essere oggetto di «ingerenze straniere, campagne di disinformazione e sfruttamento di divisioni sociali». Secondo il rapporto, nei primi sei mesi del 2025 sarebbero stati 1.549 gli «eventi cyber», in aumento del 53% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e il numero di «incidenti» confermato di 346 (+98%). Ad essere colpiti sarebbero soprattutto il settore sanitario e il comparto manufatturiero: «le nostre aziende sono bersagli facili», dichiara Crosetto. Per tale motivo sarebbe necessario, oltre al potenziamento di almeno «10/15 mila unità» degli organici militari dedicati al settore cyber, creare una vera e propria «Arma Cyber», composta di personale civile e militare per un totale di cinquemila unità, «con una prevalente componente operativa». Il primo obiettivo sarebbe quello di creare una capacità iniziale di 1.200-1.500 unità, successivamente potenziata.

L’Italia, insomma, si prepara alla guerra su tutti i fronti, facendo lievitare le spese per la Difesa alla cifra più alta di sempre (34 miliardi di euro previsti per il 2026). Solamente due settimane fa, infatti, il ministro aveva dichiarato che per essere pienamente efficiente e preparato alle minacce l’esercito italiano dovrebbe salire a duecentomila unità, aumentando di 30 mila il numero di uomini rispetto ai 170 mila attualmente disponibili.

Congresso USA approva legge per divulgare i file Epstein

0

Il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una legge che obbliga il Dipartimento di Giustizia a rendere pubblici tutti i documenti relativi al caso Jeffrey Epstein entro 30 giorni dall’entrata in vigore. Il presidente Trump ha dichiarato di essere pronto a firmare il provvedimento. Intanto, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers, che ha prestato servizio sotto la presidenza di Bill Clinton, ha annunciato che si ritirerà dagli impegni pubblici a seguito della pubblicazione di nuovi documenti riguardo allo stretto rapporto con Epstein.

Australia: ai cittadini tre ore di energia gratis al giorno grazie al solare

1

A partire dal 2026, in Australia, milioni di famiglie potranno utilizzare l’elettricità senza pagarla per tre ore al giorno. Si tratta di un’iniziativa pubblica, battezzata “Solar Sharer”, pensata per sfruttare meglio l’energia solare prodotta durante il giorno, cercando di alleggerire la pressione sulla rete nazionale nelle ore serali. La misura prenderà il via in tre Stati - Nuovo Galles del Sud, Queensland sud-orientale e Australia Meridionale - dove il mercato elettrico è già liberalizzato. Se i risultati saranno positivi, il programma sarà esteso al resto del Paese entro il 2027. 
In Aust...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

COP30: tra le proteste indigene i Paesi del mondo cercano un accordo sul clima

1

Al trentesimo vertice globale sul clima (COP30) si è conclusa la prima settimana di lavori tra avanzamenti disomogenei, tensioni politiche e qualche spiraglio di progresso. I negoziatori, riuniti a Belém in Brasile, sono ora chiamati a trasformare anni di discussioni in scelte politiche concrete. Più che di scelte per l’ambiente si parla di soldi. Sul tavolo, infatti, alle richieste di compensazioni da parte dei Paesi del sud globale fanno da contraltare le reticenze delle grandi nazioni industrializzate, restie a saldare il conto storico del proprio sviluppo industriale basato sulle fonti fossili per convincere gli Stati emergenti ad accettare di non seguire la medesima traiettoria. Sullo sfondo rimangono le proteste dei popoli indigeni che chiedono di rimettere al centro delle discussioni la protezione dell’ambiente e dei territori. Tutti i negoziati dovranno chiudersi necessariamente con un accordo entro venerdì, in caso contrario le discussioni slitteranno ai colloqui di Bonn del 2026 o, peggio, alla COP31.

La plenaria conclusiva della prima settimana ha restituito un clima sospeso. Molti governi hanno espresso apertamente la loro delusione per la lentezza dei lavori, tanto che il maestro di cerimonia del Vertice, il presidente brasiliano Lula, sta valutando di tornare personalmente a Belém per imprimere nuovo slancio dopo esser stato chiaro fin dal suo discorso inaugurale: la COP30 deve segnare la traiettoria per l’uscita progressiva dalle fonti fossili. Non più le vaghe sfumature linguistiche prive di impegni concreti come phase down (riduzione graduale) o transitioning away (transizione graduale), con cui si erano chiuse all’insegna degli accordi al ribasso i precedenti vertici, ma impegni concreti e databili. Alcune potenze, tra cui Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito, sostengono apertamente la proposta. Altri Paesi, come l’Italia, restano scettici quando non apertamente ostili. La divisione emerge chiaramente anche sull’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale entro gli +1,5 °C. Le piccole isole e diversi Paesi latinoamericani chiedono che sia richiamato in modo netto, mentre i Paesi arabi e l’India preferiscono riferirsi all’intero Accordo di Parigi, lasciando aperta la soglia dei 2°C. Intanto, anche il presidente del vertice, André Correa do Lago, ha intuito che serve una svolta per evitare che la COP30 si risolva in un nulla di fatto come le precedenti. Motivo per cui ha indetto un Mutirão, una “mobilitazione collettiva”, che prenderà la forma di una riunione a livello ministeriale e dei capi-delegazione in queste ore.

Tra i pochi accordi, di facciata ratificati fino ad ora, c’è quello per la lotta contro la “disinformazione climatica”, così come richiesto da tredici Paesi per la prima volta nella storia dei vertici sul clima. Al riguardo è stata anche firmata una dichiarazione che stabilisce impegni internazionali comuni per promuovere un’informazione corretta e fondata su ciò che indica la comunità scientifica. Contraria, l’Italia, la cui Presidente del Consiglio Meloni ha tra l’altro scelto di non essere presente alla COP30, seguendo la linea dell’alleato Donald Trump che da gennaio ritirerà di nuovo gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.

Ad ogni modo, come preannunciato, è la finanza climatica il grande nodo ancora irrisolto. Il percorso “Road to Belém” prevede di mobilitare la cifra di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Una somma apparentemente enorme ma che, in realtà, rappresenta poco più dello 1% del PIL globale, che nel 2024 è stato di circa 110.000 miliardi. Tuttavia, per comprendere l’entità del passo da fare, basta sapere che nel 2022 ci si accordò per 190 miliardi l’anno, una cifra di sette volte inferiore, oltretutto mai erogata totalmente. I cosiddetti fondi di compensazione sono le risorse che i Paesi del Sud globale chiedono ai Paesi ricchi perché hanno contribuito molto meno alla crisi climatica, ma ne subiscono gli impatti peggiori. Non sono aiuti caritatevoli, bensì soldi ritenuti dovuti per finanziare adattamento, transizione energetica e riparare perdite e danni causati in larga parte dalle emissioni storiche del Nord globale. Questo principio è già riconosciuto negli accordi ONU sul clima (dalla Convenzione del 1992 all’Accordo di Parigi), che impegnano i Paesi industrializzati a fornire finanza climatica e hanno portato alla creazione di un fondo ad hoc per «perdite e danni». Ma al di là del principio, c’è appunto da trovare un accordo sulla somma da destinare.

Ed oltretutto non è nemmeno la questione economica più difficile da stabilire. Il nodo più esplosivo è infatti stabilire precisamente quali Stati devono pagare e quali devono ricevere: le regole ONU sul clima sono ancora basate sulla divisione del 1992 tra “Paesi sviluppati” e “in via di sviluppo”. In questa seconda categoria restano anche grandi emettitori come Cina, India o Arabia Saudita, che rivendicano lo status di Paesi in via di sviluppo e quindi il diritto a ricevere fondi, non l’obbligo di contribuire in modo paragonabile a UE o USA. Molti Paesi occidentali insistono invece perché questi grandi emergenti diventino anche donatori netti, dato il loro peso economico e climatico attuale. Lo scontro su come aggiornare – o meno – questa mappa del mondo è uno dei punti che rischia di bloccare il nuovo sistema di finanza climatica.

Si cerca ancora un accordo anche sulla riduzione delle emissioni, le cosiddette Nationally Determined Contributions (NDC). Gli impegni presi nell’Accordo di Parigi sono giudicati insufficienti, ma solo 114 Paesi su 194 hanno presentato nuovi impegni aggiornati. Secondo le stime ONU, con gli impegni attuali il mondo viaggia verso un riscaldamento ben oltre 1,5 °C, più vicino ai 2,5-3 °C. Per restare negli obiettivi di Parigi servirebbero tagli molto più rapidi entro il 2030, e proprio su quanto accelerare – e chi deve farlo per primo – si sta consumando il braccio di ferro tra Nord globale e grandi economie emergenti.

In questo quadro difficile, arriva però qualche notizia positiva. La prima è che il fondo “perdite e danni”, cioè il meccanismo istituito per fornire assistenza finanziaria ai paesi in via di sviluppo che sono colpiti in modo sproporzionato dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici, è diventato operativo: nella prima settimana di negoziati è stato anche pubblicato il primo bando per le richieste di finanziamento. La seconda sarebbe l’istituzione del nuovo Tropical Forest Forever Facility, un fondo d’investimento che punta a difendere le aree forestali e che ha raccolto 5,5 miliardi di dollari da 53 Paesi per proteggere un miliardo di ettari di foreste tropicali. Un risultato significativo, ma non privo di incognite e potenziali punti critici, dato che si è scelto di subordinare la tutela delle foreste a logiche di investimento finanziario.

USA-eSwatini: accordo per esternalizzare i migranti

0

Gli Stati Uniti hanno firmato un accordo con l’eSwatini, stato dell’Africa meridionale, per esternalizzare le persone migranti che entrano nel Paese. I dettagli dell’accordo non sono ancora stati pubblicati, ma secondo indiscrezioni mediatiche il Paese africano ospiterebbe fino a 160 persone; è noto, inoltre, che l’eSwatini riceverà 5,1 milioni di dollari in cambio dell’accoglienza delle persone migranti. L’eSwatini è solo l’ultima degli Stati africani ad avere accettato di accogliere cittadini di Paesi terzi espulsi dagli USA. Tra gli altri paesi figurano il Sud Sudan, il Ghana e il Ruanda.

La Svizzera vuole legalizzare la cannabis

1

La Commissione Federale per la Sanità svizzera ha approvato una legge per la legalizzazione della cannabis, che verrà discussa nei prossimi mesi. Il risultato è frutto di un percorso intrapreso dalla Svizzera oltre trent’anni fa e che l’ha portata, nel 2021, a iniziare a sperimentare la vendita controllata di cannabis ad uso adulto. Dopo i primi risultati positivi dei progetti pilota avviati in città come Basilea, Zurigo e Losanna, ora l’iter parlamentare per una legge nazionale di legalizzazione ha preso il via, con l’obiettivo dichiarato di tutelare la salute pubblica e i minori, riducendo il mercato nero e i rischi per la salute.

Correvano gli anni ’90 quando la Svizzera, da sempre liberale nei confronti della cannabis e del suo utilizzo, venne soprannominata la Giamaica delle Alpi. Senza nessuna regolamentazione particolare in Ticino diversi negozianti avevano iniziato a vendere infiorescenze di cannabis con livelli medio-alti di THC, come profumatori per armadi ed ambienti. Un’operazione resa possibile da un vuoto legislativo che aveva messo in moto due processi: la nascita del primo settore moderno su larga scala di produzione di cannabis, con serre e capannoni sterminati, e la gran parte dei contadini svizzeri trasformati nel giro di due anni in canapicoltori, e il flusso interminabile di “turisti”, specialmente italiani, che andavano oltreconfine per godere dei frutti della pianta delle meraviglie, non di rado cercando – con scarso successo vista la solerzia delle dogane – di riportare a casa un po’ di quelle verdi emozioni. L’esperimento durò pochi anni e fu stroncato da diverse procure che, di punto in bianco, arrestarono produttori e rivenditori. Ma il piglio antiproibizionista del Paese neutrale per eccellenza, che prospera nel cuore dell’Europa senza far parte dell’unione, non si è mai spento. E oggi, mentre diversi esperimenti di legalizzazione sono attivi in città come Zurigo, Berna, Basilea e Losanna, la Commissione federale per la Sanità, forte dei primi buoni risultati ottenuti, ha approvato una legge per la legalizzazione della cannabis, che si discuterà nei prossimi mesi.

Il 15 maggio del 2021 la legge federale svizzera sugli stupefacenti viene modificata per permettere studi pilota con la vendita controllata di cannabis ad uso adulto. Siccome però la legge prevede che venga utilizzata solo cannabis biologica espressamente prodotta nel Paese elvetico, la partenza vera e propria è il febbraio del 2023, con la città di Basilea, a cui hanno poi fatto seguito Zurigo, Losanna e altri, per un totale di 6 progetti ad oggi autorizzati. Il più grande è quello della città di Zurigo, che è appena stato rinnovato fino al 2028 e attualmente coinvolge 2300 persone che aumenteranno fino a 3 mila. Tutti i progetti prevedono la vendita, in farmacia o negozi appositi, di infiorescenze di cannabis, alcuni anche hashish, estratti, prodotti edibili e cartucce per le vape-pen. I partecipanti devono rispondere a diversi criteri (cittadinanza nel cantone, già consumatore di cannabis, etc). Dopo i colloqui per l’idoneità, si riceve una tessera di ammissione allo studio, che consente di accedere ai punti vendita autorizzati. Una volta selezionato, al partecipante viene assegnato un profilo da seguire: monitoraggio del consumo, questionari periodici e raccolta dati attraverso strumenti validati nella fase di ricerca.

Nel frattempo stanno già arrivando i primi risultati, come quelli del Grashaus Project, in corso a Basilea, dai quali si evince che la prima tendenza riscontrata è quella dello spostamento dei consumatori verso vendite regolamentate e metodi di consumo “a basso rischio”, come prodotti edibili ed estratti, con un calo del mercato nero fino al 50%. Il professor Michael Schaub, direttore scientifico dell’Istituto svizzero per le dipendenze, che dirige lo studio, ha commentato così: “Il fatto che abbiamo potuto registrare tali primi successi, anche grazie a una consulenza professionale mirata nei punti vendita, è uno sviluppo promettente. Perché l’obiettivo del progetto pilota, ovvero mettere a disposizione dei consumatori prodotti sicuri e di alta qualità provenienti da fonti controllate e quindi ridurre al minimo in particolare i rischi per la salute, è ovviamente sempre al centro dell’attenzione. Speriamo di destigmatizzare l’uso della cannabis e di creare una base basata sull’evidenza per l’ulteriore dibattito sulla legalizzazione in Svizzera”.

Nel frattempo però, senza nemmeno aspettare la fine di questi progetti sperimentali, che hanno una durata media di 5 anni, in Svizzera è stata approvata dalla Commissione federale una legge per la legalizzazione della cannabis. La fase di consultazione pubblica è stata aperta il 29 agosto e si è chiusa il primo dicembre 2025. Da lì è iniziata la discussione parlamentare, che durerà circa due anni, prima dell’approvazione finale. “La salute pubblica e la tutela dei minori dovrebbero essere al centro di una rinnovata politica sulla cannabis. Agli adulti dovrebbe essere garantito un accesso alla cannabis rigorosamente regolamentato”, si legge in un comunicato del Parlamento svizzero che spiega la bozza di legge, che prevede di rendere legale l’autoproduzione casalinga di cannabis, divieto di pubblicità e vendita ai minori e controlli rigorosi sulla qualità. Le novità riguarderebbero il fatto che lo Stato vuole assicurarsi che il sistema non generi incentivi commerciali al consumo. E quindi prevede dispensari nei vari cantoni, con apposita licenza, ma che per la vendita online si prospetta un unico sito gestito dal governo. Inoltre le vendite sono orientate verso un modello non-profit, regolato dallo Stato, che prevede che i profitti vengano reinvestiti “nella prevenzione, nella riduzione del danno e nel supporto alle dipendenze”. Altro discorso per coltivatori e produttori, per i quali “dovrebbe essere consentita la produzione commerciale a scopo di lucro”.

Prato: operai aggrediti dai padroni della fabbrica perché chiedono il rispetto del contratto

0

Il sindacato di base Sudd Cobas ha denunciato una aggressione ai lavoratori in presidio presso la Euroingro di Prato, il centro di distribuzione all’ingrosso dell’abbigliamento più grande di Prato. Un gruppo di una trentina di persone, «tra cui alcuni padroni delle aziende interne alla Euroingro», ha attaccato il presidio fuori dal centro di distribuzione presso il Macrolotto 1, devastando i gazebi. Nell’aggressione sono rimasti feriti anche due agenti della digos; fermati due aggressori. I lavoratori erano in presidio per denunciare le condizioni di sfruttamento lavorativo che gli imporrebbe l’azienda: il sindacato parla di turni da 12 ore 7 giorni su 7, e chiede regolari contratti da 8 ore per 5 giorni. Quella dei lavoratori di Euroingro è solo una delle tante situazioni denunciate dal sindacato negli ultimi anni. I lavoratori che si sollevano non sono nuovi nemmeno ad aggressioni e altre forme di intimidazione; l’ultimo episodio di violenza segnalato risale allo scorso settembre.

L’attacco ai lavoratori di Euroingro è avvenuto ieri, 17 novembre. I video diffusi da Sudd Cobas mostrano un gruppo di sindacalisti avvicinarsi verso il presidio seguiti da un folto gruppo di persone. Arrivato vicino ai lavoratori, gli aggressori hanno tirato dritto verso il gazebo, che si trovava alle spalle del gruppo in presidio, scaraventando a terra un’agente della polizia; subito dopo sono scoppiati brevi scontri che hanno interessato altri agenti delle forze dell’ordine, sindacalisti e lavoratori, colpiti dagli aggressori; tra questi, Sudd Cobas ha riconosciuto alcuni dei datori di lavoro. Nel caos generatosi, un uomo è riuscito ad avvicinarsi al gazebo, buttandolo a terra; dopo le colluttazioni, la polizia ha fermato due degli aggressori, portandoli via.

I lavoratori di Euroingro erano in presidio per denunciare le proprie condizioni di lavoro di sfruttamento, con turni da 12 ore al giorno 7 giorni su 7, spesso senza contratto o con contratto part time. La vertenza dei lavoratori era stata lanciata lo scorso 1° novembre, quando più di cinquanta operai avevano organizzato un presidio proprio davanti al Macrolotto 1, per poi muoversi in corteo davanti a un negozio. Il 7 novembre era stato messo in piedi un altro presidio. Il sindacato chiede di regolarizzare i lavoratori in nero e “grigi”, riconoscendo loro contratti da 8 ore per 5 giorni.

Negli ultimi mesi, “8X5” è diventato una sorta di motto per i lavoratori del settore tessile di Prato: gli operatori a denunciare analoghe condizioni di sfruttamento sono infatti diversi, e lavorano per altrettante aziende. Nei mesi sono stati lanciati diversi presidi e manifestazioni per scardinare quello che pare ormai essere un fenomeno sistematico, che coinvolge la maggior parte dei lavoratori del settore. A essere ricorrente sembra essere anche l’uso della violenza da parte dei datori di lavoro: quella di ieri non è infatti la prima volta che il sindacato denuncia l’uso della violenza da parte dei proprietari delle aziende. L’ultimo episodio risale allo scorso settembre, e ha coinvolto i lavoratori della stireria industriale Alba Srl, presi a calci e pugni dalla stessa proprietaria dell’azienda. Nemmeno un anno prima, a ottobre del 2024, i lavoratori e i sindacalisti in presidio presso uno stabilimento tessile a Seano erano stati aggrediti da un gruppo di persone incappucciate e vestite di nero, armate di spranghe di ferro. In queste due occasioni, le richieste e le denunce dei lavoratori erano le stesse dei colleghi di Euroingro: venire regolarizzati e smettere di lavorare a ritmi massacranti.

Dalla Corte dei Conti una nuova bocciatura al Ponte sullo Stretto

2

La magistratura contabile ha inferto un nuovo colpo al progetto del Ponte sullo Stretto: la Sezione centrale di controllo di legittimità della Corte dei Conti non ha concesso il visto di legittimità al terzo atto aggiuntivo della convenzione tra il Ministero delle Infrastrutture e la società concessionaria Stretto di Messina Spa, ampliando la crisi amministrativa aperta dal precedente rifiuto sul provvedimento Cipess. Questo nuovo stop, strettamente collegato alla precedente bocciatura della delibera Cipess di fine ottobre, blocca di fatto la definizione degli impegni amministrativi e finanziari necessari per la progettazione e realizzazione dell’opera, mettendo in discussione l’intero impianto giuridico del progetto.

La Corte dei Conti, in una nota ufficiale, ha comunicato di aver respinto il decreto n. 190 del primo agosto 2025, adottato «ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto-legge 31 marzo 2023, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2023, n. 58, recante “Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria”». Mentre si attendono le motivazioni complete – le prime previste entro fine novembre, le seconde per metà dicembre – gli scenari possibili per l’esecutivo si delineano tra due opzioni principali. La prima, più rischiosa, sarebbe procedere con una “registrazione con riserva”, procedura tecnicamente consentita ma che aprirebbe un nuovo fronte di scontro con la magistratura contabile. L’alternativa, preferibile ma potenzialmente più lunga, consisterebbe nell’apportare le correzioni necessarie per superare i rilievi della Corte, eventualmente ricorrendo a una nuova delibera.

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha commentato la decisione affermando: «Nessuna sorpresa: è l’inevitabile conseguenza del primo stop della Corte dei conti. I nostri esperti sono già al lavoro per chiarire tutti i punti. Resto assolutamente determinato e fiducioso». Una posizione condivisa dal suo ministero, che in una nota ufficiale ha espresso fiducia «sulla prosecuzione dell’iter amministrativo in attesa delle motivazioni della Corte». Anche la società concessionaria Stretto di Messina Spa ha cercato di minimizzare l’accaduto. Il presidente Giuseppe Recchi ha definito la decisione «non un atto nuovo» poiché «gli argomenti trattati sono strettamente collegati» al primo stop, annunciando un Consiglio di Amministrazione per il 25 novembre per esaminare la situazione. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha aggiunto che l’esito era «prevedibile perché l’atto convenzionale è funzionalmente collegato alla delibera di approvazione del progetto definitivo del ponte del Cipess del 6 agosto», confermando la «piena collaborazione» della società per fornire «tutti i nuovi approfondimenti richiesti».

A fine ottobre era arrivata la prima pronuncia della Corte dei Conti, che aveva respinto la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) che impegna 13,5 miliardi di euro per la costruzione del Ponte. Secondo le prime ricostruzioni giornalistiche le motivazioni ricalcherebbero i dubbi già espressi dalla Corte lo scorso settembre nella sua richiesta di chiarimenti: documentazione carente, calcoli poco chiari, e mancato rispetto delle norme ambientali. Tra le altre cose, i magistrati avevano evidenziavano la mancata coerenza dei calcoli relativi alle spese per il Ponte, rilevando un «disallineamento tra l’importo asseverato dalla società Kpmg in data 25 luglio 2025 – quantificato in euro 10.481.500.000 – e quello di euro 10.508.820.773 attestato nel quadro economico approvato il 6 agosto 2025», evidenziando come diverse voci, dagli oneri per le condizioni contrattuali (cct) a quelli per la sicurezza, fossero lievitate rispetto al progetto preliminare. L’esecutivo si è scagliato contro la decisione dei magistrati: la presidente del consiglio Giorgia Meloni l’ha definita «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento», mentre il ministro Salvini ha affermato che il governo andrà avanti per la propria strada. Ora è arrivato il secondo colpo.

Cadono così ancora nel vuoto i fragorosi annunci del Ministro Salvini sull’inizio dei lavori, che ormai si fanno fatica a contare. Nel marzo del 2023, durante la trasmissione “Cinque minuti su Rai 1”, Salvini dichiarò che i lavori sarebbero iniziati «entro l’estate 2024», per poi ripeterlo due mesi dopo in occasione della conferenza stampa di presentazione del decreto che ha riattivato la Società Stretto di Messina, e poi a settembre, in seguito a un incontro del cda della società. A fine maggio 2024, Salvini aveva sbandierato l’obiettivo di «aprire i cantieri entro l’anno 2024». L’“annuncite” è ricomparsa nell’aprile di quest’anno, quando Salvini ha annunciato che l’inizio della costruzione fosse distante solo «poche settimane». Lo scorso 19 maggio, il Ministro ha invece affermato che i cantieri sarebbero stati aperti entro l’estate di quest’anno. In ultimo, l’orizzonte temporale si è spostato all’autunno 2025, ma come un macigno sono arrivate le pronunce dei giudici amministrativi.