mercoledì 20 Agosto 2025
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Pakistan, sale bilancio inondazioni: 706 morti e mille feriti

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Continua a salire drammaticamente il bilancio delle vittime delle recenti piogge monsoniche e delle inondazioni in Pakistan, che ha raggiunto 706 morti e quasi 1.000 feriti. Lo ha reso noto la National Disaster Management Authority (Ndma), aggiungendo che, nelle ultime 12 ore, 46 persone sono morte e 30 sono rimaste ferite, principalmente nelle province di Khyber Pakhtunkhwa (Kp) e Azad Jammu e Kashmir. Kp è la zona più colpita, con 427 vittime dall’inizio del monsone. Le inondazioni improvvise hanno danneggiato 2.934 case, distruggendo completamente 1.009 abitazioni, e provocato la morte di 1.108 capi di bestiame.

Gaza, 25 palestinesi uccisi dall’alba nei raid israeliani

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L’agenzia di stampa palestinese Wafa ha reso noto che almeno 25 civili hanno perso la vita oggi a Gaza a causa dei bombardamenti israeliani su diverse località della Striscia, iniziati sin dalle prime ore del mattino. Otto delle vittime stavano aspettando l’arrivo di aiuti umanitari. In un episodio specifico, un attacco aereo durante la notte ha colpito un campo di sfollati a Deir al-Balah, nel centro di Gaza, provocando la morte di cinque occupanti di una tenda. Tra questi c’erano tre minori: un neonato di un anno e due ragazzini rispettivamente di 12 e 13 anni.

La Spagna in fiamme: incendi senza precedenti stanno devastando il nord-ovest del Paese

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«Una situazione dantesca e senza precedenti». Con queste parole la ministra della Difesa spagnola Margarita Robles ha descritto l’inferno che da settimane divampa nel nord-ovest del Paese iberico. Circa 350mila ettari di vegetazione sono già ridotti in cenere – un record assoluto, avendo superato i 306.555 del 2022 – nonostante il numero di roghi (223) sia quasi dimezzato rispetto all’anno precedente. Un paradosso agghiacciante che sintetizza la virulenza di fuochi alimentati da ondate di calore estreme, venti furiosi e una siccità cronica. «Nei vent’anni dell’Unità militare d’emergenza non avevamo visto nulla di simile», ha aggiunto Robles, mentre il premier Pedro Sánchez esprimeva «tristezza e desolazione» per le quattro vittime registrate a causa dei roghi, tra cui un vigile del fuoco morto il 17 agosto a León, ribaltatosi con l’autobotte diretta al fronte delle fiamme.

Il cuore dell’emergenza batte in Castiglia e León, dove si concentrano 30 dei 40 focolai attivi. Qui il fuoco ha costretto all’evacuazione più di 3.000 persone da 60 diversi comuni. Molti centri sportivi sono stati trasformati in rifugi d’emergenza. Dieci paesi della Valle del Valdeón, tra cui la turistica Caín, sono stati sgomberati mentre le fiamme lambivano il Parco Nazionale de los Picos de Europa. Patrimoni dell’Umanità come il parco naturale di Las Médulas sono già stati devastati. Nel frattempo, nelle ultime ore il governo regionale ha dichiarato un’allerta per l’intera regione e un’allerta estrema per alcuni comuni di León, Zamora e Palencia da oggi fino al 22 agosto. La minaccia incombe anche in Galizia: due mega-incendi tra Ourense e El Bierzo rischiano infatti di fondersi in un “super-rogo” che, come avvertono gli esperti, potrebbe mettere in serio pericolo i soccorritori. Con l’8% del territorio di Ourense già distrutto, autostrade interrotte e la linea ferroviaria Madrid-Galizia sospesa da cinque giorni, la regione è paralizzata. Giovedì scorso, l’area interessata dagli incendi ha raggiunto i 157.501 km², secondo il Sistema europeo di informazione sugli incendi boschivi (EFFIS). Ciò significa che più della metà del territorio bruciato è andato in fiamme in meno di una settimana.

Specchio della catastrofe in corso è diventato il celebre Cammino di Santiago. Le autorità hanno infatti ordinato a migliaia di pellegrini di abbandonare l’itinerario e raccomandato di cancellare i viaggi programmati, con la Protezione Civile che ha invitato i familiari e conoscenti dei pellegrini che sono già sul posto e senza la possibilità di usare internet ad avvisarli del pericolo e delle restrizioni. Nell’Estremadura, l’incendio di Jarilla – attivo da sette giorni su un perimetro di un centinaio di chilometri – resta «completamente fuori controllo». Le immagini diffuse sui social mostrano un paesaggio apocalittico: cieli rossi, foreste divorate, autobus della Renfe che avanzano tra cortine di fumo. «Capisco il dramma di chi perde tutto, ma affrontare il fuoco è compito di professionisti», ha dichiarato Robles, raccomandando di seguire le indicazioni dei tecnici al fine di evitare altre tragedie.

Di fronte a uno scenario che vanifica gli sforzi di 3.500 militari (con altri 500 in arrivo), la Spagna ha attivato il meccanismo europeo di protezione civile. «Tra oggi e domani arriveranno 60 vigili del fuoco tedeschi con mezzi speciali e 80-100 francesi», ha annunciato ieri la ministra per la Transizione Ecologica Sara Aagesen. Per supportarli sono già giunti in Spagna team provenienti dalla Repubblica Ceca e dalla Slovacchia per contrastare l’incendio di Jarilla, che ha già bruciato 11mila ettari. Un’unione di forze resa necessaria da condizioni proibitive: «Il fumo blocca gli aerei», spiega Robles, «e i focolai si autoalimentano con virulenza straordinaria». Nel frattempo, il premier Sánchez ha invocato un «patto di Stato sul clima» che sia frutto di una strategia condivisa e che non dovrà essere ostacolato da divisioni ideologiche.

Ponte sullo Stretto, firmato il contratto: penali in caso di ritardi

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È stato firmato il contratto tra Stretto di Messina e il consorzio Eurolink per la costruzione del Ponte sullo Stretto. L’”atto aggiuntivo” prevede penali sia per la parte pubblica che per i privati in caso di inadempimento. Se i lavori sono bloccati per responsabilità della Stretto di Messina, la penale potrebbe arrivare al 5% del valore dei lavori non eseguiti. Inoltre, Eurolink rischia penali superiori al milione di euro per ogni giorno di ritardo. È poi prevista una cauzione di oltre 650 milioni di euro a garanzia degli impegni del contraente generale in caso di inadempimento.

Ucraina: USA e UE divisi su tregua e garanzie, Trump spinge per incontro Putin-Zelensky

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«Un passo avanti per terminare la guerra». Sono queste le parole che la maggior parte dei leader presenti al vertice ha utilizzato per descrivere l’incontro multilaterale per l’Ucraina tenutosi ieri alla Casa Bianca. Eppure, di quello che si siano realmente detti i presenti sappiamo ancora poco. Trump sta iniziando a spingere per organizzare un incontro tra Putin e Zelensky, che secondo Macron dovrebbe avvenire entro due o tre settimane. Un altro dei temi principali sul piatto era quello dell’implementazione di un cessate il fuoco da mettere in atto sin da subito, ma sembra che i capi europei non siano riusciti a convincere Trump, che sostiene che i negoziati di pace possano essere portati avanti anche con la guerra in corso. Cruciale anche la questione delle cosiddette “garanzie di sicurezza”, su cui tutti i leader sembrano avere idee diverse. Trump ha assicurato che una volta terminata la guerra l’Ucraina sarà dotata di tutti i mezzi necessari per non subire ulteriori attacchi, anche se secondo lui è improbabile che ciò succeda.

Gli incontri alla Casa Bianca sono iniziati alle 18 italiane di ieri, con l’arrivo dei leader europei di Finlandia, Francia, Germania, Italia e Regno Unito assieme alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e al Segretario generale della NATO Mark Rutte. Circa un’ora dopo è arrivato Zelensky, con cui Trump ha tenuto un colloquio nello Studio Ovale. Questa volta l’incontro è stato più disteso, e non si sono verificati attriti; l’ultima occasione in cui Zelensky era stato ricevuto nello Studio Ovale, infatti, Trump lo aveva umiliato in mondovisione. Dopo il colloquio a due con Zelensky, è iniziato quello con i leader europei presenti. Alla tavola della Casa Bianca, i politici hanno preso la parola uno per volta, mostrando la propria sostanziale divergenza di opinioni con il presidente USA. Merz ha rimarcato la posizione europea, per cui i negoziati per la pace dovrebbero essere portati avanti in un contesto di cessate il fuoco, chiedendo a Trump di lavorare per implementare una tregua. Del tema si è discusso anche nello Studio Ovale con Zelensky, dove il presidente USA ha dichiarato che, per quanto personalmente preferirebbe una cessazione degli attacchi da parte di entrambe le parti, abbassare le armi potrebbe rivelarsi «strategicamente svantaggioso» per una delle due, e che i negoziati possono essere portati avanti anche senza una tregua.

Altro tema fondamentale è stato quello delle garanzie di sicurezza. Il vertice ha concordato che, terminata la guerra, l’Ucraina avrà bisogno della certezza di non essere attaccata; i leader hanno detto di aver parlato lungamente della questione e Trump ha assicurato che, per quanto secondo lui non sia necessario, l’Ucraina avrà quello che chiede. Risulta ancora poco chiaro, tuttavia, cosa i diversi Paesi intendano con “garanzie di sicurezza”: un giornalista ha chiesto a Zelensky di cosa abbia bisogno l’Ucraina dagli Stati Uniti e la sua risposta è stata «tutto»; sul piatto è più volte comparsa l’ipotesi di aumentare l’arsenale di Kiev e migliorare l’esercito ucraino, di inviare soldati e forze di peacekeeping sul territorio (ne ha parlato spesso Macron), di fare entrare l’Ucraina nella NATO (lo stesso Zelensky ha insistito a lungo sulla questione), o di limitarsi a fornire garanzie ricalcando l’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica sulla mutua difesa (ipotesi avanzata da Meloni). Dopo e durante gli incontri, tuttavia, il tema delle garanzie di sicurezza è stato affrontato nel discorso pubblico solo in termini generali, e non è chiaro cosa esattamente sia emerso dal vertice.

Ultima, ma non meno importante, l’ipotesi di un incontro diretto tra Putin e Zelensky. Durante il vertice, Trump ha detto svariate volte che Putin sarebbe pronto a incontrare Zelensky, e dopo di esso ha ribadito questo punto, affermando di essersi messo al lavoro per organizzare un colloquio a due, che sarebbe seguito da un trilaterale con la sua stessa presenza. Macron ha confermato quanto detto da Trump e ha dichiarato che stanno lavorando per organizzare un primo incontro «tra due o tre settimane»; dal Cremlino non è ancora arrivata nessuna conferma.

Negli ultimi 10 anni è crollata la produzione mondiale di pellicce

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La produzione globale di pellicce è scesa a picco, registrando nel 2023 un calo del 40% rispetto all’anno precedente. Un dato che conferma una tendenza in atto da almeno un decennio: dal 2013 a oggi, l’industria ha perso oltre l’85% del suo volume produttivo. Dietro ai numeri, ci sono milioni di animali – visoni, volpi, procioni – che non sono stati allevati in gabbie anguste né uccisi per trasformarsi in capi d’abbigliamento.
Nella sola Unione Europea, la produzione di pellicce di visone è crollata da 18 milioni nel 2020 a 7,5 milioni nel 2022, mentre le volpi sono passate da 1,2 milioni a 70...

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Hamas avrebbe accettato la proposta di cessate il fuoco

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Secondo quanto riportato da un funzionario anonimo di Hamas all’emittente qatariota Al Jazeera, il movimento palestinese avrebbe accettato una proposta di cessate il fuoco proveniente dai mediatori. La notizia è stata ripresa da una emittente ritenuta affiliata al gruppo. La proposta sarebbe stata avanzata da Egitto e Qatar, e i suoi dettagli rimangono ancora poco chiari; negli ultimi giorni è circolato un piano che prevedrebbe una tregua di 60 giorni e la creazione di corridoi umanitari in cambio di 10 ostaggi israeliani ancora in vita e 18 corpi. Si attende ancora una risposta da parte di Israele.

Israele revoca i visti per diplomatici australiani

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Il ministro degli Esteri israeliano ha dichiarato di aver revocato i visti dei diplomatici australiani presso l’Autorità Nazionale Palestinese. La scelta arriva in seguito alla decisione di Canberra di riconoscere uno Stato palestinese, e in risposta a un analogo annullamento di visto disposto dal governo australiano nei confronti di un parlamentare israeliano. Simcha Rothman, parlamentare del partito Sionismo religioso guidato dal ministro delle finanze Bezalel Smotrich, avrebbe dovuto visitare l’Australia questo mese, su invito di un’organizzazione ebraica conservatrice; l’Australia ha tuttavia impedito il suo ingresso nel Paese a causa delle sue richieste di annessione della Cisgiordania e della sua ferma opposizione alla creazione di uno Stato palestinese.

Le elezioni in Bolivia segnano la fine di 20 anni di socialismo

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Con le elezioni tenutesi ieri, domenica 17 agosto, in Bolivia è terminato il regno della sinistra. Il candidato del Movimento al Socialismo, il partito di sinistra dell’ex presidente indigeno Evo Morales, è infatti arrivato sesto con poco più del 3% dei voti; niente da fare neanche l’ex delfino dello stesso Morales, Andrónico Rodríguez, quarto con l’8%. A pesare parecchio è stata la chiamata dell’ex presidente indigeno, che ha invitato i propri concittadini a votare scheda nulla e a boicottare un ormai sfaldato MAS e «il traditore» Rodríguez. I cittadini hanno preferito il candidato del Partito Democratico Cristiano, Rodrigo Paz, e l’ex presidente conservatore Jorge Quiroga, detto Tuto, che si scontreranno in un ballottaggio. I risultati di ieri sanciscono la fine di vent’anni di dominio assoluto del MAS, ma non possono in alcun modo definirsi inaspettati; da tempo infatti era in corso un braccio di ferro tra l’attuale presidente Luis Arce e Morales, che ha spezzato in due la sinistra del Paese.

Ieri in Bolivia i cittadini sono stati chiamati a votare sia per il nuovo presidente sia per il parlamento. Alle presidenziali, ha trionfato, con il 32,14% delle preferenze, Rodrigo Paz, sindaco di Tarija, candidato per il PDC, di orientamento centrista. Al secondo posto, Tuto, con il 26,81%. Terzo l’imprenditore Samuel Doria Medina con il 19,86%, che appoggerà Paz. Alleanza Popolare dell’indigeno Andrónico Rodríguez, giovane erede di Morales, si è fermata all’8,22% e il MAS ha superato appena il 3%. Dopo quasi vent’anni dalla salita al potere del MAS, insomma, la sinistra socialista non arriverà al governo. Come alle presidenziali, la sinistra ha fatto male anche alle politiche. Le proiezioni assegnano – alla Camera – 45 seggi al PDC, 37 ad Alianza Libre (il partito di Tuto), 28 a Unidad (di centro), 6 a Súmate, di centrodestra, 5 ad Alleanza Popolare e 1 al MAS; al Senato, invece, 13 seggi al PDC, 11 a Libre, 6 a Unidad, 4 ad AP, 1 a Súmate e 1 al MAS. Il Tribunale elettorale ha ricordato che i risultati, tanto delle presidenziali quanto delle politiche, sono solo parziali, e che i riscontri ufficiali arriveranno la prossima settimana.

I motivi dietro la disfatta del MAS e 0in generale della sinistra socialista sono stati il duro scontro al vertice che ha interessato il presidente uscente Luis Arce e l’ex presidente indigeno Evo Morales. Tutto è iniziato quando, in mezzo a una situazione di profonda instabilità politica ed economica, Morales ha annunciato che si sarebbe presentato alle presidenziali. Avendo già raggiunto il limite di mandati, tuttavia, sia il Tribunale elettorale che la Corte costituzionale hanno annullato la sua candidatura; Arce si è schierato con gli organi giuridici e ha avviato una campagna per screditarlo, che ha presto spezzato la sinistra del Paese a metà. Morales era sostenuto prevalentemente dalle comunità indigene, mentre Arce ha perso sempre più sostegno e, toccati i picchi al ribasso nei sondaggi, ha ritirato la propria candidatura, invitando il rivale a fare lo stesso. Sullo sfondo, la mancanza di carburante, l’inflazione al galoppo, la scarsa reperibilità di dollari e la svalutazione della moneta locale, che hanno fatto esplodere proteste sempre più violente, alimentate dalla scissione politica della sinistra socialista.

Il caso “Lava Café”: l’operazione social per minimizzare la catastrofe umanitaria a Gaza

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La guerra in Medio Oriente non si combatte soltanto con i bombardamenti incessanti, ma si consuma ogni giorno anche su Instagram, X e TikTok. È sui social che Israele ha aperto un fronte parallelo: un campo di battaglia mediatico fatto di immagini patinate, reel virali e slogan confezionati, dove influencer e volti noti vengono arruolati per esaltare il “diritto alla difesa” di Tel Aviv e cancellare sistematicamente il massacro dei civili palestinesi. Questa macchina della propaganda bellica, studiata per manipolare e orientare i contenuti online in modo da smentire il genocidio e legittimare la repressione, trova terreno fertile e amplificatori anche in Italia.

Un esempio lampante è quello di Andrea Lombardi, costretto dopo essere stato sommerso dagli insulti e dopo una presunta rimozione da parte YouTube per hate speech, a chiedere “scusa” al pubblico e a cancellare la diretta di quasi due ore, intitolata La bella vita a Gaza? Te la faccio vedere…, in cui negava che Gaza fosse ridotta in polvere (si tratterebbe a suo dire di sabbia), sosteneva che i palazzi siano ancora in piedi e paragonava la Striscia a Napoli. Lo youtuber si spingeva a dichiarare che «non è vero che la popolazione sta morendo di fame», echeggiando così le parole di Netanyahu quando derubricò a fake news la fame a Gaza. Lombardi aveva rilanciato su Instagram e X anche un breve reel con il profilo di un presunto locale, il “Lava Café” di Gaza City: interni eleganti, dolci succulenti e cappuccini decorati. Tra risatine, parolacce e battute di dubbio gusto, minacciava di «far andare di traverso il caffè a tanta gente» e prometteva di smontare “i pregiudizi” di chi non vuole vedere “la realtà”. La tesi era tanto semplice quanto fuorviante: se il locale esiste, allora Gaza non è in emergenza e la narrazione di fame e distruzione sarebbe una mera messinscena.

Coloro che hanno condiviso il profilo di Lava Cafè in Italia e nel resto del mondo ignorano volutamente dati e contesto: secondo OCHA e OMS, a Gaza oltre il 90% della popolazione soffre di insicurezza alimentare acuta, i casi di malnutrizione infantile sono in vertiginoso aumento e centinaia di civili muoiono ogni settimana sotto raid, bombardamenti e fame. La stampa internazionale, le Nazioni Unite, l’OMS e le principali ONG descrivono Gaza come una «fossa comune per i palestinesi e per coloro che accorrono in loro aiuto»: un luogo disumano, dove procurarsi il cibo è ormai “come gli Hunger Games”. È dentro questo quadro di assedio totale, che c’è ancora chi dubita della catastrofe umanitaria e dell’emergenza sanitaria, condividendo le teorie del complotto orchestrate da Gazawood o Pallywood, o minimizzando le immagini atroci che arrivano quotidianamente dalla Striscia. 

Sul caso specifico del Lava Café, peraltro, le incongruenze abbondano. L’account @lava.cafe.official, creato nel 2024, ha poche decine di post, nessun legame con pagine locali indipendenti e non fornisce indirizzo, numero di telefono o licenza. I video su Instagram mostrano solo interni, senza un singolo elemento urbanistico riconoscibile, mentre in un video su Facebook datato 11 maggio 2025, in cui si mostrerebbe la ristrutturazione del locale, si intravedono dei palazzi e delle tende nel luogo in cui sarebbe situato il locale, senza definire, però, il periodo esatto in cui sarebbero state realizzate le riprese. Le immagini non hanno geotag precisi e si limitano al toponimo generico «مفترق الإتصالات» («Incrocio delle Telecomunicazioni»). La presunta collocazione «di fronte alla Scuola Americana» è inverosimile: la American International School in Gaza è sempre stata a Beit Lahia, nel nord della Striscia, ed è stata bombardata nel 2009. Non esiste un’università americana a Gaza: l’AAUP ha sede in Cisgiordania.

La visibilità del profilo sembra alimentata da un circuito di rilanci provenienti in gran parte da account filoisraeliani o da utenti fuori dalla Striscia. Nessuna testimonianza locale, nessuna recensione su piattaforme di geolocalizzazione. Anche l’analisi delle immagini satellitari disponibili su Google Earth, concentrata sull’area di Sheikh Zayed, non consente di confermare attualmente l’esistenza del locale: i danni della guerra, la densità edilizia e l’assenza di etichette nei layer pubblici rendono impossibile l’identificazione visiva. Tutto questo colloca il Lava Café in un terreno scivoloso: non è detto che sia una messinscena, ma il modo in cui viene usato è funzionale a un’operazione di framing ben precisa. È persino probabile che i video e le immagini siano reali, ma precedenti ai bombardamenti e che siano stati condivisi successivamente spacciandoli per attuali, così come è possibile che possa costituire un baluardo di resistenza morale di chi prova a sopravvivere ancora oggi in mezze alle macerie. La propaganda, invece, rovescia, banalizza e decontestualizza, facendolo diventare una “prova” per negare la sofferenza. Il profilo del locale è rimbalzato, infatti, su X su account apertamente sionisti che si spacciano per agenzie di stampa, ma diffondono contenuti falsi, e da profili anonimi, come quello di @persianjewess, che cita casi simili, di locali come Shagaf Cafe a Khan Younis per sostenere che la narrazione della carestia sia un “inganno”, avvalorando l’ipotesi che il Lava Café possa essere un espediente simile per minimizzare la crisi umanitaria in corso. 

Il caso del Lava Café rappresenta il classico esempio di propaganda sporca: non si nega apertamente la tragedia, ma si propongono immagini di apparente normalità per insinuare che le testimonianze di sofferenza siano gonfiate o false. È una Gazawood invertita: la fabbricazione di una normalità sospetta per erodere la percezione della catastrofe. Che il locale esista o meno, è un elemento secondario. Nel conflitto mediatico, il Lava Café è diventato un costrutto narrativo, un dispositivo retorico per riscrivere i fatti e confezionare un universo parallelo in cui i palestinesi sorseggiano cappuccini come in un quartiere chic occidentale. Brandire le immagini di un locale per cancellare il genocidio in corso è un atto ideologico e disumano, che cancella la verità e legittima la violenza e i sanguinari piani di conquista e di distruzione di Israele.