mercoledì 30 Aprile 2025
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La Germania sospende il patto di Stabilità e accelera la corsa al riarmo

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La Germania ha chiesto alla Commissione Europea una sospensione del Patto di Stabilità per aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. La richiesta è stata inoltrata dall’attuale ministro dell’Economia, Jörg Kukies, ed è stata ricevuta ieri, lunedì 28 aprile. Se venisse accettata, la Germania otterrebbe un’esenzione dai limiti di indebitamento imposti dal Patto, diventando così il primo Paese ad accogliere la proposta della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Non è ancora chiaro a quanto ammontino i piani di spesa presentati da Berlino alla Commissione, ma nell’ambito del piano di riarmo la Commissione Europea ha proposto agli Stati membri di aumentare la spesa per la difesa dell’1,5% del prodotto interno lordo annuo per quattro anni. La richiesta arriva un mese dopo che il Parlamento tedesco ha approvato l’istituzione di un fondo di 500 miliardi di euro per i progetti strategici e cambiato la Costituzione per aumentare le spese militari.

L’annuncio della ricezione della richiesta tedesca di sospensione del Patto di Stabilità per aumentare le spese militari è stato dato dal portavoce della Commissione Europea, Balazs Ujvari. La Germania diventa così il primo Paese a presentare richiesta per aumentare la spesa pubblica per la difesa in deroga al Patto. Altri Paesi, tuttavia, tra cui Portogallo e Polonia, sembrerebbero interessati ad avanzare un’analoga proposta. Il termine ultimo per la presentazione delle domande, sottolinea Ujvari, resta il 30 aprile, ma se qualche richiesta dovesse arrivare in ritardo la Commissione sarebbe pronta a valutarla ugualmente: «Se richieste di sospensione dovessero arrivare due o tre giorni dopo non sarebbe certo la fine del mondo», ha detto il portavoce.

Non è ancora chiaro quale sia il piano di spesa che la Germania avrebbe intenzione di portare avanti, ma secondo molti Berlino vorrebbe utilizzare i fondi che verrebbero sbloccati per finanziare il pacchetto votato lo scorso marzo. Esso è stato approvato con un accordo tra quella che sarebbe stata la futura alleanza di governo, ossia dai parlamentari socialisti di SPD e dai conservatori dell’UCD di Merz, e tra le varie cose prevede l’istituzione di un fondo da 500 miliardi per gli investimenti infrastrutturali e industriali in vari settori, tra cui quelli energetico e della difesa. Nello stesso periodo, la Germania ha approvato una riforma costituzionale che permette al Paese di allentare la cosiddetta regola del freno al debito”, che limita l’indebitamento pubblico allo 0,35% del prodotto interno lordo, per aumentare le spese militari e nel settore infrastrutturale.

Le mosse della Germania sono pienamente in linea con le richieste dell’Unione Europea e con il piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen. Quest’ultimo avanza la possibilità per i Paesi dell’UE di incrementare in modo significativo la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli imposti dal Patto di Stabilità e Crescita, suggerendo a ciascun membro di spendere l’1,5% del proprio PIL ogni anno per quattro anni. Questo meccanismo consentirebbe di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Un’altra misura chiave prevista è l’istituzione di un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti nel settore della difesa. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, sfruttando strumenti come i programmi della politica di coesione e altre risorse finanziarie comunitarie.

Il Parlamento ungherese ha votato per uscire dalla CPI

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Il Parlamento ungherese ha approvato l’uscita del Paese dalla Corte Penale Internazionale. La notizia è stata data dal ministro degli Esteri Péter Szijjártó, che ha scritto che con questa decisione, l’Ungheria «rifiuta di essere parte di una istituzione politicizzata che ha perso la sua imparzialità e la sua credibilità». La decisione di uscire dalla CPI era stata annunciata lo scorso 3 aprile, durante una visita al Paese da parte del premier israeliano Netanyahu, sotto mandato di arresto dalla CPI. Netanyahu era stato invitato nel Paese dallo stesso Orbán, e le autorità si sono rifiutate di arrestarlo nonostante fossero ancora formalmente tenute a farlo.

Anche Meta ammette: i social sono pensati per intrattenere e consumare

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L’antitrust statunitense ha in corso una causa nei confronti di Meta, contesto che ha permesso alla Federal Trade Commission (FTC) di porre al CEO Mark Zuckerberg tutta una serie di domande le cui risposte hanno validità legale. Dopo più di dieci ore di testimonianze e a seguito della pubblicazione di molteplici email interne, emerge un’immagine delle piattaforme social che nulla ha a che vedere con il concetto di “piazza pubblica” che la stessa Big Tech ha cercato di imporre attraverso le sue propagande commerciali.

Secondo lo stesso Zuckerberg, l’azienda si è progressivamente allontanata dallo scopo sociale di tenere in contatto amici, parenti e comunità per slittare piuttosto verso “l’idea generale di intrattenimento e formazione sul mondo e per scoprire cosa sta succedendo”. Messi da parte i rapporti umani e le comunicazioni interpersonali, Meta ha deciso esplicitamente di privilegiare lo svago e la pubblicità. 

Secondo i documenti portati davanti all’FTC, l’imprenditore aveva notato già nell’aprile del 2022 i limiti del tradizionale modello di “amicizia” di Facebook, il quale, raggiunto il suo naturale plateau, non permetteva significative opportunità di crescita. In quell’occasione, il CEO ha ammesso di preferire i modelli à la Instagram e Twitter, quelli con soluzioni basate sul seguire influencer e personalità pubbliche. “Tutti i moderni social network sono basati sul follow piuttosto che sulla richiesta di amicizia”, aveva scritto Zuckerberg, formulando l’opinione per cui l’atto di aggiungere un’amicizia sui social fosse ormai troppo “pesante” per l’utente medio.

Dopo anni passati a cercare di convincere legislatori e opinione pubblica dell’alto ruolo sociale dei suoi portali, Meta rivede dunque la lettura del suo scopo, così da meglio difendersi dalle accuse mosse dall’antitrust americana. La FTC ritiene infatti che la decisione di Facebook di comprare tra il 2012 e il 2014 Instagram e Whatsapp costituisca una pratica anticompetitiva che ha danneggiato l’industria dei “servizi social network personali”. Approfittando del fatto che la definizione di “social network” sia fumosa, Meta si difende sostenendo che le sue piattaforme non siano più quelle di quindici anni fa, che siano ormai pensate per ogni forma di consumo digitale. Secondo questa premessa, l’esistenza stessa di TikTok e YouTube dimostrerebbe nei fatti l’esistenza di un panorama sano e propenso all’innovazione.

La battaglia dell’antitrust sembra tutta in salita e, soprattutto, si appoggia su fondamenta ormai antiche. L’indagine sull’acquisto da parte di Facebook della concorrenza è stata avviata ai tempi della prima Amministrazione Trump ed è improbabile che, a questo punto, un intervento possa riequilibrare gli scenari industriali o prevenire i problemi del prossimo futuro. Il confronto con l’FTC si dimostra piuttosto utile a raccogliere una visione concreta della direzione assunta dalla Big Tech, la quale sta agendo attivamente per non farsi carico degli oneri civili e penali riguardanti il suo sedicente ruolo all’interno della società.

Lontano dalle proprie campagne pubblicitarie, Meta sta compiendo enormi sforzi di lobby per non essere considerata responsabile della tutela dell’infanzia e della verifica anagrafica dei propri portali, mentre Mark Zuckerberg ha interrotto le donazioni alle scuole materne inclusive che aveva fondato insieme a sua moglie, la pediatra Priscilla Chan, verosimilmente per assecondare le politiche del Presidente Donald Trump.

Nigeria, camion esplode su mina: 26 vittime

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Almeno 26 persone sono rimaste uccise in Nigeria dopo che un camion è saltato in aria su una mina artigianale posta lungo una strada nello Stato di Borno, nel nord-est del Paese. Le autorità hanno riferito che «ventisei persone sono morte nell’esplosione, tra cui 16 uomini, 4 donne e 6 bambini». Lo Stato di Borno è la culla e la roccaforte dell’organizzazione terroristica Boko Haram, la cui insurrezione jihadista ha causato negli ultimi 15 anni più di 40mila morti e 2 milioni di sfollati in questa regione.

Torture nel carcere di Foggia: pm chiede rinvio a giudizio per 10 agenti

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Per il presunto pestaggio di due detenuti avvenuto nell’agosto 2023 nel carcere di Foggia, la pm Laura Simeone ha chiesto il rinvio a giudizio di dieci agenti penitenziari e quattro operatori sanitari. Le accuse sono a vario titolo di tortura, danneggiamento, concussione e tentata concussione, falsità ideologica, calunnia, soppressione atti, favoreggiamento e omissione di referto medico. La Procura ha contestato «violenze gravi e crudeltà» da parte dei poliziotti, nonché una pianificata operazione di insabbiamento dei fatti e depistaggio sulle conseguenze. Gli indagati, quasi tutti rimessi in servizio (sebbene in case circondariali diverse di Puglia e Calabria), respingono in parte o del tutto le accuse. L’udienza preliminare è fissata per il 15 settembre.

Nello specifico, la Procura di Foggia ha chiesto il rinvio a giudizio per i membri della polizia penitenziaria dopo aver appurato che l’11 agosto 2023 un detenuto originario di Bitonto, invalido al 100% e affetto da gravi disturbi psichiatrici (sfociati anche in atti autolesivi), sarebbe stato pestato con crudeltà e violenza tra le mura della sua cella poiché considerato «problematico». Due mesi prima dell’aggressione, questi aveva minacciato una ispettrice della polizia penitenziaria – anch’essa coinvolta nell’indagine – sollevando contro di lei uno sgabello e graffiandola sulla fronte con le unghie. «Hanno agito con violenze gravi e crudeltà, sottoponendo il detenuto a un trattamento inumano e degradante – ha messo nero su bianco la Procura motivando la richiesta di rinvio a giudizio –. E quando il compagno di cella provò a intervenire, ci furono botte anche per lui, con accanimento sul volto di una persona scalza e indifesa che cercava solamente di ripararsi dai colpi». Nell’ordinanza di custodia cautelare era stato scritto che gli indagati avrebbero agito «utilizzando il loro numero soverchiante per impedire qualsiasi possibile reazione difensiva», causando alla vittima lesioni in varie parti del corpo, importanti sofferenze fisiche e un trauma psichico.

Secondo i pubblici ministeri, inoltre, in seguito a tali condotte sarebbe stata azionata la macchina del depistaggio, con la predisposizione e la sottoscrizione di atti falsi con l’obiettivo di celare le violenze subite dai detenuti ed evitare che venissero emesse le diagnosi delle lesioni da loro riportate. La Procura afferma inoltre che sarebbero accertate vere e proprie minacce rivolte alle vittime mediante cui due degli indagati le avrebbero costrette a sottoscrivere farsi verbali in cui si riportava una versione diversa rispetto ai fatti realmente accaduti. Nella sua richiesta degli arresti, il pm aveva evidenziato un «diffusissimo clima di omertà, quando non di fattiva collaborazione nell’ostacolare le indagini», che avrebbe implicato la «capacità di ottenere la collaborazione di detenuti differenti dalle persone offese, al fine di depistare le indagini e di intimidire le stesse vittime delle violenze».

In Italia, da nord a sud, sono ormai numerosi i processi in cui la magistratura contesta il reato autonomo di tortura a componenti delle forze dell’ordine. Il primo, su cui recentemente ha messo il timbro la Corte d’Appello di Firenze, è sfociato dal brutale pestaggio da parte di 15 agenti penitenziari ai danni di un detenuto tunisino nel carcere di San Gimignano (Siena) nel 2018. Su tale fattispecie, però, si sono concentrate le critiche di un largo pezzo di maggioranza, che è passata presto alle vie di fatto. In particolare, FDI ha proposto l’abrogazione del reato di tortura attraverso l’eliminazione degli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che lo delineano, mantenendo soltanto una nuova aggravante comune. Nel dicembre del 2023, il Consiglio d’Europa è intervenuto per bacchettare l’esecutivo italianoinvitandolo «caldamente» a «garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della CEDU».

March to Gaza: a piedi fino in Palestina per la fine dell’assedio

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Dalla Francia al mondo intero: migliaia di cittadini stanno aderendo alla “March to Gaza”, una mobilitazione globale per chiedere la fine dell’assedio alla Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano. L’iniziativa, nata spontaneamente e organizzata tramite un gruppo Telegram, punta a raggiungere a piedi il valico di Rafah per forzare l’apertura della frontiera e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari. In una lettera aperta indirizzata alle ambasciate di Egitto e Israele, i promotori denunciano l’inazione dei governi e annunciano che, se necessario, proseguiranno la marcia fino alla Cisgiordania. L’appello, rilanciato sui social e inviato ai media internazionali, chiama all’azione cittadini di ogni provenienza, cultura e religione in supporto al popolo palestinese.

Questo il testo completo della lettera, firmata dai cittadini del collettivo “Marcia verso Gaza” e indirizzata alle ambasciate del Cairo e di Tel Aviv:

«Noi, cittadini francesi e cittadini del mondo, donne e uomini liberi, provenienti da molteplici paesi, religioni, lingue e culture, vi scriviamo per annunciarvi che il popolo si solleva. Di fronte all’inazione dei governi, di fronte alla sofferenza insostenibile del popolo palestinese, di fronte al blocco disumano imposto a Gaza, migliaia di persone, ovunque nel mondo, si organizzano per una marcia senza precedenti.

Una Marcia verso Gaza. Marciamo per la vita. Marciamo per la dignità. Marceremo fino al terminal di Rafah, con un solo obiettivo: aprire la frontiera, far entrare gli aiuti umanitari ed esigere la fine dell’assedio. Questo movimento, inizialmente simbolico, diventa concreto. Delegazioni cittadine sono in corso di organizzazione in diversi paesi. Interi gruppi si preparano a raggiungere la frontiera egiziana di Rafah nelle prossime settimane. Se non reagite, noi arriveremo. E se dovremo andare oltre, andremo fino in Cisgiordania, fino alle terre dove la colonizzazione illegale si estende ogni giorno. Non porteremo armi: porteremo le nostre voci. Ma siate certi che non ci fermeremo.

Non vogliamo la guerra. Vogliamo la pace. Ma poiché i nostri dirigenti non fanno il loro dovere, noi, il popolo, ci assumeremo le nostre responsabilità. Speriamo che questa mobilitazione susciti un sussulto di coscienza. Speriamo che ascoltiate questo appello e scegliate di non ostacolare la volontà dei popoli liberi. Questa lettera è indirizzata a voi, ma sarà anche diffusa sui social network, nella stampa, in tutte le lingue possibili. La Storia si scrive ora, e vogliamo stare dalla parte giusta. Aprite la frontiera. Liberate Gaza. La pace è ancora possibile».

Chi desidera seguire da vicino l’organizzazione italiana della marcia può unirsi al gruppo Telegram dedicato (qui il link) e restare aggiornato attraverso i profili social ufficiali: su Instagram l’iniziativa è consultabile sull’account @mtg_international_italia, mentre su TikTok l’indirizzo è @march.to.gaza_italia.

Toscana, pestaggi in caserma: condannati 22 carabinieri

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Ieri mattina, il tribunale di Massa, in Toscana, ha condannato 22 carabinieri e un’altra persona per le violenze commesse contro diverse persone nella caserma di Aulla, in provincia di Massa-Carrara. Gli imputati sono stati condannati per lesioni, violenza sessuale, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, porto abusivo d’armi e omissione di denuncia, e hanno ottenuto un totale di circa 70 anni di carcere. La pena più grave è stata inflitta al maresciallo Alessandro Fiorentino, condannato a 9 anni e 8 mesi. L’indagine sui fatti avvenuti nella caserma di Aulla risale al 2017: dopo la denuncia di un cittadino, erano emersi un centinaio di episodi di violenze, umiliazioni e abusi sessuali da parte degli agenti.

La Spagna ha vissuto il più grande blackout di sempre, ma le cause sono ancora sconosciute

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Ieri, lunedì 28 aprile, un vasto blackout ha interessato la penisola iberica. L’interruzione della rete elettrica ha coinvolto quasi tutta la Spagna, diverse località portoghesi e porzioni del sud della Francia e del Marocco. In Spagna, il Paese più colpito, sono stati interessati tutti i servizi, dal trasporto pubblico all’illuminazione stradale, fino alle telecomunicazioni; in alcune località la circolazione dei treni e delle metropolitane è stata interrotta durante il servizio, costringendo le autorità ad evacuare i passeggeri. Non è ancora chiaro quante persone siano state coinvolte né le ragioni del blackout. L’elettricità ha iniziato a tornare gradualmente: dopo sette ore dall’interruzione, il 20% della domanda energetica era stato ripristinato e stavano venendo reintegrati i servizi di interconnessione con la Francia meridionale. Alle 6 di oggi, la maggior parte della rete era tornata a funzionare.

Il blackout generale che ha interessato la Spagna è iniziato attorno alle 12:32 di ieri. A essere colpita è stata la maggior parte dei principali centri del Paese, tra cui Madrid, Barcellona, Bilbao, Pamplona, Santiago, Cordoba e Siviglia. Le autorità si sono mosse sin da subito per comprendere la causa del fenomeno e per ripristinare la corrente, dichiarando lo stato di emergenza nazionale. In seguito all’interruzione di corrente sono stati segnalati forti disagi in tutto il Paese. In diverse città, come Madrid, centinaia di auto sono rimaste imbottigliate nel traffico a causa dello stazionamento forzato dei mezzi pubblici. Metro e treni si sono bruscamente fermati in tutto il Paese, intrappolando migliaia di persone. Secondo quanto riporta il quotidiano spagnolo El País, i servizi di soccorso hanno ricevuto migliaia di chiamate da cittadini rimasti bloccati negli ascensori o nei vagoni: a Toro, 480 persone che viaggiavano su un treno sono state evacuate con tutti i loro bagagli dopo circa 5 ore in cui erano rimaste chiuse nei vagoni. Alcune stazioni ferroviarie, come quelle di León e Barcellona, hanno deciso di rimanere aperte per offrire un rifugio notturno ai passeggeri che si sono ritrovati improvvisamente senza un posto dove andare.

A causa della caduta della rete, diversi negozi hanno chiuso o limitato le attività, consentendo solo pagamenti in contanti. Il crollo è stato gestito in alcuni luoghi di lavoro e nei servizi essenziali, come gli ospedali, grazie all’attivazione di generatori di emergenza. Nonostante ciò, i servizi ospedalieri hanno subito un forte rallentamento. I giornali riportano anche lunghe code fuori dai negozi, a causa della chiusura dei supermercati, e gravi disagi alle telecomunicazioni. La rete telefonica è stata per ore altalenante, il servizio di messaggistica WhatsApp ha subito interruzioni e internet ha retto solo nelle prime ore. Tutti questi problemi hanno colpito anche alcune aree del Portogallo, tra cui i maggiori centri: Lisbona e Porto.

In alcune zone la corrente elettrica è stata ripristinata a partire dalle 13:30, grazie alle interconnessioni con la Francia e il Marocco. Poco prima delle 19, Red Eléctrica, il gestore nazionale, ha annunciato che il servizio era stato ripristinato in alcune parti dell’Andalusia, Catalogna, Aragona, Paesi Baschi, Galizia, Asturie, La Rioja, Navarra, Castiglia e León, Estremadura, Comunità Valenciana, Murcia, Castiglia-La Mancia e Madrid. Tuttavia, a quell’ora il fabbisogno nazionale di elettricità era ancora lontano dall’essere completamente soddisfatto, tanto che alle 23 il servizio era tornato solo al 51% della capacità. Alle 6 di stamattina, Red Eléctrica ha comunicato che la rete era stata ristabilita al 99,16%, ma ancora adesso, secondo testimonianze dei cittadini, alcuni servizi di trasporto restano chiusi.

La causa del blackout è ancora sconosciuta, ma il premier spagnolo Pedro Sánchez e Red Eléctrica hanno rilasciato alcuni dettagli su come si è verificato il disastro: alle ore 12:32, infatti, è stata rilevata nelle reti elettriche «una fortissima fluttuazione nei flussi di energia», dovuta a una perdita di generazione. In appena cinque secondi si è registrata la perdita di 15 gigawatt di capacità produttiva, che ha scatenato una reazione a catena, portando alla disconnessione dell’intero sistema elettrico spagnolo da quello europeo.

[Foto di copertina: Armando Negro]

Canada, i liberali vincono le elezioni

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Con il 96,09% delle sezioni scrutinate, è ormai certo: il premier canadese uscente Mark Carney e il suo Partito Liberale hanno vinto le elezioni in Canada. Ancora serrata la battaglia sui seggi parlamentari, che potrebbe restituire ai liberali una maggioranza relativa in Parlamento e, conseguentemente, costringerli a governare con un governo di minoranza. Attualmente, il partito controllerebbe 167 dei 343 seggi in aula, seguito dai 145 del Partito Conservatore. Il candidato dei conservatori Pierre Poilievre si è congratulato con Carney per la sua «vittoria di misura» e per il suo futuro «governo di minoranza».

In Italia è stata scoperta una nuova tecnologia per rimuovere i contaminanti dall’acqua

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È stata sviluppata una nuova tecnologia basata sull’ossido di grafene e sul polisulfone che promette di rivoluzionare in futuro il trattamento dell’acqua potabile, in quanto sarebbe in grado di rimuovere contaminanti emergenti come PFAS, antibiotici echinolonici e piombo. È quanto emerge dal lavoro condotto da un team di ricercatori italiani del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dettagliato in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Dopo anni di progettazione e collaborazione con una azienda italiana specializzata nella filtrazion...

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