domenica 15 Giugno 2025
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Lombardia, caccia sui valichi montani: Consiglio di Stato conferma il divieto

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Il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di sospensiva presentata dalla Regione Lombardia contro la sentenza del Tar che, lo scorso 2 maggio, ha vietato la caccia in 475 valichi montani (oltre 110 mila ettari). Il ricorso, sostenuto anche dalla lobby dei cacciatori, mirava a bloccare l’esecutività del divieto, già recepito – non senza tensioni – dal Consiglio regionale. Il divieto riguarda tutte le specie, inclusi i cinghiali. La decisione rinvia tutto al giudizio di merito, lasciando intatto, per ora, il divieto. L’opposizione esprime soddisfazione, mentre i cacciatori e la giunta Fontana si dicono contrariati per il verdetto.

Un’altra Europa

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Mi sentirò solo, pazienza. Griderò al vento, pazienza. Ma è l’ora di gettare in faccia a chi comanda in Europa le sue stesse parole sconsiderate.

Non dobbiamo tollerare, noi Europei, che si parli di guerra mondiale imminente con toni quasi provocatori, ignoranti della storia e della realtà, restando silenziosi e succubi dei mali reali del mondo e invece pronti a disegnare scenari apocalittici come inevitabili.

Non possiamo riconoscerci nelle analisi, nelle prospettive, nei modi fintamente oggettivi ma cinicamente arroganti, drammaticamente offensivi verso ogni politica, che vengono espressi da chi dirige l’Europa.

Io ripudio tutti coloro che danno il loro sì in assemblea a una visione scellerata che getterà nebbie oscure sul futuro dei nostri figli. Mi sento totalmente estraneo ai rappresentanti del mio Paese che si allineano a pensieri e progetti di guerra, a programmi apparentemente difensivi che in realtà risultano potenzialmente minacciosi.

Voglio tornare a sentirmi Europeo, figlio e nipote di quegli Europei che hanno rimosso le macerie, ricostruito e dato lavoro e speranza, che si sono sentiti uniti nel rigettare le dittature e nel pensare i confini sempre aperti, pronti ad ascoltare, a confrontarsi anche duramente.

Agli Europei che hanno unito le tradizioni ai cambiamenti, che hanno ripudiato le schiavitù. Voglio politici veri, non ciarlatani al servizio di interessi oscuri.

Io non mi sento concittadino d’Europa di chi getta sotto i piedi le nostre nobili tradizioni, la nostra visione umana e responsabile, la forza del dialogo che ci è stata insegnata dagli Antichi, il senso divino da riconoscere alla vita di ognuno, il senso invincibile di un dovere da compiere, di un servizio da rendere da parte di chi governa.

Si può essere credenti in diverso modo, si può essere scettici o critici, si può voler seguire l’esempio dei migliori o il programma di un Amore ultraterreno, di una pace dono di Dio, ma nessuno dovrà sentirsi cristiano né musulmano né ebreo né buddista, ma nemmeno ateo o agnostico, ecc. ecc., per convenienza.

Chi governa l’Europa ha un unico obbligo sacro, ineludibile, invalicabile, ultimativo: rispettare noi cittadini europei. Noi tutti che non vogliamo la pace come una rinuncia o come un dato di fatto, ma sappiamo che la pace costa quotidiana fatica e impegno.

Vogliamo uno sviluppo civile, la diffusione a tutti dei beni necessari, la protezione dei più deboli, la crescita con pari dignità di chi è meno favorito, lo sforzo epocale verso i popoli e le persone – a cominciare dalle bambine e dai bambini – che soffrono, ridotti al pianto non soltanto dal dolore ma dalla necessità.

Chi dirige l’Europa cambi rotta, senta il coraggio di chi ha in mano destini, si senta degno del proprio compito.

Io invece mi sento e mi dichiaro totalmente estraneo, mille miglia lontano da un’Europa che si dichiara minacciata, alla caccia di nemici come se si trattasse di un programma di marketing che deve crearsi i suoi clienti potenziali.

Giusto. Il marketing, gli affari: quale altro scenario sono in grado di immaginare e gestire questi governanti? Nessun altro.

A proposito di nemici, io continuo a sentirmi amico del Regno Unito come della Russia, dell’Irlanda come della Francia, della Romania come della Croazia, della Germania come della Grecia. Anche se amo la mia terra, il mio cielo e il mio mare italiani con l’affetto di un figlio.

Io vorrei un’Europa consapevole, aperta e generosa ma ferma e irremovibile sui doveri da chiedere a chi diventa nostro ospite e poi nostro cittadino.

Noi Europei dobbiamo poter esprimere tutto il nostro potenziale ideale, propositivo e anche rivoluzionario quando occorre. Dobbiamo lavorare per una nuova epoca storica, dando orizzonti alla nuova antropologia che si sta formando.

Noi Europei, insomma, se Europei dobbiamo e vogliamo rimanere, avremmo bisogno il prima possibile di un’altra classe dirigente.

Il Burkina Faso continua sulla strada delle nazionalizzazioni

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Il governo del Burkina Faso ha completato ufficialmente il trasferimento di cinque beni legati all’estrazione dell’oro alla società mineraria statale, consolidando così il processo di controllo nazionale sulle risorse naturali avviato nell’agosto scorso. Nell’ambito di questa riforma, il Paese ha rivisto il proprio codice minerario e istituito la Société de Participation Minière du Burkina (SOPAMIB), ente statale incaricato di detenere, gestire e sviluppare risorse minerarie strategiche. I cinque beni trasferiti comprendono due miniere d’oro operative e tre licenze di esplorazione, precedentemente in mano a sussidiarie della compagnia britannica Endeavour Mining e della società Lilium. «Questa acquisizione è in linea con la politica dello Stato di proprietà sovrana delle risorse minerarie per ottimizzarne lo sfruttamento a beneficio della popolazione», si legge nel testo del decreto emanato mercoledì.

Il Burkina Faso è il quarto produttore di oro dell’Africa, con una produzione di oltre 57 tonnellate di oro nel 2023: considerato che il metallo giallo è il principale prodotto di esportazione del Burkina Faso, nazionalizzare le miniere significa dirottare i profitti a beneficio dello sviluppo nazionale piuttosto che di aziende straniere. Specialmente in questo periodo, si prevede che le nazionalizzazioni porteranno introiti ancora maggiori alle casse statali, in quanto il prezzo dell’oro è aumentato del 27%. Nel Paese africano la produzione di oro ha registrato un incremento del 74% dal 2016 al 2021, benché la crescente insicurezza e le tensioni geopolitiche abbiano rallentato l’estrazione del minerale prezioso negli ultimi anni.

Secondo i dati governativi, la produzione di oro nei primi nove mesi del 2023 fino a settembre è diminuita del 4% rispetto all’anno precedente, attestandosi a 41,9 tonnellate. Questo dopo che la produzione di uno dei maggiori produttori africani era diminuita del 13%, attestandosi a 58,2 tonnellate nel 2022. Il che ha indotto il capo della giunta Burkinabé a sostituire il precedente ministro delle miniere e dell’energia, Simon-Pierre Boussim, con Yacouba Zabre Gouba. Lo stesso Boussim, però, prima di essere rimosso, aveva dichiarato che i ricavi dell’esportazione dell’oro erano stimati in aumento a 2099,1 miliardi di Cfa (3,5 miliardi di dollari) nel 2022, rappresentando il 73,86% dei ricavi delle esportazioni e consolidando la sua posizione di primo prodotto di esportazione del Paese dal 2009. La rivista Africa riporta che secondo i dati del ministero dell’energia e delle miniere, le entrate dirette al bilancio statale sono passate da 430,916 miliardi di franchi Cfa (718 milioni di dollari) nel 2021 a 540,984 miliardi di franchi Cfa (902 milioni di dollari) nel 2022, con un aumento di 110,068 miliardi di franchi Cfa (183 milioni di dollari) in termini assoluti. Si comprende, dunque, come la nazionalizzazione del settore possa incrementare lo sviluppo nazionale a scapito delle multinazionali straniere. Non a caso, le riforme hanno allarmato gli investitori occidentali, tra cui anche la canadese Iamgold, Nordgold e Australia’s West African Resources Ltd.

Il programma di nazionalizzazioni è uno dei pilastri della giunta militare del Paese africano guidato dal capitano Ibrahim Traorè, che ha preso il potere con il colpo di Stato del 30 settembre 2022 rovesciando il precedente governo filoccidentale. Traorè già nei mesi scorsi aveva esternato la volontà di prendere il controllo dell’economia nazionale sfruttando la conoscenza locale: «Sappiamo come estrarre il nostro oro e non capisco perché dovremmo permettere alle multinazionali di venire a estrarlo» aveva detto. In occasione dell’inaugurazione della prima raffineria d’oro nazionale del Paese, alla fine del 2023, il capo della giunta aveva spiegato che «È una questione di sovranità, prima di tutto. Siamo un Paese produttore di oro, ma non abbiamo alcun controllo sull’oro che produciamo. Non porteremo più il nostro oro all’estero per la raffinazione». In tale contesto, nel 2024 il codice minerario del Burkina Faso è stato modificato per garantire che lo Stato abbia una quota maggiore nei progetti minerari, raggiungendo il 15% dell’azionariato.

Le nazionalizzazioni delle miniere si inseriscono in un più ampio contesto di decolonizzazione che sta interessando molti Paesi dell’Africa Subsahariana e di cui Traorè è uno degli esponenti politici più importanti. Con l’intenzione di riacquisire la sovranità politica, economica e militare contro gli interessi degli ex Paesi colonizzatori occidentali, dal 2020 in avanti si sono susseguiti diversi colpi di Stato in molte nazioni del Sahel, tra cui Burkina Faso, Mali e Niger. In ciascuno di questi Stati, i governi filoccidentali sono stati sostituiti da giunte militari ostili alle ingerenze politiche europee – e in particolare francesi – e americane nell’area, e nel febbraio del 2023, la giunta burkinabè ha espulso dal suo territorio le truppe francesi. Con la nazionalizzazione delle miniere, oltre alla sovranità politica e militare, il Burkina Faso sta riconquistando anche la sua sovranità economica, a lungo annientata dalle politiche liberiste del Fondo monetario internazionale (FMI) e dai poteri finanziari occidentali, contro i quali aveva lottato coraggiosamente l’eroe africano Thomas Sankara, simbolo dell’antimperialismo.

Lettonia, vietato a parlamentari e funzionari di andare in Russia e Bielorussia

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Il parlamento della Lettonia ha approvato una legge che vieta a deputati e funzionari pubblici di recarsi in Russia e Bielorussia, Paesi confinanti, per motivi di sicurezza. Il divieto coinvolge anche diplomatici, giudici e chi ha accesso a segreti di Stato o infrastrutture critiche. Sono previste eccezioni per compiti ufficiali o circostanze particolari, come funerali. Per chi viola la norma è previsto il licenziamento. Come riferito dal presidente della Commissione per la sicurezza nazionale, Ainars Latkovskis, la misura nasce dall’aumento, negli ultimi due anni, dei tentativi di reclutamento da parte dei servizi segreti russi e bielorussi.

Global March to Gaza: migliaia di attivisti al Cairo stanno sfidando la repressione egiziana

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Il Cairo, Egitto – Militari che fermano stranieri per strada, poliziotti che entrano negli alberghi e schedano i possibili attivisti filopalestinesi; agenti in borghese che li seguono, posti di blocco e fermi nei confronti di chi ha tentato di spostarsi dal Cairo verso il Sinai. Ora sembra essere in corso la deportazione di alcuni cittadini irlandesi fermati a Ismailia, la città dove oggi alcune delegazioni della Global March si erano date appuntamento per cercare di proseguire la marcia, nonostante sia evidente la volontà delle autorità del Cairo di impedirlo.

La repressione contro la Global March to Gaza e la carovana Sumud prosegue. Da due giorni le autorità egiziane si sono mobilitate per impedire l’ingresso nel Paese a centinaia di attivisti, espellendo decine di persone. Oggi, però, la repressione si manifesta apertamente per le strade della città. In numerosi alberghi che ospitano delegazioni solidali giunte da tutto il mondo per unirsi alla marcia, che avrebbe dovuto partire oggi per Al-Arish e proseguire a piedi fino al valico di Rafah, la polizia egiziana ha bussato alle porte chiedendo i documenti. Chi si è dichiarato membro della Global March to Gaza è stato portato via. Anche per strada, gruppi di militari fermavano e identificavano stranieri che potevano sembrare appartenenti al movimento globale, impegnato a raggiungere Rafah per chiederne la riapertura.

Per questo molte delegazioni hanno deciso di darsi appuntamento a Ismailia, a un’ora e mezza dal Cairo, per tentare da lì di fare pressione e ottenere il via libera per proseguire il cammino verso Al-Arish e il valico di Rafah. Ma le cose sono andate diversamente.
I militari hanno istituito tre posti di blocco e hanno fermato centinaia di attivisti lungo la strada; i loro passaporti sono stati sequestrati e, al momento, molti dei partecipanti stanno aspettando la restituzione dei documenti e il permesso di proseguire il viaggio. Al primo check-point, a un’ora dal Cairo, è presente anche il nipote di Nelson Mandela, che, tra i cori delle decine di persone che lo circondano, descrive la situazione di stallo.

Alcune persone — tra le quali secondo voci non verificabili ci sarebbe anche un parlamentare irlandese — sono state detenute mentre si trovavano a Ismailia e fatte salire su un autobus, probabilmente diretto all’aeroporto. Sono stati loro sequestrati i passaporti e quasi tutti i telefoni cellulari, ma sono comunque riusciti a diffondere un video in cui raccontano quanto sta accadendo, ribadendo con il pugno alzato: «Free Palestine».

Nel frattempo, al Cairo sono rimaste numerose delegazioni internazionali. Molte centinaia di persone hanno scelto di restare nella capitale per cercare di comprendere meglio la situazione, continuando a sperare in un via libera da parte del governo egiziano, che con ogni probabilità non arriverà mai.

Come decideranno di muoversi lo si comprenderà nei prossimi giorni. Forse facendo pressione per le strade del Cairo, sotto le sedi delle istituzioni internazionali e delle ambasciate. Forse anche loro tenteranno di avvicinarsi al Sinai e alla frontiera con Gaza, nel tentativo che migliaia di persone possano ottenere quel lasciapassare che da mesi chiedono alle autorità egiziane.

L’Egitto, da parte sua, sembra proseguire nella sua politica ambigua, cercando di tenere un piede in due scarpe. Da un lato condanna Israele per le sue azioni, come ha fatto oggi in risposta all’attacco di Tel Aviv contro l’Iran. Dall’altro, di fatto, si comporta come un alleato di Israele, con cui non intende entrare in conflitto. Bloccare la marcia e il convoglio proveniente dal Nord Africa serve gli interessi di Israele, non quelli dell’Egitto. E questo è evidente a chiunque.

In questo anno e mezzo di massacri a Gaza, Al Sisi ha cercato di accontentare tutti: Israele, gli Stati Uniti, ma anche i suoi concittadini, apertamente favorevoli alla causa palestinese e contrari a essere complici di una nuova Nakba, l’esilio forzato dei palestinesi dalla propria terra, come auspicato da Netanyahu e Trump. Una Nakba che l’Egitto avrebbe dovuto accogliere e, quindi, legittimare. Il regime, indebolito da una profonda crisi economica e finanziaria, da anni ricorre a una violenta repressione per silenziare oppositori politici e movimenti sociali che chiedono maggiore libertà e diritti. La repressione contro la marcia per Gaza è solo l’ennesima conferma della complicità di Al Sisi con ciò che sta accadendo nella Striscia.

Il convoglio Sumud, composto da oltre mille persone partite dalla Tunisia e dall’Algeria, è stato bloccato nei pressi della città libica di Sirte. Le autorità non hanno concesso il permesso al passaggio, forse per evitare tensioni con i vicini egiziani, che certamente non desiderano un’altra marcia verso Rafah. Per ora le persone sono accampate lungo la strada, in attesa che la situazione si sblocchi. Così come restiamo in attesa al Cairo.

USA: la polizia sorveglia le proteste con droni da guerra

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La polizia di confine statunitense (CBP) ha ammesso di aver dispiegato dei droni da guerra, i MQ-9 Predator, sopra Los Angeles, al fine di spalleggiare gli agenti federali durante le manifestazioni che hanno preso forma per contrastare le retate dell’anti-immigrazione. Secondo le dichiarazioni ufficiali del CBP, i velivoli non vengono adoperati per «sorvegliare le attività protette dal primo emendamento», ma solo per aiutare gli ufficiali che chiedono assistenza.

Benigni da Bruno Vespa: l’inno all’Unione Europea falsificando la realtà

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Lunedì sera, in prima serata su Rai 1, Roberto Benigni è tornato in scena, officiando una liturgia laica in nome dell’Unione Europea e della crociata sedicente progressista contro l’Europa degli Stati. A Cinque Minuti, ospite di Bruno Vespa, l’attore e regista toscano ha indossato i panni del cantore ufficiale della divinità-UE, sventolando le meraviglie della Bibbia del culto: il Manifesto di Ventotene. Da vero giullare dell’oligarchia, che si presenta come un “europeista estremista”, ha promosso il suo libro Il sogno (Einaudi) e lo spettacolo omonimo incentrato sul dogma, trasformando il salotto televisivo in un pulpito da cui declamare il suo verbo di Bruxelles, tra iperboli, omissioni, fake news e slogan degni di un manifesto elettorale. Non si è trattato di un’intervista, ma di un monologo propagandistico confezionato da un servizio pubblico che dovrebbe, almeno in teoria, garantire pluralismo e informazione, non veicolare un pensiero unico patinato, che trasuda menzogne e falsifica la realtà.

L’artista toscano ha parlato dell’Unione Europea come di un’utopia realizzata. L’ha definita «la più grande costruzione democratica degli ultimi 2000 anni». Un’affermazione che sarebbe comica, se non fosse tragicamente fuorviante. Nessun accenno alle crepe profonde che attraversano questo progetto: il deficit democratico, le menzogne sull’euro (citofonare Prodi: «Con l’euro lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo come se lavorassimo un giorno in più»), le politiche di austerità che hanno devastato Paesi come la Grecia, la gestione fallimentare di crisi migratorie e sanitarie (dalla pandemia al caso Pfizergate), la gestione opaca di dossier strategici, la Brexit come clamoroso atto d’accusa da parte di uno Stato membro, la censura e la criminalizzazione delle voci divergenti. E, ancora, la folle corsa dei “volenterosi” verso il riarmo, lungo il crinale di un conflitto globale e, infine, l’annullamento del voto democratico in Romania.

Invece di raccontare l’Europa reale, Benigni preferisce esaltare l’Europa ideale, improvvisandosi persino statista quando propone di «Togliere il veto e l’unanimità dal Consiglio europeo». Abbracciando così una narrazione poetica, teatrale, che maschera la propaganda sotto il velo della retorica emozionale e del registro manicheo. Come un moderno giullare di corte, incanta il pubblico con versi e aforismi, con il consueto istrionismo che lo contraddistingue, ma senza fornire una lettura critica, pluralista, complessa. Semmai, fa il contrario: banalizza, livella, uniforma, scardina la realtà per sostituirla con una favola. Il risultato è una messinscena: l’UE come baluardo di pace, simbolo di progresso, ultimo rifugio della civiltà. Peccato che questa Europa sia anche quella che ha sostenuto la guerra per procura in Ucraina, che è rimasta impotente di fronte ai massacri nella ex Jugoslavia, che nel 1999 ha bombardato Belgrado, che si mostra subalterna a strategie geopolitiche atlantiche, che rifiuta di definire genocidio quello in atto a Gaza, che sabota i negoziati e ricerca il conflitto con la Russia.

Bruno Vespa, come spesso accade, più che intervistatore ha fatto da spalla, ponendosi come megafono dell’establishment. Nessuna domanda degna di un giornalista, nessuna obiezione alle semplificazioni e alle menzogne propinate da Benigni. Nulla sull’austerità, nulla sulla centralizzazione tecnocratica del potere in Commissione UE, nulla sul dissenso crescente tra i popoli europei, nulla sull’euroscetticismo che cresce anche dentro i palazzi, nulla sull’estasi guerrafondaia che spinge al riarmo e che agita lo spauracchio della minaccia russa per smantellare lo Stato sociale in favore del riarmo. Una passerella ben curata, fatta per veicolare un messaggio: l’Europa è buona, bella, giusta; chi la critica, è un pericolo. E il pericolo per eccellenza è il “sovranismo”. Secondo Benigni, infatti, «il nazionalismo ha provocato milioni di morti, è il carburante di tutte le guerre». Frase a effetto, certo. Ma anche storicamente scorretta. Le guerre coloniali, quelle ideologiche del XX secolo, la guerra fredda, gli scontri economici globali, le guerre “preventive” per esportare la democrazia: davvero tutto si riduce al nazionalismo?

Benigni celebra poi il Manifesto di Ventotene come se fosse la Bibbia laica dell’integrazione europea. Ne esalta gli autori come «eroi», ma dimentica passaggi equivoci e ignora che le idee socialiste e federaliste contenute in quel documento sono state tradite da un’UE che ha imboccato una strada tecnocratica, neoliberista, antidemocratica, liberticida e neofeudale. Non c’è traccia nel suo discorso della frattura tra il sogno e la realtà, tra il progetto originario e la deriva attuale. Anzi: Benigni sposa con entusiasmo le proposte più controverse, come l’abolizione del diritto di veto degli Stati membri, in perfetta sintonia con le spinte federaliste più autoritarie.

Che un artista faccia propaganda, è una sua scelta. Ma che il servizio pubblico nazionale offra un palcoscenico a un comico che si improvvisa ideologo, per trasmettere messaggi confezionati su misura per Bruxelles, è un abuso del mezzo pubblico. Roberto Benigni è il testimonial della nuova ortodossia europeista e si è trasformato in quello che Pier Paolo Pasolini avrebbe definito un «intellettuale organico al potere». E quando la satira si mette al servizio dell’ideologia dominante, non è più satira. È semplicemente propaganda.

Il business fuori controllo dei farmaci dimagranti

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Si chiama Ozempic il farmaco sviluppato dall’azienda farmaceutica danese Novo Nordisk che da qualche tempo è finito alla ribalta come medicinale “miracoloso” per perdere i chili di troppo. A cercarlo non sono solo i soggetti obesi, cioè le persone con indice di massa corporea superiore a 30.0 kg/m2 (che quindi sarebbero idonei per cure farmaceutiche), ma anche moltissime persone che desiderano perdere qualche chilo di troppo in poco tempo e senza sforzo – una scorciatoia comoda rispetto ad adattare uno stile di vita più sano. Un mercato spinto attraverso campagne di comunicazione aziendale, ch...

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UE: ok a ulteriore prestito da 1 miliardo all’Ucraina

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La Commissione europea ha erogato la quinta tranche del prestito eccezionale di assistenza macrofinanziaria (AMF) rivolto all’Ucraina, dal valore di 1 miliardo di euro. Complessivamente, l’AMF ammonta a 18,1 miliardi e si inserisce nella più ampia strategia di sostegno a Kiev dall’inizio dell’invasione russa. L’Unione europea si conferma infatti il principale donatore dell’Ucraina, con un sostegno complessivo di circa 150 miliardi di euro. Tali prestiti, spiega Bruxelles, saranno rimborsati utilizzando i proventi derivanti dai beni statali russi congelati detenuti nel territorio comunitario.

Il Club Bilderberg torna a riunirsi a porte chiuse a Stoccolma

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Transenne, camionette della polizia, barricate metalliche e agenti armati a presidiare ogni accesso. Attorno al Grand Hotel di Stoccolma, nel cuore della capitale svedese, si percepisce un clima di tensione. L’apparato di sicurezza è da zona rossa: la città si è blindata per accogliere la settantunesima edizione della Conferenza del Club Bilderberg, il summit più discusso (e taciuto) dell’élite globalista occidentale. Qui, lontano da occhi indiscreti e soprattutto da microfoni scomodi, si sono dati appuntamento i vertici della NATO, i commissari dell’Unione Europea, ministri e banchieri, capi dell’intelligence, insieme agli amministratori delegati delle più potenti multinazionali del pianeta.

Le riunioni del Gruppo rimangono un evento di quattro giorni estremamente riservato, frequentato dal gotha della politica e della tecnocrazia mondialista. Un incontro che dovrebbe catalizzare l’attenzione dei media globali. E invece? Il nulla. Nessuna troupe, nessun inviato, nessuna domanda, giusto qualche curioso, e qualche giornalista indipendente. Scorrendo la rassegna stampa internazionale, troviamo soltanto un breve articolo di Reuters, che prova a rassicurare i lettori descrivendo l’evento come una semplice piattaforma di dialogo euro-atlantica, e a spiegare che, secondo gli organizzatori, «la segretezza serve a permettere ai partecipanti di parlare liberamente in un clima di fiducia».

Una lettura minimalista che mal si concilia con l’ingente dispiegamento militare, il contenuto delle discussioni mantenuto rigorosamente secretato e l’impossibilità per la stampa indipendente di assistere ai lavori o quantomeno di averne resoconti accurati.

Fondato nel 1954, il Gruppo è una sorta di “NATO economica”: lo si può considerare come il consiglio d’amministrazione delle oligarchie mondialiste, che incarna lo spirito più estremo del neoliberismo e della globalizzazione. The Times, nel 1977, lo descrisse come «una congrega dei più ricchi, dei più economicamente e politicamente potenti e influenti uomini nel mondo occidentale, che si incontrano segretamente per pianificare eventi che poi sembrano accadere per caso».

Quello a cui somiglia il Bildenberg, secondo molti detrattori, è un consesso dove si applica una logica neofeudale del potere: creare un potere economico mondiale, superiore a quello politico dei singoli governi nazionali, che ha il malcelato obiettivo di dettare l’Agenda globale.

Quello che è stato divulgato è che tra i temi all’ordine del giorno di quest’anno figurano: la guerra in Ucraina, la sicurezza nazionale, l’intelligenza artificiale, l’economia statunitense, l’industria della difesa, i minerali strategici. Facile ipotizzare che vi sarà spazio anche per parlare delle tensioni in Medio Oriente, acuite dall’attacco israeliano all’Iran. Questioni che influenzano direttamente la vita di miliardi di persone e che, in una democrazia degna di questo nome, dovrebbero essere affrontate nei Parlamenti o sui tavoli istituzionali – non nei saloni ovattati di un hotel extralusso, lontano da ogni controllo democratico.

A confermare la portata dell’evento, basta scorrere la lista dei partecipanti. Tra i nomi più rilevanti figura Mark Rutte, segretario generale della NATO e ospite d’onore del summit, fresco di missione in Italia – dove ha incontrato la premier Meloni e il vicepremier Tajani – per chiedere nuovi fondi militari. Ricordiamo che lo scorso dicembre l’ex capo della NATO, Jens Stoltenberg, è stato nominato nuovo co-presidente del Gruppo Bilderberg: la sua investitura consolida il ruolo del Gruppo nel cuore della strategia transatlantica. Il Bilderberg ha sempre avuto stretti legami con le forze armate: i suoi fondatori includevano alti membri dell’intelligence britannica e americana, e un precedente leader della NATO, Lord Carrington, ha presieduto il gruppo dal 1990 al 1998.

Tra i delegati nell’elenco di quest’anno figurano anche Satya Nadella, CEO di Microsoft, e Christopher Donahue, comandante dell’esercito statunitense per l’Europa e l’Africa. Presenti anche otto esponenti di spicco dell’Unione Europea: Luis Maria Albuquerque (servizi finanziari), Magnus Brunner (affari interni), Wopke Hoekstra (clima), Michael McGrath (democrazia), Maros Sefcovic (commercio), Nadia Calvino (BEI), Paschal Donohoe (Eurogruppo) e Sophie Wilmes (vicepresidente del Parlamento europeo).

Non manca la delegazione italiana. Spicca il ritorno di Mario Monti e di Enrico Letta, nomi noti nel firmamento europeista e già habitué del Bilderberg. Confermata anche la presenza del giornalista Stefano Feltri. La vera novità, però, è la partecipazione ufficiale di un membro del governo Meloni: Valentino Valentini, viceministro alle Imprese e al Made in Italy.

Il problema non è tanto che le élite si incontrino – lo fanno da sempre – quanto che lo facciano al riparo da ogni forma di controllo democratico, nell’assenza totale di trasparenza, tra complici silenzi e connivenze giornalistiche. Non è certo una teoria del complotto sottolineare che il Club Bilderberg rappresenti l’incarnazione del potere opaco: un consesso in cui le decisioni che cambieranno il mondo vengono prese rigorosamente a porte chiuse. Ed è proprio questo il punto: il problema non è  tanto che il Bilderberg esista, ma che nessuno ne parli – nemmeno quei giornalisti che vengono invitati a partecipare alle riunioni del Gruppo e che dovrebbero, in base alla deontologia professionale, riferire cosa accade dietro le quinte del potere anziché presenziarci solo per banchettare.