domenica 15 Giugno 2025
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Freedom Flotilla: Israele rimpatria 10 membri dell’equipaggio, due rimangono in carcere

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A 72 ore dall’agguato e la cattura in acque internazionali da parte delle Forze di Difesa israeliane della nave Madleen facente parte della Freedom Flotilla, la quale trasportava aiuti umanitari a Gaza, è stato annunciato il rimpatrio di altri sei membri dell’equipaggio che Israele ha sequestrato in acque internazionali (dove non ha giusrisdizione) e portato in maniera coatta dentro i propri confini. Sono ancora due i membri dell’equipaggio che si trovano in stato di detenzione nel carcere israeliano di Ramla: Pascal Maurieras e Yanis Mhmadi. Secondo la legge israeliana, chi viene costretto ad un ordine di rimpatrio è obbligato a rimanere in uno stato di detenzione per un minimo di 72 ore prima di essere espulso dal Paese. Al momento si ignorano le condizioni nelle quali versano le otto persone detenute; alcuni attivisti denunciano condizioni insalubri e infestazioni, mentre l’attivista brasiliano Thiago Avila ha iniziato uno sciopero della fame ed è stato per questo trasferito in un primo momento in una cella d’isolamento. Stessa sorte era toccata all’europarlamentare Rima Hassan, che aveva scritto sulla porta di una cella «Free Palestine». 

Un primo gruppo di quattro attivisti (Greta Thumberg, Sergio Toribio, Baptiste Andre e il giornalista francese Omar Faiad) sono stati rimandati nei propri Paesi il 10 giugno dopo aver firmato volontariamente il modulo di rimpatrio. Gli altri otto (Suayb Ordu; Mark van Rennes; Pascal Maurieras, Reva Viard, Rima Hassan, Thiago Avila e Yasemin Acar) si erano invece rifiutati di firmare, motivo per il quale erano stati trasferiti nel tribunale di Ramla, che ha approvato la detenzione proposta dal ministero degli Interni israeliano. Secondo quanto spiegato dal comitato legale che segue l’equipaggio, sei attivisti sarebbero ora pronti ad essere rimpatriati, mentre due (Pascal Maurieras e Yanis Mhmadi) restano ancora in stato di detenzione.

È bene sottolineare che, come affermato dai legali degli attivisti, il decreto di rimpatrio di Israele ai danni dell’equipaggio della Freedom Flotilla non potrebbe essere applicato. Infatti, la nave è stata attaccata e sequestrata dalle forze militari israeliane a 102 miglia nautiche dalle coste di Gaza, in acque internazionali. Inoltre, l’equipaggio è stato portato contro la propria volontà in territorio israeliano, nonostante gli attivisti non avessero mai dimostrato l’intenzione di raggiungere illegalmente le coste israeliane: l’attuazione dello stato di Israele violerebbe, quindi, il diritto internazionale.  «La loro detenzione è illegale, motivata politicamente e costituisce una diretta violazione del diritto internazionale» viene affermato nell’ultimo comunicato presentato dalla Freedom Flotilla Foundation. «La persecuzione dell’azione umanitaria e il silenzio della resistenza non avranno successo».

Come avvenne dopo l’attacco subito dall’equipaggio al largo delle coste maltesi lo scorso 2 maggio, anche in questo caso le istituzioni europee hanno scelto di mantenere un rigoroso silenzio sull’accaduto. A rendere però la questione ulteriormente paradossale, è l’arresto dell’eurodeputata franco-palestinese Rima Hassan, appartenente al gruppo The Left e facente parte dell’equipaggio della Freedom Flotilla. 

Secondo l’ufficio del portavoce della presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, l’istituzione europea starebbe seguendo con attenzione gli sviluppi della vicenda, mantenendosi in stretto contatto con le autorità israeliane, senza però fare pressioni per un rilascio immediato e smarcandosi da eventuali accuse nei confronti del governo di Israele. Secondo quanto avrebbe dichiarato una fonte interna all’Europarlamento a il Manifesto, a motivare il semplice monitoraggio da parte delle istituzioni europee del caso, sarebbe lo status «democratico» di Israele. Spiega, infatti, che se si fosse trattato di un paese non considerato democratico dall’Unione Europea, «la richiesta di rilascio sarebbe arrivata subito». Inoltre, anche gli accordi stipulati tra l’Unione e il governo di Netanyahu limiterebbero l’incisività delle richieste europee. Mentre le istituzioni politiche tergiversano, una parte della società civile ha rapidamente scelto di esprimere il proprio dissenso e mostrare solidarietà verso l’equipaggio detenuto.

Migliaia di manifestanti in Inghilterra, Spagna e Francia sono scesi in piazza per protestare contro l’ennesimo abuso nei confronti del diritto internazionale da parte di Israele. Intanto le azioni genocide che le forze militari israeliane stanno protraendo a Gaza non vedono segnali di cedimento. Almeno 74 vittime sono state registrate nella Striscia nelle ultime ore a seguito di nuovi attacchi israeliani e 54 di queste sono state uccise dalle forze di Difesa israeliane durante le consegne di viveri nei centri di distribuzione riaperti dalla israelo-statunitense Gaza Humanitarian Foundation. A questi si aggiungono otto civili uccisi da un attacco ad un edificio della ONG spagnola Medicos del Mundo. Mentre si attendono sviluppi riguardanti la liberazione degli otto attivisti della Freedom Flotilla detenuti nel carcere di Ramla, gli occhi restano puntati sullo svolgimento della March To Gaza, prevista per il 13 giugno, dove migliaia di attivisti proveranno a raggiungere Rafah e rompere il blocco della frontiera. Ormai abituati alle nefandezze delle forze militari israeliane, resta da vedere per quanto ancora l’Unione Europea sceglierà di rimanere complice dell’impunità di Israele.

Palermo: riaperte dopo 36 anni le indagini sull’omicidio di Michele Reina, ex segretario della DC

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La Procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio di Michele Reina, l’ex segretario provinciale della Democrazia Cristiana ucciso a Palermo il 9 marzo 1979. A 46 anni da quel delitto eccellente, considerato uno dei primi nella lunga stagione degli omicidi “politico-mafiosi” in Sicilia, la DDA Palermitana ha infatti disposto una nuova attività istruttoria, delegando alla Direzione Investigativa Antimafia l’acquisizione di video e fotografie del luogo dell’agguato. La riapertura dell’inchiesta, a 36 anni dall’ultima chiusura, avviene in parallelo a quella sull’omicidio di Piersanti Mattarella, le cui indagini hanno ripreso impulso dallo scorso gennaio, mirando a verificare – attraverso tecnologie più avanzate – l’ipotesi di un “filo unico” che collegherebbe i delitti Reina, Mattarella e La Torre.

La sera del 9 marzo 1979 Michele Reina, 47 anni, saliva sulla sua Alfetta 2000 insieme alla moglie Marina e a una coppia di amici quando, in via Principe di Paternò, fu raggiunto da un commando a bordo di una Fiat Ritmo rubata. Dopo essere scesi dall’auto, due giovani killer a volto scoperto gli spararono tre colpi di calibro 38. Il politico morì sul colpo, i membri del commando riuscirono a scappare. Il delitto venne rivendicato quella stessa notte con due telefonate anonime: la prima al Giornale di Sicilia da parte di un sedicente militante di “Prima Linea”, la seconda al quotidiano L’Ora da chi diceva di agire in nome delle Brigate Rosse. Entrambe le rivendicazioni furono però successivamente smentite dagli stessi gruppi chiamati in causa. La svolta nelle indagini arrivò nel 1984, quando il superpentito Tommaso Buscetta indicò nel capo di Cosa Nostra Totò Riina il mandante dell’omicidio Reina. Nel 1999 la Cassazione confermò le condanne all’ergastolo per i componenti della Commissione di Cosa Nostra: Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci. Gli esecutori materiali, però, non sono mai stati identificati.

Il magistrato Giovanni Falcone, che morirà nella strage di Capaci il 23 maggio 1992, già tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta aveva dichiarato dinanzi alla Commissione Antimafia di credere all’esistenza di un filo unico che avrebbe collegato gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre (politico e sindacalista italiano, dirigente del Partito Comunista, ucciso il 30 aprile 1982 a Palermo), inserendo i tre delitti in una trama comune in cui convergevano interessi mafiosi ed eversione nera. Un progetto che avrebbe avuto la primaria finalità di bloccare il rinnovamento politico in Sicilia. Esattamente come Piersanti Mattarella, l’ex segretario della DC Reina era stato tra i principali sostenitori dell’apertura del partito democristiano alla sinistra, in nome di quel “compromesso storico” cui, negli anni precedenti, avevano lavorato il presidente della DC Aldo Moro e il segretario del PCI Enrico Berlinguer. Negli anni successivi all’omicidio, la vedova di Michele Reina, Marina Pipitone, affermò di avere rilevato una «fortissima somiglianza» tra il killer del marito nel terrorista nero Valerio Fioravanti. Lo stesso fece Irma Chiazzese, vedova di Piersanti Mattarella, che disse di aver riconosciuto in Fioravanti l’uomo «dagli occhi di ghiaccio» che aveva freddato il marito. Nonostante ciò, la magistratura non è mai riuscita a confermare tale coinvolgimento, archiviando questa pista.

A gennaio, la Procura di Palermo ha riaperto le indagini sull’omicidio Mattarella, a quanto pare svincolandosi dalla linea tracciata da Falcone. Per il delitto, infatti, risultano ora indagati come possibili autori materiali due sicari di Cosa Nostra, Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese. L’inchiesta è però nel suo pieno svolgimento: nei giorni scorsi sono stati notificati gli avvisi per un accertamento tecnico irripetibile nell’ambito della nuova inchiesta. Proprio oggi sarà conferito l’incarico ai periti per una comparazione biologica su una vecchia impronta rinvenuta sull’auto utilizzata dai killer per la fuga dopo l’omicidio, da cui si vuole estrarre il dna grazie alle nuove tecnologie disponibili. Anche con la riapertura dell’inchiesta su Reina, la Procura mira a riesaminare prove e testimonianze alla luce delle nuove tecnologie e delle nuove conoscenze investigative. Come per il caso Mattarella, si procederà con accertamenti tecnici avanzati, tra cui l’analisi di reperti d’epoca alla ricerca di eventuali profili genetici utili.

L’Egitto espelle centinaia di attivisti della Marcia per Gaza, tra loro diversi italiani

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EGITTO – Il ritrovo era oggi al Cairo per i partecipanti alla Global March to Gaza, il movimento dal basso che ha radunato cittadini di oltre 54 Paesi per rompere l’assedio israeliano a Gaza e pretendere l’ingresso degli aiuti umanitari bloccati ormai da mesi fuori il valico di Rafah. L’Egitto, che solo ieri ha parzialmente risposto alle richieste di permesso delle delegazioni internazionali, ripetendo che i partecipanti necessitano autorizzazioni, si è schierato: tra ieri e oggi, almeno 170 attivisti sbarcati al Cairo (tra i quali anche numerosi italiani) sono stati fermati in aeroporto, interrogati, e molti di loro rimpatriati.

«E’ stata una notte difficile» ha dichiarato la portavoce italiana Antonietta Chiodo, parlando dei rimpatri dei partecipanti internazionali alla marcia, a cui sono stati sequestrati documenti e i telefoni e che sono stati lasciati per ore seduti in terra in uno stanzino, per poi essere rimandati nei loro Paesi con voli diretti. Numerosi sarebbero anche gli italiani bloccati dalle autorità: due di loro, in particolare (i torinesi Vittoria Antonioli Arduini e Andrea Usala) si troverebbero in condizioni di fermo senza che sia stato loro comunicato il motivo. Nel frattempo, alcuni cittadini turchi sarebbero stati prelevati dagli hotel al Cairo e deportati per aver esposto una bandiera palestinese. «Chiediamo che venga presa una responsabilità collettiva in merito a quello che sta accadendo, perché è inaccettabile ed è una totale violazione del diritto internazionale» dichiara Chiodo.

L’obiettivo della mobilitazione internazionale è agire pacificamente per sostenere il popolo palestinese, dato che i governi occidentali hanno scelto di non rompere i legami con Israele e si sono resi complici del genocidio in corso. In questo contesto, la Farnesina ha fatto sapere in un comunicato che non potrà garantire ai nostri concittadini nessuna assistenza consolare in ragione della situazione geo-politica egiziana.

La carovana diretta a Rafah dovrebbe partire il prossimo 14 giugno dal Cairo per arrivare ad Al-Arish. Il 15, invece, si partirà a piedi per raggiungere il valico. Ai 3-5000 attivisti provenienti da mezzo mondo che arriveranno in queste ore in aereo si dovrebbero aggiungere altre migliaia di solidali in viaggio via terra dal Nord Africa. Una carovana di macchine e pullman con almeno 1000 persone è partita dalla Tunisia lunedì ed è arrivata in Libia, ma sta aspettando i permessi necessari per attraversare il nord del Paese ed entrare in Egitto. Sembra invece che invece siano già decine – almeno 50 – le persone partite dall’Algeria e dal Marocco in areo che sono state deportate in queste ore. Ma sono migliaia le persone da tutto il Nordafrica in marcia per raggiungere Rafah.

«Sono due mesi che abbiamo chiesto i permessi formali al ministro degli Affari Esteri e alle autorità locali e ci siamo coordinati con le ambasciate egiziane in più di 15 Paesi» dichiarano con un comunicato i referenti della Global March to Gaza. «Il nostro intento è sempre stato chiaro: camminare pacificamente in supporto dell’accesso umanitario a Gaza, nel rispetto della sovranità egiziana». E continuano: «esortiamo le autorità egiziane a rilasciare le persone detenute e a permettere l’ingresso dei partecipanti della marcia.»
«L’Egitto ha ripetutamente espresso preoccupazione per la crisi umanitaria a Gaza e le sue insostenibili condizioni al valico di Rafah. Supportando questo globale, pacifico movimento mondiale rinforzerebbe la posizione dell’Egitto come attore chiave nel promuovere l’accesso agli aiuti umanitari».

L’Egitto è da molti anni uno degli stati che da un lato dichiara di essere al fianco del popolo palestinese, ma dall’altro ha strettissimi legami con Israele e tutti gli interessi di tenere buoni rapporti con il “vicino” sionista. Una marcia -anche se molto più ridotta e meno internazionale- con gli stessi obbiettivi di quella che dovrebbe tenersi nei prossimi giorni era stata bloccata e duramente repressa già un anno fa. Decine gli attivisti arrestati e deportati. E per i cittadini egiziani, la repressione è stata molto più dura.
Antonietta Chiodo sottolinea come probabilmente le azioni della autorità egiziane siano un imposizione di Israele. «Ricordiamo le dichiarazioni di ieri del ministro Katz che ha dichiarato che non ci saranno linee rosse e che utilizzeranno qualsiasi arma possibile. Io chiedo a tutti, alla collettività, di prendere una posizione in merito perché ci sarà un massacro al confine, un massacro di arabi. Stanno portando via gli occidentali per non creare degli incidenti diplomatici con gli stati che li sostengono, ma noi stiamo dalla parte del popolo palestinese. Molte persone anche sapendo quello che sta succedendo hanno deciso di partire ugualmente. Prendetevi la vostra responsabilità»

Sudafrica, violente inondazioni nel sud-est: almeno 49 morti

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Almeno 49 persone sono morte a causa delle violente inondazioni che hanno colpito la provincia del Capo Orientale, in Sudafrica, dove un violento sistema meteorologico ha portato piogge torrenziali, forti venti e neve. La città di Mthatha è tra le aree più colpite: qui un bus scolastico è stato travolto dalle acque, causando la morte di sei studenti e due adulti, mentre altri quattro studenti risultano ancora dispersi. Le autorità temono un aumento del bilancio delle vittime. Centinaia di famiglie sono state sfollate e molte scuole e ospedali hanno subito gravi danni.

USA-Iran, cresce la tensione: Washington ordina parziale ritiro del personale in Medioriente

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Continua a crescere la tensione tra Iran e Stati Uniti, le cui discussioni per raggiungere un accordo sul nucleare sono accompagnate da mesi da una escalation di minacce da ambo le parti. A seguito delle dichiarazioni rilasciate ieri dal ministro della Difesa iraniano, Aziz Nasirzadeh, il quale ha detto alla stampa che Teheran avrebbe preso di mira le basi militari USA in Medioriente in caso di fallimento dei colloqui ed eventuali attacchi esterni contro obiettivi nel Paese, Washington ha ordinato un parziale ritiro del personale governativo statunitense la cui presenza nella Regione non sia urgente.

In particolare, il Dipartimento di Stato ha ordinato l’immediato ritiro di tutti i dipendenti goventativi in Iraq, giustificando la decisione con «l’acuirsi delle tensioni regionali» e vietando loro di usare l’aeroporto internazionale di Baghdad. La popolazione statunitense è invece invitata a «non recarsi in Iraq per nessun motivo», in quanto esposta a «rischi elevati, tra cui violenza e rapimenti» dalle «milizie anti-statunitensi». Secondo il Dipartimento, nel Paese esiste «il rischio di violenza terroristica». I cittadini sono anche invitati a non attraversare l’Iraq per «partecipare a un conflitto armato in Siria», in quanto anche qui rischierebbero lesioni o la morte, oltre che l’arresto e l’espulsione. Un ufficiale del Dipartimento di Stato ha inoltre riferito a Fox News che il segretario della Difesa, Pete Heghseth, ha autorizzato la partenza volontaria dei militari di stanza in varie parti del Medioriente tra le quali Iraq, Siria, Bahrain, Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, aggiungendo che il Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) sta monitorando gli sviluppi nell’area. La decisione, ha riferito l’ufficiale, riguarderà principalmente coloro che vivono in Bahrein (dove si trovano la maggior parte dei dipendenti di Washington) vicino alla base militare USA. Il presidente Trump ha dichiarato che il ritiro parziale del personale statunitense dalla regione dipende dal fatto che questa «può essere un posto pericoloso», aggiungendo che «vedremo cosa succederà».

«Alcuni funzionari dall’altra parte minacciano un conflitto se i negoziati non andranno a buon fine – aveva riferito alla stampa Nasirzadeh ieri, mercoledì 11 giugno, – e se ci verrà imposto un conflitto… tutte le basi statunitensi sono a portata di mano e le prenderemo ampiamente di mira nei Paesi che le ospitano». Le minacce seguono a loro volta le dichiarazioni di Trump il quale, a causa dello stallo dei collqui sul nucleare, aveva affermato che avrebbe colpito con bombardamenti e tariffe secondarie il Paese in caso di fallimento dei negoziati. «Non possono avere un’arma nucleare, è molto semplice: non lo permetteremo» ha sottolineato Trump nelle recenti dichiarazioni. Secondo alcune indiscrezioni emerse a mezzo stampa sui media americani, tuttavia, una minaccia di un possibile attacco diretto a obiettivi iraniani proverrebbe in realtà da Israele. Secondo la NBC, l’attacco potrebbe infatti avvenire nei prossimi giorni senza l’appoggio degli Stati Uniti e costituirebbe una forte rottura con la linea dell’amministrazione statunitense.

La situazione si inserisce in un contesto di crescenti tensioni tra Iran e Stati Uniti: nel 2017, durante il suo primo mandato, Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran siglato nel 2015, che introduceva limitazioni sulle attività nucleari del Paese in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Trump ha così reintrodotto sanzioni economiche contro Teheran, che ha ripreso le attività di arricchimento dell’uranio oltre i limiti stabiliti dall’accordo. Nell’aprile di quest’anno sono ripresi in Oman i colloqui tra le due parti, con l’obiettivo di trovare un accordo che contenga l’espansione del programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi. Il prossimo round è previsto per questa settimana, nella giornata di domenica.

Il ministro degli Esteri iraniano, Seyed Abbas Araghchi, ha riferito ieri in un post su X che l’idea di Trump per la quale l’Iran non dovrebbe possedere armi nucleari «è in linea con la nostra dottrina e potrebbe diventare il fondamento principale per un accordo». «Con la ripresa dei colloqui domenica, è chiaro che un accordo in grado di garantire il mantenimento della natura pacifica del programma nucleare iraniano è a portata di mano e potrebbe essere raggiunto rapidamente».

India, aereo si schianta ad Ahmedabad: almeno 204 morti

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Aggiornamento delle 17.16: Il capo della polizia di Ahmedabad, G.S. Malik, ha dichiarato che finora sono stati rinvenuti 204 cadaveri e sono stati trasferiti in ospedale almeno 50 studenti di medicina che alloggiavano in un dormitorio su cui si è schiantato il velivolo. La polizia ha trovato anche due sopravvissuti al disastro aereo: uno si trova già in ospedale e sta ricevendo le cure.

Un aereo dell’Air India si è schiantato all’aeroporto della città occidentale indiana di Ahmedabad. Lo rende noto l’agenzia Reuters, riportando quanto hanno riferito i canali televisivi. L’aereo era diretto a Birmingham, ha riferito una fonte dell’aviazione. L’incidente è avvenuto mentre l’aereo stava decollando. Le immagini mostrano detriti in fiamme, con un denso fumo nero che si alza nel cielo vicino all’aeroporto. Secondo fonti locali, a bordo ci sarebbero state oltre 200 persone. Le autorità non hanno ancora confermato la causa dell’incidente e non si ha ancora contezza del numero dei feriti e delle eventuali vittime.

 

Il governatore della Calabria Roberto Occhiuto è indagato per corruzione

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«Per la prima volta nella mia vita ho ricevuto un avviso di garanzia, mi dicono nell’ambito di un’inchiesta più ampia, che coinvolgerebbe più persone». Con queste parole, in un video pubblicato su Instagram, il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto ha annunciato di essere indagato per corruzione dalla Procura di Catanzaro. Dopo giorni di voci e smentite, il governatore ha scelto di confermare personalmente l’indagine a suo carico, affermando: «Solitamente si dice “sono sereno, confido nella magistratura”. Sono sereno un piffero. Non sono sereno, perché essere iscritto nel registro degli indagati, anche a mia tutela, come mi dicono, per me è una cosa infamante: è come se mi avessero accusato di omicidio». L’atto nasce da una serie di accertamenti sui rapporti personali, politici e di affari che Occhiuto avrebbe intrattenuto con alcuni collaboratori e imprenditori locali.

L’avviso di garanzia porta la firma del procuratore Salvatore Curcio. Le informazioni sul contenuto dell’indagine sono ancora scarse, ma alcune indiscrezioni fanno risalire l’origine dell’inchiesta a una serie di articoli pubblicati dal quotidiano Domani, che aveva messo in luce una fitta rete di relazioni tra Occhiuto, l’imprenditoria locale e alcuni uomini delle istituzioni. In particolare, sotto i riflettori ci sarebbe Paolo Posteraro, ex socio di Occhiuto, consulente di Ferrovie della Calabria fino al 2024 e attualmente capo della segreteria della sottosegretaria Matilde Siracusano, compagna del governatore. Secondo quanto riportato dal quotidiano, Posteraro sarebbe anch’egli indagato per concorso in corruzione. I legami economici tra i due risalirebbero a prima dell’elezione di Occhiuto, in un contesto in cui, sempre secondo le indiscrezioni, l’Antiriciclaggio di Bankitalia avrebbe già acceso un faro su alcuni flussi finanziari: tra questi, un pagamento da 21mila euro proveniente da una società all’epoca gestita da Posteraro e un prestito pubblico da 350mila euro ricevuto da un’altra azienda dello stesso gruppo.

Occhiuto si difende con fermezza: «Indagate, indagate, indagate col massimo rigore, controllatemi tutto, perché io non ho fatto nulla di male». Il governatore ha chiesto di essere interrogato «al più presto» per chiarire la propria posizione, dichiarando di non essere a conoscenza dei fatti di cui viene accusato. Intanto, la vicenda scuote la politica nazionale. Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, ha espresso il suo sostegno: «Conosco Roberto Occhiuto da moltissimi anni. È una persona perbene e onesta. Sono certo della sua innocenza, non ho alcun dubbio sulla sua estraneità ai fatti contestati».

La Corea del Sud manda segnali distensivi al Nord dopo lunghe tensioni

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L’esercito sudcoreano ha annunciato la sospensione delle trasmissioni propagandistiche attraverso altoparlanti lungo il confine con la Corea del Nord. Le trasmissioni, che includevano messaggi politici e canzoni pop sudcoreane, erano state riattivate circa un anno fa in un clima di crescente tensione. La decisione rientra nelle promesse elettorali del nuovo presidente Lee Jae-myung, entrato in carica questo mese, che ha dichiarato l’intenzione di riaprire il dialogo con il Nord e ripristinare un patto militare precedentemente congelato con Pyongyang. La sospensione degli altoparlanti potrebbe rappresentare un primo passo verso una ripresa del dialogo intercoreano, sebbene le relazioni tra le due Coree restino fragili e soggette a rapidi deterioramenti.

California, la tribù Yurok riottiene 189 chilometri quadrati di foreste ancestrali

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La tribù Yurok, uno dei più numerosi gruppi indigeni della California, ha riacquisito ufficialmente 189 chilometri quadrati di foreste ancestrali lungo il tratto inferiore del fiume Klamath, nel nord dello Stato. La restituzione del territorio, frutto di una collaborazione con la Western Rivers Conservancy, un'organizzazione non profit statunitense dedicata alla protezione e conservazione dei fiumi e degli ecosistemi fluviali, segna un punto di svolta per la comunità Yurok, che potrà più che raddoppiare la superficie attualmente sotto la propria gestione. La terra riconquistata include Blue Cr...

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Musica: è morto Brian Wilson, voce dei Beach Boys

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Brian Wilson, co‑fondatore e voce dei Beach Boys, è morto oggi all’età di 82 anni. Lo ha annunciato la famiglia. Wilson lascia un catalogo di successi come California Girls, Good Vibrations e Don’t Worry Baby, che hanno reso il complesso californiano uno dei più popolari del rock statunitense. Dal 2024 era affetto da un grave disturbo neurocognitivo e viveva sotto tutela dopo la scomparsa della moglie Melinda.