sabato 6 Dicembre 2025
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Cannabis light: sul divieto del decreto Sicurezza deciderà la Corte Costituzionale

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Sarà la Corte Costituzionale a decidere se il divieto del fiore di canapa industriale, previsto dal decreto Sicurezza, sia conforme alla Costituzione oppure no. Il giudice per le indagini preliminari i Brindisi, in un processo iniziato lo scorso giugno, ha infatti deciso di sollevare la questione della legittimità costituzionale nei confronti dell’articolo 18 del testo di legge, e in particolare dell’emendamento sulla canapa, che prevede il divieto di «importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione, consegna vendita al pubblico e consumo» delle infiorescenze di canapa industriale.

Nell’ultimo periodo la repressione del governo nei confronti delle infiorescenze di canapa industriale ha fatto un salto di qualità: dopo mesi e mesi di sequestri e processi, che nella stragrande maggioranza dei casi si risolvono in favore di agricoltori e commercianti di settore, negli ultimi mesi abbiamo visto diversi coltivatori che sono stati addirittura arrestati, per poi essere prontamente scarcerati. L’ultimo caso ha riguardato un imprenditore di Imperia, arrestato a inizio novembre con l’accusa di detenzione si fini di spaccio per 350 kg di canapa sequestrata, che poi si è rivelata legale e con THC sotto i limiti di legge, ed è stato rimesso in libertà. Nelle motivazioni delle scarcerazioni diversi giudici hanno messo nero su bianco che, senza le analisi scientifiche che attestino un reato, non è possibile procedere.

Il processo celebrato a Brindisi riguardava invece l’importazione, da parte di un’azienda italiana, di piante di canapa provenienti dalla Bulgaria, bloccate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. «Grazie a questo procedimento», sottolinea l’avvocato Lorenzo Simonetti, che con la sua memoria ha convinto il gip a sollevare la questione di legittimità, «potremo essere in grado di bloccare le iniziative arbitrarie riguardo alla canapa industriale, perché, finché la Consulta non si esprimerà, c’è il dubbio di costituzionalità». Può essere una questione dirimente per molti motivi, anche perché il provvedimento è direttamente collegato al nuovo Codice della strada, in questi giorni al vaglio proprio della Corte costituzionale, che prevede che basti la positività agli stupefacenti per vedersi sospesa la patente. Nel preambolo dell’emendamento canapa al decreto Sicurezza si legge infatti che il consumo delle infiorescenze di canapa industriale, determina la guida sotto effetto di stupefacenti.

Insomma, per la canapa italiana sta per arrivare il momento della verità. Il Parlamento europeo ha approvato il nuovo regolamento che riconosce la pianta di canapa come legale in ogni sua parte – fiori compresi – con THC fino allo 0,5%: ora si apre la fase della negoziazione con la Commissione europea e gli Stati membri e, se tutto andasse liscio, potrebbe essere approvato già nel 2026, facendo decadere la repressione italiana. L’altro fronte aperto è quello derivato dalla volontà del governo di inserire la canapa tra le piante officinali, limitando però l’uso a fibra e semi, con un decreto nel 2022. Dopo il ricorso delle associazioni di settore il decreto viene annullato, ma il governo Meloni ha impugnato la sentenza, e si è arrivati alla decisione del massimo organo amministrativo italiano, che ha demandato la decisione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Mentre i divieti governativi cominciano a scricchiolare, il governo però è già corso ai ripari. È infatti spuntato un emendamento alla legge di Bilancio, che va approvata entro la fine dell’anno, firmato da un senatore di Fratelli d’Italia, che introduce il monopolio di Stato per le infiorescenze di canapa, con un’accisa al 40% e il divieto di vendita online. Si tratta di una legge simile a un’altra proposta dalla maggioranza nel 2023, mai discussa, che – nel caso in cui i divieti del governo cadessero – sarebbe già pronta a iper-tassare lo stesso mercato che fino a ieri l’esecutivo voleva vietare a ogni costo

Germania: gli studenti lanciano lo sciopero contro il ritorno del servizio militare

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«Non vogliamo diventare carne da cannone»: è lo slogan dei manifestanti pronti per lo Schulstreik, lo sciopero scolastico che raggiungerà il suo apice il 5 dicembre in Germania, dove è iniziata la mobilitazione giovanile contro la leva militare. Venerdì, gli studenti tedeschi boicotteranno la scuola per manifestare contro la legge sulla coscrizione. L’iniziativa coinvolgerà oltre 60 città in tutto il Paese, da Berlino ad Amburgo, da Lipsia a Monaco, nell’esatta coincidenza con la discussione parlamentare al Bundestag. La legge, annunciata qualche settimana fa, punta a ricostruire un sistema di leva che la Germania aveva archiviato nel 2011 e gode del sostegno delle principali forze del governo del compromesso tra SPD e CDU.

Il nuovo impianto prevede che ogni diciottenne maschio riceva un questionario di valutazione a partire dal 2026, seguito da una visita di idoneità dal 2027. Per le donne questo processo sarà volontario. Una volta finalizzata la registrazione, chi vorrà potrà arruolarsi per un servizio militare volontario della durata minima di sei mesi, rinnovabili fino a 23. Durante il periodo di servizio sarà prevista una retribuzione di 2.600 euro lordi e sussidi per la patente di guida per chi si impegna per più di un anno. Se il numero di volontari non sarà sufficiente, scatterà un meccanismo di selezione coatta attraverso un sorteggio. Una soluzione ibrida che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe rafforzare la Bundeswehr, alle prese con carenze strutturali di personale.

Per i giovani la “lotteria della leva” rappresenta un ritorno al passato che credevano superato. In molti parlano di pressione psicologica e di violazione della libertà di scelta. «Nessuno considera giusto un sistema basato sul sorteggio», afferma Laurenz Spies, rappresentante degli studenti in Assia. Nel sito web Schulstreik gegen Wehrpflicht i ragazzi si appellano al diritto di vivere in pace e citano l’articolo 4, comma 3 della Legge fondamentale che sancisce la libertà di coscienza e nega la costrizione contro volontà al servizio militare. La distanza tra istituzioni e piazze si è così ampliata, alimentando un malcontento che ha trovato nelle scuole il suo epicentro. Dalle aule di Berlino a quelle di Amburgo, dalle università di Monaco ai licei di Lipsia, gli studenti hanno deciso di organizzare un boicottaggio nazionale, uno sciopero coordinato e pianificato da settimane. I promotori denunciano un clima politico che tende alla militarizzazione dell’Europa, in cui i giovani rischiano di essere i primi a pagare con la loro stessa vita.

Negli ultimi mesi, in tutta Europa, sono tornate di attualità leggi che prevedono l’arruolamento dei diciottenni. Le ambizioni di riarmo di Berlino puntano a trasformare la Bundeswehr nella forza armata più numerosa dell’Unione Europea, con l’obiettivo di raddoppiare il personale, passando dagli attuali 250.000 effettivi e riservisti a 460.000 unità entro il 2029, con 80.000 soldati attivi e circa 120.000 riservisti, proiettando la Germania al vertice della capacità militare continentale. Diverso l’approccio di Francia e Italia, entrambe impegnate in programmi più graduali. Parigi prevede di arruolare circa 3.000 nuove unità nel prossimo anno, con un incremento che dovrebbe raggiungere le 50.000 entro il 2035. Un percorso più lento, basato sul volontariato e diluito in un arco temporale lungo, che riflette la volontà francese di evitare scossoni interni e di non riaprire il dibattito sulla coscrizione obbligatoria. In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato dopo l’incontro con la collega francese Catherine Vautrin un progetto che segna un ritorno soft alla logica della mobilitazione territoriale. L’ipotesi è la creazione di una riserva ausiliaria di 10.000 unità, chiamata a intervenire per ora solo in compiti di supporto: attività logistica, gestione delle emergenze, cyber-sicurezza e funzioni non operative all’estero. Sulla stessa linea si muovono Belgio e Paesi Bassi, intenzionati a reclutare volontari al compimento dei 18 anni, mentre nell’Europa orientale Lituania, Lettonia, Svezia e Finlandia hanno già reintrodotto programmi obbligatori. A non mostrare interesse per un ampliamento dell’organico restano invece Spagna e, fuori dall’UE, il Regno Unito. In un’Europa che sembra scivolare verso una nuova stagione di militarizzazione, la mobilitazione giovanile potrebbe segnare l’inizio di una lunga onda d’urto destinata a travolgere confini e governi, trascinando con sé un’intera generazione decisa a non farsi arruolare in silenzio.

Inchiesta appalti Sicilia: Cuffaro ai domiciliari

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Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, è stato posto agli arresti domiciliari dal gip di Palermo nell’ambito di un’inchiesta che coinvolge altre 17 persone, per associazione a delinquere, turbativa d’asta e corruzione nell’inchiesta sugli appalti e concorsi nel settore sanitario siciliano. La richiesta di misure cautelari, avanzata dalla Procura all’inizio di novembre, è stata accolta al termine dell’interrogatorio preventivo, con la contestazione aggiornata di “traffico di influenze”. Il gip ha invece respinto la richiesta di arresto nei confronti di Saverio Romano, deputato e coordinatore di Noi Moderati, anche lui indagato nella stessa vicenda.

Procura Ue: rilasciati Mogherini, Sannino e Zegretti

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Dopo gli interrogatori della polizia federale delle Fiandre occidentali, sono stati rilasciati nella notte Federica Mogherini, Stefano Sannino e Cesare Zegretti, coinvolti nel presunto scandalo sui fondi per giovani diplomatici Ue. Le accuse, che riguardano frode negli appalti, corruzione, conflitto di interessi e violazione del segreto professionale, restano in piedi. La Procura europea ha spiegato che la scarcerazione è avvenuta perché i tre “non sono ritenuti a rischio di fuga” e che “sono stati formalmente informati delle accuse a loro carico”. 

Russia-USA, 5 ore di colloqui: “d’accordo solo in parte” ma si continua a trattare

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È durato cinque ore l’incontro che ha visto sedere allo stesso tavolo l’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff, insieme all’uomo d’affari e genero di Trump Jared Kushner, e il presidente russo Vladimir Putin, per discutere di una soluzione pacifica al conflitto russo-ucraino. Secondo quanto emerso a incontro concluso, non sono stati raggiunti nuovi accordi e non è stato messo in programma un futuro incontro tra Putin e il suo omologo statunitense Donald Trump. Non sarebbe stato discusso in dettaglio nemmeno il contenuto dei piani di pace elaborati dagli Stati Uniti e consegnati a Mosca nelle scorse settimane. Tuttavia, le parti hanno definito lo scambio «costruttivo» e si sono impegnate per condurre nuovi colloqui.

Secondo quanto riferito dal funzionario russo Yuri Ushakov, citato dalla Tass, l’incontro tra Witkoff e Putin è stato «costruttivo» e «significativo» e sono state discusse «approfonditamente le prospettive di un ulteriore lavoro congiunto per raggiungere una soluzione pacifica a lungo termine». Sul tavolo vi erano le proposte consegnate dagli Stati Uniti a Mosca (quattro documenti, riferisce Ushakov, consegnati dopo la proposta di pace in 28 punti), ma nessun punto è stato discusso nelle sue «formulazioni specifiche», quanto piuttosto nella sua «essenza stessa». Ushakov non ha rivelato il contenuto di tali documenti, ma ha detto che riguardano tutti possibili soluzioni di pace. Per la Russia, alcune idee americane sono accettabili, altre non sono adeguate. Ad essere discusse in modo specifico, invece, sarebbero state le questioni territoriali, ma anche su queste non sono emersi ulteriori dettagli. Le parti avrebbero poi commentato le «azioni distruttive» messe in campo da parte europea. Insieme a Jared Kushner, poi, si sarebbero discusse le «enormi prospettive di futura collaborazione economica» tra i due Paesi. Secondo quanto riferito dalla TASS, Witkoff e Kushner non hanno in programma di passare dall’Ucraina, ma rientreranno direttamente negli USA.

Il piano di pace in 28 punti (ancora «in evoluzione», secondo quanto riferito dalla Casa Bianca) è stato presentato dagli Stati Uniti nelle scorse settimane e ha fatto storcere il naso tanto a Zelensky quanto all’UE – tagliata fuori dalle trattative. Al suo interno vi sarebbero infatti alcune clausole che Kiev e gli alleati giudicano assurde e inaccettabili, come la cessione del Donbass. Tra i punti, vi sarebbero anche la non integrazione futura dell’Ucraina nella NATO e l’impegno, da parte di quest’ultima, a non schierare truppe nel Paese, il riconoscimento di Crimea, Lugansk e Donetsk come regioni russe, anche da parte degli USA, e una parziale smilitarizzazione dell’Ucraina. Il NYT riferisce che, proprio a causa delle critiche da parte di Kiev e UE, il contenuto del piano è stato leggermente rivisto.

Poche ore prima dei colloqui, Putin aveva incontrato i giornalisti e aveva sottolineato che Mosca non intende entrare in guerra con l’Europa, «come già detto centinaia di volte». Tuttavia, se l’Europa dovesse dichiarare guerra, la Russia risponderebbe subito. Giusto poche ore prima, il presidente del comitato militare NATO Giuseppe Cavo Dragone, la più alta carica prevista dal Patto Atlantico, aveva dichiarato alla stampa che l’Alleanza sta valutando «attacchi preventivi» contro la Russia, spiegando che potrebbero essere considerati una «azione difensiva» a fronte della cosiddetta «minaccia ibrida» proveniente dalla Russia. Secondo Dragone, la NATO sarebbe troppo passiva nella presunta ricezione di attacchi informatici e di sabotaggio, e per tale motivo dovrebbe assumere un atteggiamento «proattivo» e «aggressivo».

Secondo Putin, dunque, l’Europa, non ha un programma di pace, ma è «dalla parte della guerra» e si è per questo «esclusa da sola» dai colloqui di pace. «Sono stati loro stessi a ostacolare i colloqui di pace e stanno ostacolando il presidente Trump», cercando di «imporre all’Ucraina richieste assolutamente inaccettabili per la Russia, e ne sono consapevoli». Il presidente ha poi commentato che le autorità di Kiev si comportano «come se vivessero su un altro pianeta», senza consapevolezza della situazione attuale, economica e sul campo.

La Gran Bretagna vieterà nuove esplorazioni di petrolio e gas

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Con la pubblicazione del North Sea Future Plan, il governo britannico ha annunciato che non verranno più rilasciate licenze per avviare nuove attività di ricerca ed estrazione di combustibili fossili. Una scelta che lo rende il primo grande produttore mondiale, e il primo Paese del G7, a chiudere definitivamente la porta a nuove concessioni per petrolio e gas.
La decisione non cancella l’esistenza dell’industria fossile britannica, ma ne limita l’espansione. I progetti già in corso o collegati a giacimenti esistenti (i cosiddetti “tie-back”) potranno proseguire, a condizione che non comportino...

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Tunisia, arrestato leader dell’opposizione

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La polizia tunisina ha arrestato Ayachi Hammami, noto esponente dell’opposizione. Hammami è stato arrestato nella sua abitazione ed è accusato di cospirazione contro la sicurezza dello Stato; dovrà scontare una pena detentiva di cinque anni. La sua condanna è arrivata la scorsa settimana, quando una corte d’appello si è espressa su diversi casi riguardanti vertici dell’opposizione al presidente Saied, accusati di avere tentato di rovesciarlo. L’opposizione ha sempre rigettato le accuse, sostenuta da gruppi di diritti umani che accusano Saied di portare avanti politiche di repressione del dissenso.

Guerre e genocidi arricchiscono l’industria bellica mondiale: record di profitti nel 2024

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Nel 2024, cento tra le più grandi aziende produttrici di armi al mondo hanno raggiunto un giro d’affari senza precedenti: 679 miliardi di dollari, con un aumento del 5,9% rispetto all’anno precedente. A trainare questo balzo sono state rispettivamente la guerra in Ucraina e a Gaza, oltre alla corsa al riarmo che ha coinvolto diversi Paesi. È quanto emerge da rapporto curato dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), che dimostra come massacri, guerre e genocidi non siano solo teatro di tragedie umanitarie, ma anche enormi opportunità economiche per l’industria bellica.

Secondo il rapporto pubblicato dal SIPRI, la maggior parte dell’incremento dei profitti è dovuto alle aziende con sede in Europa e negli Stati Uniti, ma si sono registrati aumenti in tutto il mondo, fatta eccezione per Asia e Oceania, dove i problemi nel settore bellico cinese hanno portato a un leggero calo. Il rialzo è stato particolarmente pronunciato per le imprese europee, che hanno beneficiato dell’accelerazione della spesa militare legata al conflitto in Ucraina e alla crescente militarizzazione in chiave antirussa: i ricavi aggregati del Vecchio Continente sono saliti del 13% per 23 delle 26 aziende europee, raggiungendo i 151 miliardi di dollari. Le due aziende russe presenti nella lista del SIPRI, Rostec e United Shipbuilding Corporation, hanno visto i ricavi derivanti dal settore degli armamenti aumentare del 23%, raggiungendo un totale di 31,2 miliardi di dollari, nonostante le sanzioni che hanno causato una carenza di componenti. Anche gli Stati Uniti restano protagonisti del mercato globale: le aziende americane – pur con problemi di ritardi e sforamenti di budget su programmi complessi, come gli F-35 – continuano a dominare le esportazioni e mantengono una quota molto significativa del fatturato mondiale. Trenta delle 39 aziende statunitensi nella top 100 – tra cui Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics – hanno registrato aumenti: il loro fatturato complessivo è aumentato del 3,8%, raggiungendo i 334 miliardi di dollari. Con ricavi derivanti dalle armi pari a 31,0 miliardi di dollari nel 2024, figuravano nella Top 100 nove aziende con sede in Medio Oriente: il numero più alto mai registrato per la regione nella classifica annuale. Le tre società israeliane nella classifica hanno registrato un aumento marcato delle vendite, con un incremento del 16%, raggiungendo i 16,2 miliardi di dollari. Tale incremento è riconducibile sia alle operazioni militari di Israele nella Striscia di Gaza sia all’elevata domanda globale per sistemi militari israeliani, come veicoli aerei avanzati senza pilota (UAV) e di capacità di contrasto ai droni.

A livello nazionale, nel 2024 le due aziende italiane presenti nella Top 100 del SIPRI – Leonardo e Fincantieri – hanno totalizzato ricavi d’armi per 16,8 miliardi di dollari, registrando un incremento complessivo del 9,1% rispetto all’anno precedente. A incarnare in modo emblematico il legame tra conflitti internazionali e profitti dell’industria bellica è proprio Leonardo, partecipata dallo Stato italiano: con 13,8 miliardi di dollari di ricavi militari nel 2024 – pari a un aumento del 10% su base annua – l’azienda si colloca al dodicesimo posto mondiale e si conferma la seconda maggiore impresa europea della difesa dopo BAE Systems. Nel marzo 2025, in concomitanza con le dichiarazioni di alcuni leader europei sull’urgenza di un massiccio riarmo del continente, il titolo di Leonardo aveva registrato un balzo in borsa di circa il 16%. È un dato che non sorprende e che possiamo leggere oggi alla luce del rapporto del SIPRI: guerre e crisi internazionali sono diventate carburante per un’industria che trova nel caos geopolitico la sua ragion d’essere. Per Leonardo, come per molte altre aziende del comparto, ogni conflitto rappresenta una domanda crescente di sistemi d’arma, aerei, mezzi corazzati, munizioni. Se l’industria bellica prospera con la guerra, l’ipotesi di pace risulta un grande deterrente per i suoi guadagni. Lo dimostra quanto accaduto nell’agosto 2025: l’annuncio di un possibile accordo di pace in Ucraina ha spinto al ribasso i titoli di molte aziende europee della difesa, tra cui la stessa Leonardo, che ha perso oltre l’8% del proprio valore in poche ore. Questo calo riflette la preoccupazione degli investitori: una pace stabile significa riduzione delle commesse e, di conseguenza, minori profitti per le società di armamenti. In questo contesto, la pace non è solo un obiettivo umanitario, ma potrebbe essere – economicamente – il peggior nemico di chi fa profitti con le armi.

Trump concede la grazia all’ex presidente honduregno

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha concesso la grazia a Juan Orlando Hernández, ex presidente dell’Honduras condannato l’anno scorso per narcotraffico e corruzione. Trump ha affermato che Orlando Hernández sarebbe stato ingiustamente perseguitato dalla precedente amministrazione Biden. Trump aveva già preannunciato che avrebbe concesso la grazia al proprio ex omologo; l’annuncio era arrivato in pieno periodo elettorale per l’Honduras, in una chiamata alle urne in cui Trump si è schierato apertamente a favore del Partito Nazionale dell’Honduras, il medesimo partito di Orlando Hernández, di stampo conservatore. I risultati provvisori danno il partito dell’ex presidente leggermente avanti sui rivali liberali.

I decessi da smog sono in calo in tutta Europa

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Nonostante la stragrande maggioranza degli europei che vivono in aree urbane respiri ancora aria inquinata, i decessi prematuri attribuibili allo smog nel Vecchio Continente mostrano un trend positivo e in netta diminuzione. Le ultime stime relative al 2023 rivelano che, nell’Unione Europea, ha avuto luogo un miglioramento significativo, con una riduzione del 57% dei decessi prematuri legati al PM2,5 tra il 2005 e il 2023, segnando il raggiungimento di un obiettivo chiave delle politiche comunitarie. I dati emergono dall’aggiornamento 2025 delle stime sul «carico ambientale delle malattie», un concetto che quantifica gli impatti sulla salute attribuibili a fattori di rischio come l’inquinamento dell’aria.

Il calo più marcato riguarda proprio il particolato fine. L’indicatore dell’Agenzia Europea dell’Ambiente sui decessi prematuri dovuti al PM2,5, infatti, registra che «l’obiettivo del piano d’azione per l’inquinamento zero è stato raggiunto per il 2023». Tale obiettivo prevedeva infatti la riduzione di almeno il 55% dei decessi prematuri attribuibili all’inquinamento atmosferico nell’UE rispetto al 2005. Questo risultato è frutto di politiche mirate che hanno portato a una «forte diminuzione dell’esposizione della popolazione all’inquinante, con la concentrazione ponderata per la popolazione che è scesa da 11,4 µg/m³ nel 2022 a 10,2 µg/m³ nel 2023». Le emissioni di particolato fine sono calate del 38% tra il 2005 e il 2023, soprattutto nei settori della produzione di energia, del riscaldamento residenziale e dei trasporti stradali.

C’è però ancora molto da fare. Secondo le stime dell’AEA, infatti, ridurre l’inquinamento atmosferico ai livelli indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe potuto prevenire 182.000 decessi attribuibili all’esposizione al particolato fine (PM2,5), 63.000 all’esposizione all’ozono (O3) e 34.000 all’esposizione al biossido di azoto (NO2). Nonostante il quadro generale in miglioramento, permangono peraltro forti disparità geografiche, con i Paesi dell’Europa orientale e sudorientale che continuano a subire gli impatti sanitari più significativi a causa dei livelli di inquinamento più elevati. Per il PM2,5 gli impatti relativi maggiori si registrano in Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Albania, mentre nell’UE-27 i tassi più alti spettano a Bulgaria, Grecia e Romania. All’estremo opposto, i valori minimi si osservano in Islanda, Finlandia, Svezia, Estonia e Norvegia. Un andamento simile, con le aree meridionali e balcaniche più colpite, caratterizza anche la distribuzione degli impatti da biossido di azoto e ozono.

A ogni modo, nel 2023 l’Italia è stata il primo Paese in UE per i decessi causati dall’esposizione al PM2,5 (43.083 vittime), prima di Polonia (25.268) e Germania (21.640). Il nostro Paese rappresenta la maglia nera anche per i decessi attribuibili al biossido di azoto (9.064), mentre è secondo solo alla Germania per quelli causati dall’ozono (11.230). La situazione risulta molto critica in particolare nell’area della Pianura Padana. L’ultimo allarme è arrivato a novembre dal Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), il servizio del programma europeo dedicato al monitoraggio della qualità dell’aria e dell’atmosfera a livello globale. Secondo i dati diramati, nella giornata del 12 novembre si sono registrate concentrazioni elevate di particolato fine (PM2.5) fino a 5 volte superiori al limite giornaliero raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, pari a 15 µg/m³. Va ricordato che la normativa italiana prevede limiti giornalieri e annuali per il PM10 (valore limite annuale di 40 µg/m³, valore limite giornaliero di 50 µg/m³, con un massimo di 35 superamenti all’anno) e solo annuali per il più pericoloso PM2.5, con un valore limite annuale di 25 µg/m³.