Nei nuovi raid israeliani a Khan Yunis sono morte almeno sei persone, tra cui due bambini, secondo fonti palestinesi. Fonti locali riferiscono che un drone ha anche colpito una tenda che fungeva da rifugio per gli sfollati. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver colpito un “comandante” di Hamas in risposta a “una palese violazione del cessate il fuoco” dopo scontri a Rafah, dove quattro soldati sono rimasti feriti. Nel pomeriggio di mercoledì è stata consegnata all’Idf una bara che dovrebbe contenere i resti di uno degli ultimi due ostaggi che ancora si trovano nell’enclave palestinese.
Un nuovo rapporto ONU accusa Israele di “torture sistematiche” contro i detenuti palestinesi
Torture sistematiche, abusi gravi come percosse, attacchi con cani, elettroshock, waterboarding, violenze sessuali, detenzione amministrativa senza processo, morte di detenuti con totale impunità delle forze di sicurezza israeliane. È quanto emerge dal rapporto del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (CAT) che, dopo mesi di audizioni e analisi supportate da testimonianze oculari, rapporti medici e migliaia di documenti, accusa Israele di aver adottato «una politica statale di fatto di tortura organizzata e diffusa», descrivendo un sistema che avrebbe normalizzato abusi fisici e psicologici ai danni di prigionieri palestinesi, bambini compresi, e che si sarebbe gravemente intensificato dal 7 ottobre 2023.
Il comitato delle Nazioni Unite, composto da dieci esperti indipendenti, rileva una serie di schemi ricorrenti: percosse, privazione del sonno, minacce contro i familiari, esposizione a temperature estreme, utilizzo prolungato delle manette come strumento coercitivo, posizioni di stress e violenze sessuali. Abusi che sono già stati denunciati da precedenti indagini indipendenti e da ONG. Il rapporto dell’ONU, pubblicato venerdì nell’ambito del monitoraggio regolare del comitato sui Paesi che hanno firmato la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, rileva anche i detenuti palestinesi sono stati umiliati «costringendoli a comportarsi come animali o a urinare loro addosso». La “detenzione amministrativa”, utilizzata senza capi d’imputazione né processo, coinvolgerebbe centinaia di palestinesi trattenuti per periodi indefiniti. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem sarebbero ben 3.474 i palestinesi in stato detenzione amministrativa. Già in precedenti osservazioni, il Comitato aveva espresso preoccupazione per l’assenza di un reato specifico di tortura nel diritto israeliano e per la possibilità, prevista dal Codice penale, di invocare la clausola di “necessità” come giustificazione dell’uso della forza durante gli interrogatori. Per il Comitato, questa lacuna normativa apre la strada all’impunità per gli abusi commessi contro i detenuti e si contestano le decisioni della Corte Suprema israeliana «che hanno evitato l’apertura di indagini criminali contro agenti della sicurezza nonostante l’uso accertato di tecniche coercitive».
In generale, le condizioni di detenzione restano critiche: sovraffollamento, cure mediche insufficienti e uso esteso dell’isolamento, con almeno 24 detenuti in isolamento prolungato per oltre due anni consecutivi. Il Comitato denuncia, inoltre, la morte di almeno 75 prigionieri palestinesi in custodia dall’inizio del conflitto del 2023, senza che alcuna indagine abbia portato a responsabilità effettive. Il quadro delineato dalle Nazioni Unite è aggravato dalla detenzione e dai maltrattamenti sui minori palestinesi. Il rapporto rileva interrogatori condotti senza la presenza di un avvocato o dei familiari, ammissioni estorte con la coercizione e un uso crescente della detenzione come misura ordinaria e non eccezionale, osservando che l’età della responsabilità penale imposta da Israele è di 12 anni, ma che sono stati detenuti anche bambini di età inferiore. Secondo il dossier, i minori subiscono «gravi restrizioni nei contatti con la famiglia, possono essere tenuti in isolamento e non hanno accesso all’istruzione, in violazione degli standard internazionali». Il Comitato chiede a Israele di modificare la propria legislazione affinché l’isolamento non venga utilizzato contro i bambini.
Il rapporto è stato pubblicato il giorno in cui tre agenti della polizia di frontiera israeliana sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati in merito all’esecuzione a sangue freddo di due palestinesi a Jenin. La reazione di Israele, riportata dai media internazionali, contesta le conclusioni dell’ONU, definendole «parziali e prive di fondamento». Tuttavia, il Comitato ribadisce che le prove raccolte sono «coerenti, credibili e convergenti» e che l’impunità resta la norma. La pubblicazione del rapporto accresce le pressioni internazionali e riapre il dibattito sulla compatibilità tra le pratiche di “sicurezza” di Tel Aviv e gli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali. Per ora, le raccomandazioni restano lettera morta, mentre le carceri e le strutture militari israeliane continuano a essere dei veri e propri centri di tortura.
Senegal, proteste degli studenti: scontri con la polizia
Gli studenti senegalesi sono scesi in piazza nella capitale Dakar per chiedere maggiori aiuti finanziari e sussidi universitari. Per far fronte alle proteste, i vertici dell’Università Cheikh Anta Diop hanno chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, e sono scoppiati degli scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti hanno lanciato pietre verso gli agenti, che hanno a loro volto scagliato gas lacrimogeni contro la folla. I disordini in Senegal arrivano in una situazione finanziariamente precaria per il Paese, che secondo dati del Fondo Monetario Internazionale avrebbe un debito pari al 132% del proprio PIL.
Dieci banche europee lanciano Qivalis, la prima stablecoin in euro
Un consorzio di dieci banche europee ha annunciato la nascita della prima stablecoin in euro che si chiamerà Qivalis (acronimo di “la chiave per il valore”) e sarà lanciata a metà 2026. Tra le banche che hanno dato il via all’iniziativa ci sono anche le italiane Unicredit e Banca Sella. Gli altri istituti sono l’olandese Ing, la belga Kbc, la danese Danske Bank, la tedesca DeKa Bank, la svedese Seb, la spagnola Caixa e l’austriaca Raffeisen Bank International. Oltre a questo nucleo originario si è già aggiunta la francese Bnp Paribas ed i promotori dell’iniziativa hanno aperto l’ingresso a ulteriori banche. La creazione della prima stablecoin in euro si inserisce in un contesto internazionale in cui i cosiddetti token digitali stanno acquisendo sempre più centralità promettendo di trasformare il sistema monetario e di pagamenti mondiale. Il mondo finanziario statunitense, così come quello cinese, già da tempo possiede le sue stablecoin, tra cui la più famosa è Tether, e Trump ha lanciato una sfida in quest’ambito attraverso l’emanazione del cosiddetto Genius Act, il cui obiettivo è mantenere il dominio USA nei sistemi di pagamento. Ancora una volta, dunque, l’Europa si ritrova a inseguire gli Stati Uniti in quella che si prospetta essere una svolta cruciale nel sistema finanziario internazionale. Non a caso i promotori della prima stablecoin ancorata all’euro hanno sottolineato che «L’iniziativa fornirà una vera alternativa europea al mercato delle stablecoin dominato dagli Stati Uniti, contribuendo all’autonomia strategica dell’Europa nei pagamenti».
Dal punto di vista legale-organizzativo, le dieci banche hanno costituito una nuova società con sede nei Paesi Bassi al fine di ottenere la licenza di moneta elettronica, sotto la supervisione della banca centrale olandese. Per quanto riguarda la governance, l’amministratore delegato sarà il manager tedesco Jean-Oliver Sell che di recente ha ricoperto il ruolo di consigliere delegato in Coinbase Germany. Mentre il direttore finanziario sarà Floris Lugt, che guidava il settore dei servizi bancari di risorse digitali del gruppo olandese Ing. A capo del consiglio di vigilanza, invece, è stato chiamato sir Howard Davies, già presidente della britannica Financial Services Authority. I vertici di Qivalis hanno spiegato che l’obiettivo di questo strumento di pagamento digitale, che sfrutta la tecnologia blockchain, è «diventare uno standard europeo di pagamento affidabile nell’ecosistema digitale». Per definizione, infatti, la stablecoin è una valuta pensata per mantenere stabile il suo valore nel tempo, grazie al possesso di riserve equivalenti in asset sicuri come dollari, euro, titoli di stato a breve termine o oro (ad esempio 1 stablecoin = 1 USD). Questa è la differenza principale con altre criptovalute come Bitcoin, con cui le stablecoin condividono solo l’uso della tecnologia blockchain. I loro prezzi sono dunque più stabili rispetto a altri tipi di criptovalute e ciò le rende più adatte a essere usate come strumento di pagamento.
Il problema dell’iniziativa si pone nel suo rapporto con l’euro digitale, evidenziando anche alcune differenze significative con l’impostazione statunitense di regolamentazione delle stablecoin: mentre, infatti, il Genius Act, firmato dal presidente Donald Trump nel 2025 per normare l’emissione e l’utilizzo delle stablecoin, punta all’autonomia del mercato favorendo le stablecoin emesse da privati ancorate al dollaro, l’Ue privilegia un controllo centralizzato per mitigare i rischi sistemici. Con l’adozione del Regolamento MiCA, Bruxelles ha adottato un quadro normativo molto stringente e armonizzato per le criptovalute e, in particolare per le stablecoin, mentre parallelamente la BCE ha sviluppato l’euro digitale, una valuta digitale di banca centrale (CBDC) pensata per mantenere la sovranità monetaria dell’euro e che potrebbe competere direttamente con le stablecoin private, ridefinendo l’impalcatura monetaria dell’eurozona. Al contrario, negli Stati Uniti, Donald Trump ha emanato un ordine esecutivo con cui, all’articolo 5, si vieta l’emissione di una valuta digitale della banca centrale. L’idea è di istituire un sistema di valute e pagamenti non in mano a istituzioni pubbliche, con l’obiettivo di erodere l’illimitato potere monetario della Federal Reserve, avversario numero uno di una parte consistente del partito repubblicano statunitense.
Nell’UE, invece, proprio la volontà di limitare – attraverso la CBDC e una stringente regolamentazione – le stablecoin ha portato a un contrasto con l’euro digitale, per cui i promotori di Qivalis hanno dovuto spiegare che «la stablecoin non sarà concorrente dell’euro digitale promosso dalla Bce poiché quest’ultimo è un’alternativa al contante e dunque è destinato soprattutto al retail». Hanno quindi sottolineato che questo strumento «Permetterà l’accesso 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a pagamenti internazionali efficienti, a pagamenti programmabili e a miglioramenti nella gestione della supply chain […]».
L’istituzione della prima stablecoin ancorata all’euro, come anticipato, va nella direzione di colmare il divario in questo ambito con Stati Uniti, Cina e altri Paesi all’avanguardia. Tuttavia, proprio la pretesa di Bruxelles di una regolamentazione eccessiva alle stablecoin potrebbe essere un ostacolo all’obiettivo di fare di Qivalis una vera alternativa europea non solo al mercato delle stablecoin dominato dagli Stati Uniti, ma anche dalla Cina. Questo potrebbe lasciare l’Ue indietro in quella che si configura come una progressiva trasformazione dei sistemi finanziari e di pagamento in grado di ridefinire la sovranità e il potere monetario delle nazioni, anche in una prospettiva dei rapporti di forza geopolitici.
Sud-est asiatico: oltre 1.300 morti e un milione di sfollati per le alluvioni
Da giorni i Paesi del sudest asiatico sono colpiti da una ondata di tempeste tropicali e piogge torrenziali che stanno devastando le aree interessate, causando alluvioni e smottamenti. I Paesi più colpiti sono Indonesia e Sri Lanka, dove la conta dei morti complessivi ha superato le 1.200 persone, e quella dei dispersi si aggira ormai attorno a 800 persone. Solo in questi due Paesi, poco meno di un milione di cittadini risultano sfollati, ma le persone coinvolte dai disastri sono quasi 5 milioni. Nei giorni le piogge sono arrivate anche in Thailandia e in misura minore in Malesia, i cui dati sommati a quelli dei Paesi più colpiti, portano il numero dei morti ufficiali almeno a 1.390 persone.
Il Paese più colpito in assoluto dalle alluvioni è l’Indonesia. Le piogge si sono concentrate prevalentemente nelle province di Sumatra, Aceh e Nilas, ma sono arrivate in totale in 50 distretti diversi. Secondo il centro per le emergenze indonesiano, in totale, sono morte almeno 770 persone, 463 risultano disperse, e 2.600 ferite; in tutto il Paese sono state evacuati 746.000 cittadini, ma sono 3,2 milioni i residenti nelle aree colpite dal disastro. Oltre 10.000 abitazioni risultano danneggiate, 3.300 delle quali gravemente; danni anche a quasi 300 ponti, 132 luoghi di culto, 9 strutture sanitarie e 215 scuole e strutture educative. Il presidente Prabowo Subianto ha ordinato lo stato di emergenza e ha promosso un piano per orientare tutti gli sforzi all’aiuto delle persone colpite dalle alluvioni, mobilitando esercito e polizia. Le autorità si sono mosse per installare cucine temporanee e per consegnare cibo, coperte, tende e medicine alla popolazione sfollata. A causa della distruzione delle infrastrutture di connessione come i ponti, gli aiuti stanno venendo consegnati via aria e via mare e l’esercito sta costruendo ponti temporanei per ristabilire le vie di comunicazione terrestri.
Anche in Sri Lanka la situazione risulta critica. A venire colpiti sono 20 dei 25 distretti del Paese. Qui si contano 479 morti, 350 dispersi, e almeno 209.000 sfollati; in tutto sono state colpite almeno un milione e mezzo di persone. In totale sono state distrutte 1.289 case e altre 44.556 abitazioni risultano almeno danneggiate. I media descrivono lo scenario come il peggiore disastro naturale dallo tsunami del 2004, quando un terremoto ha interessato tutto il sudest asiatico uccidendo oltre 200.000 persone di cui almeno 40.000 nel solo Sri Lanka. Anche qui, il presidente Anura Kumara Dissanayake ha diramato lo stato di emergenza e il governo ha semplificato le procedure burocratiche per facilitare l’importazione di beni: sono infatti diversi i Paesi che stanno inviando cibo, medicine e attrezzature allo Sri Lanka; tra questi si contano Emirati Arabi Uniti, Bangladesh e India.
La situazione in Tailandia e Malesia sembra maggiormente sotto controllo, ma resta critica. Le autorità tailandesi hanno lanciato un piano per assistere la popolazione strutturato in tre fasi: la prima si concentra sull’assistenza immediata, come l’allestimento di rifugi temporanei e la consegna di aiuti umanitari; la seconda introdurrà programmi di sostegno economico per le imprese e le famiglie colpite, e la terza punterà al ripristino e alla ricostruzione dei servizi attraverso prestiti. Il governo ha inoltre aperto una campagna di finanziamento privato per supportare le persone interessate dalle piogge e semplificato le procedure per la consegna di aiuti. Nel Paese sono state coinvolte almeno 1,4 milioni di persone in 16 distretti, e si contano 138 morti, 43.000 evacuati e 582.000 case danneggiate. In Malesia, invece, i danni sono ancora marginali, e si concentrano nell’area settentrionale del Paese. Sono stati registrati danni ad alcune infrastrutture, e sono morte almeno 2 persone.
Gli USA fermano le domande di immigrazione per i cittadini di 19 Paesi
Il governo degli Stati Uniti ha bloccato le domande di immigrazione per i cittadini di 19 Paesi. La decisione arriva dopo il caso di una sparatoria che ha coinvolto due membri della Guardia Nazionale, uno dei quali morto dopo le ferite riportate, in cui il principale sospettato risulta un cittadino afghano. In precedenza, Trump aveva chiesto la revisione dei visti per i cittadini provenienti da Paesi «del terzo mondo». A essere colpiti dalla misura sono i cittadini di Afghanistan, Birmania, Burundi, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Cuba, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Laos, Libia, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Turkmenistan, Venezuela, Yemen.
Francia: i sindacati denunciano Israele per i crimini di guerra contro i giornalisti di Gaza
I sindacati francesi Syndicat national des journalistes (SNJ) e International Federation of Journalists (IFJ) hanno depositato una denuncia presso la Procura nazionale antiterrorismo di Parigi (PNAT), accusando le autorità israeliane di aver imposto un vero e proprio “silenzio mediatico” nella Striscia di Gaza. La denuncia, contro ignoti, descrive come sistematico e prolungato il divieto di accesso a Gaza per giornalisti stranieri a partire dal 7 ottobre 2023, combinato con molestie, intimidazioni, perquisizioni, arresti arbitrari e violenze dirette nei confronti di reporter palestinesi e operatori stranieri. Secondo i sindacati, queste condotte configurano possibili crimini di guerra.
Il segretario generale dell’IFJ, Anthony Bellanger, ha spiegato che la denuncia rappresenta l’ultimo tentativo di fare pressione su Israele affinché apra Gaza alla stampa internazionale. Già a luglio, l’Agence France-Presse (AFP) aveva sollecitato Israele a consentire ai giornalisti di entrare e uscire dal territorio devastato dalla guerra. Secondo le organizzazioni sindacali, l’iniziativa rappresenta «un passo necessario per difendere il diritto all’informazione, la libertà di stampa e il rispetto del diritto internazionale». In una dichiarazione congiunta, si parla espressamente di un «blackout mediatico senza precedenti», unito alla «spietata repressione di giornalisti e professionisti dei media palestinesi». Nel testo depositato davanti alla giustizia francese, SNJ e IFJ documentano una molteplicità di casi concreti e di situazioni drammatiche: giornalisti che non possono entrare in certe aree, attrezzature sequestrate, minacce e aggressioni fisiche, ma anche vere e proprie cacce all’uomo. In un caso, un cronista ha raccontato di essere stato inseguito per tutta la notte da un gruppo armato di «pistole, taniche di benzina e bastoni», mentre stava svolgendo un servizio in Cisgiordania alla presenza dell’esercito israeliano. Le limitazioni, secondo la denuncia, non sarebbero incidenti isolati, ma farebbero parte di una strategia sistematica dallo scopo evidente: imporre una narrazione unica, impedire una copertura mediatica libera e “cancellare” ogni voce indipendente. La capacità dei giornalisti di operare, secondo i sindacati francesi, si sta riducendo anche in Israele e in Cisgiordania. «È un blocco organizzato, sistematico e prolungato», ha dichiarato uno degli avvocati della denuncia, aggiungendo che impedire lo svolgimento del lavoro giornalistico in un contesto di guerra significa negare alla società il diritto fondamentale di conoscere la verità, sancito da trattati internazionali e dal diritto penale francese.
Per la prima volta in Europa, si tenta di portare davanti a un tribunale nazionale il caso di restrizioni sistematiche della libertà di stampa in tempo di guerra. L’obiettivo della denuncia è che la Procura nazionale antiterrorismo di Parigi eserciti la propria giurisdizione, poiché molti dei giornalisti coinvolti sono cittadini francesi. L’iniziativa rientra in un contesto in cui la libertà di informazione è sempre più sotto attacco. Secondo Reporters Senza Frontiere, organismo di controllo della stampa, dall’ottobre 2023 sono stati uccisi a Gaza più di 220 giornalisti, di cui almeno 62 a causa del loro lavoro (22 di questi giornalisti uccisi nel 2025). In una recente mozione del Congresso EFJ di Budapest del 2 e 3 giugno 2025, la European Federation of Journalists (EFJ) aveva deplorato l’uccisione dei giornalisti e operatori media nelle operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. In passato, la morte di reporter a Gaza e nelle aree in guerra era stata denunciata da sindacati e associazioni internazionali come un massacro di giornalisti, ma ora i sindacati puntano a inquadrare le violazioni come crimini di guerra, ossia reati perseguibili secondo il diritto internazionale. Per SNJ e IFJ l’attuale denuncia rappresenta una tappa obbligata per difendere il diritto a documentare i conflitti e tutelare chi, ogni giorno, rischia la vita per raccontare ciò che accade lontano dallo sguardo dell’opinione pubblica. Significa chiedere che le responsabilità vengano chiarite e che il giornalismo torni a essere un presidio, non un bersaglio. In un momento in cui le violenze contro i media, soprattutto nelle zone di guerra, continuano a intensificarsi, l’iniziativa assume anche il valore di un avvertimento: il rispetto del diritto internazionale non può essere aggirato e nessuna arma o restrizione può giustificare il tentativo di soffocare la libertà di stampa.










