martedì 16 Dicembre 2025
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La strada europea per la cannabis legale

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Sono passati esattamente 100 anni da quando, nel 1925, la Convenzione dell’oppio di Ginevra divenne il primo trattato a mettere la cannabis sotto controllo internazionale. L’Italia la ratifica nel 1928 sotto il regime fascista e rende per la prima volta la cannabis illegale con l’emanazione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza nel 1931. Il regime considerava l’hashish – diffuso nelle colonie – come un ostacolo alla disciplina militare e al lavoro forzato mentre la propaganda razzista presentava spesso cannabis e derivati come “droga dei negri”, “vizio delle razze inferiori”, ident...

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Milano, sostanza urticante a scuola: 100 evacuati e 5 intossicati

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Un centinaio di persone tra studenti, docenti e personale scolastico dell’istituto Cardano di via Giulio Natta, a Milano, sono state evacuate intorno alle 10.30 per una probabile intossicazione causata da una sostanza urticante presente nell’aria. Il secondo piano è stato sgomberato per consentire i controlli dei vigili del fuoco, supportati dal nucleo NBCR. Cinque persone sono state leggermente intossicate e assistite dal 118. Le verifiche e la bonifica si sono concluse senza ulteriori criticità. Un episodio simile si era verificato anche ieri, con alcuni studenti costretti a ricorrere alle cure mediche.

Emilia, 900mila tonnellate di scorie abusive interrate: contaminate le falde acquifere

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Una maxi-discarica abusiva contenente circa 900mila tonnellate di scorie di acciaieria è stata scoperta e sequestrata nella Bassa reggiana, alle porte di Brescello, dove avrebbe operato per quasi un decennio compromettendo gravemente le falde acquifere. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dalla Procura di Reggio Emilia, hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati di nove persone, tra cui imprenditori, professionisti e cinque tecnici di Arpae, accusati di aver coperto il disastro ambientale. I valori di ferro e arsenico nelle acque sotterranee risultano ampiamente oltre i limiti di legge, delineando quello che potrebbe rappresentare uno dei più gravi episodi di inquinamento del territorio emiliano.

L’operazione investigativa ha coinvolto perquisizioni nelle sedi societarie, negli studi professionali e nelle abitazioni degli indagati, con sequestri di materiale informatico e documentale destinato a ricostruire la filiera dello smaltimento illecito. I reati ipotizzati contro gli indagati, in concorso tra loro, sono di particolare gravità: si va dalla realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata, all’inquinamento ambientale, fino al falso ideologico in atti pubblici. Quest’ultima accusa riguarda specificamente i cinque dipendenti Arpae, i quali avrebbero redatto relazioni tecniche falsate. «Avrebbero attestato il falso in rapporti conclusivi di controllo, al fine di ricondurre il superamento dei limiti di inquinamento alle caratteristiche geochimiche dei terreni e non alle condotte di smaltimento», evidenziano gli inquirenti. «Le persone fisiche raggiunte dai provvedimenti sono in totale nove fra i 34 e gli 82 anni, di cui sette residenti nella bassa reggiana, uno a Parma e uno in provincia di Modena» hanno specificato i Carabinieri.

Le indagini hanno in particolare fatto luce sull’area denominata Dugara, alle porte di Brescello. Secondo gli inquirenti, dal 2016 in poi sarebbero state interrate in modo illegale oltre 900mila tonnellate di scorie non trattate e residui di fusione. L’accumulo di questi rifiuti metallici, raccontano le carte, «avrebbe compromesso e deteriorato le acque sotterranee, con valori limite di ferro e arsenico superati, e il tentativo di coprire il disastro attraverso il falso ideologico in atti pubblici da parte di funzionari dell’ente di controllo». Reagendo alle novità d’indagine, Arpae ha pubblicato un comunicato in cui ha manifestato «la piena disponibilità a collaborare con l’autorità giudiziaria, sul cui operato ripone la massima fiducia», auspicando che l’iter giudiziario «possa accertare il corretto operato del proprio personale, che ha ricondotto i superamenti dei valori di metalli riscontrati a valori di fondo naturale, come riportato nei documenti tecnici redatti in proposito». «Si tratta quindi – conclude la nota – di aspetti tecnici su cui peraltro le strutture dell’Agenzia hanno già da tempo disposto di proseguire i monitoraggi dell’area, in un’ottica di prevenzione ambientale».

La vicenda si snoda in oltre vent’anni di atti amministrativi e proroghe non completate. Tutto parte nel 2003, quando la Mingori & Bacchi (oggi in mano a Dugara Spa) firmò una convenzione urbanistica con il Comune per un polo logistico, annunciando l’impiego del “tenax”, materiale derivato da scorie d’acciaieria provenienti dall’impianto di Boretto. Nel 2008 la Provincia autorizzò l’attivazione di un impianto di recupero direttamente a Brescello, con un limite annuale di 303.000 tonnellate; tra il 2008 e il 2015 si stimano circa 30.000 camion di rifiuti conferiti nell’area. Scaduti i termini per l’urbanizzazione, la società ottenne proroghe e nel luglio 2015 ricevette un’autorizzazione integrata che però vincolava l’area al monitoraggio delle acque per cinque anni, non più alla ricezione illimitata di rifiuti. Dal 2017 il Comune sollecitò un nuovo piano; solo nel 2022 arrivò un parere negativo e nel febbraio 2024 un’ordinanza dirigenziale ha bloccato i lavori. Secondo la Procura, questo iter ha favorito l’accumulo di centinaia di migliaia di tonnellate di scorie non recuperate e la contaminazione delle falde.

La moda a basso costo sta uccidendo la beneficenza di vestiti usati

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In molte città, organizzazioni come la Caritas hanno dovuto sospendere o ridurre drasticamente la raccolta di abiti usati perché l’80% dei capi raccolti non è più utilizzabile per essere donato: scarsa qualità e quantità eccessiva di abiti hanno saturato gli enti, rendendo impossibile fare beneficenza come si deve. Un problema che si è acutizzato sensibilmente dall’inizio del 2025, quando la raccolta differenziata del tessile è diventata obbligatoria in tutta Italia (senza avere le strutture adeguate per gestire la mole dei rifiuti). Ma soprattutto un problema diventato insostenibile dovuto alla qualità dei vestiti “donati”: abiti scadenti, sfibrati e danneggiati anche se usati pochissimo, spesso con forme e modelli totalmente inutili, realizzati con materiali non in grado di tenere caldo o sopperire alle necessità reali di chi ne avrebbe realmente bisogno. Così la “beneficenza” è diventata un rifiuto da smaltire.

Dopo 51 anni, la Caritas ha preso la difficile decisione di interrompere la raccolta di indumenti usati in Alto Adige e in diversi altri Comuni sparsi sul territorio. Una scelta sofferta, visto il bisogno costante di indumenti per alcune famiglie in difficoltà, ma reso sempre più difficile dal tipo di materiale ricevuto. 

Fast Fashion e Ultra Fast Fashion hanno dato vita ad un sistema di produzione massiccia di scarsa qualità e a rotazione rapida. I materiali scadenti utilizzati si usurano rapidamente, perdendo colore, forma o danneggiandosi in tempi brevi. Anche il confezionamento lascia a desiderare, provocando buchi, cuciture che saltano o strappi. Danni che potrebbero essere facilmente aggiustati ma che, proprio per i prezzi bassi di questi capi, rendono più facile lo “smaltimento” e l’acquisto di qualcosa di nuovo piuttosto che ingegnarsi in una riparazione. Dopotutto, il valore affettivo che lega a questi oggetti è quasi del tutto assente, per cui disfarsi di un capo di poco valore non è una tragedia. Anzi, è diventata la norma di una cultura usa&getta ormai dilagante ed interiorizzata su più livelli.

Peccato che, quando buttiamo via qualcosa, non la stiamo buttando via: il “via” non esiste, la stiamo solo spostando da qualche altra parte. Spesso con l’idea di fare una buona azione, ma altrettanto spesso facendola nel modo sbagliato (o non così utile come pensiamo). E così, una filiera nata per valorizzare l’usato e dargli una seconda vita in maniera degna e contribuendo al benessere delle vite altrui, si ritrova di fatto a gestire rifiuti.

La raccolta degli abiti usati in Italia è un’operazione fatta in maniera spesso fuorviante. Di base esistono due modalità: la donazione diretta presso enti caritatevoli e la raccolta stradale tramite cassonetti, gestiti da cooperative sociali spesso convenzionate con comuni e aziende di igiene urbana. Proprio questi ultimi, che raccolgono rifiuti tessili, sono soggetti a rigide normative e devono registrare i quantitativi raccolti. Molto spesso i cittadini credono di donare vestiti a chi ne ha bisogno proprio tramite questi cassonetti, ma la verità è ben diversa. 

Le scritte sui cassonetti che invitano a lasciare solo “abbigliamento in buono stato” non sono un invito alla beneficenza, ma una strategia per ridurre i costi di smaltimento e aumentare i profitti dalla ri-vendita degli abiti usati raccolti. In realtà, per legge, i vestiti messi nei cassonetti non sono più donazioni, ma rifiuti! 

Perché un capo sia davvero donato a persone in difficoltà, deve essere consegnato direttamente a un’associazione o parrocchia; solo così mantiene il suo status di bene. Passando dai cassonetti, invece, si trasforma in rifiuto e non può essere donato. Ma che ne succede di questi rifiuti tessili? Le cooperative, raramente attrezzate per selezionare e trattare il materiale, vendono tutto “così com’è” a operatori specializzati, che dopo un processo di igienizzazione (End of Waste) trasformano i rifiuti in beni riutilizzabili. Ma di tutto quello che viene raccolto, solo il 50% trova una nuova vita.

Ecco perché, per donare abiti usati in maniera sensata, è importante prima di tutto selezionare un destinatario diretto, anche locale, che gestisce le cose in maniera trasparente e onesta (ci sono organizzazioni, centri sociali, associazioni di beneficenza, ma anche brand e hub creativi dedicati al riciclo e all’upcycling). In secondo luogo selezionare bene ciò che si decide di donare, in modo che possa essere utile e rispettoso della dignità di chi lo riceve. Abiti senza macchie, integri, senza strappi e non eccessivamente lisi (che il tessuto dopo un po’ di usuri è normale, ma se il capo è finito meglio farlo diventare uno strofinaccio per la polvere o una coperta per la cuccia del cane); scarpe e calzini appaiati ed il tutto  meglio se lavato prima. Con queste piccole indicazioni la donazione diventa un gesto di valore, solidarietà e rispetto. Per un gesto ancora più impattante, uscire dalle dinamiche di consumo compulsivo sarebbe un regalo ancora più grande.

Giappone, terremoto di magnitudo 6.7 al largo della costa nord

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Un terremoto di magnitudo 6.7 ha colpito oggi il Giappone al largo della costa settentrionale, spingendo le autorità a diramare un allarme tsunami poi revocato. L’Agenzia meteorologica giapponese aveva previsto onde fino a un metro, ma sono stati registrati solo due piccoli tsunami di 20 centimetri in località diverse. La scossa arriva pochi giorni dopo un sisma di magnitudo 7.5 che aveva causato almeno 50 feriti nella stessa area. L’epicentro odierno è stato localizzato a 130 km da Kuji, nella prefettura di Iwate. L’Autorità per l’energia nucleare ha confermato l’assenza di anomalie negli impianti della regione.

GEDI in vendita: redazioni di Repubblica e Stampa in rivolta

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Dopo l’annuncio ufficiale dell’avvio delle trattative per la vendita dell’intero gruppo Gedi, il comitato di redazione di Repubblica ha lanciato lo stato di agitazione, mentre La Stampa ha annunciato di trovarsi in assemblea permanente per decidere i prossimi passi da compiere. Ieri mattina, i siti dei due quotidiani non sono stati aggiornati per protesta contro l’azienda. Il governo, intanto, ha convocato i vertici aziendali, mentre il PD ha suggerito l’utilizzo del Golden Power per fermare la cessione. Il gruppo GEDI è di proprietà di Exor, la società della famiglia Agnelli-Elkann, e riunisce anche il sito di informazione HuffPost e le radio Deejay, Capital e M2o. La notizia di una possibile vendita del gruppo era nell’aria da tempo, ma è stata ufficializzata solo mercoledì in una mail interna. Le trattative in corso sono con il gruppo greco Antenna e si trovano ormai in fase avanzata: la vendita è prevista a gennaio.

I giornalisti delle due testate storiche hanno appreso i dettagli dai rappresentanti dei gruppi editoriali in occasione di incontri che hanno definito «sconcertanti, sconfortanti e umilianti». La trattativa in esclusiva con il gruppo Antenna, di proprietà della famiglia greca Kyriakou, è stata prolungata fino a fine gennaio. Tuttavia, è emerso che l’acquirente sarebbe interessato principalmente a Repubblica e alle radio (Deejay, Capital, m2o), mentre per La Stampa si cercano altri compratori, con la trattativa più avanzata con il gruppo veneto NEM. Questo scenario prospetta una frammentazione del gruppo, con gravi incognite operative: per La Stampa, ad esempio, significherebbe essere separata dalle infrastrutture digitali e tecniche comuni a tutto il GEDI.

Di qui la decisione della protesta. I giornalisti torinesi de La Stampa hanno proclamato lo stato di agitazione permanente e hanno già incrociato le braccia, lasciando il giornale fuori edicola. I colleghi di Repubblica hanno seguito l’esempio, proclamando lo sciopero per venerdì 11 novembre, con il sito non aggiornato per 24 ore e il giornale assente in edicola sabato. «L’obiettivo sarebbe di chiudere in parallelo le due operazioni di vendita nel giro di due mesi. Rispetto alle nostre richieste non è stata data alcuna garanzia sul futuro della testata, sui livelli occupazionali, sulla solidità del potenziale compratore, sui destini delle attività messe in comune a livello di gruppo, dalle infrastrutture digitali alla produzione dei video, e quindi senza nessuna garanzia di poter continuare a svolgere il nostro lavoro così come abbiamo fatto fino a oggi», ha commentato la rappresentanza sindacale dei giornalisti de La Stampa. L’assemblea di Repubblica si è dichiarata pronta a una «stagione di lotta dura a tutela del perimetro delle lavoratrici e dei lavoratori e dell’identità del nostro giornale a fronte della cessione ad un gruppo straniero, senza alcuna esperienza nel già difficile panorama editoriale italiano e il cui progetto industriale è al momento sconosciuto».

La vicenda ha immediatamente travalicato i confini aziendali, investendo il mondo politico in maniera trasversale. Il presidente dei senatori del PD, Francesco Boccia, ha lanciato un appello forte al governo, evocando persino lo strumento del Golden Power. Anche la segretaria dem, Elly Schlein, ha espresso forte allarme, chiedendo «garanzie occupazionali per il futuro dei dipendenti del gruppo» e affermando la necessità di assicurare «principi costituzionali di pluralismo dell’informazione e di libertà di stampa». Ribadendo vicinanza ai giornalisti coinvolti, il M5S, AVS, Azione e il PD hanno chiesto un’informativa urgente al governo sulla vendita del gruppo, mentre rappresentanti sindacali e delegazioni interne chiedono l’inserimento di clausole vincolanti che garantiscano posti di lavoro e la continuità produttiva. La palla passa ora all’esecutivo. L’incontro convocato dal sottosegretario Barachini con i vertici GEDI e i Cdr, che andrà in scena la prossima settimana, sarà il primo banco di prova per capire che piega potrà assumere la vicenda.

A spingere verso la cessione sono i conti in rosso del gruppo. I dati sono infatti eloquenti: Repubblica, il giornale fondato da Eugenio Scalfari, ha perso, solo nel 2024, oltre 191.000 lettori (-6 per cento), scendendo a 98.400 copie cartacee con una perdita del 10,7 per cento. La Stampa ne ha salutati quasi 313.000 (-15,8 per cento), precipitando a 60.300 copie. Il digitale non offre sollievo: Repubblica ha quasi dimezzato le copie (da 36.975 a poco più di 20.000). Il gruppo Gedi nel 2024 ha chiuso con 224 milioni di fatturato e 15 milioni di perdite.

Contro il riarmo e per la redistribuzione: oggi in Italia è sciopero generale

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Oggi in Italia è sciopero generale. Lo sciopero è stato lanciato dalla CGIL, che lo scorso mese ha preferito non partecipare alla chiamata dei sindacati di base per un nuovo sciopero generale e generalizzato e organizzarne uno proprio; anche UIL e CISL hanno preso una direzione analoga. Per l’occasione, il sindacato ha organizzato cortei e presidi in molte delle maggiori città italiane; lo scopo delle manifestazioni è quello di contestare le misure introdotte dal governo Meloni con la nuova finanziaria – e non solo: i lavoratori protesteranno contro l’innalzamento dell’età pensionabile, la precarietà nel lavoro e le politiche di riarmo, e a favore della introduzione di politiche industriali e di una riforma fiscale progressiva. In occasione del lancio dello sciopero, il governo ha ironizzato sul giorno della settimana in cui sarebbe caduto, declassando le proteste dei lavoratori a sorte diponti lunghi”.

Lo sciopero di oggi interesserà tutti i settori, a partire da quello dei trasporti. A Milano Atm non garantirà i collegamenti mattutini, fino alle 15; a Torino, per il servizio urbano, sono previste le fasce di garanzia dalle 12 alle 15, mentre per quello suburbano il servizio verrà garantito dalle 14.30 alle 17.30; a Venezia le corse dei traghetti verranno ridotte al minimo, mentre i bus verranno garantiti a partire dalle 16:30 fino alle 19.29; Atac, a Roma, sarà invece esentata dallo sciopero, e garantirà il flusso del servizio normalmente. Analoghi disagi sono previsti anche nelle ferrovie e nelle autostrade: per il trasporto regionale, Trenitalia, Trenitalia Tper e Trenord garantiranno i servizi dalle 18 alle 21, e gli addetti alla viabilità di autostrade e Anas sciopereranno 24 ore. Incroceranno le braccia anche i lavoratori della logistica, i portuali, i tassisti, il personale docente, quello sanitario, delle pubbliche amministrazioni, e i vigili del fuoco. Esentato il personale di igiene ambientale, quello del Ministero della Giustizia e il comparto aereo, che sciopererà il 17 dicembre.

Per lo sciopero di oggi sono previste piazze nella maggior parte delle grandi città italiane. La CGIL ha organizzato almeno 25 manifestazioni e presidi, che toccheranno Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Ancona, Perugia, Roma, L’Aquila, Napoli, Bari, Crotone, Palermo e Cagliari; tra le varie dimostrazioni, è previsto anche un presidio a San Nicola di Melfi, presso lo stabilimento di Stellantis. Le motivazioni dello sciopero sono cinque, tutte riassumibili entro una contestazione della manovra di bilancio; lo sciopero è stato indetto: «per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile; per dire no al riarmo e investire su sanità e istruzione; per contrastare la precarietà; per vere politiche industriali e del terziario; per una riforma fiscale equa e progressiva». La CGIL critica l’innalzamento delle tasse, la perdita di potere d’acquisto, il taglio alle politiche sociali e osserva la crescente fuga di giovani dall’Italia. Per questo chiede un rinnovo dei CCNL, il blocco dell’età pensionabile, un rilancio degli investimenti, un piano straordinario di assunzioni nei settori pubblici e maggiori spese nei servizi.

Per soddisfare le proprie richieste, sostiene il sindacato, andrebbe prelevato più denaro dalla popolazione più ricca con l’introduzione di una patrimoniale e tagliare le spese militari. Insomma: più redistribuzione e meno armi. A chiederlo non è solo il sindacato, ma anche associazioni e gruppi della società civile, che da ben prima della formazione del governo Meloni osservano l’aumento delle spese per le armi e il bisogno di introdurre una patrimoniale. L’osservatorio Mil€x contro la militarizzazione porta avanti da tempo una battaglia contro l’aumento delle spese militari, questione su cui l’ultimo esecutivo ha solo confermato una linea radicata da anni. Prima del 2022, e specialmente durante i governi a guida centro-sinistra, tuttavia, sono state poche le manifestazioni della CGIL sul tema.

Thailandia, sciolto il parlamento; ancora attacchi con la Cambogia

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Il primo ministro thailandese Anutin Charnvirakul ha sciolto il parlamento del Paese. La decisione di sciogliere il Parlamento arriva in un clima politico di sfiducia per il premier, a causa di una serie di discussioni sul cambio della Costituzione in corso da tempo; i cittadini saranno chiamati a votare nei prossimi 45-60 giorni. L’annuncio di dimissioni da parte di Anutin va in parallelo con i continui scambi di attacchi con la Cambogia; dal nuovo scoppio del conflitto, la scorsa settimana, almeno 20 persone sono state uccise e 200 ferite.

Il Messico aumenterà il salario minimo, diminuendo le ore di lavoro

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Il Messico ha annunciato un aumento del salario minimo del 13% e una riforma che porterà la settimana lavorativa da 48 a 40 ore entro il 2030. Due interventi che arrivano mentre il Paese continua a registrare oltre 2.200 ore lavorate all’anno per dipendente, una delle medie più alte tra le economie avanzate. Dal 2026 il salario minimo giornaliero salirà a circa 15,75 euro nel resto del Paese e a 22 euro nelle zone di frontiera con gli Stati Uniti. L’anno successivo inizierà invece la riduzione graduale dell’orario di lavoro, con un taglio di due ore all’anno fino a raggiungere le 40 settimanal...

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Palestina occupata: Israele approva altre 800 case negli insediamenti illegali

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Israele ha dato l’approvazione definitiva a un piano che prevede la costruzione di 764 nuove unità abitative in tre distinti insediamenti nella Cisgiordania occupata. A dare la notizia è il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno dei più arditi sostenitori del piano coloniale di Israele (oltre a essere colono egli stesso). «Israele continua la rivoluzione», ha commentato con tono trionfale il ministro. Di preciso, le nuove unità saranno distribuite tra Hashmonaim, situata oltre la Linea Verde (il confine pre-1967), nel centro di Israele, e Givat Zeev e Beitar Illit vicino a Gerusalemme. Esse andranno ad aggiungersi ai diversi progetti approvati nel corso di quest’anno, nell’ambito di quella che lo stesso Smotrich ha definito una «mossa strategica» per rafforzare le unità coloniali. Smotrich ha inoltre ricordato che dall’inizio del mandato dell’ultimo governo Netanyahu, a fine 2022, lo Stato ebraico ha approvato la costruzione di oltre 51mila unità abitative nei territori palestinesi occupati.

Delle 764 unità abitative previste dal nuovo piano di insediamento annunciato da Smotrich, 478 saranno costruite a Hashmonaim, 230 nella colonia ultra-ortodossa di Betar Illit e 56 a Givat Ze’ev. La decisione è stata presa dal Consiglio Superiore di pianificazione, l’organismo del Ministero della Difesa responsabile dei piani di costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, ed è stata promossa dallo stesso Smotrich, colono residente nell’insediamento di Kedumim, riconosciuto come illegale dalla comunità internazionale. Lo scopo del nuovo piano è esplicito: «Rafforzare gli insediamenti e garantire la continuità della vita, della sicurezza e della crescita» nelle colonie. Lo stesso Smotrich ha spesso definito la politica della colonizzazione, di cui risulta uno dei più arditi promotori, una tattica efficace per avvicinare Israele all’annessione totale della Cisgiordania; è anche per tale motivo che la scelta di aumentare ulteriormente le unità abitative attorno a Gerusalemme e nella Cisgiordania centrale è stato criticato dall’Autorità Palestinese, che ha chiesto l’intervento di Trump per garantire che la legge internazionale venga rispettata.

L’iniziativa annunciata ieri, spiegano i giornali israeliani, è parte di un più ampio piano di espansione nelle aree designate. Il riferimento è al piano di insediamento E1, che interesserà una vasta area nei pressi di Gerusalemme con lo scopo dichiarato di spaccare a metà la Cisgiordania. Esso di preciso prevede la costruzione di oltre 3.000 unità abitative tra Gerusalemme Est e Maale Adumim, che isolerebbero i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est dalle aree della Cisgiordania non occupate, e separerebbero di fatto Betlemme, la stessa Gerusalemme Est e Ramallah. Il piano è stato pensato oltre trent’anni fa, ed è stato duramente criticato da diversi Paesi e istituzioni internazionali; nonostante ciò, questa estate Israele ha fatto ripartire l’iter per la sua approvazione, congelato proprio a causa della generale opposizione internazionale.

Il piano di espansione E1 è solo uno dei tanti progetti di allargamento delle colonie israeliane in Cisgiordania. I vari schemi, inoltre, non si limitano a costruire nuove unità abitative, ma spesso riguardano l’implementazione di servizi, se non direttamente la costruzione di insediamenti nuovi. L’ultimo è stato annunciato qualche giorno fa dallo stesso ministro Smotrich, e prevede lo stanziamento di 2,7 miliardi di shekel – circa 720 milioni di euro – per la creazione di 17 nuove colonie in Cisgiordania nei prossimi cinque anni e lo sviluppo di infrastrutture coloniali in diverse aree dei territori occupati.