lunedì 22 Dicembre 2025
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Cipro diventerà il primo paese europeo a comprare gas da Israele

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L’isola di Cipro, un tempo nota solo per le spiagge e per il conflitto congelato dai tempi della guerra fredda, sta assumendo oggi un ruolo chiave nel Mediterraneo orientale. Il governo riconosciuto a livello internazionale, quello della metà greco-cipriota dell’isola, si sta consolidando come hub diplomatico-energetico regionale grazie alla vicinanza con Libano, Israele e Palestina. Il presidente cipriota Nikos Christodoulides ha siglato pochi giorni fa a Beirut uno storico accordo con il Libano sulla delimitazione della Zona Economica Esclusiva (ZEE). L’accordo, definito dal presidente «un traguardo di importanza strategica», mette fine a vent’anni di negoziati e apre la strada a progetti di cooperazione energetica, inclusa la possibile interconnessione elettrica tra i due Paesi. Ma a questo si aggiunge anche il recente accordo che l’isola ha siglato con Israele, che rifornirà Cipro di gas naturale.

La questione del gas, che coinvolge anche l’ENI e prosegue da oltre un quarto di secolo, è tornata al centro dell’attenzione a causa delle tensioni regionali e delle iniziative promosse dagli Stati Uniti per rompere l’isolamento relativo di Israele. In questo contesto, due accordi assumono un ruolo chiave: quello già citato tra Cipro e Libano e un altro, quello tra Cipro e Israele. Non è un caso che l’accordo sulla ZEE con Beirut arrivi ora: parallelamente al negoziato ventennale con il Libano, Cipro ha gettato le basi per l’accordo con Israele attraverso il gasdotto di Energean, un progetto destinato a collegare giacimenti già operativi come Karish e Karish North. Questi due elementi renderebbero possibile una “triangolazione” per evitare di accendere tensioni tra Israele e Libano, in un momento delicato come quello attuale. Anche se, va detto, nel 2022 Beirut e Tel Aviv avevano siglato un’intesa mediata dagli USA che definiva le rispettive zone marittime e la ripartizione dei giacimenti, sebbene Israele avesse ottenuto condizioni più favorevoli.

Il progetto del gasdotto di Energean rappresenta oggi l’opzione più rapida e concreta per fornire gas naturale all’isola, dice il CEO, Mathios Rigas, alla stampa cipriota: l’infrastruttura potrebbe essere completata entro 12 mesi dal rilascio delle licenze governative necessarie, con un costo stimato tra 350 e 400 milioni di dollari. Il progetto è interamente privato, potenzialmente finanziato da Energean stessa, con possibilità di coinvolgere partner in futuro.

In un contesto geopolitico complesso come questo, l’incognita principale rimane la Turchia: Ankara e il governo della Repubblica turco-cipriota non hanno un ruolo nei progetti siglati dalla Nicosia greco-cipriota e hanno sottolineato come le due iniziative unilaterali rappresentino una violazione degli accordi tra le due comunità, garantiti dall’ONU. Per dirla in breve: cosa tornerebbe ai turco-ciprioti dell’iniziativa del presidente del sud, Nikos Christodoulides? La repubblica secessionista considera sotto la sua giurisdizione gran parte della ZEE della Repubblica di Cipro. E questo è tutt’altro che un problema da poco.

Gli USA non sono rimasti a guardare e, per evitare un’escalation improvvisa, hanno aperto un negoziato con la Turchia, sperando di trovare anche una combinazione per affrontare la divisione dell’isola che perdura da oltre 50 anni. Gli incentivi europei non hanno convinto Erdoğan e, se le voci di collegare il ritiro delle truppe turche dall’isola ad accordi energetici fossero fondate, il compromesso sarebbe complesso: le linee tracciate dalla Turchia su sovranità, diritti territoriali e diritto internazionale non sono negoziabili per i greco-ciprioti, ma Ankara non vuole correre il rischio di essere esclusa dai progetti energetici del Mediterraneo orientale.

Per ora, l’accordo in vista tra Nicosia (sud) e Tel Aviv sul gasdotto viene denunciato dai turchi come una violazione, collegata alla crescente presenza di cittadini israeliani a Cipro. Intanto, Energean ha firmato una lettera di intenti con il gruppo industriale ed energetico cipriota Cyfield, per fornire gas alla futura centrale elettrica del gruppo. Il gasdotto avrebbe una capacità di 1 miliardo di metri cubi all’anno, sufficiente a coprire il fabbisogno della centrale e a fornire ulteriori volumi al mercato cipriota. Rigas ha sottolineato che il progetto è immediatamente realizzabile, basandosi su giacimenti già operativi in Israele, Karish e Karish North, attivi da oltre tre anni e che coprono circa il 50% della domanda israeliana. Dal 2027, la produzione aumenterà ulteriormente grazie al nuovo giacimento Katlan.

La proposta non sostituisce ma integra la strategia energetica di Cipro: terminale di Vasilikos, progetto FSRU e sviluppo dei giacimenti ciprioti sono tutti elementi necessari per trasformare l’isola in un hub energetico regionale, come vorrebbe il suo governo in carica. In questo modo, Cipro diventerebbe il primo Stato dell’UE a importare gas israeliano tramite gasdotto, all’interno di un piano sostenuto dagli USA volto a rafforzare l’asse Cipro–Grecia–Israele e la cooperazione strategica “3+1”. Lasciando in sospeso, tuttavia , mille questioni politiche e giuridiche,

Taiwan, armi dagli USA per 11 miliardi di dollari

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L’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha autorizzato una nuova vendita di armi a Taiwan per un valore complessivo di 11 miliardi di dollari, la seconda dall’inizio del suo secondo mandato. Il pacchetto, annunciato da Taipei, include sistemi missilistici Himars, obici semoventi, missili Atacms, armi anticarro, droni, software militari e componenti per elicotteri e missili Harpoon. Si tratta di un salto di scala rispetto al primo lotto da 330 milioni di dollari approvato a novembre. La Cina ha reagito duramente, chiedendo agli Stati Uniti di interrompere l’armamento di Taiwan.

Il governo Meloni ha modificato la legge di bilancio aumentando l’età pensionabile

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Il governo Meloni ha inserito nella legge di bilancio una serie di modifiche che rialzano i requisiti per il pensionamento e allungano i tempi di decorrenza dell’assegno, con effetti progressivi dal 2027 in poi. Accanto al ritorno dell’adeguamento automatico dei requisiti alla speranza di vita (con +1 mese nel 2027 e scatti più consistenti dal 2028), il maxiemendamento introduce anche l’allungamento della “finestra” tra maturazione dei requisiti e percezione della pensione, nonché una parziale sterilizzazione del riscatto della laurea. Le misure hanno scatenato contestazioni sindacali e dissensi nella maggioranza, mentre la premier ha escluso effetti retroattivi sul riscatto già perfezionato. Tale mossa viene inquadrata dai critici come l’ennesimo tradimento al mandato elettorale da parte delle forze di governo, che più volte avevano attaccato gli effetti della riforma Fornero sulle pensioni, ma che ora l’hanno resa addirittura più restrittiva.

L’intervento principale conferma il meccanismo di adeguamento dei requisiti pensionistici all’aspettativa di vita. Dopo un aumento “soft” di un mese nel 2027, il sistema torna a regime pieno dal 2028. Secondo le ultime proiezioni, ciò comporterà un progressivo innalzamento dei contributi necessari. Per la pensione anticipata, ad esempio, si passerà dagli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini a 43 anni e 1 mese nel 2028, fino a raggiungere 43 anni e 9 mesi dal 2037. La vera novità dell’emendamento riguarda la cosiddetta “finestra mobile”, il periodo di attesa tra la maturazione dei requisiti e la decorrenza della pensione. Attualmente fissata a tre mesi, sarà gradualmente allungata: salirà a quattro mesi per chi matura i requisiti nel 2032-2033, a cinque mesi per il 2034 e a sei mesi a partire dal 2035. Questo posticipo, unito all’adeguamento demografico, comporterà un significativo rinvio dell’uscita effettiva dal lavoro. «Formalmente la finestra non è un requisito contributivo, ma nei fatti costringe lavoratrici e lavoratori a restare più a lungo nel lavoro o senza reddito, rinviando la decorrenza della pensione», hanno fatto notare i sindacati.

La misura che ha scatenato le polemiche politiche, anche all’interno della maggioranza, riguarda il riscatto della laurea. Il testo originario prevedeva una penalizzazione progressiva di questo strumento a partire dal 2031: nel conteggio dei contributi utili per la pensione anticipata, verrebbero “sterilizzati” dai 6 ai 30 mesi degli anni riscattati. Dopo le proteste, la premier Meloni è intervenuta correggendo il tiro: «Nessuno che ha riscattato la laurea vedrà cambiata l’attuale situazione. Qualsiasi modifica che dovesse intervenire varrà solo per il futuro». La Lega, attraverso il senatore Claudio Borghi, ha presentato un subemendamento per cancellare completamente le misure sulle finestre e sul riscatto, definendole «clausole di salvaguardia inserite da qualche tecnico troppo zelante». Ma Meloni appare intenzionata a tirare dritto.

L’impatto sociale è al centro delle critiche: la Cgil evidenzia come l’aumento dei requisiti non colpisca tutti allo stesso modo ma pesi in modo sproporzionato sui redditi più bassi e sulle carriere discontinue. L’analisi del sindacato segnala che 5,1 milioni di dipendenti del settore privato — il 29% del totale — non riescono oggi a maturare un anno pieno di contributi, spesso per contratti brevi, part-time involontari o salari che restano sotto il «minimale contributivo». Dal 2022 al 2026 tale soglia è salita del 16,5%, più rapidamente delle retribuzioni, e per il 2026 per far valere 12 mesi saranno necessari almeno 12.551 euro annui: chi resta al di sotto “perde” settimane di contribuzione anche lavorando tutto l’anno.

A nemmeno due settimane dalla scadenza della conversione in legge alle Camere, per venire incontro ai desiderata di Confindustria il governo ha proposto di prolungare per altri tre anni agevolazioni fiscali sugli investimenti; inoltre, ha stanziato risorse aggiuntive — 1,3 miliardi e 532 milioni — destinate rispettivamente a incentivi legati a Transizione 4.0 e ai crediti d’imposta per gli investimenti nelle Zone economiche speciali (ZES). Parallelamente, c’è stato l’intervento sulle pensioni. Il paradosso evidenziato dai sindacati è che un governo che aveva promesso il superamento della legge Fornero ne ripristina invece la logica degli adeguamenti automatici, scaricando gli oneri della sostenibilità del sistema proprio sulle categorie più fragili. «Flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso facilitato alla pensione, favorendo al contempo il ricambio generazionale», «stop all’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita», «un sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo», si leggeva a chiare lettere nel programma con cui Fratelli D’Italia ha vinto le elezioni nel 2022. Il vicepremier Matteo Salvini, nel corso degli anni, ha più volte parlato della legge Fornero come di «una schifezza» e qualcosa di «disumano» e «immorale», annunciando che la sua cancellazione – definita un «impegno morale» – sarebbe stata «la prima cosa da fare una volta al governo». Dal 2018 Salvini è salito al governo per tre volte, ma la Legge Fornero è ancora lì.

In Bulgaria la pazienza è finita: la rivolta della “Gen Z”

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Mentre le cancellerie europee si preparavano a festeggiare l’ingresso della Bulgaria nell’eurozona, che avverrà il primo gennaio 2026, a Sofia si consumava un evento spartiacque: la caduta del governo di Rosen Zhelyazkov, avvenuta l'11 dicembre, a seguito di massicce proteste popolari. Questa volta, il Parlamento non ha sciolto le righe per calcolo elettorale, non è stata la solita manovra di palazzo a cui la politica bulgara – e non solo – ci ha abituati nell'ultimo decennio. Per comprendere la gravità della situazione, dobbiamo abbandonare la lente deformante che riduce tutto a uno scontro t...

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Torino, maxi operazione di polizia al centro sociale Askatasuna

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Nelle prime ore di questa mattina centinaia di agenti hanno iniziato una maxi operazione nel centro sociale Askatasuna di Torino. ll centro è stato perquisito insieme alle abitazioni di alcuni dei militanti, mentre le strade intorno sono state bloccate e le scuole adiacenti chiuse. Da quanto si apprende al momento, l’operazione sarebbe avvenuta nell’ambito delle inchieste sulle proteste alle OGR e alla sede di Leonardo degli scorsi mesi, oltre che all’azione nonviolenta nella sede della Stampa. Il sindaco Lo Russo ha riferito che, alla luce degli ultimi eventi, il patto di collaborazione tra il centro e il Comune (per la trasformazione di Askatasuna in bene comune ed evitare dunque lo sfratto) è da considerarsi concluso.

Von der Leyen all’Europarlamento: «la pace è finita, prepariamoci alla guerra ibrida»

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L’Europa deve prepararsi alla guerra ibrida e deve farlo in fretta. Almeno, così è come la pensa la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «L’Europa deve essere responsabile per la propria sicurezza: non è più un’opzione, ma un dovere. Conosciamo le minacce che dobbiamo affrontare e le affronteremo. Dobbiamo sviluppare e dispiegare nuove capacità per poter combattere una guerra ibrida moderna». La minaccia è sempre la stessa: la Russia. L’unico modo per difendersi da un ipotetico attacco: più armi, più investimenti nella difesa – 800 miliardi entro il 2030, secondo gli obiettivi dell’UE.

«La pace di ieri non c’è più» ha dichiarato von der Leyen all’inizio del proprio discorso. Ora, viviamo in un «mondo di guerre e di predatori». Il riferimento non è chiaramente a Israele, che l’Unione Europea continua ad appoggiare e finanziare nonostante a due mesi dalla firma del cessate il fuoco non abbia ancora fermato il genocidio contro la popolazione palestinese, ma alla Russia. La preoccupazione è chiara: «l’ordine mondiale del dopoguerra sta cambiando in modo irreversibile», con nuove potenze economiche che si affacciano sul mondo. Infatti, mentre «L’Europa ha perso quote del PIL mondiale, passando dal 25% nel 1990 al 14% di oggi» e agli Stati Uniti è toccata la stessa sorte, «solo in Cina, la quota del PIL globale è passata dal 4% nel 1990 al 20% di oggi». Gli equilibri si stanno quindi ribaltando, tanto dal lato economico quanto da quello bellico – d’altronde, non è più nemmeno tempo delle guerre in Kosovo, quando a sganciare le bombe contro i civili nel mezzo del continente era la NATO, o di quelle imperialiste portate avanti dall’Occidente “esportatore di democrazia” in Afghanistan e Medio Oriente. E probabilmente è proprio per recuperare un ruolo attivo nello scacchiere geopolitico globale che pochi giorni fa Giuseppe Cavo Dragone, la più alta carica militare all’interno della NATO, ha suggerito l’ipotesi di un attacco preventivo contro Mosca, proprio per far fronte alla cosiddetta “minaccia ibrida”.

In un mondo che si muove sempre più nella direzione del multipolarismo, insomma, l’Europa deve trovare il modo di ristabilire il proprio ruolo e fare i propri interessi. Anche perchè gli Stati Uniti lo hanno fatto capire chiaramente: per quanto riguarda la difesa, l’UE dovrà cominciare ad arrangiarsi. Per von der Leyen, però, «dalla difesa all’energia» l’Unione sta compiendo passi da gigante verso l’indipendenza. «Stiamo entrando in una nuova era: quella dell’indipendenza energetica dai combustibili fossili russi». Ciò che rimane implicito, nel suo discorso, è che a cambiare non è il modello, ma solo il fornitore: tra i principali fornitori dell’UE scompare Mosca e compare Washington, le cui tariffe non sono certo più convenienti. L’indipendenza nel campo della difesa, invece, può essere ottenuta in un solo modo: più fondi all’industria della guerra. Otto miliardi di euro sono stati investiti negli ultimi dieci anni, ottocento miliardi dovranno essere investiti da qui ai prossimi quattro – entro il 2030. Non solo perchè l’UE deve “difendere sè stessa”, ma perchè «non c’è atto più importante per la difesa europea che sostenere la difesa dell’Ucraina». Che avrà bisogno di “almeno” altri 137 miliardi nel corso dei prossimi due anni, 90 dei quali dovranno essere forniti dall’UE. La cifra è imponente, motivo per il quale von der Leyen invita a non soffermarsi sui numeri: «non si tratta solo di numeri, ma anche di rafforzare la capacità dell’Ucraina di garantire una pace reale, giusta, duratura, che protegga l’Ucraina e quindi anche il resto dell’Europa».

La Russia, insomma, continua ad essere il pretesto per l’Europa per investire nel mercato della guerra, che di questi tempi è sicuramente redditizio. I discorsi di pace, d’altronde, non fanno bene all’economia: basti vedere come i titoli delle aziende produttrici di armi crollino appena si ventilano discorsi di pace, per impennare non appena vengono fatti annunci militaristi. In questo contesto, va segnalato come, mentre von der Leyen insiste nel ripetere come Mosca stia dimostrando tutto il suo «disprezzo per la diplomazia e il diritto internazionale» pretendendo allo stesso tempo di «beneficiare dei privilegi dell’ordine economico mondiale», la Corte Penale Internazionale ha confermato il mandato di cattura contro Netanyahu, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità nel contesto dell’offensiva israeliana contro i palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. Si vedrà ora se l’Europa, al contrario di quanto fatto fino ad ora, sarà capace lei stessa di rispettare gli stessi principi, smettendo di collaborare con un criminale di guerra.

 

Open Arms, Salvini assolto in via definitiva

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È definitiva l’assoluzione per Matteo Salvini nel procedimento Open Arms, nell’ambito del quale il vicepremier era accusato di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. Nel 2019, mentre ricopriva l’incarico di ministro dell’Interno, Salvini aveva impedito a 147 migranti salvati dal mare da una nave della ONG spagnola di sbarcare a Lampedusa per 19 giorni. Nel 2024 era arrivata l’assoluzione da parte del Tribunale di Palermo, ma lo scorso luglio la Procura aveva impugnato il provvedimento. Ora, la Cassazione ha stabilito in via definitiva la sua non colpevolezza.

Una terapia innovativa è risultata efficace in pazienti con leucemia incurabile

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terapia genica leucemia

Nel Regno Unito una terapia genica sperimentale ha ottenuto risultati inattesi contro una forma di leucemia del sangue considerata finora incurabile. In uno studio clinico condotto dall’University College London e dal Great Ormond Street Hospital, il 64% dei pazienti trattati ha raggiunto una remissione duratura dopo il fallimento di tutte le terapie disponibili. I dati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine.
La T-ALL (Leucemia Linfoide Acuta a Cellule T) è un tumore del sangue che colpisce i linfociti T, cellule fondamentali del sistema immunitario. In condizioni normali, q...

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Volkswagen chiude una fabbrica in Germania: è la prima volta in 88 anni

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La data del 16 dicembre 2025 ha segnato un momento storico per la Volkswagen e per la Germania. Nel pomeriggio di ieri, infatti, i cancelli della Gläserne Manufaktur di Dresda si sono chiusi definitivamente, sancendo la fine della produzione automobilistica all’interno dello stabilimento. Si tratta della prima chiusura di una fabbrica del gruppo Volkswagen in territorio tedesco negli ultimi 88 anni, un evento emblematico che riflette le profonde trasformazioni e le difficoltà del settore. L’impianto, inaugurato nel 2001 come fiore all’occhiello tecnologico e architettonico voluto da Ferdinand Piëch, cessa così la sua attività dopo aver assemblato l’ultima ID.3, lasciando un’eredità complessa fatta di ambizioni, innovazione e, infine, contrazione della domanda.

La decisione, maturata nel quadro di un accordo siglato con i sindacati un anno fa, giunge in un momento di forti pressioni per il colosso di Wolfsburg. Pur restando il più grande costruttore europeo, l’azienda deve infatti affrontare la debolezza delle vendite nel Vecchio Continente, l’aggressiva concorrenza dei veicoli elettrici cinesi e l’incertezza legata ai dazi commerciali negli Stati Uniti. La chiusura dello stabilimento di Dresda, che aveva una capacità produttiva limitata, è stata una scelta considerata obbligata dal punto di vista economico. Il responsabile del marchio VW, Thomas Schafer, ha spiegato infatti che la decisione non è stata presa «alla leggera», ma che «da una prospettiva economica era essenziale».

Concepita e nata per diventare la vetrina della supremazia ingegneristica del gruppo, la “fabbrica di vetro” fu inizialmente dedicata alla produzione della lussuosa berlina Phaeton, sogno personale di Piëch che però non incontrò il successo commerciale sperato. Dopo la fine di quel modello nel 2016, lo stabilimento si riconvertì a simbolo della svolta elettrica, diventando nel 2017 il primo sito in Germania dedicato esclusivamente alla mobilità a batteria, con l’assemblaggio prima della e-Golf e poi della ID.3. In totale, dalla sua apertura nel 2002, l’impianto ha prodotto circa 200mila veicoli, cifra assai modesta se paragonata ai volumi degli altri siti del gruppo.

Per i circa 230 dipendenti coinvolti, Volkswagen ha predisposto un piano di ricollocamento in altri stabilimenti del gruppo, accompagnato da un incentivo economico di 30mila euro per chi accetterà il trasferimento. La chiusura della linea di produzione a Dresda rientra in un più ampio piano di riassetto che porterà, nei prossimi anni, a una riduzione di circa 35mila posti di lavoro in Germania attraverso il pensionamento naturale e un blocco delle assunzioni. La Volkswagen non abbandonerà completamente l’iconico sito, la cui area – in collaborazione con il Land della Sassonia e l’Università Tecnica di Dresda – sarà trasformata in un polo di innovazione tecnologica. Presto saranno infatti avviati lavori di ristrutturazione al fine di realizzare un centro di ricerca focalizzato su intelligenza artificiale, robotica e microelettronica. Il progetto, della durata di sette anni, vedrà un investimento complessivo di 50 milioni di euro. L’ultima ID.3 prodotta, una vettura di colore rosso, rimarrà esposta all’interno della struttura come testimonianza del passato industriale del luogo.

Già alla fine del 2024, il comitato aziendale del colosso automobilistico aveva confermato l’intenzione di chiudere tre stabilimenti Volkswagen in Germania, annunciando la previsione di forti ridimensionamenti su larga scala. La decisione era stata motivata dagli elevati costi dell’energia e della manodopera, dalla forte concorrenza asiatica, dall’indebolimento della domanda in Europa e Cina e da una transizione elettrica che si è rivelata più lenta del previsto. In seguito al fallimento delle trattative sui salari e all’intenzione di licenziare migliaia di lavoratori, in Germania era subito stato avviato lo sciopero dei dipendenti della Volkswagen, indetto dal sindacato dei metalmeccanici tedeschi IG Metall. La crisi di VW e, più in generale, dell’industria dell’auto in Europa, va inserita nel contesto più ampio del declino dell’industria europea, dovuta a politiche poco lungimiranti dell’UE, in particolare per quanto attiene la cosiddetta transizione energetica, e all’interruzione dei rapporti commerciali e energetici con la Russia, in seguito allo scoppio del conflitto in Ucraina. In particolare, la Germania, che importava la metà del suo fabbisogno energetico da Mosca, è stata la Nazione che più ha risentito della perdita del gas russo a basso costo, sostituito dal ben più caro GNL americano.

Trump congela l’accordo tech da 40 miliardi con Londra per ottenere condizioni più favorevoli

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Gli Stati Uniti hanno deciso di sospendere unilateralmente un patto transatlantico tecnologico e multimiliardario con il Regno Unito. Secondo fonti diplomatiche, la battuta d’arresto sarebbe motivata dall’insoddisfazione dell’amministrazione Trump rispetto alle normative britanniche in materia digitale e alimentare. La mossa non solo segna un raffreddamento significativo nei rapporti bilaterali, ma è stata anche interpretata come un tentativo concreto di esercitare pressione sugli alleati per influenzarne le scelte politiche e amministrative.

Il “Tech Prosperity Deal”, annunciato lo scorso settembre e oggi già in stallo, prevedeva un pacchetto da circa 40 miliardi di dollari destinato a settori strategici quali l’intelligenza artificiale, il calcolo quantistico e l’energia nucleare. Presentato come pilastro della cooperazione economica post‑Brexit, l’accordo mirava esplicitamente a rafforzare gli investimenti congiunti tra UK e USA e avrebbe dovuto tradursi per il governo britannico guidato da Keir Starmer una svolta decisiva, attraendo capitali statunitensi per creare posti di lavoro altamente qualificati e consolidare il ruolo del Regno Unito come hub tecnologico globale.

Ufficialmente, i negoziati diplomatici si sono arenati a causa dell’insoddisfazione di Washington in proposito di questioni politiche e commerciali che vanno ben oltre allo scoglio rappresentato da dazi e tariffe. Secondo quanto riportato dal The New York Times, l’amministrazione Trump ha deciso di sospendere temporaneamente l’accordo in attesa di “progressi concreti” da parte britannica su temi ritenuti prioritari per gli Stati Uniti. Al centro delle tensioni figurano in particolare la Digital Services Tax introdotta dal Regno Unito, la quale colpisce i grandi gruppi tecnologici statunitensi, e le normative britanniche in materia di sicurezza alimentare e standard regolatori, giudicate dagli USA eccessivamente restrittive e penalizzanti per gli esportatori americani. La Casa Bianca ha fatto sapere di considerare queste misure come ostacoli significativi a un reale accesso al mercato britannico e ha chiesto a Londra un allineamento più deciso alle sue richieste. 

Il governo britannico sostiene che il Tech Prosperity Deal non sia affatto morto e che il dialogo con gli Stati Uniti resti aperto, tuttavia rifiuta di smantellare o indebolire norme ritenute essenziali per la tutela dei consumatori e per la sovranità regolatoria del Paese, sottolineando come l’accordo tecnologico non possa essere subordinato a concessioni che avrebbero un forte impatto politico interno. Questa divergenza ha trasformato un progetto di cooperazione strategica in un terreno di scontro diplomatico, mettendo in luce le difficoltà strutturali nel conciliare interessi economici, pressioni politiche e visioni divergenti sul commercio globale. La situazione è inoltre complicata dall’assenza di un ambasciatore permanente a Washington, una mancanza che il governo guidato da Keir Starmer sta cercando di colmare con urgenza.

La vicenda si inserisce in un contesto internazionale più ampio, segnato da un irrigidimento della politica commerciale statunitense non solo verso il Regno Unito ma anche nei confronti dell’intera Unione Europea. In concomitanza con la sospensione del Tech Prosperity Deal e con le sanzioni imposte dalla Commissione europea a X, l’Amministrazione Trump ha intensificato le critiche alle normative europee sul digitale e ha minacciato misure contro diverse grandi aziende europee, citando per nome realtà quali Accenture, DHL, Siemens e Spotify.  “Se l’UE e gli Stati Membri insisteranno nel continuare a soffocare, limitare e scoraggiare con mezzi discriminatori la competitività dei fornitori di servizi statunitensi, gli Stati Uniti non avranno altra scelta che iniziare a utilizzare ogni strumento a loro disposizione per contrastare queste misure irragionevoli”, sostiene Jamieson Greer, Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America. Poco sorprendentemente, la reazione ventilata prevede l’imposizione di nuovi dazi e di restrizioni alle imprese europee.