giovedì 11 Dicembre 2025
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A 20 anni dalla liberazione di Venaus, la lotta No TAV continua

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A novembre, venti anni fa, nei prati di Venaus c’era la neve; cadeva fitta e durava, sull’erba di ghiaccio, sulle tende del presidio di lotta, sulle nostre vite intirizzite ma determinate a resistere. Poco potevano, nei giorni e nelle notti sotto zero, i fuochi accesi nei bidoni, le pentole di bevande calde, i minestroni messi a cuocere sui focolari improvvisati. Eppure l’opposizione popolare contro il progetto TAV durava, cresceva di ora in ora, acquistava volontà e coscienza, si faceva sapere e azione collettiva.

La pratica del “fermare il TAV si può, fermarlo tocca a noi” non era nata all’improvviso, ma veniva da decenni di controinformazione sull’inutilità della grande mala opera e sui suoi costi enormi, non solo economici, ma sociali e ambientali. Il 2005 che terminava nel gelo della Val Cenischia era stato un intenso anno di lotte in tutta la Valle contro gli espropri dei terreni, per impedire le prime trivellazioni geognostiche. Aveva visto la nascita dei presidi nei prati di Borgone e Bruzolo, l’epica battaglia del Seghino, sulla via del Rocciamelone, contro la prima occupazione militare armata a Mompantero.

Ma fu a Venaus, vittima designata per il primo cantiere del tunnel esplorativo – poi realizzato alla Maddalena di Chiomonte – che nacque e resistette per dieci, intensi giorni, la “Libera Repubblica di Venaus”. Contro la violenza del sistema e la disinformazione dei mass media, trovammo con noi il mondo delle persone comuni, gli operai, i contadini, gli studenti delle università di tutto il Paese. Arrivarono i vecchi partigiani che avevano difeso quegli stessi luoghi contro i fascismi di sempre. Anche i sindaci della Valle, davanti alla tracotanza dello Stato di polizia, si fecero movimento. La notte del sei dicembre piombarono sul presidio ruspe, blindati, manganelli: un esercito in assetto antisommossa che randellò le persone, devastò tende ed effetti personali, fece roghi di libri e bandiere. La Valle, riunita in assemblea permanente, rispose alzando barricate e occupando strade statali, autostrada e ferrovia, così da impedire la circolazione delle truppe.

E spuntò l’alba dell’8 dicembre, il giorno della liberazione di Venaus. Una moltitudine di almeno 30mila persone si avviò verso la Val Cenischia: un corteo silenzioso, senza musiche né slogan. All’ingresso della valle trovammo il blocco di polizia e carabinieri; furono spazzati via da una valanga di corpi, armati solo della propria rabbia. Così ci riprendemmo ciò che, con amore e sacrificio, avevamo difeso. 

Vent’anni sono passati. Molti di noi di allora non ci sono più, qualcuno se l’è preso il tempo inesorabile, altri le vicende della vita, ma ora ci sono i nostri figli e nipoti. La lotta deve continuare, perché se nulla è stato fatto dell’opera vera e propria, la devastazione sta avanzando con i cantieri propedeutici.

Nell’alleanza di TELT (la Società promotrice del TAV) e SITAF, la società autostradale, i profitti si uniscono per mettere a ferro e fuoco la Valle. Così l’ex autoporto di Susa cambia destinazione e diventa discarica a cielo aperto per i detriti di amianto e uranio, mentre un nuovo autoporto è stato costruito a San Didero, abbattendo il bosco che ricopriva e neutralizzava i veleni delle acciaierie. 

Si trivella sul territorio di Bussoleno, tra i prati e il bosco fluviale, dove sono previsti il nuovo ponte ferroviario e l’interconnessione tra TAV e ferrovia storica. E la faggeta della Maddalena non esiste più, spazzata via dal cantiere e dall’ennesimo svincolo autostradale. Così da questa nostra terra se ne vanno vita e bellezza. Bruciano i ricordi. Anche questa è guerra. Diversi i mezzi e l’intensità, ma identico il fine: i grandi interessi del capitale, la sete di dominio, la follia omicida ed ecocida che nega al pianeta ogni possibilità di futuro. 

Questa consapevolezza ci affratella alla Palestina e a tutti i popoli del mondo che resistono perché vita, terra, giustizia, uguaglianza, libertà, non siano parole vane. A San Giuliano, dove sono previsti lo sbocco del tunnel transfrontaliero e la stazione internazionale del TAV, sono stati espropriati case e terreni e l’abbattimento degli edifici è ormai alle porte. La prima vittima sacrificale sarà una casa-simbolo: vecchi muri costruiti per durare, un orto, qualche pianta da frutta e, sulla facciata, il murale di Blu: un grande albero le cui fronde sono mani che strappano reti, impugnano tronchesi, sventolano bandiere, mentre si difende contro il mostro ferrigno in marcia su piedi di ruspe. Un grido di rivolta, la nostra rivolta. La natura che si difende. Un monito contro l’interiorizzazione della sconfitta. L’immagine ci è cara e ci rappresenta: per questo, a ogni costo, la difenderemo. 

L’UE approva la deregolamentazione dei nuovi OGM

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L’Unione Europea ha dato il via libera al nuovo quadro regolamentare per le cosiddette “Nuove Tecniche Genomiche” (NGT), soprannominate in Italia “TEA” (Tecniche di Evoluzione Assistita): buona parte delle piante ottenute con queste tecniche sarà considerata equivalente a varietà convenzionali e, quindi, sarà esentata da obblighi di etichettatura, valutazione del rischio e monitoraggio ambientale. Le organizzazioni contadine, dell’agricoltura biologica e ambientaliste condannano senza appello l’accordo, denunciando l’assenza di un adeguato monitoraggio degli impatti su salute e biodiversità, i gravi rischi per il settore biologico e la totale mancanza di limiti allo strapotere delle multinazionali sementiere.

Dopo oltre due anni di negoziati, l’UE ha definito una classificazione chiara: le NGT saranno divise in due categorie, NGT-1 e NGT-2. Le piante della classe NGT-1 – che comprendono prodotti di laboratorio considerati equivalenti a quelli della natura, con modifiche minime al genoma – saranno trattate come piante convenzionali. Per esse non ci sarà l’obbligo di etichettatura né di tracciabilità, né altre misure restrittive. In questa categoria, attualmente ricade il 94% dei nuovi OGM in fase di studio. Le varietà catalogate come NGT-2, cioè, quelle con modifiche più ampie di una soglia arbitraria di 20 nucleotidi, o con tratti potenzialmente sensibili – come tolleranza agli erbicidi o effetti insetticidi – resteranno soggette alla normativa vigente per gli OGM: autorizzazioni, controlli, etichette informative. Gli Stati membri avranno anche la facoltà di vietare o limitare la coltivazione sul proprio territorio. Secondo le autorità comunitarie e alcuni rappresentanti del mondo agricolo, la mossa rappresenta un’opportunità per rinnovare e modernizzare il settore agrario europeo: le nuove varietà potrebbero essere più resistenti agli stress ambientali, come siccità o inondazioni e tolleranti a condizioni sempre più difficili causate dai cambiamenti climatici. Inoltre, potrebbero richiedere un uso inferiore di fertilizzanti e pesticidi, con benefici per la sostenibilità e la competitività della produzione agroalimentare. In una nota, la confederazione agricola Coldiretti ha definito l’intesa «un passo avanti importante» per valorizzare le potenzialità delle tecniche di evoluzione assistita a favore degli agricoltori europei.

La decisione ha però suscitato l’allarme di molte associazioni per l’agricoltura biologica, ambientaliste e per la tutela dei consumatori – tra cui FederBio, Slow Food, Greenpeace, LIPU e altre – che bollano l’accordo come un grave passo indietro per la tutela della biodiversità, dell’ambiente e della sovranità alimentare. «I TEA sono OGM e come tali devono essere regolamentati», spiega FederBio, che invita la plenaria dell’Europarlamento a bocciare la proposta e i governi a rifiutarla. Il nodo centrale delle critiche riguarda la liberalizzazione delle NGT-1: esentare dalla regolamentazione piante ottenute con tecniche genetiche, senza obblighi di etichettatura e tracciabilità, significa aprire la porta a una diffusione su larga scala di varietà potenzialmente brevettate. Le nuove norme favorirebbero, infatti, le multinazionali, permettendo loro di brevettare le sementi. Questo potrebbe compromettere la certificazione di chi produce biologico o alimenti “OGM-free” e mettere a rischio varietà tradizionali e locali, elemento chiave della biodiversità agraria. La contaminazione genetica dei campi non sarebbe più controllabile e le aziende agricole convenzionali o biologiche correrebbero il rischio di perdere lo status e la fiducia del mercato. Vi è poi un problema di trasparenza e oneri: in caso di danni ambientali o sanitari, le imprese che immettono sul mercato prodotti NGT-1 potrebbero sottrarsi a controlli o responsabilità, rendendo difficile la tracciabilità e la tutela dei consumatori.

L’accordo deve ancora essere formalmente approvato: il testo passerà per il voto del Parlamento Europeo e per la ratifica da parte dei governi degli Stati membri. Non è ancora chiaro se le maggioranze siano consolidate. Se entrerà in vigore, il nuovo regolamento potrà cambiare radicalmente il volto dell’agricoltura in Europa: da una parte offrendo nuove opportunità di resilienza climatica, produttività e innovazione varietale; dall’altra aprendo a scenari critici per il biologico, la biodiversità, la tracciabilità del cibo e la trasparenza verso i consumatori. Il dibattito, già acceso, rischia di intensificarsi. Per molte associazioni, la partita non è chiusa: chiedono che il regolamento venga respinto o quantomeno rivisto nelle aule europee prima di qualsiasi approvazione definitiva. La posta in gioco non è solo normativa: riguarda il futuro stesso del cibo che coltiviamo e mangiamo.

Thailandia, attacchi aerei contro esercito cambogiano

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La Thailandia ha lanciato attacchi aerei contro l’esercito della Cambogia in risposta a scontri lungo il confine conteso. Poco prima Bangkok aveva annunciato l’uccisione di un soldato e il ferimento di altri quattro al confine, dove imperversano gli scontri a causa di una disputa secolare sui confini tracciati durante il dominio coloniale francese nella regione. La Cambogia controaccusa la Thailandia di aggressione: le sue forze non avrebbero risposto. La crisi mina l’accordo di tregua siglato a ottobre a Kuala Lumpur sotto l’egida di Donald Trump.

La Norvegia ferma l’estrazione mineraria in acque profonde

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In seguito a intense trattative con le altre forze politiche del Parlamento, il governo laburista al potere in Norvegia ha ufficialmente confermato che non rilascerà licenze per l’estrazione in acque profonde fino al 2029, quando andrà in scadenza l’attuale legislatura. L’anno scorso, proprio su spinta dei laburisti, il Paese scandinavo era diventato il primo Stato al mondo a dare il via libera all’estrazione in acque profonde per accelerare la ricerca sottomarina di minerali usati per costruire tecnologie verdi. Un primo stop era però già arrivato lo scorso dicembre, quando l’esecutivo - dopo...

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Benin, sventato tentativo di colpo di Stato

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Tredici soldati del Military Committee for Refoundation sono stati arrestati in Benin dopo un tentativo di colpo di Stato. Il gruppo aveva rivendicato poche ore prima in televisione di aver destituito il presidente Patrice Talon, al potere dal 2016, e la nomina del tenente colonnello Pascal Tigri a presidente del Comitato militare. Dopo l’annuncio, le forze armate fedeli a Talon hanno ripreso il controllo del Paese. Il tentativo di golpe arriva in un contesto di crescente instabilità nella regione.

Macron minaccia dazi contro la Cina per ridurre il deficit UE

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Emmanuel Macron assume una linea dura nei confronti della Cina e mette sul tavolo l’ipotesi di nuovi dazi qualora non vengano adottate iniziative per contenere l’ampio disavanzo commerciale con l’Unione Europea. Il presidente francese, rientrato da una missione ufficiale a Pechino, parlando con Les Echos, ha affermato che, se Pechino non prenderà provvedimenti per ridurre il deficit commerciale con l’Unione europea, l’UE «sarà costretta, nei prossimi mesi, a prendere misure forti», ovvero dazi a livello comunitario.

Come la società difende e celebra le disuguaglianze sociali

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Il mondo contemporaneo è segnato da squilibri economici sempre più profondi: la diseguaglianza sociale cresce sotto lo sguardo assuefatto dell’opinione pubblica, mentre una ristretta élite di miliardari concentra una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale. Eppure, invece di provocare accese critiche e un rifiuto diffuso, la disparità economica finisce sempre più spesso per essere accettata, talvolta persino giustificata come inevitabile o celebrata come segno di successo. È quanto emerge dal libro The Social Acceptance of Inequality: On the Logics of a More Unequal World (Oxford University Press, 2025), curato dai sociologi Francesco Duina, docente al Bates college, e Luca Storti, professore associato all’università di Torino.

Il libro non indica soluzioni immediate, ma fa emergere i meccanismi psicologici e sociali che rendono i divari sociali accettabili. In alcuni contesti l’accettazione degli squilibri è molto più diffusa, come in Cina, dove oltre il 60% della popolazione giustifica le disuguaglianze di reddito, o in Svezia, dove emerge un ampio consenso verso welfare selettivo e discriminatorio nei confronti dei migranti. Con contributi corali e interviste provenienti da tutto il mondo, The Social Acceptance of Inequality mostra come le disuguaglianze non sono semplici effetti collaterali della modernità, ma trovano giustificazioni in una serie di “logiche di accettazione” profondamente radicate nelle coscienze individuali e collettive. Queste logiche – di natura economica, morale, culturale e di gruppo/etnica – sono spesso intrecciate fra loro, e convogliano in un’unica direzione: normalizzare la distanza tra ricchi e poveri, rendendola parte integrante del sistema. Le disuguaglianze non sopravvivono solo perché utili a chi detiene il potere, ma perché vengono giustificate attraverso narrazioni condivise. Il mercato diventa il primo alibi: concentrare ricchezza viene presentato come un motore di crescita, di innovazione, di benefici indiretti per tutti. La diseguaglianza, in questa prospettiva, non è un problema ma una condizione necessaria, un prezzo inevitabile del progresso. Per i venture capitalist o i fondatori di startup tecnologiche, la concentrazione di ricchezza rappresenta una “virtù”. Spesso, chi detiene i capitali fa leva su narrative filantrocapitalistiche: donazioni, start-up, tecnologie “salva-mondo”, tutte giustificazioni per un sistema che redistribuisce poco o nulla in termini strutturali. Questa combinazione di giustificazioni e auto-narrazioni produce una normalizzazione sociale: le disuguaglianze crescono, si consolidano, e al tempo stesso diventano invisibili perché vengono percepite come inevitabili, persino come “naturali”. Il sistema finisce così per ammettere la povertà come dato ineluttabile, a cui è inutile opporsi.

C’è poi chi sposa una logica più subdola: quella morale. In questa lettura, la ricchezza è vista come un premio meritocratico: chi si impegna, studia, rischia, “merita” di più. L’eredità familiare e il successo individuale non sono privilegi, ma ricompense legittime di un ordine considerato “giusto”. In certi casi, si arriva perfino a guardare con sospetto chi chiede pari opportunità, come se la povertà fosse il risultato di insufficiente impegno, incapacità o pigrizia. La normalizzazione della disuguaglianza passa anche attraverso una logica culturale o istituzionale: le strutture sociali e politiche in molti Paesi sono costruite in modo che le disuguaglianze non appaiano anomalie da correggere, ma pilastri inevitabili di un ordine ritenuto “naturale”. Spesso questa accettazione trova terreno fertile in contesti in cui la mobilità sociale è minima e l’accesso a risorse e opportunità si trasmette attraverso reti socioeconomiche chiuse o ereditarie. Ultima – e forse la più insidiosa – è la logica di gruppo o etnica, secondo cui certe categorie sociali, etniche, nazionali o di classe sarebbero “naturalmente” più meritevoli, degne di maggiori risorse. Non è un pensiero esplicito, ma traspare nelle scelte concrete su welfare, lavoro, opportunità.

Il vero paradosso è che questo consenso non è monopolio di chi detiene il potere e la ricchezza. Anche persone in condizioni precarie finiscono per accettare e addirittura giustificare le disuguaglianze. In questo modo, la disparità diventa strutturale non solo nei fatti, ma nella mentalità collettiva: un fossato che divide ricchi e poveri e al tempo stesso allontana chi vorrebbe cambiare il mondo dall’idea stessa di giustizia sociale.

Naufragio a Creta, almeno 17 migranti morti

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Almeno 17 migranti sono morti nel naufragio di un’imbarcazione avvenuto al largo dell’isola di Creta, ha comunicato la Guardia costiera greca. Tutte le vittime erano uomini, recuperati a sud dell’isola dopo che un cargo turco di passaggio aveva lanciato l’allarme. Due superstiti sono stati tratti in salvo e ricoverati in ospedale in condizioni critiche. Secondo i media locali, l’imbarcazione, un gommone sovraccarico, era “parzialmente sgonfia” e stava imbarcando acqua, circostanza che avrebbe reso drammatico il naufragio. Le autorità stanno indagando sulle cause del naufragio.

Chi decide sull’oro italiano? Dietro lo scontro tra governo Meloni e BCE

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La Banca Centrale Europea chiude la porta a un emendamento presentato da Fratelli d’Italia alla legge di bilancio, primo firmatario il senatore Lucio Malan, e richiama Roma al rispetto delle regole dell’Eurozona. Con un parere formale, la BCE mette in guardia l’Italia contro qualsiasi tentativo volto a contestare l’indipendenza della banca centrale ed evidenzia conflitti con il Trattato UE e l’autonomia della Banca d’Italia. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) sta ora lavorando a una riformulazione del testo per recepire le obiezioni della BCE, anche se diversi esperti suggeriscono di ritirarlo del tutto per evitare nuovi attriti istituzionali. Al centro dello scontro c’è un tema che ciclicamente riemerge nel dibattito politico: la proprietà e il controllo delle riserve auree della Banca d’Italia. Una questione che va ben oltre il valore simbolico dell’oro e tocca un nervo scoperto del rapporto tra sovranità nazionale e architettura europea. L’iniziativa di FdI ha riacceso tensioni mai del tutto sopite tra politica e istituzioni monetarie, riportando alla luce una storica battaglia sovranista e sollevando il timore, per la BCE, di un precedente pericoloso. In gioco non c’è solo la gestione di uno dei maggiori patrimoni aurei mondiali, quello italiano, ma anche l’assetto istituzionale che regola i rapporti tra Stati membri, banche centrali nazionali e Unione Europea.

L’emendamento di Fratelli d’Italia

Il capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan

La versione originaria della proposta, firmata dal senatore e capogruppo di FdI Lucio Malan, enunciava una cosa apparentemente semplice: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano». Nei giorni scorsi, l’emendamento è stato riformulato in chiave interpretativa. Secondo il nuovo testo, la disposizione sulla gestione delle riserve ufficiali contenuta nel Testo Unico delle norme in materia valutaria «si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano». Il senatore Malan ha precisato che la versione aggiornata dell’emendamento è attualmente oggetto di istruttoria da parte della Banca centrale europea.

La cessione di sovranità monetaria all’UE

L’oro è già patrimonio dello Stato italiano, ma quando l’Italia è entrata nell’euro ha ceduto la sua sovranità monetaria all’Unione Europea. In pratica, lo Stato non può esercitare alcuna prerogativa diretta, perché ha accettato che la Banca d’Italia facesse parte di un sistema più grande: quello delle banche centrali europee, coordinate dalla BCE. Ed è proprio questo il nodo dello scontro. L’emendamento avanzato da FdI è, pertanto, in contrasto con i trattati europei e con lo statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali, il cosiddetto SEBC. L’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea obbliga gli stati membri a consultare la BCE in caso di interventi in materie che la riguardano, tra cui appunto l’oro.

La battaglia sovranista sulle riserve auree

L’emendamento di Fratelli d’Italia non è una novità. È una battaglia storica della destra, che risale ai tempi in cui lo stesso partito di Giorgia Meloni aveva posizioni apertamente antieuro e chiedeva l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. In tutta Europa, i partiti euroscettici contestano i vincoli che legano le banche centrali nazionali alla BCE. Non sorprende, quindi, che l’idea di riportare l’oro sotto il controllo diretto dei governi sia stata a lungo un tema centrale per le forze favorevoli, in passato, all’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, come Lega e Fratelli d’Italia. Tra i promotori più attivi figuravano i leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai e la stessa Giorgia Meloni, che negli anni dell’opposizione ha più volte invocato un utilizzo diretto delle riserve auree per sostenere misure di spesa pubblica.

Come disporre delle riserve auree?

L’oro non può essere utilizzato per finanziare deficit o nuove spese pubbliche. Le norme europee lo vietano esplicitamente. L’unico modo per “sfruttarlo” sarebbe venderlo o darlo in garanzia. Se il governo potesse effettivamente disporre delle riserve auree, potrebbe teoricamente usarle come un tesoretto politico per ridurre le tasse, finanziare opere pubbliche o sostenere misure contro la povertà. L’emendamento presentato da Malan non arriva a ipotizzare un impiego diretto dell’oro, ma il modo in cui è formulato lascia intendere una posizione implicita della maggioranza: l’idea che il patrimonio aureo possa essere messo al servizio della politica fiscale. Dall’altra, si aprirebbe uno scontro istituzionale perché significherebbe rinnegare l’indipendenza delle banche centrali. Per la BCE, anche piccole modifiche possono trasformarsi in crepe pericolose e l’indipendenza di Bankitalia rimane una linea rossa.

Una riserva tra le più grandi al mondo

L’Italia custodisce 2.452 tonnellate di oro fisico, la terza riserva aurea al mondo, superata solo da Stati Uniti (8.133 tonnellate) e Germania (3.352 tonnellate). Una dimensione che colloca Bankitalia tra gli attori strategici globali. Il valore dell’oro è iscritto a bilancio a circa 200 miliardi di euro, secondo criteri prudenziali, ma il valore di mercato – con l’oro che negli ultimi mesi ha ritoccato nuovi massimi – ha superato i 280 miliardi. Venderne una parte oggi comporterebbe un incasso potenzialmente elevato, ma allo stesso tempo indebolirebbe la riserva strategica del Paese. Inoltre, grandi vendite produrrebbero automaticamente un ribasso dei prezzi, riducendo il guadagno atteso.

La distribuzione della riserva aurea italiana

Se la riserva aurea italiana nasce in gran parte nel secondo dopoguerra, solo una parte è custodita in Italia (il 44,86%, 1.100 tonnellate), tra Palazzo Koch e le sedi dell’Eurosistema. Una quota significativa, stimata attorno al 43,29% (circa 1.061,5 tonnellate), è depositata presso la Federal Reserve Bank di New York, uno dei caveau più sicuri e storicamente più utilizzati al mondo. Il trasferimento di una parte delle riserve auree negli USA risale agli accordi di Bretton Woods del 1944: allora, molti Paesi depositarono parte del loro oro negli Stati Uniti –considerati il centro della finanza globale e il Paese più sicuro per stoccare metallo fisico – e l’Italia, uscita dal conflitto in condizioni fragili, adottò la stessa strategia. Il resto si trova presso la Banca d’Inghilterra (5,76% per 141,2 tonnellate) e la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) a Basilea (6,09% 149,3 tonnellate). Questa distribuzione non risponde a logiche politiche, ma operative: l’oro all’estero è più facilmente mobilizzabile per eventuali operazioni di mercato, swap o garanzie internazionali.

Il parere della BCE: un altolà formale

La presidente della Banca centrale europea (BCE), Christine Lagarde

La BCE, attraverso un parere firmato da Christine Lagarde, ha bocciato l’emendamento avanzato da FdI, ricordando che l’oro detenuto da Bankitalia fa parte delle riserve ufficiali dell’Eurosistema. Ciò implica che nessuno Stato membro può disporne unilateralmente. Interpellata dall’eurodeputato Tridico, Lagarde ha chiarito che, secondo i trattati europei, la detenzione e la gestione delle riserve spettano esclusivamente alla banca centrale nazionale di ciascuno Stato membro. «La Banca d’Italia non è diversa da qualsiasi altra banca centrale», ha rimarcato la presidente della BCE, ribadendo come la gestione operativa, contabile e distributiva dell’oro resti di sua piena competenza, senza alcuna variazione rispetto al parere già espresso nel 2019.

Il rischio di un precedente per l’Eurozona

Lagarde ha di fatto ricordato che l’assetto giuridico europeo assegna alle banche centrali nazionali la piena gestione delle loro riserve. La BCE vuole preservare tale equilibrio istituzionale su cui si fonda l’Eurosistema ed evitare che si crei un precedente: un trasferimento di proprietà o una riformulazione ambigua della norma sulla gestione delle riserve auree potrebbe aprire la strada a un uso politico dell’oro, creando un precedente in tutta l’Eurozona. Se un Paese modifica unilateralmente il quadro relativo alle proprie riserve, altri potrebbero sentirsi legittimati a fare lo stesso, con impatti potenzialmente pericolosi per la stabilità dell’Eurozona.

Un equilibrio delicato

Lo scontro tra governo e BCE non è un caso isolato, ma il segnale di un contesto in cui la politica cerca nuovi spazi di manovra dentro un sistema europeo sempre più strutturato. La vicenda dimostra quanto sia sottile il confine tra sovranità nazionale e regole dell’Eurozona e come, paradossalmente, l’oro continui a essere un nodo sensibile anche nell’epoca della finanza digitale. Attribuire formalmente alla Repubblica la proprietà di un bene che il governo non può toccare e che rimane nella disponibilità operativa di una banca centrale indipendente, produce effetti concreti minimi, a meno che non rappresenti il primo passo verso un ripensamento radicale dell’unione monetaria: un’ipotesi estrema sul piano politico, ma che, dal punto di vista tecnico, passerebbe proprio attraverso il controllo delle riserve auree.

Ucraina, blackout a Kremenchuk dopo attacco russo

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Nella notte, un massiccio attacco russo ha colpito l’Ucraina coinvolgendo oltre 650 droni e 51 missili balistici. L’attacco è stato descritto da Mosca come “risposta” ai recenti bombardamenti ucraini. Tra le città più colpite c’è Kremenchuk, dove decine di migliaia di abitanti si trovano ora senza elettricità, acqua e riscaldamento. Non ci sono per ora notizie di vittime né è chiara l’entità dei danni denunciati dal sindaco della città, Vitaliy Maletsky.