Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) ha ridotto i finanziamenti del Pnrr destinati alle Comunità energetiche rinnovabili da 2,2 miliardi a 795,5 milioni, con un taglio del 64%. È quanto ricostruito dal portale specializzato Punto CER, che lancia l’allarme in merito alle potenziali ripercussioni sull’intero settore strategico per la transizione energetica italiana. La mossa, annunciata il 21 novembre, mette infatti in grave difficoltà centinaia di aziende che avevano investito risorse, formato personale specializzato e costruito competenze specifiche basandosi sulle promesse governative.
La decisione è stata comunicata attraverso un post su LinkedIn del presidente del Gse, Paolo Arrigoni, che ha rilanciato il comunicato del Mase definendo «raggiunta e superata» la milestone degli 1.730 MW, essendo pervenute richieste per 1.759,7 MW pari a 772,5 milioni di euro. Una modalità di comunicazione che ha generato sconcerto tra gli operatori, come ha denunciato Giovanni Montagnani, presidente di Cer Vergante Rinnovabile: «A 10 giorni dalla scadenza del bando (30 novembre), non esce un decreto, ma un post su LinkedIn del Presidente del GSE che annuncia il taglio di 2/3 dei fondi. Le regole cambiano a partita finita, bruciando i business plan di migliaia di aziende».
La misura, nata per spingere la partecipazione di cittadini, enti locali e imprese alla transizione, è stata in molti casi il punto di riferimento per scelte industriali e occupazionali. Negli ultimi due anni aziende e studi tecnici hanno assunto personale, formato tecnici e costruito reparti dedicati alle CER partendo da un quadro normativo che, seppur complesso, appariva stabile. Il taglio improvviso mette ora a rischio piani industriali e posti di lavoro, trasformando investimenti strategici in costi sommersi. Il governo sostiene che si tratta di adeguamenti necessari per rispettare vincoli europei e parla di «fattori esogeni» che avrebbero giustificato la scelta; tuttavia il conto ricade su imprese e territori. Con 772,5 milioni di euro già richiesti (dato aggiornato a fine novembre) e una dotazione totale di 795,5 milioni, il margine per finanziare progetti già valutati è quasi inesistente.
Le conseguenze del taglio si estendono ben oltre gli aspetti finanziari. Il modello delle comunità energetiche, che mette i cittadini al centro della transizione energetica trasformandoli in protagonisti attivi, rischia infatti di vedere drasticamente ridotte le sue potenzialità di sviluppo. A complicare ulteriormente il quadro si aggiungono difficoltà operative concrete. Sono infatti state segnalate pratiche approvate già da febbraio che attendono ancora i pagamenti, apparentemente bloccate dall’assenza del portale necessario per erogare i fondi. Contemporaneamente, la scadenza di giugno per la realizzazione degli impianti rimane ferma, costringendo le imprese a lavorare in condizioni di forte pressione temporale. A questo si aggiungono i rischi per la sicurezza dei lavoratori: «La scadenza per i lavori resta ferrea: i mesi persi da loro per valutare le pratiche diventano tempo sottratto ai cantieri. Per stare nei tempi, gli installatori dovranno correre», ha evidenziato Montagnani.
In questo momento, le imprese si trovano dunque di fronte a scelte drammatiche: mantenere i team formati sperando in «eventuali integrazioni finanziarie future» – una speranza, appunto, non una certezza – oppure ridimensionare drasticamente l’organico, disperdendo competenze faticosamente acquisite. Il MASE rassicura che i progetti valutati positivamente ma non finanziabili «saranno comunque considerati idonei ai fini di eventuali scorrimenti», ma si tratta solo di una magra consolazione che non paga stipendi e non ammortizza investimenti.
L’ONG Medici Senza Frontiere (MSF) ha dichiarato di avere ritirato il proprio personale da un ospedale della regione sudanese del Darfur. La decisione arriva dopo che un membro del personale è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco, in un episodio in cui sono rimasti feriti altri 4 medici. MSF ha chiesto ai ribelli delle Forze di Supporto Rapido, che controllano la struttura, di garantire la sicurezza del proprio personale e dei pazienti.
C’è chi vede la scuola come una delle più grandi conquiste democratiche: un diritto universale, libero e per tutti, pilastro del welfare e ascensore sociale. E c’è invece chi la interpreta come il luogo di omologazione, dove bambini e ragazzi vengono incanalati in schemi predefiniti, in vista del loro futuro ruolo di lavoratori produttivi. La seconda grande differenza sostanziale è quella che passa in genere tra chi pensa che l'educazione dei più piccoli debba essere una palestra di individualismo, per preparare i grandi di domani alle sfide quotidiane che il mondo di oggi ci presenta, o tra c...
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La Regione Emilia-Romagna da anni sta spingendo piccole e medie aziende a spostarsi verso il settore “aerospazio e difesa”, in una riconversione al contrario realizzata grazie alla collaborazione di Università e Confindustria. In questo contesto, è stato lanciato alla fine di ottobre il progetto ERIS (Emilia Romagna in Space), che vedrà sorgere nella città di Forlì il suo laboratorio e la sua unità produttiva. Il progetto (che conta su un ingente contributo di fondi statali) dovrebbe dedicarsi alla costruzione di antenne per uso civile, ma vede la partecipazione di aziende quali Leonardo e Thales Alenia, entrambe leader nel settore militare e di produzione di armi.
La Houston Italiana
Già nel maggio 2021 la Regione fece un accordo di collaborazione con l’Aeronautica militare su difesa e space economy. Nel 2022, in una intervista su rivista di settore, il prof Paolo Tortora direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca Industriale (CIRI Aerospazio) anticipava: «Non è un mistero che si siano già tenuti alcuni incontri tra questi colossi (Leonardo, Telespazio e Thales Alenia Space) e l’assessore regionale allo Sviluppo economico Vincenzo Colla. Non ne conosciamo ancora gli sviluppi, ma una cosa possiamo affermare con certezza: in regione, è proprio Forlì l’unica città dotata di quell’ecosistema di competenze, infrastrutture e capitale umano tale da renderla, potenzialmente, una vera e propria ‘‘Houston italiana’’».
Il nuovo polo sorgerà vicino alla sede del CIRI Aerospazio, centro interdipartimentale ricerca industriale dell’Università di Bologna. foto di Linda Maggiori
Così nel 2024 è nato il consorzio aerospaziale Anser, con una quindicina di aziende dual use, supportato da Regione, Confindustria e Università di Bologna. Infine il 20 ottobre scorso è stato lanciato il progetto ERIS, che avrà il suo quartier generale proprio a Forlì, dove sorgerà un laboratorio e un’unità produttiva, “per lo studio di tecnologie e la successiva industrializzazione di antenne da installare sui satelliti”. Le aziende coinvolte sono Thales Alenia Space Italia, joint venture tra Thales 67% e Leonardo 33% e sette aziende locali (Bercella, Curti, Poggipolini, NPC, Nautilus, Nes, Next Tech). Il progetto, il cui costo ammonta a circa 25-35 milioni di euro, è stato presentato al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo d’Urso per ottenere contributi pubblici da fondi di sviluppo. All’incontro erano presenti anche il vicepresidente della Regione Vincenzo Colla (PD), il sindaco di Forlì Gianluca Zattini e l’assessora Paola Casara (centrodestra), uniti da un entusiasmo bipartisan.
In attesa dei fondi pubblici, il Comune di Forlì si è portato avanti con i lavori. Il 14 ottobre, con una delibera votata all’unanimità in consiglio comunale, ha ceduto un terreno di 8.408 mq al costo di 53 mila euro alla fondazione Mercury (ente creato pochi mesi prima per sviluppare l’hub aerospaziale, i cui soci fondatori sono la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e lo stesso Comune di Forlì). Il terreno in questione si trova nel quartiere Ronco, vicino all’aeroporto, nei pressi del campus universitario (dipartimento ingegneria aerospaziale), della sede Enav, e sul retro del CIRI. Quella che diventerà la cittadella aerospaziale, è ora una zona verde, ricca di siepi, arbusti e alcuni grandi alberi. Secondo i documenti del Comune, questa sarebbe destinata a “zona rurale di distacco e mitigazione degli impatti ambientali di infrastrutture e attività’’. Presto il consiglio comunale sarà nuovamente chiamato ad approvare la variazione della destinazione d’uso del terreno, rendendo il boschetto edificabile.
Alcuni consiglieri del PD, durante il Consiglio comunale del 14 ottobre avevano addirittura auspicato un ulteriore “sviluppo urbanistico” anche sui terreni circostanti, per attirare lavoratori con le loro famiglie e il sindaco ha convenuto che quei terreni erano già vincolati al futuro sviluppo della cittadella.
Leonardo e Thales in prima linea
Aeroporto Ridolfi di Forlì. Foto di Linda Maggiori
«Altro cemento su una città colpita pesantemente dalle alluvioni di questi anni, e che sta continuando senza sosta l’impermeabilizzazione del territorio» commenta amaramente un’attivista di Forlì Città Aperta. I consiglieri sarebbero stati rassicurati sulla destinazione unicamente civile delle antenne. L’Indipendente ha chiesto al professore Paolo Tortora, responsabile del progetto, se può davvero garantire l’utilizzo unicamente civile delle tecnologie sviluppate, anche in futuro, visto l’ampio coinvolgimento bellico delle aziende proponenti. Ad oggi il professore non ci ha ancora risposto.
Ma vediamo chi sono e cosa fanno le aziende coinvolte. Thales Alenia Space nel suo sito istituzionale si vanta di essere «prime contractor per numerosi sistemi di telecomunicazioni militari al servizio delle forze armate». Tra i loro clienti, oltre all’esercito italiano, figurano le forze armate di Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Paesi che si sono macchiati di violazioni di diritti umani e che potrebbero usare queste tecnologie per reprimere e controllare dissidenti. Nella relazione ministeriale sui traffici di armi relativa all’anno 2024, Thales Alenia Space compare come fornitore di servizi satellitari militari anche per la NATO.
Il luogo dove sorgeranno i laboratori per le antenne satellitari. Ora c’è un boschetto, presto sarà cementificato. Foto di Linda Maggiori
Se poi andiamo a vedere chi sono i soci di Thales Alenia Space, il quadro è ancora più preoccupante: oltre all’italiana Leonardo, recentemente denunciata in sede civile e penale per complicità in genocidio da numerose associazioni, c’è il gruppo francese Thales, undicesimo produttore di armi globale e quarto in Europa. Progetta e produce antenne, radar, sensori, sistemi di comando per missili, droni, jet militari e vanta di una collaborazione di primo piano con Elbit Systems, Iai e Rafael Advanced System, i fornitori principali dell’esercito israeliano. Thales fornisce anche servizi di riconoscimento facciale e gestione dei dati biometrici sia a Frontex sia ad Israele, per le operazioni di border control in Cisgiordania.
Le imprese locali partner del progetto non sono meno attive in ambito bellico. Curti, azienda di Castel Bolognese, fornitore di Leonardo nel settore Helicopters e Defence Systems Business Unit (militare terrestre e navale), esporta ogni anno pezzi di obici semoventi (PZH2000) alle aziende tedesche Krauss-Maffei Wegmann e Rheinmetall, che hanno a loro volta destinato questi semoventi in Ucraina. Dal novembre 2023 Curti sta studiando e realizzando per il Ministero della Difesa, nell’ambito del progetto AMUS, un sistema di navigazione per droni militari in contesti geografici impervi, mediante “satelliti di opportunità”. Il progetto, tuttora in corso, è prettamente militare ed è coperto da massima segretezza.
Altro partner di Eris è la NPC azienda di Imola, con una sede produttiva a Faenza, controllata al 40% da Ecor, al 40% da Curti, al 20% da Nabore Benini, (presidente della NPC e vicepresidente di Curti). Anche questa azienda sta lavorando a progetti militari nel campo delle antenne satellitari: nel 2022 insieme a U-Avitalia Srl, all’Università di Roma Tor Vergata e all’Università di Roma La Sapienza si è aggiudicata un bando triennale nell’ambito del Piano Nazionale della Ricerca Militare, per la progettazione di nanosatelliti a uso militare (IDRA), utilizzati come disturbatori delle comunicazioni di un nemico.
Nell’ambito dell’accordo di cooperazione tra Italia e Israele (maggio 2021) NPC ha vinto insieme a Elbit Systems Ltd un finanziamentoper un progetto segreto (HTCNS). Del progetto si conosce solo l’acronimo e nessun altro dettaglio. Intanto a marzo 2023 NPC e la veneta Vector Robotics Srl lanciano nel mercato un drone spia “per missioni di sorveglianza, controllo e intelligence”, chiamato “Guardian”. Nel 2024 si aggiudicano una fornitura dello stesso all’esercito italiano.
Foto dell’incontro al Mimit il 20 ottobre scorso, per la presentazione del progetto Eris, con vicepresidente regione Emilia Romagna, il sindaco di Forlì, e rappresentanti Thales Alenia Space, e varie aziende.
Poggipolini, altro partner di Eris, azienda di San Lazzaro (Bologna) specializzata in sistemi di fissaggio e di componenti meccaniche in titanio, dal 2010 ha quasi del tutto abbandonato la Formula 1 e si è lanciata nel business aerospazio e difesa, diventando fornitore di Leonardo Helicopters, Boeing, Airbus. Nel 2022 ha acquisito Aviomec (Mornago, Varese) e nel 2024 la Houston Precision Fasteners (Houston, Texas) diventando fornitore di giganti mondiali del calibro di Lockheed Martin, Bombardier Aerospace, Northrop Grumman. Esporta il 75% di ciò che produce, per lo più nel settore bellico. Poggipolini fa parte della supply chain per la realizzazione dei caccia F35 (progetto JSF) che possono trasportare bombe atomiche e che sono in uso anche all’esercito israeliano.
Poi c’è Bercella, azienda di Varano de’ Melegari (Parma), che esporta componenti per missili MBDA (il consorzio europeo di Leonardo, Airbus, Bae) e nel 2024 ha ottenuto autorizzazioni all’export verso la Francia di “opercoli” (punta del missile e tecnologie guida) per un valore di oltre 3 milioni di euro. Come dimostrano le inchieste giornalistiche del Guardian, il gruppo MBDA ha fornito componenti chiave per le bombe Gbu-39, impiegate da Israele nello sterminio a Gaza. Oltre alla punta dei missili, l’azienda è specializzata anche nella costruzione di antenne e radome (cupole protettive) in ambito militare e civile. Infine ci sono la NES di Bologna, la Tex Tech di Reggio Emilia e la Nautilus, quest’ultima co-fondata dal prof Paolo Tortora.
Le associazioni e i collettivi forlivesi sono pronti a mobilitarsi. «Non possiamo accettare un polo di Leonardo e Thales, aziende complici di crimini contro l’umanità, nel nostro territorio, non possiamo accettare aziende che sfrutteranno le invenzioni universitarie anche per scopi militari» ribadiscono gli attivisti del Collettivo Samara. «Crediamo nella mobilitazione popolare, dal basso, autorganizzata, per questo invitiamo studenti e studentesse, antimilitariste e antimilitaristi, il mondo del lavoro e tutte le persone che non vogliono restare in silenzio, ad opporsi al progetto». Il 28 novembre alle 9 si terrà una manifestazione di protesta, a partire da piazza della Vittoria a Forlì.
L’Afghanistan ha affermato di avere subito attacchi aerei, durante i quali sarebbero morte 10 persone, di cui 9 bambini. Kabul ha attribuito il nuovo raid aereo al Pakistan, che ha smentito le accuse. Le accuse dei talebani arrivano in un momento teso tra i due Paesi, che lo scorso mese si sono scambiati reciproci attacchi aerei. Gli scontri erano iniziati dopo un attacco subito dal Pakistan da parte di gruppi islamisti: Islamabad accusa l’Afghanistan di dare rifugio ai gruppi estremisti che operano nel proprio territorio, ma Kabul ha sempre smentito le accuse. In questo momento tra i due Paesi vige una tregua, e sono in corso i colloqui di pace.
Tre dipendenti della catena Pam sono stati licenziati dopo non aver superato il cosiddetto “test del carrello”, una verifica a sorpresa in cui ispettori interni, travestiti da clienti, nascondono prodotti nel carrello per simulare un furto e controllare se il cassiere lo segnala. Il caso ha coinvolto un 62enne impiegato in un punto vendita del centro commerciale Porta Siena e due lavoratori di Livorno con oltre vent’anni di anzianità; tutti sono stati licenziati per «giusta causa» dopo la contestazione disciplinare. Le decisioni aziendali hanno scatenato proteste sindacali, accuse di provocazione e la convocazione di un tavolo nazionale per discutere il metodo.
Nell’ambito del “test del carrello”, ispettori aziendali si presentano come normali clienti e nascondono intenzionalmente articoli fra altri prodotti; se il cassiere non rileva l’irregolarità al passaggio in cassa scatta la contestazione disciplinare. Secondo l’azienda si tratterebbe di uno strumento per prevenire le perdite e aumentare l’attenzione, ma i sindacati denunciano un uso punitivo della pratica, in particolare nel momento in cui i controlli non sono annunciati e vengono impiegati in contesti di forte carico lavorativo, con personale ridotto e ritmi molto serrati.
Tra i licenziati c’è Fabio Giomi, 62 anni e delegato sindacale, sottoposto al test due volte: sarebbe stato licenziato poiché, nella seconda prova, non avrebbe individuato piccoli articoli nascosti tra alcune casse di birra. A Livorno invece i due colleghi — indicati come Tommaso (circa trent’anni di servizio) e Davide (oltre vent’anni) — sono stati apostrofati da contestazioni che i rappresentanti sindacali definiscono «un’escalation disciplinare costruita ad arte». Sabina Bardi, responsabile territoriale, ha apertamente parlato di «un’imboscata» e denuncia pressioni psicologiche sui lavoratori durante le verifiche.
La critica sindacale non concerne solo le modalità proprie della tecnica del controllo, ma anche gli esiti: secondo i delegati il test scarica sulla singola persona responsabilità complesse, ignorando condizioni reali come il numero di postazioni da gestire e i carichi di lavoro. Massimiliano Fabozzi di Filcams Cgil Siena ha sintetizzato la posizione dei lavoratori con parole nette: «non sono poliziotti», sottolineando che il personale delle casse non può essere chiamato a sorvegliare come agenti di sicurezza in condizioni operative che spesso rendono impossibile una rilevazione puntuale di ogni anomalia.
Le strutture nazionali e territoriali di Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs hanno reagito con fermezza contestando le decisioni dell’azienda. «Pam Panorama non è stata in grado di rispondere quando le è stato chiesto quale sia l’incidenza dei furti alle tanto “amate” casse automatiche, dove una sola cassiera deve sovrintendere fino a otto postazioni, rendendo impossibile un reale controllo. In quel caso, gli ammanchi sembrano essere compensati semplicemente dal risparmio sul costo delle cassiere e dei cassieri», hanno dichiarato i sindacati, affermando che «è ormai evidente la volontà dell’azienda di colpire una specifica fascia di dipendenti: lavoratrici e lavoratori con anzianità significativa, età anagrafica elevata, titolari di legge 104 o con limitazioni su salute e sicurezza».
Le organizzazioni nazionali hanno annunciato iniziative e ricorsi, reclamando reintegri e garanzie, e chiedendo lo stop all’uso del test come strumento disciplinare. L’azienda, dal canto suo, ha bollato come «diffamatorie» le accuse mosse dai sindacati e si è difesa indicando l’esistenza di moduli formativi erogati in precedenza. Intanto è previsto un confronto tra le parti a Roma; i sindacati non escludono mobilitazioni se non arriveranno garanzie su criteri di valutazione più trasparenti e su pratiche di controllo meno punitive.
Una vasta operazione antidroga è in corso tra Roma, Latina, Nettuno, Pomezia e L’Aquila, con oltre 200 agenti impiegati. Coordinata dalla DDA di Roma e dal pm Francesco Cascini, ha smantellato due organizzazioni attive nel narcotraffico ad Anzio, Nettuno e Latina. L’indagine ha portato a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per 15 capi dei gruppi criminali, documentando cessioni di droga per milioni di euro. In parallelo, nel Ragusano, un’altra operazione di DDA Catania ha colpito un sodalizio dedito a droga e armi, con 14 indagati destinatari di misure cautelari.
Washington alza il livello dello scontro con Caracas. Per l’amministrazione Trump, Nicolás Maduro non è più soltanto un leader autoritario, ma il vertice di un’organizzazione terroristica straniera (FTO) legata al narcotraffico, il Cartel de los Soles che, secondo la Casa Bianca, funge da cerniera tra apparati statali venezuelani e reti criminali che convogliano cocaina verso Nord America ed Europa. La designazione è entrata ufficialmente in vigore lunedì e trasforma il dossier venezuelano in una questione di sicurezza nazionale, aprendo a sanzioni rafforzate e a un isolamento multilaterale più rigido, mentre l’opzione militare viene, per ora, formalmente rinviata, in attesa di un confronto telefonico tra il presidente americano e il leader venezuelano.
Le accuse della Casa Bianca delineano un sistema integrato che coinvolgerebbe alte sfere militari, intelligence e funzionari del governo di Caracas, in un modello di potere che farebbe del narcotraffico una leva di controllo interno e di finanziamento esterno. Il 16 novembre, il Segretario di Stato, Marco Rubio, ha dichiarato su X che il Cartel de los Soles sarebbe «responsabile di atti terroristici» nell’emisfero occidentale. Secondo diversi esperti, però, la formula usata non può essere paragonata ai tradizionali cartelli criminali, come quelli in Colombia e Messico, ed è azzardato affermare che il presunto cartello sia guidato proprio da Maduro, perché manca di una gerarchia e di una struttura. «La decisione dell’amministrazione Trump di etichettare il cosiddetto “Cartel de los Soles” come organizzazione terroristica è profondamente problematica», ha spiegato Jenaro Abraham, politologo e professore di politica latino-americana alla Gonzaga University, in quanto «non funziona effettivamente come un cartello in alcun senso analitico significativo». Secondo altri analisti, tecnicamente, il cartello non esiste neppure nel senso convenzionale del termine. Per Phil Gunson, analista senior dell’International Crisis Group che vive a Caracas, il Cartel de los Soles è un’etichetta inventata dai giornalisti venezuelani. Della stessa idea, l’ex vicesegretario generale dell’ONU, Pino Arlacchi, che ha derubricato a «una grande bufala geopolitica» l’impostazione secondo la quale il Venezuela sarebbe un narco-Stato. «Stanno designando una cosa che non esiste e che non è un’organizzazione terroristica come tale», gli fa eco Brian Finucane, ex avvocato del Dipartimento di Stato specializzato nella questione dei poteri di guerra.
La nuova qualificazione di organizzazione terroristica straniera è una delle più gravi misure antiterrorismo del Dipartimento di Stato e consente agli Stati Uniti di colpire un perimetro più ampio, dando al presidente l’autorità di imporre nuove sanzioni su beni e infrastrutture di Maduro, anche se, sottolineano gli esperti legali, questa da sola non autorizza esplicitamente il ricorso alla forza letale. Parallelamente, la postura militare statunitense nei Caraibi segnala un innalzamento della soglia di deterrenza. Due bombardieri strategici B-52 Stratofortress (callname PAPPY11 e PAPPY12) sono decollati rispettivamente dalle basi di Barksdale, in Louisiana, e Minot, nel Nord Dakota, dirigendosi verso il bacino caraibico con transponder disattivati. Il dispiegamento è supportato da due tanker KC-135 Stratotanker partiti dalla Florida, a conferma di un’operazione pianificata e prolungata contro Caracas.
La strategia americana si compone così di tre livelli: criminalizzazione del vertice politico venezuelano, compressione economico-finanziaria e pressione militare calibrata. Sul piano interno, Caracas respinge le accuse e denuncia un tentativo di delegittimazione volto a giustificare nuove misure coercitive e a indebolire il consenso attorno a Maduro. Nell’area, governi e organismi multilaterali procedono con prudenza, timorosi di ricadute su rotte commerciali, sicurezza marittima e stabilità energetica. Il quadro resta fluido: secondo fonti dell’amministrazione statunitense citate da Axios, non sarebbe imminente un intervento militare diretto e sarebbe in fase di pianificazione una telefonata tra Trump e Maduro. «Nessuno ha intenzione di sparargli o di rapirlo, a questo punto» ha dichiarato un funzionario vicino al tycoon. «Non direi mai, ma non è questo il piano al momento».
Due caccia F-16 rumeni e due Eurofighter tedeschi sono decollati dopo la presunta violazione dello spazio aereo rumeno da parte di due droni vicino al confine con l’Ucraina, come riferito dal ministero della Difesa di Bucarest. Un episodio simile era stato segnalato il 13 settembre. Negli ultimi mesi diversi Paesi europei — tra cui Belgio, Germania, Spagna, Norvegia e Danimarca — hanno riportato presunte incursioni di droni russi. Il 9 settembre circa 20 droni sarebbero entrati in Polonia, mentre jet russi avrebbero violato lo spazio aereo di Estonia e Lituania. In Moldova un drone si sarebbe schiantato su un’abitazione, causando un’evacuazione.
Le associazioni italiane AssoPacePalestina, A Buon Diritto, ATTAC, ARCI, ACLI, Pax Christi e Un Ponte Per, insieme alla cittadina palestinese Hala Abulebdeh, hanno depositato un ricorso al Tribunale Civile di Roma contro Leonardo Spa, chiedendo l’annullamento di tutti i contratti tra l’azienda italiana e lo Stato di Israele. Parallelamente, a sostegno dell’azione legale, è stata lanciata la campagna In nome della legge! – Giù le armi, Leonardo!. L’iniziativa segna una nuova frattura tra la posizione del governo, alleato di Tel Aviv, e quella della società civile, che riconosce in Israele uno Stato genocida, i cui crimini sono commessi anche grazie alle armi fornite dal nostro Paese.
Secondo chi la sostiene, l’azione legale rappresenta un’iniziativa potenzialmente rivoluzionaria. «Non è accettabile che un’azienda partecipata dello Stato continui a fornire armi a Israele», ha dichiarato Camilla Silotti, portavoce dell’associazione A Buon Diritto. Secondo gli avvocati che rappresentano le parti ricorrenti – Luca Saltalamacchia, Veronica Dini, Michele Carducci e Antonello Ciervo – i contratti di compravendita di armi e servizi bellici tra Leonardo e Israele dovrebbero essere considerati nulli. Tali accordi rappresenterebbero infatti un contributo a crimini internazionali commessi dall’IDF, il braccio armato dello Stato israeliano.
A supporto di questa tesi ci sono la Legge 9 luglio 1990, n. 185, che regola il commercio di armamenti in Italia, e l’articolo 11 della Costituzione, che sancisce il ripudio della guerra. Inoltre, il Trattato ONU sul commercio di armi del 2013, entrato nell’ordinamento italiano con rango costituzionale, vieta agli Stati esportatori di autorizzare la vendita di armi se vi è un rischio “chiaro” che possano essere impiegate per crimini internazionali. Secondo un rapporto della Commissione indipendente del Consiglio dei Diritti Umani, le condotte israeliane verso il popolo palestinese costituiscono effettivamente un genocidio, quindi un crimine internazionale.
Le ricerche sulle relazioni commerciali tra Leonardo e Israele hanno ricostruito un quadro dettagliato del coinvolgimento diretto dei prodotti dell’azienda nel conflitto. «Parliamo di aerei ed elicotteri sui quali vengono addestrati i piloti che dall’ottobre 2023 bombardano la Striscia di Gaza», spiega l’avvocato Luca Saltalamacchia. «Leonardo produce componenti degli F-35, radar, camion a due assi, cannoni super-veloci per la Marina israeliana e le alette delle bombe GBU-39, utilizzate in vari massacri, compresi attacchi a scuole e civili».
Secondo Antonello Ciervo, la vendita di questi prodotti ha portato a un aumento del 200% del valore nominale delle azioni di Leonardo dall’8 ottobre 2023 a oggi. Poiché lo Stato italiano possiede circa il 30% di Leonardo, l’azione legale rappresenta un appello di giustizia al governo da parte della società civile. Armare Israele significa, secondo i ricorrenti, alimentare la pulizia etnica del popolo palestinese e rendersi complici di un genocidio. Richiedere l’annullamento dei contratti tra Leonardo e lo Stato israeliano significa chiedere all’organo giudiziario di far valere il diritto di fronte agli interessi commerciali. La presidente ARCI, Raffaella Bollini, ha sottolineato l’importanza del ricorso: «Difendere il diritto alla giustizia significa difendere l’unico potere di chi non ha potere».
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