martedì 2 Dicembre 2025
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Il CEO di Spotify investe in armi: 650 musicisti dei Paesi Baschi ritirano la loro musica

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Una sollevazione corale sta scuotendo il panorama musicale basco, dove più di 650 artisti, riuniti sotto il nome di Musikariak Palestinarekin (Musicisti con la Palestina), hanno deciso di rimuovere i propri brani dalla piattaforma Spotify. La scelta coinvolge 162 gruppi e nomi di primo piano, tra i quali Fermin Muguruza, La Furia e Jon Maia, e costituisce una reazione diretta agli ingenti investimenti nel settore bellico da parte del fondatore e principale azionista della piattaforma, Daniel Ek. L’atto è scaturito in particolare dall’indignazione per i quasi 700 milioni di euro da questi destinati a Helsing Defense, azienda che sviluppa droni militari dotati di intelligenza artificiale.

L’iniziativa, presentata pubblicamente alla libreria Katakrak di Pamplona, affonda le sue radici nella situazione in Palestina. I portavoce del collettivo hanno ricordato che «sono trascorsi più di due anni da quando lo Stato sionista di Israele ha intensificato violentemente l’occupazione del popolo palestinese». Un processo che, come hanno anche sottolineato, è stato normalizzato dai media «come rumore di fondo», pur essendo «niente meno che un genocidio». In questo contesto, la notizia dell’investimento di Ek, resa pubblica lo scorso giugno, è stata, hanno spiegato, «la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Sentito da L’Indipendente, un portavoce di Spotify ha dichiarato che Helsing, l’azienda in questione, viene utilizzata e distribuita nei paesi europei a scopo di «deterrenza e difesa contro l’aggressione russa in Ucraina», citando una dichiarazione della stessa Helsing. Inoltre, hanno tracciato una linea di separazione, affermando che Spotify e Helsing sono due società separate e di essere «certi» di «non essere coinvolti a Gaza».

Tuttavia, per i musicisti di Musikariak Palestinarekin, questa distinzione è ininfluente. Il collettivo, nato all’inizio di agosto da un nucleo iniziale di pochi gruppi, si è progressivamente ampliato fino a coinvolgere centinaia di aderenti. Pur riconoscendo che le piattaforme di streaming «non sono generalmente strumenti creati per favorire i musicisti», il loro obiettivo va oltre la semplice protesta economica. «Sapendo che per Spotify noi non siamo nulla, vogliamo promuovere la stessa premessa nella direzione opposta: che Spotify non è niente per noi», hanno spiegato in occasione dell’evento in cui hanno raccontato della scelta di eliminare dalla piattaforma il loro catalogo, aggiungendo che il loro gesto è finalizzato a costruire un network ancora più ampio di protesta e a dare un senso collettivo al boicottaggio, trasformandolo in un potente strumento politico.

Consapevoli della natura simbolica della propria azione e delle differenze materiali che caratterizzano il settore musicale di Euskal Herria, i musicisti insistono sul fatto che Musikariak Palestinarekin «non è nato per parlare da un punto di vista morale né per puntare il dito contro i colleghi». L’invito, invece, è aperto a tutti: «Non siamo ancora così numerosi come vorremmo; abbiamo molti strati da superare. Invitiamo chiunque voglia unirsi a noi a farlo: le porte sono spalancate».

Rettifica: in una precedente versione, l’articolo era titolato “Spotify investe in armi: 650 musicisti dei Paesi Baschi ritirano la loro musica”. La formulazione corretta è che tali investimenti riguardano Daniel Ek, fondatore e CEO della piattaforma, e non direttamente l’azienda Spotify.

Indonesia e Sri Lanka, peggiora bilancio alluvioni: oltre 300 morti

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Aumenta drammaticamente ora dopo ora il bilancio delle alluvioni che hanno colpito Sri Lanka e Indonesia. Fino ad ora sono state accertate almeno trecento vittime, un numero destinato a salire secondo il Centro di gestione delle catastrofi. Le forti piogge hanno distrutto migliaia di abitazioni e costretto quasi 44 mila persone a trovare riparo nei centri di assistenza statali. In Indonesia i soccorsi procedono con difficoltà: strade e ponti danneggiati, comunicazioni interrotte e mancanza di mezzi pesanti ostacolano l’intervento nelle aree più colpite. Nella provincia di Sumatra il bilancio è arrivato a 248 morti e oltre 500 feriti, mentre migliaia di famiglie risultano sfollate.

Fatevene una regione

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Eccoli gli alieni spudorati che festeggiano. Gonfi di statistiche, estasiati dai calcoli, eccitati da previsioni, pronti a pianificare il nulla, i sedicenti politici, gli ultimi soldati di Fort Alamo trionfano chi di là chi di qua. C’è chi saltella e vuole aprire a Messina una filiale della gomma del ponte, c’è chi, dall’altra parte, che parla come un funzionario di Botteghe Oscure di trent’anni fa, c’è chi al centro si mette in volo sulla rotta Israele-Emirati Arabi-New York per stringere mani, anzi per stenderle.

Le elezioni regionali sono alle nostre spalle ma gli ambiziosi e le vendicatrici sono in pista per i prossimi step. Rese dei conti all’interno dei partiti, manipolazioni all’esterno. Con i loro partner di potere che gongolano all’idea di godersi lo spettacolo, di ricominciare a fare i burattinai, promettendo qua e là i soldi rimanenti, procacciati da varie Fondazioni Enti e Quant’altro.

Uno spettacolo desolante che soltanto chi si è messo in fila per prendere il biglietto, anzi la scheda elettorale, può lontanamente capire.

Io invece aspetto sempre Godot, lui o lei, chiunque sia, purché parli di programmi, ad esempio qualcuno che, se vuole la supertassa per i super ricchi, non la presenti come una minaccia. Può essere la cosa più giusta del mondo. Ma per favore ci dica come vorrebbe spendere i soldi ricavati, dove? ce lo dica per favore, altrimenti invece di una tassa sembrerebbe una multa oppure la cattiveria punitiva dei vecchi comunisti incazzati.

Pochi, nessuno sembra saper fare politica. Qualcuno c’è ma si guarda bene dal dirci che si vuole impegnare. E noi restiamo in attesa di una alternativa che non esiste. Noi del partito della maggioranza relativa, quelli che non vanno a votare ma che vorrebbero tanto potersi ancora sbagliare o illudere o tutte e due le cose. 

Berlinguer radunava folle perché era bravo ma anche perché il lavoro stava al centro di tutto in quegli anni, ora non più. Per un po’ sono stati i migranti a prendersi la scena, ma quanto sarebbe bello che qualcuno mettesse al centro il problema centrale di oggi, che non sarà più il lavoro, ma che di sicuro sono i servizi, cioè la scuola, la sanità, le ferrovie, la sicurezza, il benessere pubblico…

Osiamo ancora sperare? Mah! Per il momento gli irriducibili se ne fanno una regione.

Airbus ferma 6mila A320, a rischio migliaia di voli

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Un grave difetto software ha costretto le compagnie aeree di tutto il mondo a fermare migliaia di Airbus A320, dopo che il mese scorso un volo JetBlue ha subito un improvviso calo di quota che ha causato 15 feriti. Il problema, legato al software Elac prodotto da Thales, potrebbe coinvolgere circa 6.000 aerei: l’esposizione a intensa radiazione solare può corrompere dati essenziali dei controlli di volo a seguito di un recente aggiornamento. Easa e Faa hanno chiesto un aggiornamento urgente, avvertendo di possibili ulteriori disagi. Ritardi e cancellazioni sono attesi anche nel Regno Unito e negli USA, dove il problema riguarderebbe circa 500 velivoli.

Sciopero generale: cortei in tutta Italia, a Torino letame sulla sede de La Stampa

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Nella giornata di ieri, 28 novembre, l’Italia si è di nuovo fermata per scendere in piazza. Migliaia di persone hanno percorso le strade di tutte le principali città italiane per ribadire la contrarietà della società civile alla «finanziaria di guerra», ovvero la politica del governo di sottrarre sempre più risorse a sanità, istruzione e welfare per rifornire le casse del settore bellicista. A fermarsi sono stati lavoratori del settore pubblico e privato, dalle scuole ai mezzi di trasporto. I cortei più numerosi si sono svolti a Milano, Bologna e Genova, dove a sfilare in testa vi erano Greta Thunberg e Francesca Albanese. Non sono mancati gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti: a Venezia, per esempio, la polizia, schierata a protezione della sede di Leonardo SpA, ha usato gli idranti per fermare il corteo che si stava recando verso l’azienda per denunciarne la complicità nel genocidio a Gaza. Ma a riempire le pagine dei quotidiani di oggi c’è un’azione del tutto dimostrativa, la cui “gravità” ha smosso le istituzioni fino al presidente della Repubblica Mattarella e alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: la protesta che, a Torino, ha visto coinvolta la sede del quotidiano La Stampa, preso di mira dai manifestanti con lanci di letame e scritte sui muri.

Assalto alla redazione de La Stampa, titola il quotidiano stesso, mentre la quasi totalità dei giornali gli fa eco con gli stessi toni. Assalto alla redazione de La Stampa titola il CorriereAssalto dei proPal alla sede del quotidiano La Stampa scrive La RepubblicaAssalto alla redazione della Stampa copincolla il Sole24Ore. La solidarietà istituzionale non si è fatta attendere e ha scalato i muri di palazzo fino ad arrivare a Piantedosi, poi a Meloni e addirittura al presidente della Repubblica Mattarella, tutti indignati per quanto accaduto. Contro la sede del quotidiano infatti sono state lanciate “pericolose” zolle di letame, mentre sulle mura dell’edificio sono state lasciate alcune scritte poco lusinghiere. Un gruppo di persone ha poi fatto ingresso nella redazione (vuota, in quanto con lo sciopero nazionale coincideva la protesta dei giornalisti) e avrebbe gettato in terra qualche quotidiano. Atti per i quali è giunta celere la condanna istituzionale: un’azione «gravissima e del tutto inaccettabile» ha tuonato Piantedosi al telefono con il direttore del giornale, Andrea Malaguti, cui è giunta la solidarietà anche di Elly Schlein. Solidarietà è stata immediatamente espressa anche dai colleghi de La Repubblica, il cui Consiglio di Redazione ha espresso vicinanza per l’imperdonabile accaduto.

Secondo i medesimi quotidiani, «l’assalto» è avvenuto quando «la frangia più violenta» si è staccata dal corteo principale, dirigendosi verso la sede del giornale – una narrazione riproposta quasi identica nel contesto di tutte le proteste più importanti (è quanto accaduto anche durante l’ultimo grande sciopero nazionale). I manifestanti si sono mossi al grido di «Free Shahin» e «Giornalisti complici dell’arresto in CPR di Shahin». Pochi giorni fa, a Torino, le autorità hanno infatti arrestato e tradotto in CPR (prima di Torino, poi a Caltanissetta) Mohamed Shahin, imam della moschea di via Saluzzo e figura di spicco delle proteste per la Palestina degli ultimi due anni. A motivare il suo arresto sarebbero state proprio alcune frasi da lui pronunciate e rivendicate nel corso di dichiarazioni rilasciate alla stampa, nelle quali affermava che il 7 ottobre fosse la reazione del popolo palestinese ad anni di oppressione e sterminio compiuti da Israele. Tali frasi gli sono costate la revoca del permesso di soggiorno (Shahin si trovava in Italia con la famiglia da vent’anni) e l’emissione di un decreto di espulsione. L’imam sarà ora rimpatriato nel suo Paese d’origine, l’Egitto, dove rischia il carcere (se non la morte) perchè considerato un dissidente in ragione della sua avversione al regime di Al Sisi.

Secondo i manifestanti, quotidiani come La Stampa si sono resi complici nel costruire una narrazione mediatica che ha dipinto Shahin come un terrorista, favorendone l’arresto. I collettivi studenteschi che hanno rivendicato l’azione, pubblicando lui stesso immagini dell’ingresso dei manifestanti all’interno della redazione e del lancio di letame, hanno infatti sottolineato che «La stampa di tutto il Paese in questi giorni ha dipinto Mohamed Shahin come uno spaventoso terrorista, aderendo alle veline commissionate direttamente dalla DIGOS su volere del governo. Torino, che conosce Shahin meglio di chiunque altrə, sa bene distinguere la verità dalla prezzolata propaganda sionista. La verità la scrivono le milioni di persone che in tutta Italia hanno partecipato ai cortei che denunciano le complicità dei nostri politici con lo stato di Israele e l’industria bellica, sapendo che gli unici terroristi sono loro».

Ucraina, scandalo corruzione: si dimette il consigliere di Zelensky

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Un nuovo terremoto politico scuote l’Ucraina: Andriy Yermak, consigliere presidenziale e stretto alleato di Zelensky, si è dimesso dopo la perquisizione del suo appartamento nell’ambito di un’inchiesta su uno scandalo da 100 milioni di euro. Zelensky lo ha lodato ma ha sottolineato che «non ci dovrebbe essere motivo di essere distratti da nient’altro che dalla difesa dell’Ucraina». Secondo indiscrezioni, Yermak sarebbe stato in procinto di partire per gli USA per colloqui di pace con figure legate a Donald Trump, tra cui Jared Kushner e Steve Witkoff. Le perquisizioni rientrano in un’indagine sulle tangenti nell’energia nucleare legata a un collaboratore fuggito all’estero.

Il ministro Crosetto ha proposto il ritorno del servizio militare in Italia

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Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato ieri che intende portare in Parlamento un disegno di legge per reintrodurre il servizio militare in Italia, alla luce di una percepita minore sicurezza che accomuna tutti gli Stati europei in conseguenza dei rapporti ostili con la Russia. «È uno schema che in qualche modo non è molto diverso da quello tedesco, perché prevede una volontarietà. Quello tedesco ha un automatismo che scatta, quello francese – da ciò che leggo – è totalmente volontario», ha affermato ieri Crosetto in conferenza stampa a Parigi circa l’ipotesi di una reintroduzione del servizio militare in Italia, che sarebbe per ora su base volontaria, come in Francia e Germania. L’idea di rafforzare la Difesa e aumentare le fila delle forze armate, infatti, è un’idea che circola in gran parte degli Stati europei insieme a quella di un’imminente e inevitabile guerra contro Mosca, sebbene il presidente russo Vladimir Putin proprio in questi giorni abbia definito una «completa assurdità» e una «menzogna spudorata» la narrazione secondo cui la Russia sarebbe pronta a invadere l’Europa.

«Tutte le nazioni europee vedono messi in discussione i modelli costruiti 10-15 anni fa, e tutti stanno pensando di aumentare il numero delle forze armate» ha detto Crosetto, spiegando che anche in Italia bisogna avviare una riflessione che conduca ad abbandonare le scelte fatte negli ultimi decenni di riduzione delle forze militari, in quanto «ci sono motivi di sicurezza che rendono importante farlo». In concreto, dunque, la proposta punta ad istituire una riserva militare ausiliare dello Stato con determinate specialità, con l’obiettivo di aumentare il numero delle attuali forze armate almeno di diecimila unità, attraverso un servizio di leva su base volontaria pronto ad entrare in azione in caso di necessità. Crosetto ha anche sottolineato che «la difesa in futuro ha bisogno non soltanto di più uomini ma anche di regole diverse».

Come anticipato, la proposta di legge che Crosetto intende portare in Parlamento si inserisce in un più generale contesto in cui gli Stati europei sembrano mossi dall’esigenza irrefrenabile se non di prepararsi a una reale guerra contro la Russia, perlomeno di predisporre il comparto bellico e soprattutto l’opinione pubblica a questa possibilità, trasformando completamente l’architettura della difesa europea e instillando uno stato di allarme permanente nei cittadini. Proprio in questo scenario rientrano anche le più ampie proposte di Crosetto per trasformare il comparto militare. Si tratta di una serie di iniziative che si può dire che facciano dell’ex presidente di Orizzonti sistemi navali e di AIAD (federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) un aspirante ministro della Guerra. Nel corso del mese di novembre, infatti, ha annunciato una riforma strutturale delle forze armate e l’arruolamento di 30mila nuovi militari, in aggiunta ai 170mila già presenti, insieme al varo di una “Arma Cyber”, un corpo speciale da 5 mila uomini destinato a fronteggiare la cosiddetta “guerra ibrida”. Inoltre, ha predisposto il potenziamento degli organici militari dedicati al settore cyber con 10/15mila nuove unità e la creazione di uno scudo aereo nazionale con sensori per monitorare gli obiettivi sensibili e una flotta di droni.

«La situazione che stiamo vivendo adesso ci impone di prepararci a scenari che fino a cinque anni fa non erano prevedibili: questo vuol dire avere più personale, perché serve anche capacità di farlo ruotare, e servono regole diverse di reclutamento», ha dichiarato Crosetto in un’intervista con Bruno Vespa nella trasmissione filogovernativa 5 minuti. Ne emerge un messaggio potente per plasmare e spaventare l’opinione pubblica, secondo cui l’Italia e in generale l’“Occidente” è sotto attacco. Una narrazione che giustifica il rafforzamento del settore militare e il riarmo e il trasferimento di fondi da settori come la scuola, la sanità e l’industria verso la Difesa. Si tratta di un progetto che risponde a logiche sovranazionali che scaturiscono da Bruxelles e dall’Alleanza atlantica e che rischia di acuire la crisi economica e sociale degli Stati europei, sottraendo risorse alla spesa pubblica e alimentando il debito pubblico con investimenti non produttivi.

Da parte sua, il presidente russo Vladimir Putin ha liquidato le voci che circolano riguardo a un attacco russo all’Europa come «una vera e propria sciocchezza» sottolineando che è difficile capire cosa spinge le élite europee a alimentare questa narrazione. «Ci sono persone, a mio avviso un po’ fuori di testa o magari dei furbi, che da questa situazione vogliono ricavarci qualcosa. Dicono pubblicamente ai loro cittadini che la Russia si starebbe preparando a invadere l’Europa e che quindi occorre rafforzare immediatamente la propria capacità difensiva. Forse vogliono favorire gli interessi dell’industria bellica, di aziende private, oppure cercano di risollevare i propri indici di gradimento interno, visti lo stato disastroso dell’economia e del settore sociale. È difficile capire cosa li spinga ma, secondo noi, è una completa assurdità, una menzogna spudorata» ha affermato ieri il capo del Cremlino rispondendo alle domande dei giornalisti.

Gli interessi dell’industria bellica nel piano di riarmo europeo non sono certo da sottovalutare, considerato l’aumento del valore delle azioni delle aziende produttrici di armi durante i conflitti in Ucraina e a Gaza, così come anche l’esigenza di Bruxelles di un motivo forte che unisca un’Unione sempre più disgregata e fragile con profondi problemi finanziari. L’Italia con il ministro Crosetto non è certo un’eccezione in questo panorama in cui confluiscono interessi economici, politici e di potere che sembrano avere trovato nel riarmo e nel rafforzamento dell’esercito e del comparto militare il loro canale privilegiato.

Avvento di lusso: come i brand trasformano il calendario in una tendenza

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Mentre imperversa la settimana più nera dell’anno (quella di Black Friday & Co.) un fenomeno di consumo, già affacciato all’orizzonte da qualche anno, sta prendendo sempre più piede. Si tratta dei calendari dell’avvento di brand di lusso e cosmetica: uno strumento di marketing travestito da rituale natalizio, che spinge la dimensione commerciale mascherandosi da leva spirituale. 

L’avvento, un tempo, era quel momento di attesa che preparava all’arrivo del santo Natale. Un periodo riflessivo, contemplato con grande osservanza dai cristiani fin dal IV secolo e scandito con candele e gessetti dai protestanti tedeschi all’inizio dell’Ottocento. Poi sono arrivati, in tempi più recenti, i calendari con le finestre: dietro ad ogni sportello un disegno, un’immagine o un cioccolatino. Riservati quasi esclusivamente ai più piccoli, nel giro di poco è arrivata un’ulteriore trasformazione e questi calendari, ormai, contengono di tutto di più! Non sorprese per i più piccoli, ma oggetti per adulti con i quali nutrire quotidianamente la smania di novità: emozioni giornaliere e gratificazioni immediate, per ventiquattro giorni di fila.

Negli ultimi dieci anni i calendari dell’avvento di lusso sono passati da oggetto di nicchia a pilastro del business natalizio, con prezzi, aspettative e storytelling cresciuti in modo esponenziale. Si tratta a tutti gli effetti di una categoria merceologica che vale centinaia di milioni e che si prevede raddoppierà il suo valore entro il prossimo decennio, superando i 2 miliardi di dollari a livello globale. Quando, nel 2014, il calendario beauty di Liberty London, lanciato in quantità limitate, è andato sold out rapidamente altri rivenditori hanno drizzato le antenne sulla possibilità reale che un cofanetto multi‑marchio potesse diventare il lancio più importante dell’anno. Da lì department store e retailer online hanno iniziato a costruire calendari complessi con decine di brand, trasformandoli in macchine di promozione ed acquisizione clienti. All’interno non solo prodotti beauty, ma vini pregiati, miniature di superalcolici, té, prodotti alimentari e persino gadget erotici. 

Una mossa che ha coinvolto anche i brand del lusso, che hanno iniziato a proporre cofanetti dal valore percepito altissimo, con prezzi che superano le diverse centinaia di euro, ma con un “valore contenuto” spesso di gran lunga superiore al prezzo di vendita. Calendari da 250 euro che promettono oltre 1.000 euro di prodotti, invitano all’acquisto spingendo l’idea di affare imperdibile, pur restando nel territorio del superfluo. Oggi, alcuni calendari del segmento del lusso toccano tranquillamente cifre molto alte, con punte che sfiorano il migliaio di dollari.

Oltre alla “promessa di valore” (pagare meno dell’acquisto dei singoli prodotti) ci sono svariate leve che stanno aumentando la popolarità di questo fenomeno commerciale: la gratificazione quotidiana dell’unboxing e l’accesso simbolico al mondo del lusso, il tutto alimentato da una dimensione social che contribuisce ad elevare il proprio status. L’apertura delle finestrelle a favore di camera, infatti, diventa un momento da condividere e mostrare, soprattutto se il calendario è firmato o presenta loghi blasonati (l’hashtag #adventcalendar genera milioni di visualizzazioni su TikTok, dove gli influencer ne fanno un appuntamento fisso). In più, se fino a dieci anni fa a guidare l’acquisto era la curiosità di provare tanti piccoli prodotti, oggi il calendario è diventato un oggetto identitario: celebra il patrimonio del brand, enfatizza i best seller, offre “oggetti da fan” come charm, accessori o memorabilia. I marchi di alta moda lo usano per mettere in scena il proprio universo estetico in miniatura, con packaging strutturati, design scenografici e tirature limitate che alimentano code, liste d’attesa e resale sui canali secondari. Nel marketing il calendario viene ormai identificato come “gateway drug”: una porta d’accesso relativamente abbordabile per l’olimpo dorato di brand irraggiungibili (o comunque a cui si aspira). I mini-formati, come piccoli assaggi, diventano una leva importante per spingere in seguito l’acquisto del prodotto “intero” e per attirare nuovi clienti verso uno shopping più consistente post-feste.

Se da una parte il calendario dell’avvento firmato genera entusiasmo e frenesia, dall’altra parte mostra chiaramente come questi oggetti siano l’ennesimo prodotto creato ad hoc per alimentare il sovraconsumo, opportunamente infiocchettato da rituale natalizio. Le mini-taglie – più energivore da produrre rispetto al beneficio d’uso che offrono – spingono a provare continuamente nuovi prodotti, alimentando un ciclo di consumo rapido e poco sostenibile. 

In queste trappole del marketing, di sostenibile c’è molto poco. I calendari, per racchiudere e contenere prodotti, sono realizzati con architetture complesse in cartone, plastiche e rivestimenti metallizzati difficili da riciclare. Ogni nuovo formato o stampa speciale comporta set-up di macchinari, prove, scarti di avviamento, spesso per tirature limitate che “sprecano” questa energia su pochi pezzi. Le dimensioni ridotte dei prodotti rendono inoltre complicato il recupero dei materiali nei sistemi di raccolta, con un’alta probabilità che finiscano in discarica o in mare (piccole dimensioni, grandi danni)! In merito a queste perplessità di carattere ambientale, alcuni brand stanno sperimentando packaging monomateriale, design riutilizzabili e focus su prodotti full size per ridurre il numero di mini e avvicinarsi alle aspettative dei consumatori più attenti. 

Ma altre perplessità rimangono. Quella di aver sacrificato un antico rituale sull’altare del consumismo. Quella di aver confuso la speranza con la gratificazione; e di credere che la luce, al giorno d’oggi, si possa trovare in flaconcini da 5ml nascosti dietro la casella – brandizzata – del 17 Dicembre.

Judo, Federazione Internazionale riammette per prima gli atleti russi

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La International Judo Federation (IJF) ha deciso di riammettere gli atleti russi nelle competizioni internazionali con bandiera e inno nazionale, diventando la prima federazione a farlo dopo il bando deciso nel 2022. A partire dall’Abu Dhabi Grand Slam 2025, in corso fino al 30 novembre negli Emirati Arabi, judoka russi potranno gareggiare a pieno titolo, con tutti i simboli nazionali. L’IJF giustifica la scelta sostenendo che lo sport deve restare neutrale, equo e libero da discriminazioni e che gli atleti non sono responsabili delle scelte dei loro governi.

Chat Control: primo via libera da Bruxelles, Italia astenuta

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I rappresentanti permanenti presso il Consiglio dell’Unione Europea (Coreper) hanno dato il primo via libera alla posizione negoziale sul regolamento noto come Chat Control, pensato per contrastare gli abusi sessuali su minori online. Il voto, svoltosi a Bruxelles il 26 novembre 2025, ha registrato l’astensione dell’Italia, che ha espresso preoccupazioni sulla tutela della privacy e sulla sicurezza delle comunicazioni cifrate. La prossima tappa è il voto decisivo del Consiglio UE l’8 e 9 dicembre.

Il regolamento – formalmente chiamato Regulation to Prevent and Combat Child Sexual Abuse (CSAR) – aveva suscitato sin da subito polemiche per la parte più controversa: la scansione automatica di messaggi, foto, video e allegati nei servizi di messaggistica, anche quando protetti da crittografia end-to-end. Il meccanismo avrebbe comportato l’impiego di un software incaricato di analizzare i messaggi di tutti i cittadini europei, aggirando le garanzie della crittografia e segnalando automaticamente alle autorità i contenuti ritenuti sospetti in materia di abusi sui minori. Da anni, le agenzie di sicurezza chiedono un accesso esteso alle comunicazioni digitali per contrastare la criminalità e questa impostazione comprimerebbe in modo strutturale il diritto alla privacy. Lo stallo, in atto da oltre due anni dalla presentazione della proposta della Commissione europea nel maggio 2022, è stato superato grazie alla scelta della presidenza danese di attenuare l’impianto normativo, eliminando dal testo l’obbligo di scansione generalizzata dei messaggi, uno dei passaggi più contestati. La modifica ha evitato la ricostituzione della minoranza di Paesi contrari, che il 9 ottobre 2025 aveva già determinato il rinvio del voto. La Germania aveva guidato il fronte del “no”. Insieme a Berlino si erano schierati anche Austria, Olanda, Finlandia, Polonia e Repubblica Ceca, mentre altri Paesi, incerti o divisi al loro interno, avevano preferito non esporsi.

Nella nuova bozza i controlli non sarebbero più imposti in maniera indiscriminata, ma lasciati alla discrezionalità dei singoli fornitori di servizi nella progettazione e nell’attuazione delle difese digitali a tutela dei minori, introducendo una “facoltatività”. L’articolo 4 del nuovo impianto normativo impone alle piattaforme l’adozione di «misure appropriate di mitigazione del rischio», senza però definire un elenco puntuale e vincolante degli strumenti da utilizzare. La revisione della norma non ha dissipato tutte le perplessità: secondo chi critica il provvedimento, questo compromesso rappresenta solo un adeguamento formale, destinato a rendere legittima una forma di sorveglianza di massa. Tra le ipotesi più controverse figura l’introduzione dell’obbligo di verifica dell’età: qualora il Chat Control venisse approvato, sarà probabile dover trasmettere i propri documenti alle piattaforme per aprire un profilo di messaggistica, un account di posta o accedere a servizi cloud. Una misura che di fatto sancirebbe la fine dell’anonimato online, seguendo un modello già previsto da febbraio per l’accesso ai siti pornografici.

L’astensione dell’Italia indica una riserva circa qualsiasi forma di controllo generalizzato delle comunicazioni private, sia da parte dello Stato sia dei soggetti privati. Roma ha chiesto garanzie concrete: secondo Palazzo Chigi, la presidenza danese dovrebbe garantire un approfondimento serio sulle conseguenze per la privacy e la protezione delle comunicazioni cifrate. Con l’astensione, l’Italia sembra voler salvaguardare il principio della segretezza delle comunicazioni e la tutela dei diritti digitali, senza però bloccare del tutto l’avanzamento del dossier, scelta che in ambienti politici e tecnici viene letta come un equilibrio precario tra sicurezza e libertà. Il via libera non rende immediatamente operativo il Chat Control, ma apre la strada alla fase finale dei negoziati tra Parlamento Europeo, Commissione e Consiglio. Durante il cosiddetto trilogo, le parti tenteranno di trovare un compromesso definitivo sui punti ancora oscuri: le modalità di scansione, la tutela delle comunicazioni criptate, la reale portata del potere delle piattaforme e le garanzie per la privacy di cittadini e utenti. Se il testo dovesse essere approvato, le conseguenze sarebbero rilevanti: milioni di utenti rischierebbero di vedere le proprie chat sottoposte a verifica preventiva, indipendentemente da sospetti concreti.