In molte città, organizzazioni come la Caritas hanno dovuto sospendere o ridurre drasticamente la raccolta di abiti usati perché l’80% dei capi raccolti non è più utilizzabile per essere donato: scarsa qualità e quantità eccessiva di abiti hanno saturato gli enti, rendendo impossibile fare beneficenza come si deve. Un problema che si è acutizzato sensibilmente dall’inizio del 2025, quando la raccolta differenziata del tessile è diventata obbligatoria in tutta Italia (senza avere le strutture adeguate per gestire la mole dei rifiuti). Ma soprattutto un problema diventato insostenibile dovuto alla qualità dei vestiti “donati”: abiti scadenti, sfibrati e danneggiati anche se usati pochissimo, spesso con forme e modelli totalmente inutili, realizzati con materiali non in grado di tenere caldo o sopperire alle necessità reali di chi ne avrebbe realmente bisogno. Così la “beneficenza” è diventata un rifiuto da smaltire.
Dopo 51 anni, la Caritas ha preso la difficile decisione di interrompere la raccolta di indumenti usati in Alto Adige e in diversi altri Comuni sparsi sul territorio. Una scelta sofferta, visto il bisogno costante di indumenti per alcune famiglie in difficoltà, ma reso sempre più difficile dal tipo di materiale ricevuto.
Fast Fashion e Ultra Fast Fashion hanno dato vita ad un sistema di produzione massiccia di scarsa qualità e a rotazione rapida. I materiali scadenti utilizzati si usurano rapidamente, perdendo colore, forma o danneggiandosi in tempi brevi. Anche il confezionamento lascia a desiderare, provocando buchi, cuciture che saltano o strappi. Danni che potrebbero essere facilmente aggiustati ma che, proprio per i prezzi bassi di questi capi, rendono più facile lo “smaltimento” e l’acquisto di qualcosa di nuovo piuttosto che ingegnarsi in una riparazione. Dopotutto, il valore affettivo che lega a questi oggetti è quasi del tutto assente, per cui disfarsi di un capo di poco valore non è una tragedia. Anzi, è diventata la norma di una cultura usa&getta ormai dilagante ed interiorizzata su più livelli.
Peccato che, quando buttiamo via qualcosa, non la stiamo buttando via: il “via” non esiste, la stiamo solo spostando da qualche altra parte. Spesso con l’idea di fare una buona azione, ma altrettanto spesso facendola nel modo sbagliato (o non così utile come pensiamo). E così, una filiera nata per valorizzare l’usato e dargli una seconda vita in maniera degna e contribuendo al benessere delle vite altrui, si ritrova di fatto a gestire rifiuti.
La raccolta degli abiti usati in Italia è un’operazione fatta in maniera spesso fuorviante. Di base esistono due modalità: la donazione diretta presso enti caritatevoli e la raccolta stradale tramite cassonetti, gestiti da cooperative sociali spesso convenzionate con comuni e aziende di igiene urbana. Proprio questi ultimi, che raccolgono rifiuti tessili, sono soggetti a rigide normative e devono registrare i quantitativi raccolti. Molto spesso i cittadini credono di donare vestiti a chi ne ha bisogno proprio tramite questi cassonetti, ma la verità è ben diversa.
Le scritte sui cassonetti che invitano a lasciare solo “abbigliamento in buono stato” non sono un invito alla beneficenza, ma una strategia per ridurre i costi di smaltimento e aumentare i profitti dalla ri-vendita degli abiti usati raccolti. In realtà, per legge, i vestiti messi nei cassonetti non sono più donazioni, ma rifiuti!
Perché un capo sia davvero donato a persone in difficoltà, deve essere consegnato direttamente a un’associazione o parrocchia; solo così mantiene il suo status di bene. Passando dai cassonetti, invece, si trasforma in rifiuto e non può essere donato. Ma che ne succede di questi rifiuti tessili? Le cooperative, raramente attrezzate per selezionare e trattare il materiale, vendono tutto “così com’è” a operatori specializzati, che dopo un processo di igienizzazione (End of Waste) trasformano i rifiuti in beni riutilizzabili. Ma di tutto quello che viene raccolto, solo il 50% trova una nuova vita.
Ecco perché, per donare abiti usati in maniera sensata, è importante prima di tutto selezionare un destinatario diretto, anche locale, che gestisce le cose in maniera trasparente e onesta (ci sono organizzazioni, centri sociali, associazioni di beneficenza, ma anche brand e hub creativi dedicati al riciclo e all’upcycling). In secondo luogo selezionare bene ciò che si decide di donare, in modo che possa essere utile e rispettoso della dignità di chi lo riceve. Abiti senza macchie, integri, senza strappi e non eccessivamente lisi (che il tessuto dopo un po’ di usuri è normale, ma se il capo è finito meglio farlo diventare uno strofinaccio per la polvere o una coperta per la cuccia del cane); scarpe e calzini appaiati ed il tutto meglio se lavato prima. Con queste piccole indicazioni la donazione diventa un gesto di valore, solidarietà e rispetto. Per un gesto ancora più impattante, uscire dalle dinamiche di consumo compulsivo sarebbe un regalo ancora più grande.