martedì 25 Novembre 2025
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Bologna militarizzata per la partita con Israele: 500 militari in strada e scuole chiuse

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Bologna si è svegliata sotto una cappa di tensione mai vista per un evento sportivo. La sfida di Eurolega tra Virtus Segafredo e la società israeliana Maccabi Tel Aviv non è più solo una partita di basket: è diventata il centro di uno scontro politico e istituzionale che ha spaccato la città. Un intero quadrante del capoluogo emiliano è blindato, con circa 500 membri delle forze dell’ordine schierati, una zona rossa a doppio filtro istituita attorno al PalaDozza e scuole chiuse in anticipo. Questo imponente dispiegamento di sicurezza mira a contenere migliaia di manifestanti attesi per la protesta “Show Israel the red card”, che definiscono l’incontro «la partita della vergogna». Sullo sfondo, lo scontro tra il sindaco di Bologna Matteo Lepore e il Viminale, che non ha ceduto alla richiesta del primo cittadino di spostare l’evento lontano dal centro.

Il dispositivo di sicurezza è senza precedenti per una partita di basket a Bologna. Dalle 13 sono scattate le prime limitazioni e dalle 16 l’intera area intorno al PalaDozza sarà completamente cinturata. È in vigore il divieto di sosta con rimozione forzata per autovetture, motoveicoli e persino biciclette in un’ampia zona che include piazza Azzarita, via Graziano, via Calori e piazza della Resistenza. Tre scuole dell’Istituto Comprensivo 17 – la Teresina Guidi e la media Gandino – concluderanno le lezioni entro le 15.45, con i plessi chiusi e svuotati per le 16. Tutti i cantieri nell’area sono stati messi in sicurezza e liberati dal materiale edile.

La protesta contro la partita tra Virtus Segafredo e Maccabi Tel Aviv non riguarda semplicemente la location dell’evento. Secondo i manifestanti, il vero problema consiste nel fatto stesso che l’evento venga disputato. Le sigle che animano la piazza – Potere al Popolo, Cambiare Rotta, Usb e Giovani Palestinesi – intendono dare battaglia. Federico Serra di Usb ha lanciato un messaggio chiaro: «Rispediamo al mittente la volontà di creare tensione e criminalizzare le realtà che hanno costruito mobilitazioni a sostegno della Palestina per fermare i rapporti politici, economici e sportivi con lo Stato genocida di Israele». Anche Pap alza i toni e accusa apertamente: «Il Maccabi Tel Aviv è un club impegnato nella propaganda pro-Israele. Sui social pubblicano i soldati sulle rovine con la sciarpa del team. Non siamo barbari che invadono e devastano la città: questo è un allarme falso. Qui la questione è solo politica».

L’organizzazione della partita ha provocato anche uno scontro acceso tra Comune e Governo. Il sindaco Matteo Lepore ha più volte espresso il suo disappunto. «Avevo chiesto la soluzione alla Milano: giocare lontano dal centro, come l’Olimpia fa al Forum per le partite a rischio», ha dichiarato, riferendosi alle proposte alternative dell’Unipol Arena o della Fiera. Tuttavia, ha poi aggiunto: «Il ministro Piantedosi ha decretato che la partita si giochi al PalaDozza. La città quindi si organizza», in una sorta di accettazione formale che stempera le sue precedenti critiche. Lepore, da sempre appassionato di basket e tifoso della Virtus, ha infine annunciato: «Domani non vado — ha concluso — perché lavoro».

In questo quadro, Il ministro dell’Interno Piantedosi ha replicato soltanto: «Provvederanno le autorità locali», evitando così di rispondere direttamente alle critiche mosse dal Comune. Michele de Pascale, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottolineato come l’ipotesi di spostare la partita, come aveva proposto il sindaco Lepore, fosse «assolutamente sensata». Sul fronte opposto, Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli-Venezia Giulia: «Indecenti e indecorose le proteste per una partita che dovrebbe unire. Vedo un antisemitismo dilagante, mascherato da antisionismo», ha dichiarato. Anche i commercianti bolognesi si trovano nel mezzo della tempesta. Ogni esercente valuterà infatti in autonomia se restare aperto o chiudere in anticipo.

Uno scenario analogo si era creato lo scorso ottobre a Udine in vista della partita delle qualificazioni ai campionati mondiali di calcio tra la nazionale italiana e quella israeliana. Per l’occasione, era stata infatti modificata la viabilità cittadina, con segnali stradali temporanei, divieti di sosta e la chiusura di diverse strade che portano allo Stadio Friuli, teatro del match, e quelle adiacenti all’Hotel Friuli, in cui hanno soggiornato i calciatori israeliani. Comitati e quotidiani locali hanno denunciato una città militarizzata, con elicotteri che la sorvolano in continuazione, droni e cecchini sui tetti. Una foto del quotidiano locale Udine Today ha mostrato proprio quello che sembrava essere un tiratore scelto sul tetto dell’Hotel Friuli. L’anno precedente, in corrispondenza del medesimo evento, il Comune friulano aveva imposto il divieto assoluto di avvicinarsi allo stadio e istituito una zona rossa militarizzata attorno all’impianto. Poi, nel marzo del 2024, pesanti restrizioni per i tifosi e un ingente dispiegamento di forze dell’ordine avevano segnato il contesto della partita calcistica di Europa League tra la Fiorentina e gli israeliani del Maccabi Haifa a Firenze. Anche in questo caso, giocata in uno stadio e una città blindati.

Via i figli alla famiglia nel bosco, l’avvocato annuncia il ricorso

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Il Tribunale per i minori dell’Aquila ha disposto la sospensione della potestà genitoriale alla coppia di genitori, lei australiana e lui inglese, che aveva scelto una vita in natura alle porte di Vasto, in provincia di Chieti, insieme ai 3 figli. I 3 bambini, la più grande di 8 anni e i gemelli di 6, dopo che è stato disposto l’allontanamento dei bambini dalla dimora familiare, si trovano ora in una casa famiglia. Secondo il tribunale le motivazioni del provvedimento sono il fatto che “la deprivazione del confronto fra pari in età da scuola elementare” possa avere “effetti significativi sullo sviluppo del bambino”, oltre al “pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa” che metterebbe a rischio “l’integrità e l’incolumità fisica dei minori”.

“Nella sentenza di ieri sono state scritte falsità”, è il commento all’Ansa dell’avvocato della famiglia, Giovanni Angelucci. Secondo il legale: “Sono andati in cortocircuito. Nell’ordinanza di insiste ancora sull’istruzione dei minori che, secondo i giudici, non avrebbero l’autorizzazione all’home-schooling. Alla più grande viene anche contestato l’attestato di idoneità per il passaggio alla classe terza perché non ratificato dal ministero. Attestato che, invece, c’è ed è anche protocollato“.

La disavventura della famiglia ha inizio nel 2024, quando furono ricoverati in ospedale per un’intossicazione da funghi, con i carabinieri che, dopo la vicenda, segnalarono la situazione ai servizi sociali parlando di “isolamento” e “condizioni abitative non idonee”. Ma la realtà era ben diversa. Come dimostrato anche da diversi servizi giornalistici, quella della famiglia è una scelta precisa, basata sulla volontà di vivere in armonia con la natura. Non c’è l’impianto elettrico ma l’energia è fornita dai pannelli solari installati, c’è il pozzo per l’acqua potabile e un bagno a secco. I genitori hanno spiegato più volte che i bambini, in ottima salute, sono seguiti da un pediatra, vengono portati regolarmente al parco per conoscere altri coetanei, e vanno a fare la spesa al supermercato una volta alla settimana. Fanno home shooling da casa, sostenendo gli esami necessari come nel caso della figlia più grande.

Ma tutto questo non è bastato. “Non siamo criminali. Perché ci trattano così? Non riesco a capirlo. È una grande ingiustizia”, sono le parole di mamma Catherine, ex insegnante di equitazione, riportate da Il Centro, che racconta che lei e i bambini si trovano nello stesso edificio, ma non possono stare insieme. “Dovevo essere più forte allora”, ricorda con amarezza analizzando l’inizio di questa vicenda: “Dovevo prendere subito un avvocato, invece di ascoltare chi diceva di assecondare i servizi sociali per far sparire il problema. Mi sono fidata, ed è stato un errore”.

Il papà, dopo l’allontanamento, ha aspettato per ore davanti alla struttura per potere rivedere i figli, senza successo. “Come si fa a strappare via i figli dai propri genitori? Rimarranno traumatizzati”, si è chiesto davanti ai cronisti aggiungendo: “Chi mai separerebbe una famiglia con dei bimbi piccoli, se non ha fatto niente di male? Credo che questo provvedimento sia frutto di un sistema orribile che fa del male alle persone che vivono onestamente”.

Intanto arrivano anche le prime reazioni politiche. “Ritengo vergognoso che lo Stato si occupi di entrare nel merito dell’educazione privata, delle scelte di vita personali di due genitori che hanno trovato nell’Italia un paese ospitale e che invece gli ruba i bambini”, è la posizione di Matteo Salvini, vicepremier e segretario della Lega.

GEDI: l’editore di Repubblica patteggia nel processo per truffa, i media tacciono

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Tanto tuonò che piovve: al secondo tentativo, gli imputati hanno patteggiato la loro pena e il caso GEDI-INPS, che vedeva il gruppo editoriale accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato, è ufficialmente chiuso. Nel lunghissimo silenzio pneumatico e bipartisan delle altre testate italiane, che dell’accaduto non hanno scritto una riga, è arrivata a conclusione dopo sette anni la vicenda che riguarda una delle corazzate nel panorama dei media italiani. Dopo una cura dimagrante passata anche attraverso la cessione di una decina di giornali locali, il Gruppo GEDI ha tutt’ora nel suo portafoglio Repubblica, La Stampa, il Secolo XIX, ma anche periodici come l’Espresso e tre testate radiofoniche tra cui Radio DeeJay, piattaforme digitali e hub tematici. Cinque milioni di utenti al giorno, secondo quanto dichiarato, per i propri contenuti di informazione e di intrattenimento. Ancora più singolare, quindi, il black out informativo di giornali e tv sulla lunga e grave vicenda giudiziaria attraversata dal gruppo editoriale controllato dalla Exor, cassaforte della famiglia Agnelli-Elkann.

Nella foto, Carlo De Benedetti, ex presidente di GEDI Gruppo Editoriale.

Tutto era iniziato nel 2018, all’epoca della gestione CIR (Compagnie Industriali Riunite) di Carlo De Benedetti, con l’avvio di un’indagine su presunti raggiri compiuti dal gruppo ai danni dell’erario e degli enti previdenziali, INPS e INAIL. L’accusa era piuttosto seria: truffa aggravata ai danni dello Stato per aver ottenuto CIG (Cassa Integrazione e Guadagno) e prepensionamenti a favore di circa 80 dei propri dipendenti senza averne diritto, con vari trucchi posti in essere tra i quali demansionamenti e trasferimenti fittizi degli stessi tra alcune aziende del gruppo. In una delle intercettazioni acquisite agli atti, l’amministratore delegato Monica Mondardini, tra gli imputati che hanno patteggiato davanti al GIP di Roma, risponde così ad un esperto giuslavorista che le parlava degli “artifizi” usati e dei finti trasferimenti di personale: «Lei crede che io sarei qui se fossero trasferiti realmente?». I vertici dell’azienda, che insieme ai prepensionati ed un paio di sindacalisti erano nel lungo elenco di indagati con alcune figure apicali (oltre alla Mondardini, anche Roberto Moro, ex capo del personale) hanno quindi scaricato sui conti pubblici il costo di stipendi e trattamenti pensionistici, con scivoli erogati a persone poco più che cinquantenni e che evidentemente non avevano titoli e requisiti per potervi accedere. Parallelamente, GEDI ha tratto ovviamente un indebito arricchimento per i soldi di stipendi e trattamenti pensionistici scaricati sui conti pubblici. Secondo la testata Primaonline che ha diffuso per prima la notizia, il giudice ha accolto la proposta di patteggiamento avanzata da 16 persone, tra le quali Mondardini e Moro, e cinque società del Gruppo GEDI (GEDI Gruppo Editoriale Spa, GEDI News Network Spa, GEDI Printing Spa, A. Manzoni & C. Spa ed Elemedia Spa).

Va ricordato, tuttavia, che non era la prima volta che gli imputati avevano chiesto un patteggiamento per chiudere la scomoda e spinosa faccenda. Nel dicembre 2023 infatti, il GIP Andrea Fanelli aveva bocciato la proposta proveniente – nell’occasione – da Mondardini e Moro, oltre che dalle cinque società di cui sopra, giudicandola sostanzialmente insufficiente e inadeguata alla gravità dei fatti. La Procura di Piazzale Clodio infatti, col procuratore aggiunto Paolo Ielo e la pm Claudia Terracina, aveva approvato l’istanza dei due imputati eccellenti concordando una condanna di 5 anni e 10 anni di reclusione con pena sospesa. Per quanto riguarda le società, era stato proposto un risarcimento del danno all’INPS di 16 milioni con l’offerta di 1,8 milioni in relazione ai profitti collegati ai reati contestati: peccato che, appunto, l’ingiusto profitto accumulato da GEDI che non ha pagato stipendi e contributi a decine di dipendenti, sia stato stimato nell’ordine dei 38,9 milioni. Tre anni fa infatti era stato disposto un sequestro preventivo di pari importo e oggi il GIP, tra le altre cose, ha anche deciso la restituzione di 19,2 milioni a Gedi. Rigettando l’istanza di patteggiamento, il giudice Fanelli ha evidentemente ritenuto troppo morbide le pene in relazione alle responsabilità dei manager imputati, ossia sproporzionate per difetto: una conclusione a tarallucci e vino, vidimata peraltro dalla procura. Peraltro, aveva creato non poche perplessità il fatto che la Procura avesse giudicato “un danno patrimoniale tenue” i 16 milioni da restituire all’INPS: anche questa circostanza era stata valutata dal giudice Fanelli come incongrua e irricevibile.

L’ amministratore delegato della Exor N.V, John Elkann

Secondo gli inquirenti che hanno aperto il fascicolo al seguito dell’indagine aperta dalla stessa INPS nel 2018, dopo segnalazioni pubblicate dal Fatto Quotidiano, i fatti contestati si sono svolti dal 2011 al 2015 grazie ad un triplice patto d’acciaio tra azienda, sindacati e dipendenti, con gli enti che nella migliore delle ipotesi sono restati a guardare: tra gli indagati figuravano anche due dipendenti INPS. Pensare che anni prima che si muovessero i magistrati, INPS Lazio aveva ricevuto una segnalazione anonima su presunte anomalie amministrative nel gruppo GEDI , ma nei successivi controlli – secondo il presidente dell’Istituto, Gabriella Di Michele – non era stata trovata nessuna irregolarità contabile. Per ottenere in modo illegittimo i prepensionamenti, i responsabili hanno provveduto ad effettuare trasferimenti fittizi di personale all’interno delle aziende del gruppo, sfruttando quelle che avevano diritto ad accedere agli ammortizzatori sociali erogati con cifre considerevoli. Ma sono stati anche certificati falsi esuberi e falsificati libretti di lavoro per poter dimostrare di essere in possesso del monte contributi necessario ad accedere allo status richiesto. Così come sono stati eseguiti palesi demansionamenti per trasferire personale da un’azienda all’altra, con qualifiche abbastanza fantasiose (manager e profili apicali diventati improvvisamente “grafici”).

I soci di maggioranza avevano chiesto di «conservare la marginalità del gruppo» e la GEDI è riuscita ad aumentare i profitti, riducendo il costo del lavoro e gli organici: peccato che per farlo abbia commesso dei reati che assumono un significato particolare, sotto al profilo dell’etica e della correttezza, per chi maneggia un bene prezioso come l’informazione in tutti i suoi aspetti previsti anche dalla Costituzione. Il tombale silenzio che è calato sulla vicenda, secondo gli inquirenti, si sarebbe potuto spiegare anche col fatto che GEDI forse non fosse l’unica a muoversi con tanta disinvoltura per aumentare i propri profitti e scaricare sui conti pubblici i costi del personale, nel panorama già gravemente ammalato dei media italiani, e che quindi come si dice, cane non morde cane. Si era vociferato, all’epoca, anche di imminenti ispezioni e verifiche incrociate tra procure ed enti previdenziali nei conti e nelle carte di altri grandi gruppi editoriali italiani, ma nei fatti nessuno se ne ha più sentito parlare. Dopo la conclusione dell’affaire-GEDI, probabilmente sarà ancora più difficile che possa succedere.

Suicidio assistito, il governo impugna la legge della Regione Sardegna

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Il governo ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale la legge regionale sul suicidio assistito approvata dalla Sardegna a settembre, sostenendo che la materia sia di competenza nazionale e non regionale. La norma resterà in vigore mentre la Corte valuta il caso. La decisione ha soprattutto un valore politico: i partiti di centro-destra al governo sono contrari alla pratica e contestano le iniziative regionali, nate anche perché il Parlamento non ha ancora approvato una legge nazionale nonostante la sentenza del 2019. Finora solo Sardegna e Toscana hanno varato norme proprie, entrambe impugnate dal governo.

Dal 7 ottobre, almeno 98 palestinesi sono morti nelle carceri israeliane

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Novantotto prigionieri politici palestinesi sono morti negli ultimi due anni: è il dato più alto degli ultimi decenni e segna un punto di svolta nella gestione delle detenzioni israeliane. Novantaquattro decessi sono stati registrati tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025, altri quattro tra ottobre e novembre di quest’anno, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto, dato che non si hanno più informazioni su centinaia di detenuti. È il quadro che emerge dal rapporto di Medici per i diritti umani (PHRI), Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced disappearances, systematic killings and cover-ups. Il dossier documenta l’esistenza di una politica ufficiale che combina sparizioni forzate, violazioni dei diritti umani, condizioni carcerarie abusive e uccisioni.

Le detenzioni massicce hanno trasformato carceri e strutture militari in veri e propri centri di tortura: detenuti privati di contatti con le famiglie, ammanettati per ore a terra, pestaggi, fratture non curate, infezioni lasciate evolvere senza antibiotici, malnutrizione e isolamento prolungato. La maggior parte dei palestinesi provenienti da Gaza morti in detenzione non era considerata combattente neppure dalle autorità israeliane: erano civili. Diverse inchieste hanno già documentato atti di violenza arbitraria. Il rapporto 2024 di Physicians for Human Rights Israel e il reportage del Public Committee Against Torture in Israel segnalato dal New Yorker denunciavano la trasformazione delle carceri israeliane in luoghi di abuso sistematico. Un rapporto  dell’ONG israeliana B’Tselem, basato su 55 testimonianze dirette, ha confermato le violenze: prigionieri senza processo, aggressioni sessuali, torture fisiche e psicologiche.

Ora, PHRI approfondisce questa realtà articolandola in tre fronti. Il primo riguarda le scomparse forzate: molti detenuti non vengono registrati, ma confinati in basi militari segrete, le famiglie restano senza notizie e anche l’accesso del Comitato internazionale della Croce Rossa viene spesso bloccato. I parenti dei detenuti hanno appreso in ritardo la notizia del loro decesso o non l’hanno appresa affatto. Per l’organizzazione, questa pratica rientra pienamente nella definizione internazionale di “scomparsa forzata”, volta a rimuovere le prove dei crimini. Il secondo fronte è quello delle morti in custodia, che coinvolge sia le carceri civili sia le strutture militari: «L’uccisione dei palestinesi in custodia – leggiamo nel dossier – è diventata una pratica normalizzata, derivata direttamente da una politica ufficiale dello Stato». Sulle strutture civili emergono i dati su sovraffollamento, violenze e cure negate; in quelle militari, prevalgono opacità e assenza di controlli esterni, «inclusa l’ampia violenza fisica quotidiana» da parte delle guardie carcerarie. Le autopsie disponibili mostrano una combinazione ricorrente di traumi fisici dovuti «alla violenza fisica inflitta dai soldati israeliani» e alla negligenza medica.

Sde Teiman– la base militare nel deserto del Negev trasformata in campo di prigionia e ribattezzata l’“Abu Ghraib israeliana” dagli attivisti dei diritti umani – emerge come quello con il più alto numero di decessi: 29. La struttura è circondata dal silenzio dell’esercito israeliano, che la gestisce come una zona militare interdetta. Già precedenti inchieste descrivevano Sde Teiman come un luogo dove i detenuti vengono bendati, incatenati e picchiati regolarmente, persino trattenuti in gabbie. Anche dopo che Sde Teiman è entrato nel dibattito pubblico e nei media, gli abusi sono continuati. Di questo luogo si è, infatti, parlato molto nelle ultime settimane per la vicenda dei cinque soldati incriminati per torture e lesioni aggravate, dopo la diffusione di un video – autorizzata dalla procuratrice militare Yifat Tomer Yerushalmi poi arrestata a inizio novembre – trasmesso da Channel 12 nell’agosto 2024 e girato il mese precedente, che documenta abusi sessuali su un detenuto palestinese.

Il terzo fronte analizzato nel rapporto, infine, riguarda la copertura, tra autopsie impedite e indagini interne inconsistenti. PHRI conclude che non si tratta di casi isolati, ma di un apparato sedimentato negli anni e radicalizzato dopo il 7 ottobre, costruito per rendere invisibili i detenuti e inverificabili le responsabilità. Per questo, PHRI chiede un’inchiesta internazionale, il rilascio immediato dei corpi e indagini efficaci per accertare le responsabilità. Il nodo resta politico: finché il sistema carcerario sarà trattato come un’appendice della guerra, ogni vita rinchiusa potrà svanire nel silenzio.

Garante della Privacy, si dimette il segretario generale

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Il segretario generale del Garante della Privacy si è dimesso. Non è ancora noto il motivo per cui il segretario abbia deciso di dimettersi, ma negli ultimi giorni era finito sotto i riflettori a causa di una inchiesta della trasmissione televisiva Report che evidenziava presunti conflitti di interesse del Garante con il governo. Il caso è scoppiato quando il Garante ha multato la Rai perché Report aveva trasmesso una conversazione privata tra l’ex ministro della Cultura Sangiuliano e sua moglie; la trasmissione aveva poi riportato una visita di un componente del collegio direttivo del Garante alla sede di Fratelli d’Italia, accusandolo di essere stato influenzato dal governo nell’emissione della sanzione.

Caporalato nella moda, Tod’s sotto inchiesta: lavoratori a 2,75 euro l’ora

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La procura di Milano ha avviato una indagine per caporalato contro l’azienda italiana di moda Tod’s. A finire sotto la lente degli inquirenti sono lo stesso marchio di lusso e tre dirigenti. La procura li accusa di avere sfruttato la manodopera degli operai che lavorano nella filiera produttiva dell’azienda: i lavoratori verrebbero pagati 2,75 euro l’ora, lavorando a tutte le ore, anche durante i giorni festivi, senza contratto e dormendo in dormitori abusivi; per tale motivo, gli inquirenti chiedono di vietare a Tod’s di pubblicizzare i propri prodotti per sei mesi. Tod’s è solo l’ultimo marchio di lusso a finire sotto il mirino della Procura meneghina. Il pm aveva già chiesto l’amministrazione giudiziaria per Alviero Martini spaArmani OperationsDiorLoro Piana e Valentino per analoghe questioni. Con la nuova richiesta, la procura introduce un salto di livello negli accertamenti, accusando Tod’s direttamente di sfruttamento.

Gli operai coinvolti nel caso di sfruttamento sono 56 persone di nazionalità cinese e lavorano per 6 distinte aziende che forniscono i prodotti a Tod’s, tutte distribuite tra la Lombardia e le Marche. La procura sostiene che nonostante abbia affidato a terzi i lavori di monitoraggio sul rispetto dei diritti dei lavoratori negli stabilimenti, il marchio di lusso sia direttamente colpevole di sfruttamento perché non avrebbe tenuto «minimamente conto» dei risultati delle «ispezioni». Nella documentazione presentata, lunga 144 pagine, la procura sostiene infatti che Tod’s e i tre dirigenti – Simone Bernardini, Mirko Bartoloni e Vittorio Mascioni – avessero «piena consapevolezza» delle condizioni di lavoro di sfruttamento degli operai, parlando di «cecità intenzionale». Secondo l’accusa, è certo che i vertici aziendali fossero a conoscenza delle condizioni di lavoro degli operai in subappalto perché informati con decine di audit. L’udienza sul caso è prevista il prossimo 3 dicembre.

A capo delle indagini c’è il pm Paolo Storari, promotore di quello che ha ormai preso il nome di “metodo Storari”, che consiste nell’indagare non solo le aziende appaltatrici e subappaltatrici, ma anche i committenti. Tod’s si è smarcata dalle accuse affermando di «fare dei valori etici una bandiera», e di stare analizzando «con tranquillità il nuovo materiale». L’azienda parla di un «preoccupante tempismo» con cui Storari avrebbe presentato l’accusa: il riferimento è alla pronuncia della Cassazione sulla richiesta di commissariamento dell’azienda avanzata dallo stesso Storari, rilasciata il 19 novembre. Prima di accusare l’azienda di caporalato, Storari aveva infatti chiesto di mettere Tod’s sotto amministrazione giudiziaria, accusandola di non avere effettuato i dovuti controlli sugli opifici dei propri subappaltatori, e di avere così agevolato lo sfruttamento dei lavoratori. Tale richiesta era stata rigettata due volte non per questioni di merito, ma formali: la scorsa estate, infatti, erano finiti sotto indagine solo gli stabilimenti nelle Marche; i giudici sostenevano dunque che la competenza sul caso fosse della procura di Ancona. Il 19 novembre, la Cassazione ha rigettato nuovamente la richiesta di Storari, ma le motivazioni della sentenza non sono ancora pubbliche.

Nell’ultimo anno e mezzo, Storari ha chiesto l’amministrazione giudiziaria per numerose altre aziende di moda. Le indagini sono state avviate la scorsa estate: in quel periodo era stata svolta una inchiesta anche su Loro Piana, marchio di lusso specializzato in indumenti in cashmere. Anche nel caso di Loro Piana, il pm aveva chiesto il commissariamento ricostruendo un sistema di caporalato e sfruttamento a danno degli operai. Gli altri brand di lusso coinvolti sono Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior e Valentino Bags Lab. Con l’accusa di caporalato, Storari compie un salto di livello nelle indagini che stanno coinvolgendo le aziende di moda italiane: Tod’s, infatti, non è più accusata di non avere effettuato i controlli dovuti, ma di essere a conoscenza delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, e di aver deliberatamente ignorato la situazione; non sarebbe insomma più una questione di colpe, ma di vero e proprio dolo.

Nella regione costiera del Sudafrica ritornano i leopardi dopo quasi 200 anni

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leopardo sudafrica

Nel cuore del West Coast National Park, a circa 90 km a nord della capitale sudafricana, una fototrappola ha registrato un’immagine che non si vedeva da quasi due secoli: un leopardo in libertà. L’avvistamento è avvenuto nella zona costiera compresa tra Città del Capo e il fiume Berg e rappresenta il primo ritorno documentato della specie in quest’area da 170 anni. Un evento raro, non programmato, che racconta molto di come sta cambiando il rapporto tra uomo e ambiente.
Il leopardo africano (Panthera pardus) non è classificato come specie in via di estinzione, ma è considerato “vulnerabile” da...

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Sardegna: transizione verde o colonialismo energetico?

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C’è un’isola del Mediterraneo che sta venendo trasformata in una piattaforma energetica funzionale ai bisogni del continente. Questa terra è la Sardegna, luogo in cui la cosiddetta transizione energetica mostra tutte le sue contraddizioni, tanto da essere motivo di forti contrasti con la popolazione locale che – è il caso di affermarlo subito – sa sulla propria pelle quanto sia necessario abbandonare le fonti di combustibile fossile, ma contesta allo stesso tempo il modo, giudicato coloniale, con cui l’isola sta diventando l’hub italiano delle rinnovabili. Le criticità che riguardano le rinnovabili toccano svariate questioni e ci restituiscono un quadro complesso che coinvolge tanto aspetti tecnici quanto motivi identitari.

Secondo i dati del 2023 di Terna – società responsabile della gestione della rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica – il totale netto di energia elettrica prodotta in Sardegna è stato pari a 11.901,3 GWh (la maggior parte di quest’energia è legata alle fonti fossili) per un fabbisogno regionale di 7636,9 GWh. Il 29% dell’energia prodotta è stato esportato verso la Penisola e, in piccola misura, verso l’estero. Sempre secondo i dati Terna, all’inizio del 2023 in Sardegna erano installati impianti eolici e fotovoltaici per una capacità complessiva lorda pari a 2,24 GW, numero che rischia di crescere a dismisura. In Sardegna, infatti, le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna al 30 settembre 2025 sono 678, pari a 49,15 GW di potenza, suddivisi in 443 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare, 234 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra e in mare e una richiesta di impianti di produzione energetica da fonte idroelettrica. In questo scenario, laddove tutte le istanze diventassero realtà, la produzione sarda di energia rinnovabile supererebbe i 90.000 GWh, cioè undici volte i consumi elettrici annui dell’isola.

Come si gestisce tutta questa energia?

Turbine eoliche vicino a Portoscuso (SU)

Questa overdose di energia porrebbe non pochi problemi poiché non potrebbe essere consumata sull’isola, non potrebbe essere conservata – a oggi gli impianti di conservazione approvati sono pochi e di potenza estremamente ridotta – e non potrebbe essere trasportata verso la Penisola se non in piccola parte, dato che, anche quando entrerà in funzione il terzo cavidotto, la potenza complessiva trasportabile sarà di circa 2000 MW. Tutta quest’energia dovrà però essere pagata dal gestore della rete indipendentemente dal suo utilizzo. Come ha spiegato a L’Indipendente Antonio Muscas, ingegnere meccanico sardo, in presenza di un eccesso di offerta, Terna ha la possibilità di bloccare temporaneamente gli impianti di energia rinnovabile. L’eventuale stop non compromette il guadagno delle società energetiche a cui viene pagata l’energia che avrebbero prodotto se non fosse stato imposto il blocco.

Come abbiamo accennato, parte dell’energia sarda viene esportata tramite dei cavidotti. A oggi sono in funzione il SA.PE.I., un cavo che collega la Sardegna alla Penisola italiana, e il SA.CO.I., il collegamento tra Sardegna, Corsica e Penisola. Accanto a queste infrastrutture, è in costruzione il contestato Tyrrhenian Link, un doppio collegamento sottomarino tra Sicilia, Sardegna e Penisola che richiede un investimento di 3,7 miliardi di euro. La futura stazione di conversione del Tyrrhenian Link sorgerà nel comune di Selargius della città metropolitana di Cagliari: in quest’area, da febbraio 2024, Terna ha espiantato almeno 230 piante di ulivi che, a detta della società, sono stati reimpiantati mantenendone l’orientamento e l’esposizione. Prendendo come possibile lo spostamento di centinaia di ulivi senza provocare alcuna modifica e alcun trauma alle piante, è lecito domandarsi come mai Terna abbia optato per occupare aree di campagna anche attraverso espropri coatti piuttosto di preferire le vicine aree industriali. A sud-ovest di Selargius, si trova il comune di Sarroch, la cui zona industriale è occupata dalla Saras S.p.A., una delle più grandi raffinerie petrolifere d’Europa. Parte delle aree occupate dalla raffineria poteva essere destinata alla stazione di conversione del nuovo cavidotto, ma, come ricorda Muscas, l’esproprio di terre agricole ha un costo molto inferiore rispetto al prelievo di spazi industriali.

È utile qui spendere qualche parola sul gruppo Saras che, attraverso la Sardeolica s.r.l., gestisce l’impianto eolico sito nel comune di Ulassai. La scelta di occuparsi tanto di petrolio quanto di eolico potrebbe essere spiegata dai crediti di carbonio, ossia certificati negoziabili che rappresentano il diritto di emettere una tonnellata di anidride carbonica o la quantità equivalente di un diverso gas serra. Le aziende che non riescono a ridurre o eliminare le proprie emissioni di CO2 possono acquisire questi titoli – cioè i crediti di carbonio – da enti esterni certificati per finanziare, per esempio, progetti di produzione di energia pulita. Del gruppo Saras è anche la raffineria Sarlux che si trova al centro di un’inchiesta sulle emissioni con ipotesi di reato di disastro ambientale. Secondo la Procura di Cagliari le torce della raffineria, che si sarebbero dovute attivare solo in situazioni di emergenza, sarebbero rimaste in funzione quotidianamente dal 2019 al 2024, diffondendo nell’area polveri sottili e benzene oltre i limiti di legge.

Impianti eolici fronte chiesa

A breve distanza dalla Basilica di Saccargia, emblema dell’architettura romanica, si trova il parco eolico Nulvi Ploaghe

Dove debbano sorgere gli impianti di energia rinnovabile è una delle questioni più dibattute. Come ci spiega Lisa Ferreli, caporedattrice di Sardegna Che Cambia, la percezione della popolazione locale è che il territorio sardo venga considerato alla mercé dello Stato e dunque sfruttato per fini turistici, energetici, militari. Adottando quello che viene definito un “punto di vista italiano”, la transizione energetica è un obiettivo da raggiungere anche a costo di industrializzare e antropizzare zone rurali. Ferreli ricorda che in Sardegna sono numerose le aree industriali dismesse dove eventuali impianti non impatterebbero sul paesaggio già deteriorato. Una di queste è la penisola “delta” del poligono permanente di Capo Teulada. Si tratta di un promontorio di circa 2,78 km2 dove, fin dagli anni ’50, gli eserciti della NATO si esercitavano con i loro sistemi di arma e sperimentavano missili di ogni tipo, compromettendo tutte le forme di vita presenti nella zona. È possibile immaginare che l’idea di bonificare e utilizzare la penisola delta al fine di ospitare delle pale eoliche non incontrerebbe la contrarietà dei sardi, ma ciò risulta impossibile poiché le aree e i beni del demanio militare o a qualunque titolo in uso al Ministero della Difesa non sono considerati idonei per gli impianti eolici, così come per quelli fotovoltaici, di piccola, media e grande taglia.

Sorte diversa è invece quella della Basilica di Saccargia (provincia di Sassari). A breve distanza da questo monumento, emblema dell’architettura romanica, si trova il parco eolico Nulvi Ploaghe, il cui ampiamento (27 nuove torri eoliche alte fino a 180 metri con potenza complessiva 121,5 MW) è stato autorizzato. Sebbene il progetto fosse stato bocciato dal Ministero della Cultura per la vicinanza a siti di epoca nuragica e alla Basilica di Saccargia, è stato poi approvato dal Ministero della Transizione Energetica e dal governo Draghi e confermato dal Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso della Regione. Se fino a pochi anni fa il parere del Ministero della Cultura era vincolante, oggi l’ultima parola rispetto alla valutazione d’impatto ambientale spetta al governo, che può scegliere di ignorare i pareri negativi e approvare la costruzione di impianti. È la stessa Ferreli a individuare quest’episodio come un simbolo di una speculazione che ignora le peculiarità dei luoghi.

L’impatto sull’archeologia

La Sardegna è disseminata di testimonianze del patrimonio culturale nuragico e prenuragico. In questo caso nell’immagine possiamo osservare il complesso archeologico nuragico di Su Nuraxi di Barumini. La fortezza risalente all’età del bronzo è patrimonio mondiale dell’UNESCO

Il territorio sardo ha un’altissima percentuale di siti archeologici, tanto che non è esagerato affermare che l’isola è disseminata di testimonianze del patrimonio culturale nuragico e prenuragico. A oggi non esiste un elenco ufficiale dei siti archeologici sardi per diversi motivi: difficoltà di censimento dovuto al loro elevatissimo numero, siti che si trovano in luoghi di difficile accessibilità, scarso interesse da parte dello Stato a finanziare gli scavi archeologici sull’isola (anche per non alimentare il sentimento di nazionalismo sardo che potrebbe essere ravvivato da una maggiore conoscenza della civiltà nuragica che si è sviluppata nel corso dell’Età del bronzo e del ferro, ma che non è possibile inserire nella periodizzazione storica italiana per le sue peculiarità uniche nel suo genere). Il fatto di non avere una lista completa delle aree archeologiche fa sì che eventuali impianti eolici vengano approvati in zone di interesse culturale. Inoltre, sebbene per legge gli impianti eolici debbano distare almeno 3 km dai siti archeologici, l’area di “cuscinetto” non è sempre rispettata. Sara Corona, archeologa e divulgatrice culturale sarda, ci ha spiegato che molti progetti vengono presentati con delle valutazioni di impatto ambientale che non tengono conto del rischio archeologico. Un disinteresse da parte delle imprese che testimonia la loro fretta nell’aggiudicarsi sempre più terre. Corona fa riflettere anche su un altro aspetto poco affrontato: il cambiamento del rapporto visivo determinato dagli impianti eolici. Gli aerogeneratori di ultima generazione raggiungono i 200 metri di altezza, dimensione che potrebbe modificare in modo significativo la percezione dell’ambiente circostante riflettendosi anche sull’archeologia locale. La vicinanza di gigantesche pale altera il rapporto dei siti archeologici con il territorio poiché viene cambiata la scala di riferimento.

La concentrazione di siti archeologici restituisce agli isolani la consapevolezza di vivere in un territorio antico, sensazione che, per Corona, si sovrappone all’idea di abitare un territorio rurale che rischia di essere sempre più alterato dall’industrializzazione. Puntando l’attenzione verso i progetti di grandi parchi eolici, non è sbagliato affermare che la loro presenza abbia un forte impatto sul rapporto delle persone con la terra. Rispetto a questa questione, Corona ha effettuato una ricerca nel territorio di Villanovaforru (provincia del Sud Sardegna) dove gli abitanti, minacciati dagli espropri, si sono sentiti privati del diritto di decidere la destinazione d’uso delle terre, con la conseguente interruzione di attività rurali di lunga tradizione. In quell’occasione, oltre alla perdita dell’autodeterminazione della comunità, è stato osservato un ulteriore problema: l’inquinamento acustico. In alcune zone di campagna del territorio comunale il rumore delle pale di un piccolo impianto eolico si sente sia a casa sia nei campi, condizione che fa vivere in modo differente lo stare all’aria aperta e il coltivare la terra a causa del fastidio provocato dal continuo ronzio causato dalle pale in movimento. 

Opzione off-shore 

Esempio di impianto eolico off-shore

In Sardegna, la soprintendenza speciale per il PNRR ha registrato «una complessiva azione per la realizzazione di nuovi impianti da fonte rinnovabile […] tanto da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica oltre il fabbisogno regionale previsto». Sembrerebbe dunque che l’esubero di progetti di energia rinnovabile sia oramai sotto gli occhi di tutti, eppure nulla sta cambiando. Se da una parte le aziende energetiche continuano a presentare istanze di connessione a Terna in modo da almeno accaparrarsi le terre – anche nel tentativo di bloccare l’avanzata della concorrenza –, dall’altra stanno aumentando i progetti di eolico off-shore come quello che vorrebbero costruire davanti alla costa sud occidentale della Sardegna. La centrale, che prevede l’installazione di 42 turbine galleggianti con un’altezza massima di quasi 350 metri sul livello dell’acqua, è già stata sottoposta al parere, per ora secretato, del Ministero dell’Ambiente e ora attende quello del Ministero della Cultura. Ciò che preoccupa maggiormente, oltre alla visibilità dalle coste dell’isola di San Pietro, è l’impatto sull’ambiente e sulla fauna. L’impianto interferirebbe con le rotte migratorie dell’avifauna selvatica (in particolare con il Falco della Regina che nidifica sull’isola di San Pietro) e con la fauna marina, specialmente con il tonno rosso, la cui pesca rappresenta un elemento importante per l’economia locale. Oltre al rischio di perdita di biodiversità, bisogna tenere conto della possibile interruzione dei sistemi di comunicazione e navigazione nei mammiferi marini dovuta all’inquinamento acustico.

Colonialismo ecologico 

Vista la corsa ai progetti di energia rinnovabile, Sara Corona non ha difficoltà ad affermare che in Sardegna si sta assistendo a un vero e proprio fenomeno di land grabbing ai danni delle comunità rurali. Le zone di campagna non solo vedono un continuo abbandono della terra soprattutto da parte dei giovani, ma sono invase da progetti che fanno leva su questo spopolamento. Non è un caso che i luoghi prescelti dalle aziende per la costruzione degli impianti siano aree periferiche nella convinzione che in questi posti sia minore l’opposizione della comunità locale. In Sardegna le realtà contrarie al pullulare di progetti di energia rinnovabile sono invece numerosissime perché è sentimento comune che quello che sta avvenendo sia una nuova forma di colonialismo estrattivo da parte dello Stato italiano. Come abbiamo visto, l’energia prodotta in Sardegna è già in esubero e le infrastrutture hanno una capacità di trasporto molto limitata, ma questo scenario non limita le aziende, forti del fatto che verrebbero pagate anche laddove la produzione di energia dovesse essere interrotta. Una delle maggiori critiche avanzate verso questo passaggio alle risorse rinnovabili è che sta avvenendo seguendo gli stessi dettami della produzione di energia tradizionale: sebbene le risorse utilizzate siano infinite – nel caso dell’eolico il vento –, la terra che dovrebbe ospitare gli impianti non lo è. La popolazione sarda non è contraria alla transizione, ma si batte contro l’assoluta esclusione delle comunità dalla decisione di cosa fare sulle proprie terre e di cosa fare dei propri territori. 

Incendio alla COP30: evacuati i partecipanti

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A Belém, in Brasile, è scoppiato un vasto incendio nei padiglioni che ospitano la conferenza dell’ONU sul clima. L’incendio è esploso nella zona B, di fronte al padiglione Italia e vicino agli ingressi. Sul posto si sono rapidamente dirette le squadre di soccorso e i partecipanti sono stati fatti evacuare nella cosiddetta “green zone”, dall’altra parte del complesso. Non sono stati segnalati feriti; ignote le cause dell’incendio.