La settimana si apre con nuove allerte gialle per maltempo in sei regioni del Centro-Nord: Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Toscana e Umbria. Nel Goriziano una frana ha investito un’abitazione a Brazzano di Cormons: salvata una persona, si cercano due dispersi. I vigili del fuoco stanno intervenendo con natanti leggeri e l’elicottero del reparto volo di Venezia a Versa, nel Goriziano: a seguito dell’esondazione del fiume Torre, alcune persone si sono rifugiate sui tetti delle abitazioni. Sono in corso le operazioni di soccorso. In Toscana è attiva una linea temporalesca in varie province. In Liguria migliora la situazione, ma Genova resta vulnerabile.
L’intervista completa a Sergej Lavrov che il Corriere ha censurato: ecco il testo
Nei giorni scorsi, il ministero degli Esteri russo ha accusato il Corriere della Sera di aver rifiutato di pubblicare un’intervista scritta, concessa al quotidiano da Sergej Lavrov. Le risposte erano già state inviate, ma la redazione ha bloccato la pubblicazione. Mosca definisce il fatto «una palese censura», mentre il Corriere sostiene che le risposte contenevano affermazioni discutibili e propagandistiche e che l’assenza di contraddittorio non corrisponde ai criteri dell’intervista giornalistica. Il punto critico riguarda, però, la coerenza del metodo. La stessa modalità, con domande concordate e nessun confronto diretto, è utilizzata di frequente quando a parlare sono leader occidentali. Negli ultimi anni, si è diffuso un formato ibrido in cui più testate raccolgono risposte comuni da un politico e le pubblicano come “intervista”, senza che la procedura venga considerata un ostacolo. Nel caso più recente, Ursula von der Leyen ha imposto un modello ancora più rigido, con domande anticipate e risposte solo scritte, senza interazione con i giornalisti, spingendo alcune testate a pubblicarle come intervista e altre, come El País, a rinunciare. Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’intervista al ministro Sergej Lavrov.
Si dice che il nuovo incontro tra Vladimir Putin e Donald Trump a Budapest non abbia avuto luogo perché persino l’amministrazione americana si è resa conto della vostra mancanza di disponibilità a negoziare sulla questione ucraina. Cosa è andato storto dopo il vertice di Anchorage che aveva fatto sperare nell’avvio di un vero processo di pace? Perché la Russia rimane fedele alle richieste formulate da Vladimir Putin nel giugno 2024 e su quali temi potreste essere disposti a un compromesso?
Gli accordi di Anchorage rappresentano una tappa importante nel percorso verso una pace duratura in Ucraina, attraverso il superamento delle conseguenze del cruento colpo di Stato anticostituzionale a Kiev del febbraio 2014, organizzato dall’amministrazione Obama. Essi si basano sulla situazione creatasi e sono strettamente in linea con le condizioni per una risoluzione equa e sostenibile della crisi ucraina, enunciate dal Presidente Vladimir Putin nel giugno 2024. Abbiamo ritenuto che tali condizioni siano state ascoltate e comprese, anche pubblicamente, dall’amministrazione di Donald Trump, soprattutto per quanto riguarda l’inammissibilità dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO che creerebbe minacce militari strategiche alla Russia, proprio ai suoi confini. Washington ha inoltre riconosciuto apertamente che non sarà possibile ignorare la questione territoriale alla luce dei referendum svoltisi in cinque regioni storiche del nostro Paese, i cui abitanti si sono espressi in maniera inequivocabile a favore dell’autodeterminazione rispetto al regime di Kiev che li aveva definiti “subumani”, “esseri” e “terroristi” e della riunificazione con la Russia. Proprio intorno al tema della sicurezza e delle realtà territoriali è stata costruita la concezione americana, che una settimana prima del vertice in Alaska è stata portata a Mosca, su incarico del Presidente degli Stati Uniti, dal suo rappresentante speciale Steve Whitcoff e che, come ha comunicato il Presidente Vladimir Putin al Presidente Trump ad Anchorage, abbiamo accettato di assumere come base, proponendo al contempo un passo concreto che aprisse la strada alla sua realizzazione pratica. Il leader americano ha risposto che avrebbe dovuto consultarsi, ma neanche dopo il suo incontro con gli alleati il giorno successivo a Washington, abbiamo ricevuto alcuna reazione alla nostra risposta positiva alle proposte menzionate, presentate a Mosca da Steve Whitcoff prima del vertice in Alaska. Nemmeno durante il mio incontro con il Segretario di Stato Marco Rubio a settembre a New York ho avuto alcuna reazione, quando ricordai che eravamo ancora in attesa di un riscontro. Per aiutare i colleghi americani a decidere in merito alla loro stessa idea, abbiamo messo per iscritto in via non ufficiale gli accordi di Anchorage e li abbiamo trasmessi a Washington. Pochi giorni dopo, su richiesta di Donald Trump, ha avuto luogo una sua conversazione telefonica con Vladimir Putin, durante la quale si è convenuto di organizzare un nuovo incontro a Budapest, da preparare accuratamente in anticipo. Non c’era dubbio che si sarebbe parlato degli accordi di Anchorage. Dopo un paio di giorni ho avuto una conversazione telefonica con Marco Rubio, dopo di che Washington, definendo la conversazione costruttiva (era stata davvero seria e utile), ha comunicato che a seguito di tale colloquio, non era necessario un incontro personale tra il Segretario di Stato e il Ministro della Federazione Russa in preparazione del contatto al vertice. Da dove e da chi siano giunti i rapporti riservati che hanno spinto il leader americano a rinviare o forse cancellare il vertice di Budapest, non mi è dato saperlo. Ma vi ho esposto la sequenza dei fatti in modo preciso, assumendomene la totale responsabilità. Non intendo invece rispondere alle evidenti falsità sulla “mancata disponibilità della Russia a negoziare” e sul “fallimento” dei risultati di Anchorage. Rivolgetevi al Financial Times che, a quanto mi risulta, ha diffuso questa versione mendace, distorcendo la sostanza e la sequenza degli eventi per attribuire tutta la responsabilità a Mosca e allontanare Donald Trump dalla strada da lui stesso proposta, ovvero quella di una pace stabile e duratura, anziché quella di un cessate il fuoco immediato, come invece lo spingono a fare i padroni europei di Zelensky, ossessionati dal desiderio di ottenere una tregua e di rifornire il regime nazista di armi per continuare la guerra contro la Russia. Se la BBC è arrivata a falsificare un video del discorso di Trump, mettendogli in bocca l’appello ad assaltare il Campidoglio, a maggior ragione al Financial Times costerà poco mentire, come si dice da noi. Siamo ancora pronti a tenere a Budapest il secondo vertice russo-americano, purché si basi realmente sui risultati accuratamente elaborati dell’Alaska. La data, tuttavia, non è stata ancora fissata. I contatti russo-americani continuano.
Le forze armate della Federazione Russa controllano attualmente un territorio inferiore rispetto a quello del 2022, dopo le prime settimane della cosiddetta operazione militare speciale. Se state davvero vincendo, perché non riuscite a sferrare il colpo decisivo? Potete anche spiegare il motivo per cui non fornite informazioni ufficiali sulle vostre perdite?
L’operazione militare speciale (OMS) non è una guerra per il territorio, ma un’operazione per salvare la vita di milioni di persone che vivono da secoli su queste terre e che la giunta di Kiev vuole sterminare – giuridicamente, vietandone la storia, la lingua, la cultura, e fisicamente, con l’aiuto delle armi occidentali. Un altro obiettivo fondamentale dell’Operazione militare speciale è quello di garantire in modo affidabile la sicurezza della Russia, sventando i piani della NATO e della UE volti a creare ai nostri confini occidentali uno Stato fantoccio ostile, strutturato nella legislazione e nella pratica sull’ideologia nazista. Non è la prima volta che fermiamo gli aggressori fascisti e nazisti: è stato così durante la Seconda guerra mondiale e così sarà anche questa volta A differenza degli occidentali, che hanno raso al suolo interi quartieri cittadini, noi proteggiamo le persone, sia civili che militari. Le nostre forze armate agiscono con massimo senso di responsabilità, sferrando attacchi di precisione esclusivamente contro obiettivi militari e relative infrastrutture di trasporto ed energetiche. Di norma, non si parla pubblicamente delle perdite sul campo di battaglia. Dirò solo che quest’anno, nell’ambito del rimpatrio dei militari caduti, la parte russa ha consegnato oltre novemila salme di soldati delle Forze armate ucraine. Dall’Ucraina abbiamo ricevuto 143 corpi dei nostri combattenti. Traete voi stessi le conclusioni.
La Sua apparizione al vertice di Anchorage con una felpa con la scritta “URSS” ha sollevato molte domande. Alcuni vi hanno visto la conferma del Suo desiderio di ricreare, se non addirittura ripristinare, l’ex spazio sovietico (Ucraina, Moldavia, Georgia, Paesi baltici). Si trattava di un messaggio in codice o semplicemente di uno scherzo?
Sono orgoglioso del mio Paese, in cui sono nato e cresciuto, ho ricevuto un’istruzione di livello, ho iniziato e continuo la mia carriera diplomatica. La Russia, come è noto, è l’erede dell’URSS, e nel complesso il nostro Paese vanta una civiltà millenaria. Il governo popolare della veče di Novgorod risale a molto prima che in Occidente si iniziasse a giocare alla democrazia. A proposito, ho anche una maglietta con lo stemma dell’Impero russo, ma questo non significa che vogliamo riportarlo in vita. Uno dei nostri più grandi patrimoni, di cui andiamo giustamente fieri, è la continuità dello sviluppo e del rafforzamento dello Stato nel corso della sua grande storia di unificazione e coesione del popolo russo e di tutti gli altri popoli del Paese. Su questo tema si è soffermato di recente il Presidente Vladimir Putin durante le celebrazioni della Giornata dell’Unità Nazionale. Quindi non cercate segnali politici dove non ci sono. Forse in Occidente il sentimento patriottico e la lealtà verso la patria stanno scomparendo, ma per noi sono parte del nostro codice genetico.
Se uno degli obiettivi dell’operazione militare speciale era riportare l’Ucraina nella sfera d’influenza della Russia, come potrebbe sembrare, ad esempio, dalle richieste di determinare la quantità dei suoi armamenti, non ritiene che l’attuale conflitto armato, qualunque sia il suo esito, conferisca a Kiev un ruolo e un’identità internazionali ben definiti e sempre più distanti da Mosca?
Gli obiettivi dell’Operazione Militare Speciale sono stati definiti dal presidente Putin nel 2022 e sono ancora attuali. Non si tratta di sfere di influenza, ma del ritorno dell’Ucraina a uno status neutrale, non allineato e non nucleare, del rigoroso rispetto dei diritti umani e di tutti i diritti delle minoranze russe e di altre minoranze nazionali: è proprio così che questi impegni sono stati sanciti nella Dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina del 1990 e nella sua Costituzione, ed è proprio tenendo conto di questi impegni dichiarati che la Russia ha riconosciuto l’indipendenza dello Stato ucraino. Stiamo ottenendo e otterremo il ritorno dell’Ucraina alle sane e stabili origini della sua statualità, il che presuppone il rifiuto di concedere servilmente il suo territorio allo sfruttamento militare da parte della NATO (e dell’Unione Europea, che si sta rapidamente trasformando in un blocco militare non meno aggressivo), la purificazione dall’ideologia nazista, messa fuori legge a Norimberga, il ripristino dei pieni diritti dei russi, degli ungheresi e di tutte le altre minoranze nazionali. È significativo che le élite di Bruxelles, trascinando il regime di Kiev nella UE, tacciano sulla palese discriminazione dei “popoli non autoctoni” (così Kiev definisce con disprezzo i russi che vivono da secoli in Ucraina) e allo stesso tempo esaltino la giunta di Zelensky come difensore dei “valori europei”. È un’ulteriore conferma del fatto che il nazismo sta rialzando la testa in Europa. C’è su cosa riflettere, soprattutto alla luce del fatto che all’ONU, Germania e Italia, insieme al Giappone, hanno recentemente iniziato a votare contro la risoluzione annuale dell’Assemblea Generale sull’inammissibilità della glorificazione del nazismo. Gli occidentali non nascondono che di fatto stanno conducendo per procura, tramite gli ucraini, una guerra contro la Russia, guerra che non finirà nemmeno “dopo l’attuale crisi”. Ne hanno parlato più volte il segretario generale della NATO Mark Rutte, il primo ministro britannico Keir Starmer, i burocrati di Bruxelles Ursula von der Leyen e Kaya Callas, l’inviato speciale del presidente degli Stati Uniti per l’Ucraina Keith Kellogg. È evidente che la determinazione della Russia a garantire la propria sicurezza di fronte alle minacce create dall’Occidente con l’aiuto del regime da esso controllato, è legittima e giustificata.
Anche gli Stati Uniti inviano armi all’Ucraina e recentemente hanno persino discusso della possibilità di fornire a Kiev missili da crociera “Tomahawk”. Perché la vostra posizione e la vostra valutazione della politica degli Stati Uniti e dell’Europa sono diverse?
La maggior parte delle capitali europee costituisce attualmente il nucleo della cosiddetta “Coalizione dei volenterosi” che desidera solo una cosa: che le ostilità in Ucraina durino il più a lungo possibile, “fino all’ultimo ucraino”. A quanto pare, non hanno altro modo per distogliere l’attenzione del loro elettorato dai problemi socioeconomici interni che si sono drasticamente aggravati. Con i soldi dei contribuenti europei finanziano il regime terroristico di Kiev, fornendo armi con cui vengono uccisi sistematicamente civili delle regioni russe e ucraini che vogliono fuggire dalla guerra e dai carnefici nazisti. Sabotano qualsiasi tentativo di pacificazione e rifiutano i contatti diretti con Mosca. Introducono sempre nuove “sanzioni” che, come un boomerang, colpiscono ancora più duramente le loro economie. Preparano apertamente una nuova grande guerra europea contro la Russia. Inducono Washington a non accettare una soluzione diplomatica onesta e giusta. Il loro obiettivo principale è quello di minare la posizione dell’attuale amministrazione del Presidente degli Stati Uniti, che inizialmente era favorevole al dialogo, comprendeva la posizione della parte russa e mostrava la volontà di cercare una soluzione pacifica e duratura. Donald Trump ha più volte riconosciuto pubblicamente che una delle cause delle iniziative della Russia è stata l’espansione della NATO, l’avvicinamento delle infrastrutture dell’alleanza ai confini del nostro Paese, vale a dire esattamente ciò da cui il Presidente Putin e la Russia hanno messo in guardia negli ultimi vent’anni. Confidiamo che a Washington prevalgano il buon senso e l’adesione a questa posizione di principio e che si astengano da atti che potrebbero portare il conflitto a un nuovo livello di escalation. Detto ciò, le nostre forze armate non fanno distinzioni sulla provenienza delle armi fornite alle forze armate ucraine, che siano europee o statunitensi. Qualsiasi obiettivo militare viene immediatamente distrutto.
Lei è stato colui che ha premuto il “pulsante di reset” con Hillary Clinton, anche se poi le cose sono andate diversamente. È possibile un riavvio delle relazioni con l’Europa? Potrebbe la sicurezza comune costituire un terreno fertile per migliorare le relazioni attuali?
La conflittualità a cui ha portato la politica sconsiderata e senza prospettive delle élite europee non è stata una scelta della Russia. L’attuale situazione non risponde agli interessi dei nostri popoli. Sarebbe auspicabile che i governi europei, la maggior parte dei quali attua una politica ferocemente antirussa, prendessero coscienza della pericolosità di questa rotta distruttiva. L’Europa ha già combattuto sotto le bandiere di Napoleone e, nel secolo scorso, sotto gli stendardi e i vessilli nazisti di Hitler. Alcuni leader europei sembrano avere la memoria corta. Quando questo furore russofobo – non si può chiamarlo altrimenti– sarà passato, saremo aperti ai contatti, ad ascoltare come i nostri ex partner intendano comportarsi nei nostri confronti in futuro. Solo allora decideremo se ci saranno ancora prospettive per una collaborazione onesta. Il sistema di sicurezza euro-atlantico esistente fino al 2022 è stato completamente screditato e smantellato dagli sforzi degli stessi occidentali. A questo proposito, il presidente Vladimir Putin ha avanzato l’iniziativa di creare una nuova architettura di sicurezza equa e indivisibile in Eurasia. Essa è aperta a tutti gli Stati del continente, compresa la sua parte europea, ma occorrerà comportarsi in modo rispettoso, senza arroganza neocoloniale, sulla base dei principi di uguaglianza, considerazione reciproca ed equilibrio degli interessi.
Il conflitto armato in Ucraina e il conseguente isolamento internazionale della Russia vi hanno probabilmente impedito di agire in modo più efficace in altre aree di crisi, come ad esempio in Medio Oriente?
Se l’Occidente storico ha deciso di isolarsi da qualcuno, allora si tratta di autoisolamento. E anche in questo caso le fila non sono così compatte: quest’anno Vladimir Putin ha incontrato i leader di Stati Uniti, Ungheria, Slovacchia e Serbia. È anche chiaro che il mondo moderno non si riduce alla minoranza occidentale. Quei tempi sono finiti con l’avvento della multipolarità. Le nostre relazioni con i paesi del Sud e dell’Est del mondo, che rappresentano oltre l’85% della popolazione mondiale, continuano ad ampliarsi. A settembre si è svolta la visita di Stato del Presidente russo in Cina, solo negli ultimi mesi Vladimir Putin ha partecipato ai vertici di SCO, BRICS, CSI, Russia-Asia centrale, nostre delegazioni governative ad alto livello hanno partecipato ai vertici di APEC, ASEAN e ora si stanno preparando per il vertice del G20. Si tengono regolarmente vertici e incontri ministeriali Russia-Africa, Russia-Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo Persico. I paesi della maggioranza mondiale si fanno guidare dai propri interessi nazionali fondamentali e non dalle indicazioni delle ex metropoli coloniali. I nostri amici arabi apprezzano il contributo costruttivo della Russia agli sforzi volti a risolvere i conflitti regionali in Medio Oriente. Le attuali discussioni sulla questione palestinese alle Nazioni Unite confermano la necessità di coinvolgere tutti gli autorevoli attori esterni, altrimenti non si otterrà nulla di duraturo, ma solo cerimonie di facciata. Su molte altre questioni internazionali, le nostre posizioni coincidono o sono molto vicine a quelle dei nostri amici mediorientali, il che favorisce la cooperazione nell’ambito dell’ONU e in altre piattaforme multilaterali.
Non ritiene che nel nuovo ordine mondiale multipolare che Lei promuove e sostiene, la dipendenza economica e militare della Russia dalla Cina sia cresciuta, creando così uno squilibrio nella vostra storica alleanza con Pechino?
Non stiamo “promuovendo” un ordine mondiale multipolare, esso si sta oggettivamente formando, non attraverso la conquista, la schiavitù, l’oppressione e lo sfruttamento, come facevano i colonizzatori costruendo il loro “ordine” (e in seguito il capitalismo), ma attraverso la cooperazione, la considerazione degli interessi reciproci, la distribuzione razionale del lavoro basata sulla combinazione dei vantaggi competitivi comparativi dei paesi partecipanti e delle strutture di integrazione. Per quanto riguarda le relazioni tra Russia e Cina, non si tratta di un’alleanza nel senso tradizionale del termine, ma di una forma di interazione più efficace e avanzata. La nostra cooperazione non ha carattere di blocco e non è diretta contro paesi terzi. Le categorie di “leader” e “subordinato”, tipiche delle alleanze formatesi durante la guerra fredda, qui non sono applicabili. Pertanto, parlare di un qualsiasi “disequilibrio” è inappropriato. I rapporti paritari e autosufficienti tra Mosca e Pechino si basano sulla fiducia e sul sostegno reciproci, nonché su secolari tradizioni di buon vicinato. Siamo fermamente impegnati a rispettare il principio di non ingerenza negli affari interni. La cooperazione commerciale, tecnologica e in materia di investimenti tra Russia e Cina porta benefici pratici concreti a entrambi i Paesi, contribuisce alla crescita stabile e sostenibile delle nostre economie e al miglioramento del benessere dei cittadini. La stretta collaborazione tra le forze armate garantisce un’importante complementarità, aiuta i nostri paesi a difendere i propri interessi nazionali nel campo della sicurezza globale e della stabilità strategica e a contrastare efficacemente le sfide e le minacce nuove e tradizionali.
L’Italia è un Paese “ostile”. Lei stesso lo ha ripetuto più volte, nel novembre 2024, e lo ha persino sottolineato in modo particolare. Tuttavia, negli ultimi mesi, anche sulla questione ucraina, il nostro governo ha dimostrato solidarietà all’amministrazione statunitense, che Vladimir Putin ha definito non un alleato, ma senza dubbio un “partner”. E il recente cambio dell’ambasciatore italiano a Mosca fa supporre che a Roma si desideri un certo avvicinamento. A che punto sono le nostre relazioni bilaterali?
Per la Russia non esistono paesi e popoli ostili, esistono Paesi con governi ostili. In presenza di un tale governo a Roma, le relazioni russo-italiane stanno attraversando la crisi più grave della loro storia postbellica. Ciò non è avvenuto per nostra iniziativa. Ci ha sorpreso la facilità con cui l’Italia, a discapito dei propri interessi nazionali, si è schierata con coloro che hanno scommesso sulla “sconfitta strategica” della Russia. Finora non vediamo alcun cambiamento significativo in questo atteggiamento aggressivo. Roma continua a fornire assistenza a tutto campo ai neonazisti di Kiev. Colpisce anche la volontà di interrompere i legami culturali e i contatti tra le società civili. Le autorità italiane cancellano le esibizioni di eminenti direttori d’orchestra e cantanti lirici russi e da diversi anni non autorizzano lo svolgimento del “Dialogo di Verona”, nato proprio in Italia, dedicato alle questioni della cooperazione eurasiatica. Non sembra affatto un atteggiamento tipico degli italiani, che sono solitamente aperti all’arte e al dialogo tra le persone. Allo stesso tempo, molti dei vostri cittadini cercano di capire le ragioni della tragedia ucraina. Ad esempio, nel libro Il conflitto ucraino visto da un giornalista italiano, del noto pubblicista italiano Eliseo Bertolasi, sono raccolte prove documentarie delle violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità di Kiev. Vi consiglierei di leggere questa pubblicazione. Oggi in Europa non è facile trovare la verità sull’Ucraina. Una cooperazione paritaria e reciprocamente vantaggiosa tra Russia e Italia è nell’interesse dei nostri popoli. Se a Roma saranno disposti a muoversi verso il ripristino del dialogo sulla base del rispetto reciproco e della considerazione degli interessi di entrambe le parti, ce lo facciano sapere, siamo sempre pronti ad ascoltare, ivi compreso il vostro ambasciatore.
Le bugie dell’industria alimentare sull’agricoltura biologica
L’affermazione estremamente diffusa, «L’agricoltura biologica non sfamerà il mondo», rappresenta in realtà un’affermazione priva di fondamento e dati scientifici. Viene diffusa per lo più da produttori, distributori e commercianti aderenti alla Grande Distribuzione Organizzata e al modello di agricoltura e allevamento intensivo industriale. Vi sono tante evidenze che dimostrano esattamente il contrario, ovvero che un’agricoltura rispettosa dell’ambiente, di piccola scala, sia più produttiva e sostenibile di una massiva di larga scala. Questo modello agricolo produce di più, in quanto praticabile anche in piccole realtà territoriali grazie alla rotazione delle coltivazioni e a un intelligente utilizzo dei terreni, e inoltre prevede pratiche che rispettano la stagionalità e la località del cibo che viene prodotto. Un recente studio pubblicato su Nature Sustainability ha analizzato tutta la più recente bibliografia di settore, concludendo che l’agricoltura di piccola scala garantisce più alte produzioni e una maggiore capacità di conservazione della biodiversità.
I progetti agricoli sostenibili
Un esempio di tutto questo sono i progetti agricoli sostenibili nati attorno a Slow Food, l’associazione per la tutela del cibo sano fondata in Piemonte nel 1986 e poi diventata un movimento internazionale. I progetti agricoli avviati da questa associazione si chiamano Presidi Slow Food e sono finalizzati alla tutela e salvaguardia di tutti quei prodotti del settore agroalimentare che rappresentano l’eccellenza della tradizione e della genuinità di un territorio, in Italia e nel mondo. In Italia, questi presidi sono a oggi circa 400, oltre 600 nel mondo. Tra queste vi è, per esempio, La Granda, associazione di allevatori nata a Cuneo nel 1996 con l’intento di allevare bovini in maniera diversa da quella industriale e intensiva. L’ispiratore e fondatore di questa associazione fu Sergio Capaldo, medico veterinario, che aveva osservato come gli allevatori dovessero sottostare a troppi compromessi dettati dal sistema. Gli allevatori di La Granda mettono in atto una forma di allevamento sostenibile: il numero di capi è proporzionato ai terreni dell’azienda, l’allevatore produce da sé il foraggio e gli alimenti necessari, i terreni sono fertilizzati con lo stesso letame dei suoi animali, che è sano perché non contiene medicinali e altre sostanze chimiche. Si tratta insomma di quella forma di allevamento naturale praticato per secoli, prima dell’arrivo dell’allevamento intensivo. In questo modello il letame è fondamentale perché la qualità di tutto quello che si coltiva nel terreno è data dalla fertilizzazione con letame di qualità. Una sana alimentazione degli animali e un modo non stressante di vivere come quello messo in atto dagli allevatori di La Granda, porta a non avere necessità di trattamenti farmacologici. Al contrario, negli allevamenti intensivi la patologia si sviluppa a causa di spazi chiusi e sovraffollamento, ma un ruolo importante nella diffusione delle malattie lo riveste anche il trasporto su camion, il quale copre tragitti molto lunghi (basti pensare, per esempio, alla dicitura «nato in Francia, allevato in Italia»). Tutto questo rende necessari i trattamenti farmacologici con antibiotici, cortisone e farmaci antinfiammatori. Tipico il caso della mastite nelle bovine da latte, riscontrato di recente (nel 2020) anche nel latte commerciale italiano grazie ad analisi chimiche di laboratorio.

Per chi sceglie di fare agricoltura in modo diverso, sostenibile, conta molto sia come si produce sia cosa si produce. Vediamo il caso delle mele antiche e biologiche coltivate dalla Cooperativa agricola Il Frutto Permesso, sempre in Piemonte, che opera col metodo biologico in maniera credibile e sostenibile dal 1987. Le mele antiche sono quelle varietà di mele che esistevano già al tempo dei romani, dei greci e dei celti e che dopo più di duemila anni sono arrivate fino a noi. La ricerca scientifica ci dice che questi frutti contengono il più alto quantitativo di vitamine, minerali, polifenoli e sostanze antiossidanti, decisamente superiore rispetto alle mele moderne selezionate e ibridate con l’ingegneria agricola, vendute nei supermercati. Inoltre, le mele antiche sono straordinariamente resistenti alle malattie. Solamente in Piemonte ci sono circa 400 varietà diverse di mele antiche, mentre in altre regioni italiane ce ne sono altre – si pensi alla mela annurca campana o alla mela rossa di Corone in Friuli, tra le tante. Produrre una varietà di mela antica non è un vezzo o una nostalgia, ma significa poter contare su una varietà più resistente alle malattie che si sviluppano in quel dato territorio, evitare di usare pesticidi e insetticidi chimici e, in generale, fare un’agricoltura più pulita. Molti documenti e ricerche dimostrano inoltre che frutti e ortaggi da agricoltura BIO sono più ricchi di nutrienti: una ricerca durata 10 anni dell’Università della California ha mostrato che, in media, i pomodori BIO hanno il 79% in più di quercetina e il 97% in più di camferolo, due sostanze antiossidanti del frutto. Anche uno studio italiano condotto da INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per l’Alimentazione e l’Agricoltura) conferma che pesche e pere BIO sono superiori a quelle prodotte con agricoltura chimica per sostanze nutritive, vitamine, antiossidanti.
Solo l’agricoltura chimica è progresso?
Un falso mito riguardante il metodo biologico, fatta circolare dall’industria della chimica e degli agrofarmaci, è quello di far credere che il BIO rappresenti una sorta di regressione della tecnica, quando in realtà il regime di coltivazione biologica è la più avanzata forma di agricoltura esistente (insieme a quello biodinamico), perché ri-mette a disposizione tutta una serie di saperi e competenze, in primis proprio a chi opera come azienda biologica. Si impara nuovamente a coltivare la terra sfruttando tutte le risorse che essa possiede e tutte le conoscenze agrarie del passato che erano state accantonate e tacciate di inaccuratezza dall’avvento dell’agricoltura industriale, ma in realtà validissime ancora oggi, oltre che utili nel procedere verso la vera transizione ecologica, di cui abbiamo effettivamente bisogno.

produzione alimentare
La consapevolezza sulle potenzialità del metodo biologico ha spinto in Italia molte aziende a passare dal metodo convenzionale a quello BIO. Nel Sud Italia, per esempio, è successo con molti produttori di agrumi, olio e vino. E i costi del produrre in regime biologico? Molte aziende biologiche sono riuscite ad abbattere i costi di produzione e ora spendono un terzo rispetto al regime di agricoltura convenzionale. Le spese per la concimazione, per esempio, si riducono drasticamente, dal momento che i terreni non ne hanno bisogno e, anche quando la si fa, si utilizza il letame delle aziende agricole limitrofe, che ha un costo inferiore ai fertilizzanti chimici (anche perché servono molti meno fitofarmaci). Sono diversi gli esperti in agronomia, biodiversità e coltivazioni biologiche a sostenere proprio questo paradigma: tra i più noti in Italia vi è Francesco Santopolo, agronomo calabrese, che ha maturato una consapevolezza sul biologico proprio a partire da un’analisi tecnica e dai numeri che l’agricoltura convenzionale mostra nitidamente. Iniziò negli anni Ottanta del secolo scorso a capire che la difesa delle coltivazioni col metodo convenzionale, cioè con i pesticidi, non produceva gli effetti sperati, così ha cominciato a interessarsi allo studio degli insetti utili in agricoltura. «A un certo punto – racconta il professore – mi accorsi che gli insetti non morivano più e i funghi diventavano resistenti. La gente non vuole rendersi conto che tra il 1942 e il 2000 i danni da insetti sono aumentati del 6,2% pur in presenza di un aumento esponenziale di molecole chimiche. Erano 6, ora sono 380». La differenza di resa per ettaro tra produzioni biologiche e convenzionali va invece valutata settore per settore e alimento per alimento. Tuttavia, la produzione di minore quantità di cibo non dovrebbe rappresentare un problema nei Paesi occidentali, dove lo spreco alimentare ha raggiunto livelli impressionanti – viene gettato in discarica un terzo di tutto quello prodotto. Gran parte di quello che viene consumato, inoltre, è cibo industriale di pessima qualità che non solo non giova alla nostra salute ma contribuisce ai costi ambientali e alla riduzione della biodiversità.
Secondo gli ultimi rapporti della FAO, in Europa e Stati Uniti d’America ogni anno si buttano via tra i 95 e i 115 kg di cibo buono per persona, tra il cibo che viene scartato e perso durante le fasi di produzione dalla Grande Distribuzione Organizzata, e quello sprecato e buttato nella pattumiera di casa dal consumatore finale. Nei Paesi dell’Africa sub-sahariana invece, nel Sud-Est asiatico e nell’Asia del Sud, lo spreco è di soli 6-11 kg per persona all’anno. La sproporzione è notevole e ricorda come i Paesi ricchi del pianeta producano tanto cibo da poter idealmente sfamare tutti gli abitanti del mondo, ma finiscono in realtà per buttarlo.
Sostenibilità ambientale

Analizzando poi il discorso della sostenibilità ambientale in relazione ai metodi biologico e convenzionale, vanno sottolineati alcuni aspetti che sono di importanza cruciale ma che vengono volutamente omessi o minimizzati dai sostenitori dell’agricoltura industriale convenzionale. Si tratta delle quantità di CO2 (anidride carbonica) che vengono emesse in atmosfera dall’agricoltura convenzionale, rispetto a quella BIO. Esiste infatti un rapporto di causa-effetto tra la perdita di sostanza organica nei terreni, dovuta ai continui cicli di aratura e concimazione chimica, e la produzione e liberazione nell’aria di anidride carbonica. Ripercorriamo per un momento il procedimento: l’erba e le foglie delle coltivazioni metabolizzano tramite fotosintesi l’anidride carbonica, liberano l’ossigeno nell’aria, trattengono il carbonio che si fissa nel terreno e si combina con le sostanze organiche. I continui cicli di aratura e di concimazione chimica distruggono le sostanze organiche, il carbonio viene liberato nell’aria e, combinandosi con l’ossigeno, diventa anidride carbonica. In sostanza, ogni volta che viene arato un campo che è stato iper concimato, questo contribuisce all’emissione di gas serra e al riscaldamento globale tanto quanto una colonna di camion in autostrada.
Al contrario, la concimazione naturale limita fortemente la liberazione di carbonio nell’aria e la formazione di CO2 e gas serra. Non a caso, gli esperti definiscono quella biologica come agricoltura rigenerativa e conservativa, e lo stesso vale per l’allevamento.
Un’agricoltura migliore, rispettosa dell’ambiente, della sopravvivenza del nostro pianeta e dei cibi che produce non solo è possibile, ma si sta già realizzando, grazie a migliaia di agricoltori. Tuttavia, un vero cambiamento non sarà possibile senza un riorientamento delle nostre scelte di consumatori e fruitori. Dobbiamo imparare a fare delle scelte responsabili in merito a ciò che mettiamo sulle nostre tavole, che mangiamo al bar, al ristorante o nella mensa aziendale. Mai come oggi suona vera e profonda l’affermazione dello scrittore contadino americano Wendel Berry: «mangiare è un atto agricolo ed ecologico».
Repubblica Democratica del Congo: crolla ponte in miniera, 32 morti
Almeno 32 persone hanno perso la vita ieri nel sud-est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) dopo che un ponte su cui si trovavano è crollato all’interno della miniera di cobalto di Kalando, nella provincia di Lualaba, travolgendo i lavoratori. Le autorità locali hanno spiegato che nonostante il sito fosse vietato per le forti piogge e il rischio frane, i minatori irregolari si erano introdotti nell’area. Le ricerche continuano: il bilancio potrebbe aumentare.
Libano: Israele spara contro le forze ONU e dà la colpa al maltempo
Nel sud del Libano, ieri un carro armato Merkava ha aperto il fuoco contro una postazione della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL), distruggendo le telecamere di sorveglianza e danneggiando la torre di osservazione, mentre i caschi blu si riparavano a pochi metri dai colpi. L’episodio, denunciato dalla missione ONU, è stato immediatamente attribuito dalle forze israeliane alle «cattive condizioni metereologiche», indicate come causa di un errore di identificazione. La giustificazione non ha però convinto i peacekeeper, che parlano di una direzione di tiro inequivocabile e di un atto che mette nuovamente a rischio la loro sicurezza in un’area già segnata da mesi di escalation e di violazioni.
Secondo la versione fornita da UNIFIL in una nota, i colpi sarebbero stati esplosi da una posizione israeliana rivolta direttamente verso un osservatorio dell’ONU nel settore meridionale spagnolo vicino a Khiuam. I proiettili di mitragliatrice pesante hanno impattato a cinque metri dalla postazione, costringendo il personale a ripararsi. Le forze ONU hanno chiesto alle IDF di cessare il fuoco e sono riuscite a ritirarsi in sicurezza dopo circa mezz’ora, quando il carro armato si è allontanato. Non ci sono stati feriti, ma il gesto rappresenta una grave violazione delle regole d’ingaggio e della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, cardine del fragile equilibrio che regola la linea di demarcazione. Le forze israeliane hanno confermato la presenza del carro armato e l’apertura del fuoco, sostenendo che le condizioni di visibilità fossero compromesse dal maltempo. L’unità avrebbe scambiato la torretta ONU per un avamposto sospetto, reagendo in maniera “difensiva”, dopo aver avvistato due persone “sospette” nella zona di Hammis. UNIFIL ha contestato questa versione, sottolineando come la postazione fosse chiaramente contrassegnata e visibile anche in condizioni climatiche avverse. La missione ha, quindi, chiesto un’indagine approfondita, ribadendo la necessità che Israele rispetti le proprie responsabilità sulla sicurezza dei peacekeeper.
Il nuovo incidente ha suscitato immediata preoccupazione a livello internazionale, alimentando il timore che la situazione lungo il confine possa degenerare ulteriormente. Da settimane, la regione è teatro di scambi di artiglieria, bombardamenti mirati e operazioni di sorveglianza sempre più aggressive. A ciò si aggiunge la difficoltà operativa di UNIFIL, chiamata a vigilare su un cessate il fuoco che appare ormai solo formale. Solo pochi giorni fa, Beirut aveva denunciato pubblicamente che le violazioni israeliane mettono a rischio la stabilità nel sud del Paese. Il rappresentante permanente libanese all’ONU, Ahmad Arafa, ha ribadito che tali azioni minano la sovranità e l’integrità territoriale del Libano e compromettono il lavoro delle autorità nazionali che tentano di estendere il controllo statale e ridurre l’influenza delle milizie. Il rapporto dell’esercito libanese, presentato al governo, denuncia oltre 7.000 violazioni dello spazio aereo dal cessate il fuoco dell’anno precedente e definisce tali attacchi «una manifesta violazione del diritto internazionale».
Dal riaprirsi della crisi regionale nell’autunno del 2023, UNIFIL ha denunciato più volte episodi simili. Nel corso del 2024, si sono registrati diversi casi di fuoco diretto contro pattuglie e basi ONU, inclusi ferimenti causati da colpi sparati da carri armati israeliani nei pressi di Naqoura. Nel 2025, la situazione è ulteriormente precipitata: droni israeliani hanno sganciato munizioni vicino ai caschi blu, mentre artiglieria e mezzi corazzati hanno più volte colpito aree dove operavano gli osservatori internazionali. In tutti i casi, Israele ha parlato di errori di valutazione o condizioni ambientali sfavorevoli, giustificazioni giudicate insufficienti e poco credibili dalla missione ONU. Le statistiche accumulate negli ultimi due anni suggeriscono un incremento costante delle violazioni e un progressivo restringimento dello spazio operativo di UNIFIL. Il 14 novembre, la missione ha reso noto di aver condotto un’indagine geospaziale che ha individuato un muro in cemento eretto dalle IDF nell’area di Yaroun. L’inchiesta ha confermato che la struttura oltrepassa la Linea Blu, sottraendo oltre 4.000 metri quadrati di territorio al Libano. Nonostante le richieste dell’ONU, Israele avrebbe continuato a costruire muri anche a novembre, con nuove sezioni che sconfinano in territorio libanese. Il nuovo episodio di ieri si inserisce in una serie di attacchi e violazioni che, sommati alla pressione militare lungo il confine, rischiano di compromettere definitivamente il ruolo della forza ONU in uno dei fronti più instabili del Medio Oriente.
Cile: ballottaggio tra la comunista Jara e l’ultraconservatore Kast
Nel primo turno delle elezioni presidenziali in Cile la candidata di sinistra Jeannette Jara ha ottenuto circa il 26-27% dei voti, seguita dall’ultranazionalista di destra José Antonio Kast con circa il 24%. Nessuno dei due ha superato la soglia del 50% necessaria per la vittoria al primo turno, perciò si andrà al ballottaggio il 14 dicembre. La destra, pur arrivata seconda, gode del vantaggio dell’aggregazione dei voti degli altri candidati conservatori e appare favorita alla vigilia della sfida decisiva.
Atene, firmato accordo energetico Grecia-Ucraina
Grecia e Ucraina hanno firmato una dichiarazione di intenti tra DEPA Emporia e Naftogaz per fornire gas naturale liquefatto statunitense a Kiev tramite infrastrutture greche. Il GNL sarà rigassificato a Revithoussa e trasportato lungo il Corridoio verticale tra dicembre 2025 e marzo 2026, garantendo energia all’Ucraina nel prossimo inverno. Il gas attraverserà Bulgaria, Romania e Moldova fino a raggiungere Kiev. Secondo Atene, l’accordo rafforza la sicurezza energetica regionale ed europea. L’intesa si inserisce nel tour europeo di Zelensky, che dopo Atene vedrà Macron e poi si recherà a Madrid.
Libia, almeno 4 migranti morti dopo ribaltamento barche
Al largo della costa libica, vicino alla città di Al Khums, almeno quattro cittadini bengalesi sono morti dopo il naufragio di due imbarcazioni cariche di migranti e richiedenti asilo. Lo ha riferito la Mezzaluna rossa libica, precisando che l’incidente è avvenuto la sera del 13 novembre. La prima barca trasportava 26 persone dal Bangladesh, quattro delle quali hanno perso la vita; la seconda imbarcava 69 migranti, tra cui due egiziani e numerosi sudanesi. Alle operazioni di soccorso hanno partecipato la Guardia costiera libica e l’Agenzia per la sicurezza del porto di Al Khums. I corpi sono stati affidati alle autorità locali.
Teva: la multinazionale del farmaco complice dell’occupazione israeliana
Teva, multinazionale israeliana e una delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, con un fatturato di oltre 16 miliardi di dollari, vuol essere riconosciuta come un’azienda etica e corretta – o almeno così afferma il suo codice etico. Tuttavia, l’azienda è complice dell’occupazione israeliana in Palestina, in quanto gode dei vantaggi del mercato vincolato legato alle politiche oppressive e discriminatorie nei Territori Palestinesi Occupati (che lascia campo libero alle imprese israeliane e soffoca quelle palestinesi, controllando importazioni ed esportazioni), e del genocidio a Gaza, avendo sostenuto psicologicamente e materialmente l’esercito israeliano per diversi anni con l’iniziativa Adopt a Batallion. Nel 2017, Teva è stata tra le 150 imprese che hanno ricevuto una lettera di avvertimento dall’ONU per aver operato all’interno delle colonie illegali in Cisgiordania ed era prevista la sua inclusione nel database delle aziende che fanno affari nei territori occupati. Tuttavia, l’azienda non compare tra le 112 (delle 188 analizzate) incluse nella blacklist pubblicata nel 2020 dalla Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite; la sua inclusione andrà verificata nel prossimo aggiornamento. Dopo il 7 ottobre 2023, Teva ha istituito Mental Caregivers, un programma per rafforzare la resilienza mentale delle vittime israeliane, e un fondo in collaborazione con la Israeli Trauma Coalition. L’azienda stessa dichiara di aver donato all’esercito e alle famiglie israeliane farmaci essenziali, cibo e tonnellate di attrezzature. Teva afferma di impegnarsi per «la creazione di un’economia sempre più inclusiva, sostenibile e responsabile», ma appoggia un Paese che annette la Cisgiordania e devasta Gaza, incluso il suo sistema sanitario.
Per questi motivi, BDS Italia e Sanitari per Gaza hanno lanciato la campagna Teva? No grazie!: ulteriori informazioni al riguardo sono disponibili sul sito di BDS.
Il lato sanitario del genocidio

Nicoletta Dentico, giornalista ed esperta di diritto alla salute, già direttrice di Medici Senza Frontiere (MSF), scrive su Il manifesto del 30 luglio 2025: «Secondo l’UNICEF a Gaza è stato distrutto l’84% delle strutture sanitarie e il 75% di quelle idriche. (…) Il rapporto di Physicians for Human Rights introduce il concetto di iatrocidio (dal greco iatros, persona che guarisce, e cidio, uccisione) per descrivere la distruzione di infrastrutture sanitarie e lo smantellamento dei sistemi di conoscenza medica collettiva. (…) La distruzione materiale degli edifici di cura – gli ospedali, i centri per il trauma, i locali per la maternità, le ambulanze e le cliniche mobili – è la forma più spettacolare. (…) Anche quando gli edifici restano in piedi, il sabotaggio delle altre infrastrutture – i sistemi fognari, elettrici, di gestione delle acque – li rendono letali. Un ospedale senza elettricità è una trappola. Una clinica senza acqua è un sito infettivo. Una sala operatoria senza anestesia una camera di tortura. Poi ci sono gli episodi di criminalizzazione, le sparizioni forzate e le uccisioni del personale sanitario. Il blocco o sabotaggio dei medicinali. La definitiva distruzione degli ecosistemi di ricerca medica e sanitaria (università, laboratori, ecc.) incluse le pratiche locali di cura». Ospedali e personale sanitario sono obiettivi deliberatamente scelti dall’esercito israeliano, in aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra (Articoli 18, 19, 20 e 21) e di ogni norma del diritto internazionale.
Una strategia abituale è quella del “doppio colpo”: si bombarda, si aspetta l’arrivo dei soccorsi e si attacca di nuovo. Tutti i 36 ospedali della Striscia di Gaza sono stati bombardati. A partire dal 7 ottobre 2023, oltre 1600 operatori sanitari sono stati uccisi e oltre 400 risultano illegalmente detenuti, senza accuse e senza processo; 70 sono stati torturati a morte. Il giornalista Farid Adly, nella newsletter Anbamed del 3 agosto 2025, scrive: «Il numero dei pazienti supera enormemente le capacità degli ospedali: del 240% a Shifà, del 210% a Rantissi, del 180% a Nasser e del 300% a AlAhli. Per sopperire alla mancanza di letti, i sanitari stendono i malati per terra, su coperte, nei corridoi e sui marciapiedi attorno alle strutture». Mancano medicine, materiali e attrezzature. «Non sono più ospedali, ma cimiteri», ha detto il direttore del Nasser. Il 10 luglio scorso, mentre i carri armati ne distruggevano i muri di cinta, il personale ha lanciato questo appello: «Lavoriamo in ospedale con i carri armati a pochi metri di distanza, e siamo più vicini alla morte che alla vita. I soldati non hanno pietà per bambini, anziani, medici o infermieri. Restiamo qui perché siamo esseri umani (…) Non dimenticateci e non riduceteci a numeri». E non succede solo a Gaza. A Jenin, Tulkarem, Hebron e altre città in Cisgiordania e nel Sud del Libano gli ospedali sono stati ripetutamente attaccati o bombardati, i soccorsi impediti, i rifornimenti bloccati, gli operatori sanitari uccisi o arrestati illegalmente.
Cosa possiamo fare?

La campagna Teva? No grazie! invita a compiere azioni di boicottaggio etico: i pazienti possono scegliere di non acquistare farmaci Teva e delle sue consociate (Dorom, Rathiopharm, Cephalon), consegnare lettere sulle ragioni del boicottaggio al proprio medico e farmacista e scrivere a Teva Italia per comunicare l’adesione al boicottaggio.
I medici possono scegliere di non prescrivere farmaci prodotti da Teva (per ogni specialità esistono equivalenti) e i farmacisti possono scegliere di non venderli. Paolo Usai, farmacista di Bari Sardo, racconta la scelta di boicottare le aziende che supportano l’economia israeliana: «Se io voglio mantenere una certa etica e guardarmi allo specchio senza vergogna, oggi boicottare a livello economico e finanziario diventa un dovere: per molto tempo ho provato vergogna nel non riuscire totalmente a boicottare prodotti di aziende che supportano l’apartheid israeliana, come invece riuscivo a fare nella vita privata. Era ora di dire basta. La scelta di boicottare nasce da questo: una collettiva presa di posizione etica» (Lisa Ferreli, La farmacia che a Bari Sardo sceglie di boicottare il genocidio e stare con la Palestina, www.italiachecambia.org, 20 luglio 2025).
Infine, le amministrazioni locali possono scegliere di non includere Teva tra i fornitori delle farmacie comunali. Da luglio l’AFS (Azienda Farmacie e Servizi spa), società controllata dal Comune di Sesto Fiorentino, ha smesso di vendere farmaci, parafarmaci, attrezzature mediche e preparati cosmetici prodotti da aziende israeliane o realizzati con capitale israeliano. L’AFS è il primo soggetto istituzionale ad aderire ufficialmente al boicottaggio. Il Comune di Sesto Fiorentino comunica «l’interruzione di ogni forma di relazione istituzionale tra l’amministrazione comunale e i rappresentanti del governo israeliano o enti e istituzioni a esso riconducibili fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale». Nell’agosto scorso, Sanitari per Gaza e BDS hanno lanciato la campagna #Digiunopergaza, che ha raccolto oltre 30.000 adesioni e che invita le aziende sanitarie di valutare con criteri etici la stipula di accordi e partenariati scientifici e commerciali per evitare collaborazioni con enti legati a Stati accusati di genocidio e di adottare regole per gli approvvigionamenti che escludano fornitori riconducibili agli stessi Stati. E a settembre anche il Comune di Jesi ha deciso di aderire alla campagna: le due farmacie municipali non venderanno più prodotti a marchio Teva.
Tutti noi, cittadini, medici, farmacisti e amministratori locali possiamo agire per boicottare TEVA, un’azienda complice dello Stato genocida israeliano: il boicottaggio economico funziona!








