lunedì 24 Novembre 2025
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Suicidio assistito, il governo impugna la legge della Regione Sardegna

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Il governo ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale la legge regionale sul suicidio assistito approvata dalla Sardegna a settembre, sostenendo che la materia sia di competenza nazionale e non regionale. La norma resterà in vigore mentre la Corte valuta il caso. La decisione ha soprattutto un valore politico: i partiti di centro-destra al governo sono contrari alla pratica e contestano le iniziative regionali, nate anche perché il Parlamento non ha ancora approvato una legge nazionale nonostante la sentenza del 2019. Finora solo Sardegna e Toscana hanno varato norme proprie, entrambe impugnate dal governo.

Dal 7 ottobre, almeno 98 palestinesi sono morti nelle carceri israeliane

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Novantotto prigionieri politici palestinesi sono morti negli ultimi due anni: è il dato più alto degli ultimi decenni e segna un punto di svolta nella gestione delle detenzioni israeliane. Novantaquattro decessi sono stati registrati tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025, altri quattro tra ottobre e novembre di quest’anno, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto, dato che non si hanno più informazioni su centinaia di detenuti. È il quadro che emerge dal rapporto di Medici per i diritti umani (PHRI), Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced disappearances, systematic killings and cover-ups. Il dossier documenta l’esistenza di una politica ufficiale che combina sparizioni forzate, violazioni dei diritti umani, condizioni carcerarie abusive e uccisioni.

Le detenzioni massicce hanno trasformato carceri e strutture militari in veri e propri centri di tortura: detenuti privati di contatti con le famiglie, ammanettati per ore a terra, pestaggi, fratture non curate, infezioni lasciate evolvere senza antibiotici, malnutrizione e isolamento prolungato. La maggior parte dei palestinesi provenienti da Gaza morti in detenzione non era considerata combattente neppure dalle autorità israeliane: erano civili. Diverse inchieste hanno già documentato atti di violenza arbitraria. Il rapporto 2024 di Physicians for Human Rights Israel e il reportage del Public Committee Against Torture in Israel segnalato dal New Yorker denunciavano la trasformazione delle carceri israeliane in luoghi di abuso sistematico. Un rapporto  dell’ONG israeliana B’Tselem, basato su 55 testimonianze dirette, ha confermato le violenze: prigionieri senza processo, aggressioni sessuali, torture fisiche e psicologiche.

Ora, PHRI approfondisce questa realtà articolandola in tre fronti. Il primo riguarda le scomparse forzate: molti detenuti non vengono registrati, ma confinati in basi militari segrete, le famiglie restano senza notizie e anche l’accesso del Comitato internazionale della Croce Rossa viene spesso bloccato. I parenti dei detenuti hanno appreso in ritardo la notizia del loro decesso o non l’hanno appresa affatto. Per l’organizzazione, questa pratica rientra pienamente nella definizione internazionale di “scomparsa forzata”, volta a rimuovere le prove dei crimini. Il secondo fronte è quello delle morti in custodia, che coinvolge sia le carceri civili sia le strutture militari: «L’uccisione dei palestinesi in custodia – leggiamo nel dossier – è diventata una pratica normalizzata, derivata direttamente da una politica ufficiale dello Stato». Sulle strutture civili emergono i dati su sovraffollamento, violenze e cure negate; in quelle militari, prevalgono opacità e assenza di controlli esterni, «inclusa l’ampia violenza fisica quotidiana» da parte delle guardie carcerarie. Le autopsie disponibili mostrano una combinazione ricorrente di traumi fisici dovuti «alla violenza fisica inflitta dai soldati israeliani» e alla negligenza medica.

Sde Teiman– la base militare nel deserto del Negev trasformata in campo di prigionia e ribattezzata l’“Abu Ghraib israeliana” dagli attivisti dei diritti umani – emerge come quello con il più alto numero di decessi: 29. La struttura è circondata dal silenzio dell’esercito israeliano, che la gestisce come una zona militare interdetta. Già precedenti inchieste descrivevano Sde Teiman come un luogo dove i detenuti vengono bendati, incatenati e picchiati regolarmente, persino trattenuti in gabbie. Anche dopo che Sde Teiman è entrato nel dibattito pubblico e nei media, gli abusi sono continuati. Di questo luogo si è, infatti, parlato molto nelle ultime settimane per la vicenda dei cinque soldati incriminati per torture e lesioni aggravate, dopo la diffusione di un video – autorizzata dalla procuratrice militare Yifat Tomer Yerushalmi poi arrestata a inizio novembre – trasmesso da Channel 12 nell’agosto 2024 e girato il mese precedente, che documenta abusi sessuali su un detenuto palestinese.

Il terzo fronte analizzato nel rapporto, infine, riguarda la copertura, tra autopsie impedite e indagini interne inconsistenti. PHRI conclude che non si tratta di casi isolati, ma di un apparato sedimentato negli anni e radicalizzato dopo il 7 ottobre, costruito per rendere invisibili i detenuti e inverificabili le responsabilità. Per questo, PHRI chiede un’inchiesta internazionale, il rilascio immediato dei corpi e indagini efficaci per accertare le responsabilità. Il nodo resta politico: finché il sistema carcerario sarà trattato come un’appendice della guerra, ogni vita rinchiusa potrà svanire nel silenzio.

Garante della Privacy, si dimette il segretario generale

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Il segretario generale del Garante della Privacy si è dimesso. Non è ancora noto il motivo per cui il segretario abbia deciso di dimettersi, ma negli ultimi giorni era finito sotto i riflettori a causa di una inchiesta della trasmissione televisiva Report che evidenziava presunti conflitti di interesse del Garante con il governo. Il caso è scoppiato quando il Garante ha multato la Rai perché Report aveva trasmesso una conversazione privata tra l’ex ministro della Cultura Sangiuliano e sua moglie; la trasmissione aveva poi riportato una visita di un componente del collegio direttivo del Garante alla sede di Fratelli d’Italia, accusandolo di essere stato influenzato dal governo nell’emissione della sanzione.

Caporalato nella moda, Tod’s sotto inchiesta: lavoratori a 2,75 euro l’ora

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La procura di Milano ha avviato una indagine per caporalato contro l’azienda italiana di moda Tod’s. A finire sotto la lente degli inquirenti sono lo stesso marchio di lusso e tre dirigenti. La procura li accusa di avere sfruttato la manodopera degli operai che lavorano nella filiera produttiva dell’azienda: i lavoratori verrebbero pagati 2,75 euro l’ora, lavorando a tutte le ore, anche durante i giorni festivi, senza contratto e dormendo in dormitori abusivi; per tale motivo, gli inquirenti chiedono di vietare a Tod’s di pubblicizzare i propri prodotti per sei mesi. Tod’s è solo l’ultimo marchio di lusso a finire sotto il mirino della Procura meneghina. Il pm aveva già chiesto l’amministrazione giudiziaria per Alviero Martini spaArmani OperationsDiorLoro Piana e Valentino per analoghe questioni. Con la nuova richiesta, la procura introduce un salto di livello negli accertamenti, accusando Tod’s direttamente di sfruttamento.

Gli operai coinvolti nel caso di sfruttamento sono 56 persone di nazionalità cinese e lavorano per 6 distinte aziende che forniscono i prodotti a Tod’s, tutte distribuite tra la Lombardia e le Marche. La procura sostiene che nonostante abbia affidato a terzi i lavori di monitoraggio sul rispetto dei diritti dei lavoratori negli stabilimenti, il marchio di lusso sia direttamente colpevole di sfruttamento perché non avrebbe tenuto «minimamente conto» dei risultati delle «ispezioni». Nella documentazione presentata, lunga 144 pagine, la procura sostiene infatti che Tod’s e i tre dirigenti – Simone Bernardini, Mirko Bartoloni e Vittorio Mascioni – avessero «piena consapevolezza» delle condizioni di lavoro di sfruttamento degli operai, parlando di «cecità intenzionale». Secondo l’accusa, è certo che i vertici aziendali fossero a conoscenza delle condizioni di lavoro degli operai in subappalto perché informati con decine di audit. L’udienza sul caso è prevista il prossimo 3 dicembre.

A capo delle indagini c’è il pm Paolo Storari, promotore di quello che ha ormai preso il nome di “metodo Storari”, che consiste nell’indagare non solo le aziende appaltatrici e subappaltatrici, ma anche i committenti. Tod’s si è smarcata dalle accuse affermando di «fare dei valori etici una bandiera», e di stare analizzando «con tranquillità il nuovo materiale». L’azienda parla di un «preoccupante tempismo» con cui Storari avrebbe presentato l’accusa: il riferimento è alla pronuncia della Cassazione sulla richiesta di commissariamento dell’azienda avanzata dallo stesso Storari, rilasciata il 19 novembre. Prima di accusare l’azienda di caporalato, Storari aveva infatti chiesto di mettere Tod’s sotto amministrazione giudiziaria, accusandola di non avere effettuato i dovuti controlli sugli opifici dei propri subappaltatori, e di avere così agevolato lo sfruttamento dei lavoratori. Tale richiesta era stata rigettata due volte non per questioni di merito, ma formali: la scorsa estate, infatti, erano finiti sotto indagine solo gli stabilimenti nelle Marche; i giudici sostenevano dunque che la competenza sul caso fosse della procura di Ancona. Il 19 novembre, la Cassazione ha rigettato nuovamente la richiesta di Storari, ma le motivazioni della sentenza non sono ancora pubbliche.

Nell’ultimo anno e mezzo, Storari ha chiesto l’amministrazione giudiziaria per numerose altre aziende di moda. Le indagini sono state avviate la scorsa estate: in quel periodo era stata svolta una inchiesta anche su Loro Piana, marchio di lusso specializzato in indumenti in cashmere. Anche nel caso di Loro Piana, il pm aveva chiesto il commissariamento ricostruendo un sistema di caporalato e sfruttamento a danno degli operai. Gli altri brand di lusso coinvolti sono Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior e Valentino Bags Lab. Con l’accusa di caporalato, Storari compie un salto di livello nelle indagini che stanno coinvolgendo le aziende di moda italiane: Tod’s, infatti, non è più accusata di non avere effettuato i controlli dovuti, ma di essere a conoscenza delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, e di aver deliberatamente ignorato la situazione; non sarebbe insomma più una questione di colpe, ma di vero e proprio dolo.

Nella regione costiera del Sudafrica ritornano i leopardi dopo quasi 200 anni

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leopardo sudafrica

Nel cuore del West Coast National Park, a circa 90 km a nord della capitale sudafricana, una fototrappola ha registrato un’immagine che non si vedeva da quasi due secoli: un leopardo in libertà. L’avvistamento è avvenuto nella zona costiera compresa tra Città del Capo e il fiume Berg e rappresenta il primo ritorno documentato della specie in quest’area da 170 anni. Un evento raro, non programmato, che racconta molto di come sta cambiando il rapporto tra uomo e ambiente.
Il leopardo africano (Panthera pardus) non è classificato come specie in via di estinzione, ma è considerato “vulnerabile” da...

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Sardegna: transizione verde o colonialismo energetico?

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C’è un’isola del Mediterraneo che sta venendo trasformata in una piattaforma energetica funzionale ai bisogni del continente. Questa terra è la Sardegna, luogo in cui la cosiddetta transizione energetica mostra tutte le sue contraddizioni, tanto da essere motivo di forti contrasti con la popolazione locale che – è il caso di affermarlo subito – sa sulla propria pelle quanto sia necessario abbandonare le fonti di combustibile fossile, ma contesta allo stesso tempo il modo, giudicato coloniale, con cui l’isola sta diventando l’hub italiano delle rinnovabili. Le criticità che riguardano le rinnovabili toccano svariate questioni e ci restituiscono un quadro complesso che coinvolge tanto aspetti tecnici quanto motivi identitari.

Secondo i dati del 2023 di Terna – società responsabile della gestione della rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica – il totale netto di energia elettrica prodotta in Sardegna è stato pari a 11.901,3 GWh (la maggior parte di quest’energia è legata alle fonti fossili) per un fabbisogno regionale di 7636,9 GWh. Il 29% dell’energia prodotta è stato esportato verso la Penisola e, in piccola misura, verso l’estero. Sempre secondo i dati Terna, all’inizio del 2023 in Sardegna erano installati impianti eolici e fotovoltaici per una capacità complessiva lorda pari a 2,24 GW, numero che rischia di crescere a dismisura. In Sardegna, infatti, le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna al 30 settembre 2025 sono 678, pari a 49,15 GW di potenza, suddivisi in 443 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare, 234 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra e in mare e una richiesta di impianti di produzione energetica da fonte idroelettrica. In questo scenario, laddove tutte le istanze diventassero realtà, la produzione sarda di energia rinnovabile supererebbe i 90.000 GWh, cioè undici volte i consumi elettrici annui dell’isola.

Come si gestisce tutta questa energia?

Turbine eoliche vicino a Portoscuso (SU)

Questa overdose di energia porrebbe non pochi problemi poiché non potrebbe essere consumata sull’isola, non potrebbe essere conservata – a oggi gli impianti di conservazione approvati sono pochi e di potenza estremamente ridotta – e non potrebbe essere trasportata verso la Penisola se non in piccola parte, dato che, anche quando entrerà in funzione il terzo cavidotto, la potenza complessiva trasportabile sarà di circa 2000 MW. Tutta quest’energia dovrà però essere pagata dal gestore della rete indipendentemente dal suo utilizzo. Come ha spiegato a L’Indipendente Antonio Muscas, ingegnere meccanico sardo, in presenza di un eccesso di offerta, Terna ha la possibilità di bloccare temporaneamente gli impianti di energia rinnovabile. L’eventuale stop non compromette il guadagno delle società energetiche a cui viene pagata l’energia che avrebbero prodotto se non fosse stato imposto il blocco.

Come abbiamo accennato, parte dell’energia sarda viene esportata tramite dei cavidotti. A oggi sono in funzione il SA.PE.I., un cavo che collega la Sardegna alla Penisola italiana, e il SA.CO.I., il collegamento tra Sardegna, Corsica e Penisola. Accanto a queste infrastrutture, è in costruzione il contestato Tyrrhenian Link, un doppio collegamento sottomarino tra Sicilia, Sardegna e Penisola che richiede un investimento di 3,7 miliardi di euro. La futura stazione di conversione del Tyrrhenian Link sorgerà nel comune di Selargius della città metropolitana di Cagliari: in quest’area, da febbraio 2024, Terna ha espiantato almeno 230 piante di ulivi che, a detta della società, sono stati reimpiantati mantenendone l’orientamento e l’esposizione. Prendendo come possibile lo spostamento di centinaia di ulivi senza provocare alcuna modifica e alcun trauma alle piante, è lecito domandarsi come mai Terna abbia optato per occupare aree di campagna anche attraverso espropri coatti piuttosto di preferire le vicine aree industriali. A sud-ovest di Selargius, si trova il comune di Sarroch, la cui zona industriale è occupata dalla Saras S.p.A., una delle più grandi raffinerie petrolifere d’Europa. Parte delle aree occupate dalla raffineria poteva essere destinata alla stazione di conversione del nuovo cavidotto, ma, come ricorda Muscas, l’esproprio di terre agricole ha un costo molto inferiore rispetto al prelievo di spazi industriali.

È utile qui spendere qualche parola sul gruppo Saras che, attraverso la Sardeolica s.r.l., gestisce l’impianto eolico sito nel comune di Ulassai. La scelta di occuparsi tanto di petrolio quanto di eolico potrebbe essere spiegata dai crediti di carbonio, ossia certificati negoziabili che rappresentano il diritto di emettere una tonnellata di anidride carbonica o la quantità equivalente di un diverso gas serra. Le aziende che non riescono a ridurre o eliminare le proprie emissioni di CO2 possono acquisire questi titoli – cioè i crediti di carbonio – da enti esterni certificati per finanziare, per esempio, progetti di produzione di energia pulita. Del gruppo Saras è anche la raffineria Sarlux che si trova al centro di un’inchiesta sulle emissioni con ipotesi di reato di disastro ambientale. Secondo la Procura di Cagliari le torce della raffineria, che si sarebbero dovute attivare solo in situazioni di emergenza, sarebbero rimaste in funzione quotidianamente dal 2019 al 2024, diffondendo nell’area polveri sottili e benzene oltre i limiti di legge.

Impianti eolici fronte chiesa

A breve distanza dalla Basilica di Saccargia, emblema dell’architettura romanica, si trova il parco eolico Nulvi Ploaghe

Dove debbano sorgere gli impianti di energia rinnovabile è una delle questioni più dibattute. Come ci spiega Lisa Ferreli, caporedattrice di Sardegna Che Cambia, la percezione della popolazione locale è che il territorio sardo venga considerato alla mercé dello Stato e dunque sfruttato per fini turistici, energetici, militari. Adottando quello che viene definito un “punto di vista italiano”, la transizione energetica è un obiettivo da raggiungere anche a costo di industrializzare e antropizzare zone rurali. Ferreli ricorda che in Sardegna sono numerose le aree industriali dismesse dove eventuali impianti non impatterebbero sul paesaggio già deteriorato. Una di queste è la penisola “delta” del poligono permanente di Capo Teulada. Si tratta di un promontorio di circa 2,78 km2 dove, fin dagli anni ’50, gli eserciti della NATO si esercitavano con i loro sistemi di arma e sperimentavano missili di ogni tipo, compromettendo tutte le forme di vita presenti nella zona. È possibile immaginare che l’idea di bonificare e utilizzare la penisola delta al fine di ospitare delle pale eoliche non incontrerebbe la contrarietà dei sardi, ma ciò risulta impossibile poiché le aree e i beni del demanio militare o a qualunque titolo in uso al Ministero della Difesa non sono considerati idonei per gli impianti eolici, così come per quelli fotovoltaici, di piccola, media e grande taglia.

Sorte diversa è invece quella della Basilica di Saccargia (provincia di Sassari). A breve distanza da questo monumento, emblema dell’architettura romanica, si trova il parco eolico Nulvi Ploaghe, il cui ampiamento (27 nuove torri eoliche alte fino a 180 metri con potenza complessiva 121,5 MW) è stato autorizzato. Sebbene il progetto fosse stato bocciato dal Ministero della Cultura per la vicinanza a siti di epoca nuragica e alla Basilica di Saccargia, è stato poi approvato dal Ministero della Transizione Energetica e dal governo Draghi e confermato dal Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso della Regione. Se fino a pochi anni fa il parere del Ministero della Cultura era vincolante, oggi l’ultima parola rispetto alla valutazione d’impatto ambientale spetta al governo, che può scegliere di ignorare i pareri negativi e approvare la costruzione di impianti. È la stessa Ferreli a individuare quest’episodio come un simbolo di una speculazione che ignora le peculiarità dei luoghi.

L’impatto sull’archeologia

La Sardegna è disseminata di testimonianze del patrimonio culturale nuragico e prenuragico. In questo caso nell’immagine possiamo osservare il complesso archeologico nuragico di Su Nuraxi di Barumini. La fortezza risalente all’età del bronzo è patrimonio mondiale dell’UNESCO

Il territorio sardo ha un’altissima percentuale di siti archeologici, tanto che non è esagerato affermare che l’isola è disseminata di testimonianze del patrimonio culturale nuragico e prenuragico. A oggi non esiste un elenco ufficiale dei siti archeologici sardi per diversi motivi: difficoltà di censimento dovuto al loro elevatissimo numero, siti che si trovano in luoghi di difficile accessibilità, scarso interesse da parte dello Stato a finanziare gli scavi archeologici sull’isola (anche per non alimentare il sentimento di nazionalismo sardo che potrebbe essere ravvivato da una maggiore conoscenza della civiltà nuragica che si è sviluppata nel corso dell’Età del bronzo e del ferro, ma che non è possibile inserire nella periodizzazione storica italiana per le sue peculiarità uniche nel suo genere). Il fatto di non avere una lista completa delle aree archeologiche fa sì che eventuali impianti eolici vengano approvati in zone di interesse culturale. Inoltre, sebbene per legge gli impianti eolici debbano distare almeno 3 km dai siti archeologici, l’area di “cuscinetto” non è sempre rispettata. Sara Corona, archeologa e divulgatrice culturale sarda, ci ha spiegato che molti progetti vengono presentati con delle valutazioni di impatto ambientale che non tengono conto del rischio archeologico. Un disinteresse da parte delle imprese che testimonia la loro fretta nell’aggiudicarsi sempre più terre. Corona fa riflettere anche su un altro aspetto poco affrontato: il cambiamento del rapporto visivo determinato dagli impianti eolici. Gli aerogeneratori di ultima generazione raggiungono i 200 metri di altezza, dimensione che potrebbe modificare in modo significativo la percezione dell’ambiente circostante riflettendosi anche sull’archeologia locale. La vicinanza di gigantesche pale altera il rapporto dei siti archeologici con il territorio poiché viene cambiata la scala di riferimento.

La concentrazione di siti archeologici restituisce agli isolani la consapevolezza di vivere in un territorio antico, sensazione che, per Corona, si sovrappone all’idea di abitare un territorio rurale che rischia di essere sempre più alterato dall’industrializzazione. Puntando l’attenzione verso i progetti di grandi parchi eolici, non è sbagliato affermare che la loro presenza abbia un forte impatto sul rapporto delle persone con la terra. Rispetto a questa questione, Corona ha effettuato una ricerca nel territorio di Villanovaforru (provincia del Sud Sardegna) dove gli abitanti, minacciati dagli espropri, si sono sentiti privati del diritto di decidere la destinazione d’uso delle terre, con la conseguente interruzione di attività rurali di lunga tradizione. In quell’occasione, oltre alla perdita dell’autodeterminazione della comunità, è stato osservato un ulteriore problema: l’inquinamento acustico. In alcune zone di campagna del territorio comunale il rumore delle pale di un piccolo impianto eolico si sente sia a casa sia nei campi, condizione che fa vivere in modo differente lo stare all’aria aperta e il coltivare la terra a causa del fastidio provocato dal continuo ronzio causato dalle pale in movimento. 

Opzione off-shore 

Esempio di impianto eolico off-shore

In Sardegna, la soprintendenza speciale per il PNRR ha registrato «una complessiva azione per la realizzazione di nuovi impianti da fonte rinnovabile […] tanto da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica oltre il fabbisogno regionale previsto». Sembrerebbe dunque che l’esubero di progetti di energia rinnovabile sia oramai sotto gli occhi di tutti, eppure nulla sta cambiando. Se da una parte le aziende energetiche continuano a presentare istanze di connessione a Terna in modo da almeno accaparrarsi le terre – anche nel tentativo di bloccare l’avanzata della concorrenza –, dall’altra stanno aumentando i progetti di eolico off-shore come quello che vorrebbero costruire davanti alla costa sud occidentale della Sardegna. La centrale, che prevede l’installazione di 42 turbine galleggianti con un’altezza massima di quasi 350 metri sul livello dell’acqua, è già stata sottoposta al parere, per ora secretato, del Ministero dell’Ambiente e ora attende quello del Ministero della Cultura. Ciò che preoccupa maggiormente, oltre alla visibilità dalle coste dell’isola di San Pietro, è l’impatto sull’ambiente e sulla fauna. L’impianto interferirebbe con le rotte migratorie dell’avifauna selvatica (in particolare con il Falco della Regina che nidifica sull’isola di San Pietro) e con la fauna marina, specialmente con il tonno rosso, la cui pesca rappresenta un elemento importante per l’economia locale. Oltre al rischio di perdita di biodiversità, bisogna tenere conto della possibile interruzione dei sistemi di comunicazione e navigazione nei mammiferi marini dovuta all’inquinamento acustico.

Colonialismo ecologico 

Vista la corsa ai progetti di energia rinnovabile, Sara Corona non ha difficoltà ad affermare che in Sardegna si sta assistendo a un vero e proprio fenomeno di land grabbing ai danni delle comunità rurali. Le zone di campagna non solo vedono un continuo abbandono della terra soprattutto da parte dei giovani, ma sono invase da progetti che fanno leva su questo spopolamento. Non è un caso che i luoghi prescelti dalle aziende per la costruzione degli impianti siano aree periferiche nella convinzione che in questi posti sia minore l’opposizione della comunità locale. In Sardegna le realtà contrarie al pullulare di progetti di energia rinnovabile sono invece numerosissime perché è sentimento comune che quello che sta avvenendo sia una nuova forma di colonialismo estrattivo da parte dello Stato italiano. Come abbiamo visto, l’energia prodotta in Sardegna è già in esubero e le infrastrutture hanno una capacità di trasporto molto limitata, ma questo scenario non limita le aziende, forti del fatto che verrebbero pagate anche laddove la produzione di energia dovesse essere interrotta. Una delle maggiori critiche avanzate verso questo passaggio alle risorse rinnovabili è che sta avvenendo seguendo gli stessi dettami della produzione di energia tradizionale: sebbene le risorse utilizzate siano infinite – nel caso dell’eolico il vento –, la terra che dovrebbe ospitare gli impianti non lo è. La popolazione sarda non è contraria alla transizione, ma si batte contro l’assoluta esclusione delle comunità dalla decisione di cosa fare sulle proprie terre e di cosa fare dei propri territori. 

Incendio alla COP30: evacuati i partecipanti

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A Belém, in Brasile, è scoppiato un vasto incendio nei padiglioni che ospitano la conferenza dell’ONU sul clima. L’incendio è esploso nella zona B, di fronte al padiglione Italia e vicino agli ingressi. Sul posto si sono rapidamente dirette le squadre di soccorso e i partecipanti sono stati fatti evacuare nella cosiddetta “green zone”, dall’altra parte del complesso. Non sono stati segnalati feriti; ignote le cause dell’incendio.

Digital Omnibus, Bruxelles vara la semplificazione digitale che piace alle aziende

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“Produttività”, “riduzione della burocrazia”, “efficacia”, “mercato interno”: con queste parole chiave la Commissione europea ha presentato il Digital Omnibus, una proposta volta a semplificare il quadro normativo sull’intelligenza artificiale per favorire l’imprenditorialità. Una rivoluzione che poggia le sue fondamenta su possibili emendamenti che andrebbero a intervenire anche sul nascente AI Act e sulle norme europee in materia di protezione dei dati, dal GDPR all’e-Privacy Directive. Se da un lato il progetto è accolto con entusiasmo da ambienti industriali e istituzionali, dall’altro sus...

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Niger, scontri tra Al Qaeda ed esercito: 10 morti

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Un gruppo di militanti del gruppo islamista Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), affiliato ad al Qaeda, ha lanciato un attacco contro un villaggio nel Niger occidentale, uccidendo almeno 10 soldati. L’attacco ha colpito il villaggio di Garbougna, nella regione di Tillaberi, vicino al confine con Mali e Burkina Faso, e secondo altre fonti avrebbe fatto altre 10 vittime. La regione è da tempo al centro di scontri tra le forze dei tre Paesi e gruppi militanti islamisti. In Mali, JNIM tiene sotto assedio la capitale Bamako, che sta vivendo una crisi nell’approvvigionamento del carburante.

Israele viola la tregua in Palestina: avanza su Gaza City e bombarda, almeno 38 morti

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Nonostante il cessate il fuoco, Israele continua a commettere violazioni della tregua in Palestina lanciando attacchi su tutta la Striscia. Ieri, 19 novembre, l’aviazione dello Stato ebraico ha scagliato attacchi aerei su diverse aree dell’enclave, concentrandosi su Khan Younis e Gaza City. L’esercito ha ripreso le aggressioni stamattina, lanciando offensive sia a Khan Younis che nel nord della Striscia di Gaza. In totale, da ieri, Israele ha ucciso almeno 38 persone. Nel frattempo, i carri armati israeliani hanno avanzato di circa 300 metri nell’area orientale di Gaza City, spostando il confine della cosiddettalinea gialla”, entro cui i soldati israeliani dovrebbero rimanere stazionati. Quelle di ieri e oggi sono solo le ultime di una lunga lista di violazioni degli accordi che lo Stato ebraico ha commesso nell’ultimo mese di tregua; le aggressioni a Gaza vanno avanti in parallelo ad analoghe offensive in Cisgiordania, dove sia i coloni che l’esercito continuano a lanciare attacchi nei confronti dei civili palestinesi.

I bombardamenti di ieri sono cominciati a partire dal pomeriggio. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sostengono di avere subito un attacco nell’area di Khan Younis, e affermano di avere lanciato attacchi «di ritorsione» in risposta alla presunta aggressione subita; i bombardamenti hanno colpito anche altre aree della Striscia, tra cui Gaza City, e in generale le aggressioni sono andate avanti anche stamattina. Gli attacchi di ieri si sono concentrati sulle aree orientali di Khan Younis e sul quartiere Zeitoun di Gaza City; colpiti anche il campo di Nuseirat, nel Governatorato di Deir al Balah, e la stessa città di Deir al Balah. Secondo fonti ospedaliere locali e il ministero della Sanità di Gaza, in seguito agli attacchi di ieri sono state uccise 33 persone, e altre 88 sono rimaste ferite.

Oggi, invece, Israele ha lanciato una offensiva aerea a Rafah, scagliato colpi di mortaio e impiegato droni ad Abasan al-Kabira, nel Governatorato di Khan Younis, e attaccato anche a Bani Suheila, sempre a Khan Younis. Segnalate aggressioni anche a Zeitoun e Shuja’iyya, altro quartiere di Gaza City, e attacchi nel nord, in aree non identificate. Negli attacchi di oggi, Israele ha ucciso almeno 5 persone. Inoltre, sempre a Shuja’iyya, l’esercito ha spostato di 300 metri il confine della linea gialla, mobilitando fisicamente truppe, carri armati, e simboli e segnali che rendono identificabile la linea di demarcazione ai residenti. La linea gialla è stata istituita con la tregua dell’11 ottobre e designa il limite entro cui i soldati israeliani devono stazionare, e che non devono oltrepassare. In totale, a Gaza, dall’inizio della tregua, Israele ha ucciso almeno 312 persone commettendo centinaia di violazioni. Il numero di morti dirette dal 7 ottobre, invece, è di almeno 69.546 persone.

Mentre continua le violazioni a Gaza, Israele non arresta neanche le proprie operazioni in Cisgiordania. Nel Governatorato di Hebron le forze israeliane stanno conducendo una campagna di arresti di massa da due giorni. In totale, l’esercito israeliano ha arrestato 56 persone, la maggior parte nella città di Beit Ummar, a nord di Hebron; le persone arrestate stanno venendo radunate in uno stadio. Nella stessa Beit Ummar, le forze israeliane hanno trattenuto e interrogato altre 150 persone, imposto restrizioni ai movimenti e dispiegato cecchini sui tetti. Nel Governatorato di Nablus, Israele ha condotto un raid usando armi da fuoco, e ferendo 4 persone; i raid sono iniziati nella notte e i soldati israeliani hanno fatto irruzione nei negozi commerciali vicino all’Ospedale Nazionale nel centro di Nablus. Intanto, i giornali israeliani riportano che il COGAT, l’ente del Ministero della Difesa israeliano che sovrintende agli affari civili nei territori palestinesi occupati, ha disposto il sequestro di oltre 160 ettari di terreni palestinesi. Nei governatorati di Qalqilya e di Tulkarem, invece, sono state arrestate 6 persone. A Gerusalemme, infine, i coloni hanno preso a sassate un’automobile con a bordo due bambine di un anno e quattro anni, e dato fuoco ad altre due auto.