giovedì 21 Agosto 2025
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Trump-Putin parlano assieme e annunciano “grandi progressi”, ma nessun dettaglio

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L’aspettativa era quella tipica di un momento storico e, sotto molti aspetti, l’attesa è stata ripagata. Ieri, venerdì 15 agosto, il presidente americano Trump e il presidente russo Putin hanno tenuto un colloquio privato di quasi tre ore alla Joint base Elmendorf-Richardson a Anchorage, in Alaska, incentrato sulla risoluzione del conflitto russo-ucraino. Un incontro, a detta di entrambi e dei rispettivi staff di consiglieri che li hanno coadiuvati, «molto positivo». Prima del vertice, i due leader si erano già incontrati in aeroporto, dove, a favore di telecamera, avevano mostrato grande affinità e confidenza reciproca. L’incontro è sfociato in un punto stampa in cui Trump e Putin si sono spesi in vicendevoli lodi, auspicando un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia sul versante politico-commerciale. Putin ha aperto alla prospettiva della pace in Ucraina, mentre Trump ha fatto riferimento ad alcuni punti su cui non si è ancora giunti a un accordo, mostrandosi però ottimista. Al momento non ci sono le condizioni per un cessate il fuoco, ma tutti gli indicatori – sebbene i dettagli del colloquio non siano stati resi noti – dimostrano la potenziale crucialità di questo primo passo.

Attorno alle 21 italiane di ieri (le 11 locali), il Presidente russo Putin è arrivato alla Base Congiunta Elmendorf-Richardson di Anchorage, in Alaska, dove lo aspettava il presidente USA Donald Trump, con cui non si incontrava dal 2019. Quest’ultimo lo ha accolto con grandi sorrisi e addirittura con un applauso, catturato dalle telecamere in diretta (un frammento video che è stato poi fatto sparire dai filmati pubblicati dagli account ufficiali della Casa Bianca). I due leader hanno successivamente percorso insieme un tappeto rosso passando davanti alla guardia d’onore, prima di salire a bordo della stessa auto – fattore non scontato – che li ha portati al luogo del vertice. E, se come spesso si dice, “la forma è anche sostanza”, tutto faceva presagire che l’occasione non sarebbe stata persa. Ai colloqui, a porte chiuse, hanno partecipato, per la Russia, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere Yuri Ushakov; per gli USA c’erano il segretario di Stato Marco Rubio e l’inviato speciale Steve Witkoff. Il meeting è durato due ore e quarantacinque minuti, poi i due leader hanno raggiunto la sala stampa per rilasciare le dichiarazioni di rito, senza però rispondere alle domande dei giornalisti presenti. Sullo sfondo, campeggiava l’eloquente scritta “perseguire la pace”.

Contravvenendo al protocollo, a prendere la parola per primo non è stato il “padrone di casa” Donald Trump, ma il suo omologo russo, che ha parlato per 8 minuti (il doppio del tempo rispetto al tycoon). «Ringrazio il mio collega per avermi invitato in Alaska – ha detto Putin – siamo vicini, molto vicini». Lodando il presidente Trump per averlo accolto in modo «affettuoso» e ribadendo che, se nel 2020 «fosse stato lui il presidente, non ci sarebbe stato il conflitto», Putin ha affermato: «Siamo orientati a concludere la guerra con l’Ucraina ma dobbiamo garantire la sicurezza della Russia. Dovevamo incontrarci con gli Stati Uniti, dobbiamo voltare pagina e ristabilire rapporti che non erano mai così bassi dal tempo della guerra fredda. Dobbiamo agire in campo politico ma anche in campo economico». Nel suo intervento, Putin ha dichiarato che, per risolvere la guerra in Ucraina, occorre «eliminare le cause profonde di quel conflitto, considerare tutte le legittime preoccupazioni della Russia e ristabilire un giusto equilibrio di sicurezza in Europa e nel mondo», aggiungendo di essere concorde con Trump sul fatto che «anche la sicurezza dell’Ucraina dovrebbe essere garantita. Nonostante il clima positivo, come era prevedibile, non è stato subito raggiunto un accordo sul cessate il fuoco e sulla fine del conflitto. «Ci sono stati molti, moltissimi punti su cui abbiamo concordato, direi un paio di punti importanti su cui non siamo ancora arrivati, ma abbiamo fatto qualche progresso», ha detto Donald Trump, che ha annunciato che avrebbe sentito a breve il presidente ucraino Zelensky e i rappresentanti della NATO.

La prima importante reazione al vertice Trump-Putin è arrivata dal presidente ucraino Vladimir Zelensky, che su X ha annunciato che lunedì incontrerà Trump a Washington D.C. «per discutere tutti i dettagli riguardanti la fine delle uccisioni e della guerra» e di essere «grato per l’invito». Confermando che il presidente USA lo ha «informato del suo incontro con il leader russo e dei punti principali della loro discussione», Zelensky ha ribadito la sua «disponibilità a lavorare con il massimo sforzo per raggiungere la pace» e a sostenere «la proposta del presidente Trump di un incontro trilaterale tra Ucraina, Stati Uniti e Russia».

Il vertice in Alaska ha suscitato grande attenzione sulla stampa russa, che, seppure solitamente assai “abbottonata”, ha evidenziato due temi principali: la «chance per la pace» in Ucraina e le prospettive di rafforzamento delle relazioni tra Mosca e Washington, anche sotto il profilo della «cooperazione commerciale». L’agenzia Ria Novosti ha sottolineato l’opportunità di porre fine al conflitto in Ucraina grazie alla proposta di Putin. Anche il giornale Izvestia si è concentrato sulla stessa questione, evidenziando l’annuncio del presidente russo riguardo alla possibilità di una risoluzione del conflitto, ma ha ampliato la sua analisi, esplorando le prospettive di una collaborazione più ampia tra le due potenze, con un focus sulla cooperazione economica e commerciale. Nel suo intervento, infatti, Putin non ha mancato di citare l’attualità della collaborazione nell’Artico e dei contatti interregionali, inclusi quelli tra l’Estremo Oriente russo e la West Coast americana. Ed è forse proprio questo il vero punto di svolta, che potrebbe costituire il prodromo per un riavvicinamento che vada oltre il solo capitolo della guerra russo-ucraina.

India, si aggrava bilancio inondazioni: oltre 60 morti e 200 dispersi

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Oggi, venerdì 15 agosto, i soccorritori nel Kashmir indiano hanno continuato a cercare sopravvissuti sotto massi e detriti dopo che forti piogge hanno provocato inondazioni e frane, uccidendo almeno 60 persone e lasciando 200 disperse. Giovedì, il villaggio di Chasoti è stato sommerso, colpendo un gruppo di pellegrini che si stavano preparando per visitare un sito religioso. Borse, vestiti e altri effetti personali sono stati ritrovati sparsi tra i detriti. Oltre 100 persone sono rimaste ferite. Le frane e le inondazioni sono frequenti nella regione, ma gli esperti suggeriscono che il cambiamento climatico ne aumenti la frequenza e l’intensità.

Sul Vesuvio che brucia, tra rabbia popolare e interessi criminali

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TERZIGNO (NA) — Paura e rabbia prevalgono tra i sentimenti degli abitanti, che per giorni hanno visto bruciare parte del proprio polmone verde, la Pineta del Parco Nazionale del Vesuvio. Siamo ai piedi del Monte Somma, che da queste parti viene semplicemente chiamato “‘a muntagna”, luogo geografico sì ma anche custode di tradizioni e cultura. Qui il ricordo dell’incendio del 2017 — quando bruciarono circa 1600 ettari di territorio, l’equivalente di 1100 campi da calcio — è ancora vivo. Come allora, le fiamme hanno colpito più Comuni. Questa volta l’incendio non ha minacciato i centri abitati, ma si stimano almeno 560 ettari di territorio andati in fumo, con un intero ecosistema compromesso. In attesa di calcolare con esattezza i danni dell’incendio, la Procura di Nola prima e quella di Torre Annunziata poi hanno aperto due inchieste per fare chiarezza sull’accaduto. Le indagini seguono la pista dell’azione dolosa e non escludono il coinvolgimento della criminalità organizzata.

«È stata una cosa devastante», mi dice uno dei residenti parlando dell’incendio appena domato. Il pensiero va poi al «viavai di mezzi e uomini» che si è concentrato negli ultimi giorni alle pendici del Monte Somma, parte integrante del complesso vulcanico Somma-Vesuvio. A una settimana dallo scoppio dell’incendio avvenuto nella Pineta di Terzigno e propagatosi ai Comuni limitrofi, i focolai risultano spenti e i primi interventi di bonifica avviati. Al lavoro di Vigili del Fuoco, Protezione Civile e forze dell’ordine si è aggiunto quello di una pioggia improvvisa, che ha spazzato via la cappa calata sui paesi vesuviani a partire dall’8 agosto. Sul dispiegamento di forze — parliamo di oltre 350 persone, parte dei quali volontari, provenienti da tutta Italia — e mezzi, come canadair ed elicotteri, indagherà la magistratura, valutandone i tempi e le strategie di reazione. Sarà da vedere se le accuse dei cittadini, relative a ritardi e omissioni di fronte ai primi roghi, troveranno conferma o cadranno nel vuoto. Nel mirino dei pubblici ministeri anche la manutenzione di pinete e sentieri, un’azione fondamentale per arginare la propagazione degli incendi.

I magistrati di Nola e di Torre Annunziata avranno poi il compito di accertare la natura dell’incendio. Si insegue la pista dolosa, prendendo in considerazione sia l’azione di piromani sia di chi ha interesse a distruggere il territorio. «I movimenti per la giustizia ambientale in Campania — scrive la sezione napoletana di Ecologia politica — hanno storicamente sostenuto che i roghi siano collegati tra criminalità organizzata, imprenditoria e malapolitica». Una denuncia che poggia le basi sulla trasformazione, negli anni, di diverse aree del Parco Nazionale del Vesuvio in discariche a cielo aperto, dove spiccano tessuti e plastiche, nell’indifferenza delle istituzioni. «Bruciano il bosco per liberare spazi col fine di sversare ulteriori rifiuti. In secondo luogo danno fuoco anche a questi ultimi per disfarsene velocemente». C’è poi il business della riforestazione, che assegna a ditte private centinaia di migliaia di soldi pubblici. 

Ad andare in fumo non è stato solo un luogo fisico ma uno spazio di aggregazione, di ritrovo sociale. «La Pineta è uno dei punti di incontro più frequentati, soprattutto in estate», mi racconta una ragazza che abita a Terzigno e che dalla sua casa ha visto bruciare un simbolo del paese: «quando mia mamma ha visto le fiamme è scoppiata in lacrime, perché stava perdendo una parte della sua quotidianità». “‘A muntagna” è custode di tradizioni e cultura, è un polmone verde che permette agli abitanti di passeggiare nella natura, in uno dei tanti sentieri del Parco, o di respirare aria pulita. Ci sono poi decine di aziende agricole che proteggono e tramandano prodotti unici, come il pomodorino del Piennolo o l’albicocca Pellecchiella. Si comprendono facilmente la rabbia e la frustrazione dei cittadini guardando le parti del Monte Somma andate in fumo. Il grigio domina lì dove fino a pochi giorni prima il verde custodiva vita e biodiversità, in ripresa dopo il devastante incendio del 2017. Le fiamme si sono ripresentate con forza, nonostante il ricordo delle promesse e dei “mai più” fosse ancora vivo. Adesso i residenti chiedono innanzitutto la bonifica del territorio, che non può dirsi sufficiente senza controlli seri e attività di tutela. La speranza converge poi verso l’accertamento delle responsabilità, per un esito diverso dalla bolla di sapone con cui si è concluso il filone investigativo dell’incendio del 2017.

Mali, arrestati generali e un cittadino francese per “destabilizzazione”

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Il governo militare del Mali ha annunciato di aver sventato un tentativo di colpo di stato, arrestando ufficiali dell’esercito e un cittadino francese, Yann Vezilier, accusato di lavorare per l’intelligence francese. Tra gli arrestati figura anche Abass Dembele, ex governatore di Mopti. Il Mali ha vissuto un decennio di instabilità, segnato da insurrezioni islamiste e colpi di stato che hanno portato al potere l’attuale presidente, il generale Assimi Goita. Le relazioni tra Mali e Francia si sono deteriorate negli ultimi anni. Sotto la pressione della nuova leadership del Paese, Parigi ha infatti ritirato le truppe impegnate in un’operazione per combattere i militanti islamisti.

Portogallo, divampano i roghi: prorogato lo stato di allerta

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Il governo portoghese ha deciso di prolungare lo stato di allerta fino a domenica, a causa di 22 giorni consecutivi di caldo intenso che continuano a flagellare il Paese. Al momento, sono attivi 41 incendi, coinvolgendo circa 3.700 pompieri e 1.220 mezzi, con il focolaio più grave in provincia di Arganil. La ministra degli Interni, Maria Lúcia Amaral, ha confermato la proroga – l’allerta era stata precedentemente fissata fino alla mezzanotte di stasera -, respingendo le critiche sul suo operato. In ballo c’è infatti il rifiuto dell’esecutivo di chiedere aiuto internazionale e la scelta di dichiarare lo stato di allerta e non quello di emergenza, criticata dall’opposizione.

Vicenza, la repressione si abbatte contro gli attivisti No Tav: 56 indagati

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Sono 56 le persone sotto indagine della Digos per le manifestazioni di protesta tenutesi contro la linea ad Alta Velocità di Vicenza. A darne notizia, è la stessa Questura. I fatti contestati risalgono a due episodi distinti verificatisi presso il bosco Lanerossi, dove il gruppo aveva organizzato un presidio in difesa dell’area verde. Nel primo, gli attivisti hanno cercato di bloccare l’accesso all’area agli operai delle ditte incaricate dei lavori, venendo in risposta colpiti dagli idranti delle forze dell’ordine; nel secondo, hanno invece provato a ostacolare i lavori, ottenendo lo stesso trattamento. Il piano per l’alta velocità a Vicenza, dal valore di circa 1,82 miliardi di euro, rientra nel più ampio progetto della linea ad alta velocità/capacità Verona-Padova; la tratta vicentina prevede lavori su 6,2 chilometri all’interno della città, lungo i quali verrebbero abbattuti decine di edifici e intere aree verdi; inizialmente era previsto l’abbattimento dello stesso bosco Lanerossi, ma dopo un anno di mobilitazioni dal basso l’area del cantiere è stata spostata.

Il primo episodio per cui gli attivisti sono stati accusati risale allo scorso 8 luglio. Quel giorno, era previsto lo sgombero del presidio No Tav per la salvaguardia del bosco, che avrebbe dovuto lasciare spazio all’avvio dei cantieri. Arrivate sul posto, le forze dell’ordine hanno portato via attivisti e attiviste che si erano incatenati ai cancelli di ingresso del bosco, mentre quelli che si trovavano all’interno, su di piattaforme sopraelevate costruite sugli alberi, sono stati fatti scendere dai vigili del fuoco mediante un camion con braccio. Successivamente, le piattaforme sopraelevate sono state abbattute per mezzo di una ruspa, mentre la polizia in assetto antisommossa ha respinto con gli idranti gli ultimi attivisti rimasti a presidiare l’area. Il secondo episodio è invece del 12 luglio. Dopo lo sgombero, infatti, gli attivisti hanno organizzato un corteo che, partendo da una piazza della città, è arrivato proprio presso il bosco Lanerossi. Quel giorno, centinaia di persone hanno marciato verso l’area verde, e alcuni manifestanti hanno provato a sfondare la recinzione del cantiere, venendo nuovamente fermati dagli idranti delle forze dell’ordine.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato di Vicenza. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi della città, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Le proteste contro l’opera si sono intensificate a partire da maggio dell’anno scorso, quando il bosco Lanerossi è stato occupato dai collettivi che si sono opposti alla sua distruzione. Dopo un anno di mobilitazioni, il sindaco ha annunciato che il bosco non verrà abbattuto, e che l’area dei cantieri verrà spostata altrove. Il comitato, però, ha rilanciato la mobilitazione, e ora punta a rendere il bosco un’area pubblica di proprietà comunale a disposizione della comunità.

Russia-Ucraina, effettuato un altro scambio di prigionieri

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato il rientro di 84 prigionieri di guerra ucraini in seguito a uno scambio con la Russia. Tra di loro ci sono soldati catturati a Mariupol e altri arrestati dall’esercito russo tra il 2014 e il 2017, prima dell’invasione del febbraio 2022. L’ente ucraino per la gestione dei prigionieri ha confermato che 33 sono militari e 51 civili. Anche il ministero della Difesa russo ha confermato lo scambio, che ha previsto la restituzione di 84 soldati russi. Si tratta di uno degli scambi di prigionieri più significativi dall’inizio del conflitto.

Negli ultimi due anni oltre 8 milioni di messicani sono usciti dalla povertà

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In Messico, tra il 2022 e il 2024, 8,3 milioni di persone che vivevano in una condizione di povertà multidimensionale sono uscite dal tale stato. Sono i dati forniti dall'Istituto Nazionale di Statistica e Geografia del Paese (INEGI), nel suo primo studio per misurare la povertà multidimensionale nel Paese. Quello sulla povertà multidimensionale è un indicatore che non si limita a calcolare il reddito delle persone, ma che tiene in considerazione privazioni su più campi, come quelli dell'istruzione, della salute, o dell'accesso ai servizi. Il motivo dietro un simile calo, ha spiegato Manuel Ma...

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Inondazioni in India: almeno 32 morti e 50 dispersi nel Kashmir

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Almeno 32 persone sono morte a causa di inondazioni improvvise provocate da forti piogge nel remoto villaggio montuoso di Chositi, nel Kashmir indiano. Le squadre di soccorso hanno salvato oltre 100 persone, ma il bilancio è destinato ad aggravarsi: circa 50 persone risultano infatti ancora disperse. Il viceministro indiano Jitendra Singh ha confermato che le inondazioni sono state causate dalle intense precipitazioni nella regione di Jammu e Kashmir. Gli abitanti e i funzionari locali hanno recuperato sette corpi dai detriti e dal fango, mentre le operazioni di salvataggio proseguono senza sosta.

Nuovo codice della strada: la norma sugli stupefacenti verso la Corte Costituzionale

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Tre ricorsi già sul tavolo della Corte Costituzionale e almeno un quarto in attesa di essere trasmesso: da Pordenone a Siena, passando per Macerata e Udine, diversi tribunali italiani stanno mettendo in discussione una delle norme più controverse del nuovo Codice della Strada. La principale novità introdotta dalla riforma fortemente voluta dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini riguarda il fatto che non sia più necessario provare che il conducente sia sotto effetto di stupefacenti, perché basta la positività per rischiare fino a un anno di carcere, una multa fino a 6mila euro, la sospensione della patente da uno a due anni e la confisca del veicolo.

Un’impostazione che ha fatto storcere il naso a giuristi, avvocati, politici, medici e farmacisti, che sottolineavano l’assurdità di questa norma, ancor di più nei confronti di pazienti che assumono farmaci a basi sostanze psicoattive, per i quali, dopo mesi di incertezza, è stato aperto un tavolo tecnico alla ricerca di soluzioni concrete.
Il motivo è semplice: gli stupefacenti in generale, così come i farmaci a base di sostanze psicotrope (cannabis, oppioidi e benzodiazepine), rimangono in circolo nel nostro corpo per diverso tempo, anche per giorni, con il rischio di ritirare la patente a persone che durante la guida sono perfettamente lucide, ma magari hanno fumato una canna giorni prima.
La procedura prevede che le forze dell’ordine possano eseguire un test salivare al conducente del veicolo: nel caso di positività scattano le sanzioni e il campione viene inviato in laboratorio per la conferma. Ma diversi studi scientifici hanno evidenziato che il THC, principio psicoattivo della cannabis, resta in circolo nella saliva anche per giorni, a seconda della dose assunta, della frequenza d’utilizzo e del metabolismo della persona. Secondo le più recenti ricerche scientifiche, dopo aver fumato una singola canna, il THC può rimanere nella saliva per una media di 34 ore, e le cose cambiano nel caso di un consumatore frequente, la cui saliva – secondo un altro studio scientifico – sarebbe positiva al test anche per 8 giorni.

E le preoccupazioni espresse dalla società civile, sono state condivise anche dai giudici. Una sentenza della Cassazione di gennaio 2025, che fa dunque riferimento all’ordinamento precedente, mette comunque nero su bianco che: «A rilevare non è la condotta di chi guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato di alterazione psicofisica determinato da tale assunzione».

Non solo, perché dall’entrata in vigore della legge a oggi sono almeno quattro i ricorsi presentati alla Corte Costituzionale, tre dei quali sono stati fatti direttamente dai giudici. Il primo caso in cui è stata sollevata la legittimità costituzionale è quello di Elena Tuniz, una storia che abbiamo raccontato su L’Indipendente, con l’associazione Meglio Legale che ha assistito la ragazza durante il procedimento, presentando un ricorso presso il Giudice di Pace di Udine. Ad aprile, invece, è stato il gip del Tribunale di Pordenone a rimandare direttamente la questione alla Corte Costituzionale perché riteneva che la nuova norma contrasti con i principi sanciti da vari articoli della Costituzione: eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità; tassatività, determinatezza e offensività; finalità rieducativa della pena. Il giudice mette in discussione il cardine della legge, e cioè il fatto che non sia più necessario essere alterato alla guida per vedersi sanzionati perché è sufficiente la positività. È la norma che aveva portato Salvini a dichiarare tronfio in una conferenza stampa che «lucido sì, o lucido no, io ti tolgo la patente», ma è anche quella che rischia di far saltare tutta la legge.

Il gip di Macerata, in un altro ricorso, si è concentrato su un diverso aspetto e cioè che se la legge punisce «chiunque guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope», bisognerebbe perlomeno specificare il lasso temporale a cui quel «dopo» fa riferimento, altrimenti, scrive il gip, se uno assume stupefacenti a 18 anni e si mettesse alla guida a 60, sarebbe punibile. Nell’ennesimo ricorso, questa volta effettuato dal gip di Siena, viene scritto che l’unico modo per superare questo impasse, sarebbe quello di ripristinare l’accertamento dello stato di alterazione psico-fisica, che è poi quello che ha tentato di fare il governo con una circolare di aprile emanata dal ministero dell’Interno e della Salute, che di fatto sconfessa la linea di Salvini.

Nella circolare infatti viene scritto in modo chiaro che: «Occorre provare che la sostanza stupefacente o psicotropa sia stata assunta in un periodo di tempo prossimo alla guida del veicolo, tale da far presumere che la sostanza produca ancora i suoi effetti nell’organismo durante la guida». Una locuzione complessa per dire una cosa semplice: occorre un collegamento temporale tra assunzione e guida, che è quello che sostengono tutti i detrattori della legge. Il problema? La circolare non ha valore di legge, e quindi servirebbe un intervento a livello legislativo.