Dopo lo sfollamento forzato dei cittadini dall’isola di Warraq, la polizia egiziana poche settimane fa ha effettuato una vasta operazione per prendere il controllo di Firdaus, un piccolo villaggio residenziale che ospita circa mille famiglie, a nord dell’Egitto, vicino alla città portuale di Port Said. Le forze di sicurezza avrebbero staccato le utenze poco prima dell’attacco, dando l’ordine ai residenti di lasciare con effetto immediato le abitazioni, mentre bulldozer e gru procedevano con l’abbattimento dei complessi residenziali: in totale 110 palazzi, 1650 appartamenti, in un clima di caos...
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Undici persone sono state uccise e almeno venti ferite in una sparatoria avvenuta martedì sera durante una festa religiosa a Irapuato, nello stato messicano di Guanajuato, segnato dalla violenza dei cartelli. L’attacco è avvenuto durante le celebrazioni per la Natività di San Giovanni Battista. Tra le vittime anche un ragazzo di 17 anni. La presidente messicana Claudia Sheinbaum ha definito «deplorevole» quanto accaduto. In una dichiarazione, l’amministrazione locale di Irapuato ha definito l’attacco un «atto codardo», affermando che le forze di sicurezza stanno dando la caccia ai responsabili e promettendo sostegno psicologico ai colpiti.
Paolo Borsellino, poco prima di essere ucciso, stava indagando sui presunti collegamenti tra gli uomini dell’eversione nera e la strage di Capaci. A provarlo è infatti l’emersione di un verbale, risalente a una riunione andata in scena a Palermo il 15 giugno 1992 – tra gli due attentati di Capaci e via D’Amelio – alla quale presero parte cinque magistrati, tra cui proprio Borsellino. Dal documento si evidenzia come i giudici presenti all’incontro si scambiarono informazioni legate alla strage di Capaci e alle intercettazioni disposte nei confronti del pentito Alberto Lo Cicero, braccio destro del boss di San Lorenzo Mariano Tullio Troia – condannato per l’attentato del 23 maggio ’92, detto “‘U Mussolini” per le sue simpatie di estrema destra e, a detta di Lo Cicero, legato al capo di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie – e della sua ex compagna Maria Romeo, in cui si accennava proprio all’attentato in cui morì Giovanni Falcone.
Un nuovo documento
Da alcuni mesi pende una richiesta di archiviazione da parte della Procura di Caltanissetta rispetto alla “pista nera” dietro alla strage di Capaci. Ma il legale Fabio Repici, difensore di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha chiesto alla gip Graziella Luparello di interrompere la camera di consiglio e la decisione sulla richiesta dei pm, al fine di «rimediare a un grosso difetto procedimentale che si è creato con la mancata conoscenza (da parte del sottoscritto difensore e, quel che è ancora peggio, della Giudice) di alcuni atti che non solo erano già nella disponibilità della Procura della Repubblica ma che avevano trovato discovery in altro procedimento, che si trova addirittura in corso di istruttoria dibattimentale». Si parla, nello specifico, proprio del verbale del 15 giugno ’92, sfociato dalla riunione a cui presero parte il Procuratore Capo di Palermo, Pietro Giammanco, i procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Paolo Borsellino, il sostituto procuratore Vittorio Teresi e Pietro Maria Vaccara, sostituto procuratore a Caltanissetta. «Convengono i presenti – è scritto nel verbale – sulla opportunità che dette intercettazioni (quelle disposte nei confronti di Lo Cicero e Romeo, ndr) proseguano a cura della procura della Repubblica di Palermo, concernendo esse più ampio tema di indagine, e con l’intesa che ogni elemento che emerga circa l’omicidio del dottor Falcone verrà immediatamente comunicato alla procura della Repubblica di Caltanissetta». «È sconvolgente – ha dichiarato l’avvocato Repici – aver reperito solo a 33 anni di distanza dalla strage di via D’Amelio un documento procedimentale sull’omicidio di Falcone nel quale compare la sottoscrizione di Borsellino».
L’avvocato Repici cita poi una circostanza concernente l’onorevole Guido Lo Porto, membro di spicco del MSI dai primi anni Settanta fino ai primi anni Novanta e Sottosegretario alla Difesa nel primo Governo Berlusconi (’94-’96). Da giovane fu il presidente del FUAN di Palermo e, tra i suoi principali collaboratori, c’era proprio Paolo Borsellino. Poi, nel 1968, venne arrestato insieme al killer neofascista Pierluigi Concutelli per possesso di armi da guerra non dichiarate. Nella sua memoria, Repici scrive che l’allora magistrato Vittorio Teresi, in una relazione di servizio datata primo giugno 1992 «sicuramente nota al dottor Borsellino» mise nero su bianco che Lo Cicero riferì di aver conosciuto «presso la villa del Troia l’on. Lo Porto, che più di una volta si sarebbe intrattenuto a cena dallo stesso, e che un nipote o cugino del Lo Porto sarebbe proprietario di una villa nello stesso complesso». «La riunione del 15 giugno – continua l’avvocato – nella quale le Procure di Caltanissetta e di Palermo parlarono di Lo Cicero e delle sue rivelazioni (e sicuramente, quindi, anche dell’on. Lo Porto), fu di pochissimo precedente all’incontro del dr. Borsellino con la dr.ssa Camassa e il dr. Russo, nel corso del quale il magistrato, di lì a breve ucciso, si lasciò andare a uno sfogo su “un amico” dal quale si era sentito tradito».
L’interesse di Borsellino
Secondo Repici, l’interesse di Borsellino per quanto dichiarato da Lo Cicero è provato da una informativa dei carabinieri dell’8 giugno 1992, redatta da Walter Giustini e Antonio Coscia, a cui era allegato un rapporto del 1988 firmato dal maggiore Mauro Obinu (che poi finirà a processo insieme all’ex ROS Mario Mori, assolto «perché il fatto non costituisce reato», per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995). Il documento concerneva gli affari di Cosa Nostra nel territorio di Capaci e menzionava il mafioso Giuseppe Senzale, «oggetto delle rivelazioni di Lo Cicero della primavera-estate 1992». Repici ricorda che, in una deposizione dell’ottobre 1995, il tenente Carmelo Canale, stretto collaboratore di Borsellino, riferì che lo stesso magistrato «gli aveva fatto cercare un rapporto a firma del maggiore Obinu» poiché «interessato a individuare gli autori della strage di Capaci». L’ex brigadiere Walter Giustini e Maria Romeo hanno raccontato di aver saputo da Lo Cicero della presenza di Delle Chiaie a Capaci. La Procura di Caltanissetta ha bollato come inattendibili le loro dichiarazioni, mandandoli addirittura a processo. La circostanza sarebbe stata però recentemente confermata dal giornalista del Giornale di Sicilia Giuseppe Martorana, che a Report e ad Antimafia Duemila ha rivelato di aver visto Delle Chiaie a Capaci tra il febbraio e il marzo 1992.
Il “filo nero”
Indagini e processi continuano a delineareil «filo nero» che collega mafia, eversione di destra e servizi deviati in stragi e omicidi eccellenti. Proprio durante il processo Mori-Obinu del 2015, il colonnello Michele Riccio rivelò come l’ex infiltrato Luigi Ilardo avesse accusato «ambienti di destra eversiva» in contatto con settori deviati dello Stato di essere i veri mandanti delle stragi del ’92-’93, mascherate da attentati mafiosi per destabilizzare il Paese. Dietro a questi attentati affiorano nomi e sigle come quelle della «Falange Armata», utilizzata per rivendicare azioni eversive presumibilmente affidate a colonne interne agli apparati statali. Figure come Paolo Bellini – ex Avanguardia Nazionale e agente coperto dai servizi, condannato in appello per la strage di Bologna – e Nino Gioè – tramite tra Cosa Nostra e i servizi – confermano la pericolosa convergenza tra terrorismo nero, poteri deviati e mafia, in un intrico che ancora oggi sfida il racconto ufficiale della storia repubblicana. Per non parlare delle agende elettroniche di Giovanni Falcone “manomesse” da mani ignote al Ministero della Giustizia dopo la sua morte, proprio nelle parti in cui il giudice si occupava dei presunti collegamenti tra l’organizzazione paramilitare “Gladio” e i delitti Mattarella, Reina e La Torre. Nonostante questo, la Commissione Antimafia a guida Chiara Colosimo sembra in tutti i modi voler scacciare le “ombre nere” dal novero delle ipotesi legate all’omicidio Borsellino, sponsorizzando la pista del «rapporto mafia-appalti» del ROS come sua unica causale. Le novità emerse, però, potrebbero cambiare il corso delle cose.
Dal 1° luglio 2025, in Svizzera (ma non nell’UE), entrerà in vigore una nuova norma che impone l’obbligo di indicare sugli imballaggi esterni dei prodotti di origine animale se, durante il ciclo produttivo dell’alimento, sono state impiegate pratiche dolorose per gli animali. Tra questi prodotti rientrano, per esempio, il latte proveniente da mucche sottoposte a cauterizzazione dell’abbozzo corneale senza anestesia, oppure la carne bovina di animali decornificati o castrati senza anestesia. Si tratta di pratiche molto diffuse negli allevamenti industriali e particolarmente dolorose se eseguite senza anestesia.
Basti pensare alla cauterizzazione delle corna, chiamata anche decornazione: consiste nell’eliminazione delle corna attraverso la distruzione dell’anello di crescita mediante calore. Questo intervento viene effettuato quando i bovini sono molto giovani, generalmente entro le tre o quattro settimane di vita, quando le corna non sono ancora sviluppate. Prima si esegue la cauterizzazione, minori saranno il dolore e lo stress per il vitello. Solitamente si utilizza un ferro caldo dopo avere anestetizzato la zona con anestesia locale, ma esistono anche altri metodi, come il taglio con coltelli o seghe, oppure l’applicazione di una pasta caustica. Quest’ultima viene usata nei vitelli di età inferiore ai due giorni: si rasano i peli attorno al corno e si applica la pasta sul germoglio e alla base, in corrispondenza delle cellule di crescita. La pasta uccide l’anello di crescita, e il corno si stacca come una crosta, una volta guarita la ferita. Tuttavia, questo metodo comporta il rischio di lesioni agli occhi o ad altri tessuti, specialmente in caso di pioggia.
Queste pratiche sono infatti vietate da tempo sul territorio svizzero, e il Governo federale ha voluto rafforzare la trasparenza verso i consumatori, permettendo loro di compiere scelte più consapevoli e informate attraverso l’obbligo di etichette che segnalino, quando presenti, tali interventi. È previsto un periodo di transizione di due anni per permettere ai produttori di adeguarsi al nuovo sistema, ma il provvedimento entrerà in vigore già a partire da luglio 2025, ovvero tra pochissimi giorni. Il Governo federale svizzero rivendica che, con questa legge, si vuole offrire maggiore trasparenza e informazione per guidare le scelte di acquisto dei cittadini:
«Al momento dell’acquisto di derrate alimentari di origine animale, come carne, latte o uova, i consumatori avranno accesso a informazioni supplementari sul metodo di produzione. In questo modo potranno sapere se tali alimenti sono stati ottenuti tramite interventi dolorosi eseguiti senza anestesia, come nel caso della castrazione o della decornazione, oppure senza stordimento. Anche il fegato e la carne derivanti dall’alimentazione forzata di oche e anatre saranno soggetti all’obbligo di caratterizzazione. La cosiddetta alimentazione forzata è vietata in Svizzera da oltre 40 anni, ma è ancora consentita all’estero».
Gli alimenti interessati
I prodotti soggetti al nuovo obbligo di etichettatura sono i seguenti:
carne bovina da animali sottoposti a decornazione o castrazione senza anestesia;
carne suina da animali che hanno subito il taglio della coda, la resezione dei denti o la castrazione senza anestesia;
uova e carne di pollame sottoposto a taglio del becco senza anestesia;
latte da vacche decornificate senza anestesia;
cosce di rana ottenute senza stordimento dell’animale;
fegato e carne di oche e anatre alimentate forzatamente.
In pratica, sulle confezioni di latte, uova, carne o formaggi verranno apposte diciture molto esplicite, simili a quelle presenti sui pacchetti di sigarette, del tipo: «sono state usate pratiche dolorose per l’animale».
Verso il benessere animale?
Dopo questa novità introdotta dal governo svizzero — uno dei primi tentativi in Europa (esiste un’etichettatura simile anche in Danimarca) e nel mondo — possiamo trarre alcune considerazioni più ampie, utili a comprendere meglio la questione.
Anzitutto, va apprezzata la volontà di promuovere maggiore trasparenza verso i consumatori: il benessere animale, i maltrattamenti e le sofferenze inflitte negli allevamenti intensivi sono ormai temi centrali per un’ampia fetta della popolazione. Un’etichetta chiara e dettagliata consente scelte di acquisto più consapevoli e volontarie. Tuttavia, si tratta solo di un primo, piccolo passo nella giusta direzione, non certo del traguardo finale. È un provvedimento ancora insufficiente se vogliamo parlare di vero benessere animale e di allevamenti privi di pratiche crudeli. Infatti, interventi come il taglio della coda o del becco, la castrazione, la decornazione, la stabulazione permanente all’interno di capannoni, l’inseminazione forzata ricorrente e altri tipici dell’allevamento industriale non verranno affatto eliminati da questo provvedimento, che peraltro riguarda solo la Svizzera.
Si continuerà quindi con gli allevamenti intensivi, un metodo intrinsecamente legato al maltrattamento animale, alla crescita forzata, alla reclusione in ambienti chiusi e alla somministrazione continua di farmaci, con conseguenze gravi per la salute e per l’ambiente. I prodotti alimentari derivanti da questo tipo di filiera continueranno a essere di qualità discutibile e talvolta persino dannosi, come ormai ampiamente noto. Il fatto che alcune di queste pratiche vengano ora esplicitamente indicate sulla confezione non equivale purtroppo al raggiungimento dell’obiettivo più importante: allevare gli animali in modo etico e rispettoso della loro biologia, senza forzarli per ragioni di profitto, come accade da decenni.
Certo, questo provvedimento della Svizzera rappresenta comunque un piccolo ma significativo passo, che potrebbe fungere da esempio per altri Stati e favorire futuri miglioramenti.
Infine, è bene ricordare che esistono già aziende e allevamenti che, per filosofia aziendale, adottano spontaneamente pratiche naturali e non dolorose nei confronti degli animali. Non tutti i prodotti di origine animale in commercio provengono dunque dall’industria, né rappresentano necessariamente un simbolo di maltrattamento. Sta a noi, consumatori consapevoli, informarci sulle modalità di produzione del cibo che acquistiamo. Abbiamo già affrontato in passato i temi dell’allevamento e dell’agricoltura rigenerativa, dei piccoli produttori e dei circuiti virtuosi come i GAS o i supermercati autogestiti, nei quali è possibile trovare alimenti provenienti da filiere molto diverse da quelle industriali della grande distribuzione.
La procura di Nola ha avviato un’inchiesta sul marchio di abbigliamento Original Marines, accusato di aver falsificato i bilanci tra il 2018 e il 2021 per occultare perdite e ottenere oltre 30 milioni di euro in finanziamenti pubblici. L’azienda avrebbe inoltre beneficiato indebitamente di detrazioni IVA per quasi 6 milioni. Otto persone risultano indagate, tra cui membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. Il gip ha disposto per tutti il divieto di esercitare attività d’impresa per un anno e ha ordinato il sequestro preventivo di beni per oltre 37 milioni di euro.
Il movimento internazionale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) sostiene il principio secondo il quale i palestinesi hanno gli stessi diritti del resto dell’umanità per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. Ispirato al movimento anti-apartheid sudafricano, l’appello del BDS esorta ad agire e fare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale. Il BDS è oggi un movimento globale molto ampio: ne fanno parte sindacati, associazioni accademiche, chiese e movimenti di base che rappresentano milioni di persone. Anche numerosi gruppi ebraici progressisti svolgono un ruolo importante nel movimento. Personaggi pubblici come l’arcivescovo Desmond Tutu, Naomi Klein, Roger Waters, Angela Davis, Judith Butler, Gabor Matè e tantissimi altri sostengono il BDS.
Dal 1948 Israele nega ai palestinesi i loro diritti fondamentali e si rifiuta di rispettare il diritto internazionale, delegittimando gli organismi internazionali, oltre a mantenere un regime di colonialismo d’insediamento, apartheid e occupazione sul popolo palestinese. Questo è possibile solo grazie al sostegno internazionale dei governi, che impediscono che Israele sia giudicato responsabile delle proprie azioni, e grazie alla complicità di aziende e istituzioni di tutto il mondo che aiutano Israele a opprimere i palestinesi. Poiché coloro che sono al potere si rifiutano di agire per fermare questa ingiustizia, la società civile palestinese ha chiesto ai cittadini di tutto il mondo di agire in solidarietà con la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza.
Nel giugno 2005, a un anno esatto dal parere della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che aveva giudicato illegale il muro israeliano di divisione/annessione per isolare i palestinesi,oltre 170 organizzazioni della società civile palestineselanciarono un appello per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) come forma di pressione non violenta su Israele. Dal suo lancio nel 2005, il BDS ha avuto un impatto crescente e sta sfidando il sostegno internazionale all’apartheid e al colonialismo israeliano.
Il BDS è un movimento per i diritti umani inclusivo e antirazzista, che si oppone per principio a tutte le forme di discriminazione, compresi l’antisemitismo e l’islamofobia, che promuove una forma di pressione forte ma non violenta su Israele per spingerlo a rispettare il diritto internazionale. L’appello si basa su tre richieste fondamentali:
fine dell’occupazione e del colonialismo di tutte le terre arabe e smantellamento del muro;
uguaglianza piena per i cittadini arabo-palestinesi di Israele;
diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, come previsto dalla Risoluzione ONU 194.
Agisce secondo 3 linee di azione:
Boicottaggio: sono azioni individuali e collettive che si rifanno al consumo etico. Prodotti israeliani o di società che traggono profitto dall’occupazione militare di Israele vanno boicottati. In Italia le campagne di boicottaggio si concentrano sulla catena di supermercati Carrefour e sull’azienda farmaceutica TEVA.
Disinvestimento: le campagne di disinvestimento fanno pressione su banche, enti locali, chiese, fondi pensione e università affinché ritirino gli investimenti dallo Stato di Israele e da tutte le aziende israeliane e internazionali che sostengono l’apartheid israeliano.
Sanzioni: le campagne di sanzioni fanno pressione sui governi affinché adempiano ai loro obblighi legali di porre fine all’apartheid israeliano. Un esempio è la Campagna Cartellino Rosso a Israele, che chiede alla FIFA di sospendere Israele da tutte le competizioni.
Le campagne BDS si adattano al contesto locale e vengono declinate in modalità differenti a seconda delle diverse realtà. Ci sono quindi campagne globali, come quella per l’embargo militare totale nei confronti di Israele, che sono attive nel mondo ma cambiano a seconda del Paese in cui si attuano. In Italia si punta all’alleanza con altri gruppi, per esempio i lavoratori portuali contro la militarizzazione dei porti, l’Osservatorio contro la Militarizzazione della Scuola e i movimenti contro il riarmo europeo. L’economia israeliana è fortemente legata al commercio e agli investimenti internazionali, risultando quindi vulnerabile ai boicottaggi economici. Diverse multinazionali (tra cui Carrefour, TEVA, G4S e Hewlett-Packard, la multinazionale tecnologica meglio nota come HP) sono accusate di trarre profitto dalla collaborazione con il sistema coloniale di apartheid. Le campagne di boicottaggio e disinvestimento mirano ad aumentare la pressione su queste aziende affinché interrompano la loro complicità. Recentemente, il fondo sovrano norvegese da 1,6 mila miliardi di dollari ha disinvestito completamente dai titoli israeliani, una decisione preceduta da anni di attivismo da parte dei partner norvegesi del movimento BDS.
Un ulteriore esempio è la campagna SPLAI (Spazi Liberi dall’Apartheid Israeliana, bdsitalia.org/index.php/campagna-splai), alla quale aderiscono circa 400 realtà italiane tra cui la Taverna Santa Chiara di Napoli, protagonista delle cronache recenti per un’aggressione sionista.
Manifestazione contro il genocidio palestinese durante l’Eurovision Song Contest
Israele usa apertamente la cultura come forma di propaganda per mascherare il genocidio a Gaza e il regime di occupazione militare ai danni del popolo palestinese. Il genocidio israeliano ha incluso la deliberata distruzione di siti archeologici e del patrimonio culturale in tutta Gaza. La Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI) esorta gli operatori culturali e le organizzazioni culturali internazionali a boicottare e ad adoperarsi per la cancellazione di eventi, attività, accordi o progetti che coinvolgono Israele, i suoi gruppi di pressione o le sue istituzioni culturali complici. Si chiede a sedi e festival internazionali di rifiutare finanziamenti e qualsiasi forma di sponsorizzazione da parte del governo israeliano. Un esempio è il boicottaggio della partecipazione israeliana all’Eurovision Song Contest (ESC), mentre c’è un genocidio in corso.
Il pinkwashing è un’altra strategia di propaganda del governo israeliano, che sfrutta i diritti LGBTQ+ per proiettare un’immagine progressista, nascondendo al contempo le politiche di occupazione di Israele che opprimono i palestinesi. C’è una crescente consapevolezza all’interno delle comunità queer e trans in merito al fatto che la loro lotta non può essere separata dalla liberazione palestinese. Attivisti LGBTQ+ hanno posto i diritti dei palestinesi al centro degli eventi del Pride in tutto il mondo. Decine di registi queer hanno ritirato o si sono opposti alle proiezioni dei loro film al TLVFest, il festival cinematografico LGBT sponsorizzato dal governo israeliano a Tel Aviv
Le università israeliane giocano da decenni un ruolo attivo nel sostenere l’occupazione militare, il colonialismo di insediamento e l’apartheid contro i palestinesi. Collaborano direttamente con l’esercito israeliano nello sviluppo di dottrine e tecnologie militari, come la “dottrina Dahiya”dell’Università di Tel Aviv, che giustifica l’uso sproporzionato della forza contro civili. Dall’ottobre 2023, durante l’offensiva su Gaza, Israele ha distrutto o danneggiato tutte le università palestinesi e centinaia di scuole, privando oltre 90.000 studenti dell’accesso all’istruzione superiore. In risposta, i rettori di 15 università palestinesi hanno chiesto l’isolamento accademico delle università israeliane. Già nel 2011, l’Università di Johannesburg aveva interrotto i rapporti con l’Università Ben Gurion per complicità nelle violazioni dei diritti umani. Dopo il 2023, decine di università internazionali hanno seguito l’esempio, rompendo i legami o disinvestendo da istituzioni e aziende coinvolte. Il regime israeliano di colonialismo e apartheid ostacola sistematicamente anche le pratiche sportive. Durante l’attacco a Gaza, lo stadio Al Yarmouk è stato trasformato in centro di detenzione e poi distrutto. Atleti palestinesi vengono regolarmente arrestati, feriti o uccisi, mentre viene loro negata la libertà di movimento per gare e allenamenti. Israele bombarda infrastrutture sportive, blocca l’importazione di attrezzature e vieta la costruzione di nuovi impianti. Lo sport israeliano è segnato da razzismo istituzionalizzato: campionati giovanili separati e impunità per l’odio antipalestinese dei tifosi. Squadre con sede in insediamenti illegali competono nei campionati ufficiali, rendendo FIFA e FIBA complici. Anche eventi come il Giro d’Italia e il Tour de France partecipano allo sportswashing accettando la squadra Israel Premier Tech. Nonostante tutto ciò, gli organismi sportivi internazionali hanno chiuso un occhio rifiutandosi di intervenire, a differenza dell’esclusione della Russia dopo l’aggressione all’Ucraina. Oltre 300 club sportivi palestinesi chiedono di bandire Israele dalle Olimpiadi. Anche il BDS richiede di bandire Israele dai forum sportivi internazionali, tra cui CIO e FIFA, finché non porrà fine ai suoi gravi crimini contro i palestinesi e ai suoi attacchi allo sport palestinese. Partecipa anche tu al BDS, diventa attiva nella tua realtà. Contatta il gruppo BDS più vicino e verifica a quali campagne e azioni puoi partecipare.
L’Interpol, l’organo di collaborazione internazionale tra le polizie dei vari Paesi, ha fatto sapere di avere condotto una operazione di contrasto alla vendita illegale di farmaci su prescrizione o non autorizzati. L’indagine ha portato all’arresto di 769 persone e al sequestro di oltre 50 milioni di dosi, per un valore totale di 57 milioni di euro. L’operazione è stata condotta in 90 Paesi, di cui 16 nell’Unione Europea, tra i quali l’Italia non rientra. I Paesi più coinvolti sono stati Australia, Canada, Irlanda, Malesia e Paesi Bassi. L’indagine, denominata Pangea XVII rientra in una operazione annuale che si svolge ormai da 17 anni.
Dopo il vertice della NATO dell’Aia, è stato approvato l’aumento delle spese militari fino al 5% del PIL annuo entro il 2035. L’aumento è stato concordato da tutti gli Stati membri, che durante il vertice hanno firmato una dichiarazione congiunta. L’unico disobbediente sembra il governo spagnolo, che ha firmato ma afferma che non si atterrà all’aumento previsto. Il rinnovamento delle soglie di spesa comprenderà due investimenti giudicati «essenziali» dai Paesi: in primo luogo, i membri dell’Alleanza saranno tenuti a stanziare almeno il 3,5% del PIL annuo destinandolo al fabbisogno di armi; il restante 1,5% del PIL nazionale potrà venire indirizzato verso il più generale comparto della sicurezza. I Paesi saranno inoltre tenuti a presentare piani annuali che traccino un percorso progressivo per raggiungere tale obiettivo, che sarà ridiscusso nel 2029.
La dichiarazione dei membri dell’Alleanza Atlantica è stata rilasciata ieri, mercoledì 25 giugno al termine del summit dell’Aia. Con questa nuova soglia di spesa, i Paesi della NATO, si legge nella dichiarazione, intendono fare fronte «alle profonde minacce e sfide per la sicurezza, in particolare la minaccia a lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza euro-atlantica e la persistente minaccia del terrorismo». Entro il 2035, continua la dichiarazione, il 3,5% del PIL di ciascun Paese dovrà essere destinato ai «requisiti fondamentali della difesa» e al raggiungimento «degli obiettivi di capacità della NATO». Gli alleati si impegnano a presentare piani annuali che indichino un percorso credibile e graduale per raggiungere questo obiettivo. La restante somma destinata ai cosiddetti progetti inter alia, può includere investimenti relativi alle infrastrutture critiche, alla «difesa delle reti», alla «preparazione e resilienza civile», alla ricerca e al generale rafforzamento del comparto industriale di difesa.
L’unico Paese che sembra volersi opporre alla decisione è la Spagna di Pedro Sánchez. I primi attriti erano iniziati a farsi sentire sin da prima del vertice dell’Aia, quando Sánchez si era opposto pubblicamente alla stipula del nuovo obiettivo. Dopo gli incontri, durante cui il premier spagnolo ha firmato la dichiarazione congiunta, Sánchez ha indetto una conferenza stampa, in cui ha ribadito la sua posizione per cui «la spesa al 2,1% è sufficiente», scatenando l’ira di Trump. Dopo le dichiarazioni di Sánchez, il presidente degli USA ha giudicato le parole del premier spagnolo «terribili», minacciando di fare pagare al Paese «il doppio» dei dazi.
Il raggiungimento dell’accordo è stato invece accolto con entusiasmo dal Segretario generale della NATO, Mark Rutte, che da tempo chiedeva ai membri di destinare più spese al comparto della difesa, facendo eco alle richieste di Trump. Proprio nei confronti di Trump, Rutte ha avuto un atteggiamento particolarmente reverenziale, ringraziandolo per il suo contributo giudicato «unico» e «storico». Anche la premier Meloni si è mostrata favorevole all’aumento delle spese militari, rispolverando il vecchio detto latino si vis pacem para bellum (Se vuoi la pace prepara la guerra), e assumendo una posizione che ha attirato parecchie critiche dall’opposizione. In precedenza, l’Italia aveva annunciato la propria intenzione a raggiungere la soglia del 2% del PIL in difesa entro quest’anno contando tanto le spese esclusivamente militari quanto quelle inter alia.
Secondo l’osservatorio sulle spese militari Mil€x, l’ostacolo fondamentale da superare per raggiungere la soglia del 5% come concordata dalla NATO è rappresentato dal 3,5% delle spese militari “core”, ossia quelle destinate ai requisiti fondamentali della difesa. L’osservatorio sostiene che a oggi l’Italia destina circa l’1,57% del PIL a tali voci di spesa: questo significa che per raggiungere il 3,5% entro il 2035, dovrà aumentarle di poco meno del 2% in dieci anni. «Questo si traduce in un impegno cumulativo decennale di spesa di quasi 700 miliardi di euro, circa 220 miliardi in più rispetto a quello che si spenderebbe in dieci anni se invece del 3,5% si puntasse a raggiungere il 2% in spese militari ‘core’, con aumenti di spesa annuali medi nell’ordine dei 2 miliardi».
Il Regno Unito ha aderito al Multi-Party Interim Appeal Arbitration Arrangement (MPIA), meccanismo di arbitrato alternativo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. L’annuncio è arrivato in una nota governativa rilasciata ieri, mercoledì 15 giugno, in cui l’esecutivo spiega che con tale decisione intende proteggere e rafforzare le imprese britanniche in quello che risulta un contesto economico turbolento. Il MPIA è un meccanismo giuridico di appello istituito da sedici Paesi nel marzo del 2020 per risolvere le dispute di appello mentre la sezione dedicata del tribunale dell’OMC risulta inattiva; nel 2019, infatti, l’allora presidente degli Stati Uniti aveva bloccato nuove nomine alla corte d’appello, paralizzando la Corte.
Coop Alleanza 3.0, la più grande fra le cooperative di consumatori del sistema Coop che opera in 8 regioni italiane, ha deciso di rimuovere dai propri scaffali alcuni prodotti israeliani, in particolare quelli prodotti nelle colonie illegali all'interno del territorio palestinese, e inserire la Gaza Cola, una bevanda nata da un’iniziativa palestinese per sostenere la popolazione di Gaza. Coop Alleanza è la società che gestisce circa 350 supermercati Coop in otto regioni italiane: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Puglia, Basilicata.
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