Tre ricorsi già sul tavolo della Corte Costituzionale e almeno un quarto in attesa di essere trasmesso: da Pordenone a Siena, passando per Macerata e Udine, diversi tribunali italiani stanno mettendo in discussione una delle norme più controverse del nuovo Codice della Strada. La principale novità introdotta dalla riforma fortemente voluta dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini riguarda il fatto che non sia più necessario provare che il conducente sia sotto effetto di stupefacenti, perché basta la positività per rischiare fino a un anno di carcere, una multa fino a 6mila euro, la sospensione della patente da uno a due anni e la confisca del veicolo.
Un’impostazione che ha fatto storcere il naso a giuristi, avvocati, politici, medici e farmacisti, che sottolineavano l’assurdità di questa norma, ancor di più nei confronti di pazienti che assumono farmaci a basi sostanze psicoattive, per i quali, dopo mesi di incertezza, è stato aperto un tavolo tecnico alla ricerca di soluzioni concrete.
Il motivo è semplice: gli stupefacenti in generale, così come i farmaci a base di sostanze psicotrope (cannabis, oppioidi e benzodiazepine), rimangono in circolo nel nostro corpo per diverso tempo, anche per giorni, con il rischio di ritirare la patente a persone che durante la guida sono perfettamente lucide, ma magari hanno fumato una canna giorni prima.
La procedura prevede che le forze dell’ordine possano eseguire un test salivare al conducente del veicolo: nel caso di positività scattano le sanzioni e il campione viene inviato in laboratorio per la conferma. Ma diversi studi scientifici hanno evidenziato che il THC, principio psicoattivo della cannabis, resta in circolo nella saliva anche per giorni, a seconda della dose assunta, della frequenza d’utilizzo e del metabolismo della persona. Secondo le più recenti ricerche scientifiche, dopo aver fumato una singola canna, il THC può rimanere nella saliva per una media di 34 ore, e le cose cambiano nel caso di un consumatore frequente, la cui saliva – secondo un altro studio scientifico – sarebbe positiva al test anche per 8 giorni.
E le preoccupazioni espresse dalla società civile, sono state condivise anche dai giudici. Una sentenza della Cassazione di gennaio 2025, che fa dunque riferimento all’ordinamento precedente, mette comunque nero su bianco che: «A rilevare non è la condotta di chi guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato di alterazione psicofisica determinato da tale assunzione».
Non solo, perché dall’entrata in vigore della legge a oggi sono almeno quattro i ricorsi presentati alla Corte Costituzionale, tre dei quali sono stati fatti direttamente dai giudici. Il primo caso in cui è stata sollevata la legittimità costituzionale è quello di Elena Tuniz, una storia che abbiamo raccontato su L’Indipendente, con l’associazione Meglio Legale che ha assistito la ragazza durante il procedimento, presentando un ricorso presso il Giudice di Pace di Udine. Ad aprile, invece, è stato il gip del Tribunale di Pordenone a rimandare direttamente la questione alla Corte Costituzionale perché riteneva che la nuova norma contrasti con i principi sanciti da vari articoli della Costituzione: eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità; tassatività, determinatezza e offensività; finalità rieducativa della pena. Il giudice mette in discussione il cardine della legge, e cioè il fatto che non sia più necessario essere alterato alla guida per vedersi sanzionati perché è sufficiente la positività. È la norma che aveva portato Salvini a dichiarare tronfio in una conferenza stampa che «lucido sì, o lucido no, io ti tolgo la patente», ma è anche quella che rischia di far saltare tutta la legge.
Il gip di Macerata, in un altro ricorso, si è concentrato su un diverso aspetto e cioè che se la legge punisce «chiunque guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope», bisognerebbe perlomeno specificare il lasso temporale a cui quel «dopo» fa riferimento, altrimenti, scrive il gip, se uno assume stupefacenti a 18 anni e si mettesse alla guida a 60, sarebbe punibile. Nell’ennesimo ricorso, questa volta effettuato dal gip di Siena, viene scritto che l’unico modo per superare questo impasse, sarebbe quello di ripristinare l’accertamento dello stato di alterazione psico-fisica, che è poi quello che ha tentato di fare il governo con una circolare di aprile emanata dal ministero dell’Interno e della Salute, che di fatto sconfessa la linea di Salvini.
Nella circolare infatti viene scritto in modo chiaro che: «Occorre provare che la sostanza stupefacente o psicotropa sia stata assunta in un periodo di tempo prossimo alla guida del veicolo, tale da far presumere che la sostanza produca ancora i suoi effetti nell’organismo durante la guida». Una locuzione complessa per dire una cosa semplice: occorre un collegamento temporale tra assunzione e guida, che è quello che sostengono tutti i detrattori della legge. Il problema? La circolare non ha valore di legge, e quindi servirebbe un intervento a livello legislativo.
Il ministero degli Esteri italiano ha diffuso un comunicato in cui annuncia che ieri, 13 dicembre, sono arrivati nel Paese 31 bambini bisognosi di cure, con 83 accompagnatori palestinesi. I bambini verranno ora trasferiti verso gli ospedali, per poi venire, assieme agli accompagnatori, presi in carico dal Sistema di Accoglienza Integrata del Ministero dell’Interno per l’inserimento alloggiativo. A tutti i 114 palestinesi sarà fornito permesso di soggiorno. Quella di ieri risulta la 14esima missione ospedaliera italiana da gennaio 2024.
Un evento senza precedenti ha segnato il panorama naturalistico italiano: nella notte tra l’11 e il 12 agosto, un lupo maschio di circa 45 kg è stato abbattuto legalmente in Alta Val Venosta, a 2800 metri di altitudine, dal Corpo forestale provinciale di Bolzano. È il primo abbattimento autorizzato dopo 50 anni di protezione per la specie, sancita dalla legge che nel 1971 ha messo il lupo sotto tutela. La decisione arriva a pochi mesi dalla modifica della normativa europea che ha ridotto il livello di protezione per il grande carnivoro. L’autorizzazione a selezionare e abbattere due lupi in maniera casuale nell’area era stata firmata lo scorso 30 luglio dal presidente della provincia, Arno Kompatscher, dopo una serie di attacchi al bestiame che hanno causato numerose perdite tra maggio e agosto 2025.
Le associazioni animaliste Enpa, Lav e Lndc avevano fatto ricorso al Tar contro l’autorizzazione della Provincia autonoma di Bolzano per abbattere i lupi nel Comune di Malles, ma il tribunale ha sospeso l’autorizzazione. Successivamente, il Consiglio di Stato ha dato il via libera, respingendo la richiesta di sospensiva e supportando la decisione con il parere favorevole dell’Ispra e dell’Osservatorio faunistico provinciale. Secondo le autorità altoatesine, tra maggio e luglio sono stati registrati 31 attacchi di lupo a bestiame in un alpeggio dell’Alta Val Venosta, una cifra inferiore ai 42 dello scorso anno. Il presidente Kompatscher ha giustificato l’abbattimento come misura necessaria per la regolamentazione dei lupi pericolosi e la salvaguardia dell’allevamento alpino. All’interno del provvedimento, si prevedeva l’uccisione di due lupi in maniera casuale, senza alcuna selezione specifica. «I prelievi tramite abbattimento avvengano senza limitazione alcuna di orari, l’utilizzo di armi lunghe a canna rigata e con modalità tali da perseguire anche il condizionamento negativo nei confronti di altri eventuali lupi», si legge nel testo.
Le associazioni animaliste Lav, Enpa, Lndc e “Io non ho paura del lupo” hanno fortemente criticato l’abbattimento dell’esemplare, sostenendo che le condizioni legali per l’intervento non siano state rispettate. Le organizzazioni ritengono infatti che le misure di prevenzione fossero inadeguate, evidenziando che le predazioni che avrebbero giustificato tale scelta si sono verificate fuori dai recinti e senza l’uso di cani da guardiania. Massimo Vitturi (Lav) ha dichiarato che, se i sistemi di protezione fossero stati correttamente applicati, l’abbattimento sarebbe stato evitabile, annunciando una denuncia per uccisione di animale contro la Provincia di Bolzano.
Questa svolta non sembra però casuale. A inizio giugno, infatti, il Consiglio Europeo aveva messo il timbro finale sulla modifica dello status di protezione dei lupi da “strettamente protetti” a “protetti” decretata dalla Commissione e approvata dall’Eurocamera. Il cambio di status permetterà agli Stati membri di avere «una maggiore flessibilità nella gestione delle popolazioni di lupi al fine di migliorare la coesistenza con gli esseri umani e ridurre al minimo l’impatto della crescente popolazione di lupi in Europa», come si legge sul sito del Parlamento europeo. I Paesi dell’UE potranno così procedere con meno restrizioni all’abbattimento dei lupi, con l’unico vincolo di «continuare a garantire uno stato di conservazione soddisfacente» dell’animale – la cui popolazione è oggi stimata in 20mila esemplari in tutta Europa. «Il declassamento dello status di protezione è un passo importante per poter adottare misure mirate come i prelievi regolamentati e avere un minore impatto sull’agricoltura e sull’economia alpina – aveva dichiarato a inizio luglio l’assessore alle Foreste della Provincia di Bolzano Luis Walcher -. Con la riduzione dello status di protezione del lupo ci siamo avvicinati al nostro obiettivo di preservare e proteggere l’agricoltura, in particolare quella di montagna, attraverso il prelievo dei lupi considerati problematici».
A plaudire al declassamento dello status di protezione del grande carnivoro era stato sin da subito anche Maurizio Fugatti, presidente della provincia di Trento, primo grande sponsor degli abbattimenti di lupi e orsi. Nel luglio del 2023, Fugatti aveva firmato per la prima volta un decreto, autorizzato dall’ISPRA, con cui si ordinava l’abbattimento di due esemplari di lupo appartenenti al branco presente nella zona di Malga Boldera, nel versante trentino dei Monti Lessini, nel Comune di Ala. Il provvedimento era arrivato dopo alcuni episodi di predazioni da parte dei lupi ai danni dei pascoli della zona. Ciononostante, le uccisioni non si sono verificate. Infatti, dopo un ricorso presentato dalle associazioni Lav, Lndc Animal Protection e WWF, lo scorso febbraio il Tar di Trento lo ha dichiarato improcedibile: dal momento che la malga Boldera, dove i lupi avevano predato 16 bovini e 2 asini, non ospita più animali, non esiste più un pericolo associato ai lupi, quindi non è necessario procedere all’abbattimento.
Il governo Meloni ha deciso di destinare 43 milioni di euro, provenienti dal Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di mafia, usura e agli orfani di femminicidio, al finanziamento delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026. Una scelta su cui ha messo il timbro definitivo l’approvazione finale in Parlamento del decreto “Sport”, attraverso cui sono stati stanziati quasi 400 milioni per i Giochi. Le opposizioni avevano presentato emendamenti per chiedere l’utilizzo di fondi alternativi, che sono stati tutti respinti dalla maggioranza. Il governo ha difeso la decisione, affermando che si tratta di un residuo del fondo, che non è stato completamente utilizzato, e che verrà impiegato per gli equipaggiamenti e gli alloggi delle forze di polizia durante le Olimpiadi. Ferma però la condanna delle associazioni antimafia, che parlano di uno «schiaffo» alle vittime.
La norma, contenuta nel decreto “Sport”, prevede che una parte dei costi per la sicurezza olimpica venga coperta con i residui non spesi dal fondo di solidarietà, destinato a risarcire le vittime di crimini violenti e a sostenere gli orfani di crimini domestici. Il decreto ha visto l’approvazione di un budget complessivo di 271 milioni per la sicurezza, ma solo una parte verrà coperta dal Ministero dell’Economia, mentre i restanti 43 milioni derivano appunto dal fondo di rotazione. PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra hanno protestato, accusando il governo di mettere a rischio i fondi destinati a persone già vulnerabili. Il governo ha utilizzato una legge del 2012 per attingere ai fondi non spesi, una norma che prevede che le risorse possano essere destinate a «interventi urgenti e indifferibili» e «eventi celebrativi». «Viene trasmesso un messaggio distorto: non viene sottratta alcuna risorsa, è un residuo che viene utilizzato non per spese frivole, ma per equipaggiamenti, alloggi delle Forze di Polizia», ha dichiarato la sottosegretaria Matilde Siracusano, cercando di difendere la decisione dell’esecutivo.
Tuttavia, la giustificazione non ha placato le polemiche. In una nota, l’associazione Libera ha scritto che è «inaccettabile che un fondo nato per proteggere imprenditori e cittadini che si ribellano a racket e usura finisca per finanziare i servizi di ordine pubblico di un grande evento sportivo», evidenziando come l’usura e l’estorsione non siano fenomeni in declino, ma che anzi siano «sempre più diffusi e pervasivi», essendoci dunque urgenza di «un intervento complesso, sociale, culturale ed economico, attento ai contesti locali, che metta a disposizione strumenti di sostegno e campagne di sensibilizzazione per aiutare chi si sente isolato ad affrontare queste minacce». Ancora più dura la reazione de La Tazzina della Legalità, che denuncia come il governo stia tentando di «“minimizzare”, parlando “di “residui” e di “interventi urgenti”, ma tradire le vittime e i collaboratori di giustizia in questo modo significa lanciare un messaggio devastante: “state zitti, denunciare vi costa caro, perché vi lasceremo soli”». «È uno schiaffo alla dignità e alla speranza di chi ha fatto della legalità una missione di vita», conclude l’associazione.
La decisione, secondo molti, rappresenta un ulteriore esempio di come l’evento olimpico, inizialmente presentato come a “costo zero” per l’economia, stia assumendo dimensioni finanziarie enormi, con un deficit patrimoniale che nel 2023 ha toccato i 108 milioni di euro. Tra le varie norme incluse nel decreto “Sport”, infatti, ci sono quelle rivolte a coprire i buchi di bilancio della Fondazione Milano-Cortina per i Giochi. Il provvedimento ha infatti stanziato328 milioni di euro alla istituzione di un nuovo Commissario per le Paralimpiadi, che avrebbe il compito di «subentrare nei rapporti giuridici della Fondazione». Una formulazione che appare come una scusa per scorporare parte dei costi, dal momento che le Paralimpiadi erano già presenti nel Comitato. A chiarirlo è infatti la relazione tecnica pubblicata dalla Camera dei Deputati che accompagna il decreto, in cui si conferma l’assegnazione di quasi 400 milioni di euro a Fondazione Milano Cortina, proprio grazie alla creazione del commissario per le Paralimpiadi. A quest’ultimo il governo assegna 248 milioni di euro per «la tempestiva realizzazione degli interventi» e altri 79 milioni per «le esigenze di carattere logistico necessarie allo svolgimento delle competizioni sportive». Con i 43 milioni per potenziare la sicurezza attorno alle sedi olimpiche attinti dal fondo di solidarietà, l’esborso complessivo sale a 371 milioni di euro.
Gli Stati Uniti hanno dispiegato forze aeree e navali nel Mar dei Caraibi meridionali per contrastare le minacce dei cartelli della droga latinoamericani. La decisione, voluta dal presidente Trump, mira a colpire le bande di narcotrafficanti, designate come organizzazioni terroristiche globali. Il Pentagono ha ricevuto l’ordine di preparare opzioni per un’operazione di sicurezza, parte di un ampio piano che include la limitazione dell’immigrazione e la protezione del confine meridionale. Già nei mesi precedenti, erano state schierate navi da guerra per supportare gli sforzi di contrasto al traffico di droga.
Accento toscano, ma il suo cuore palestinese, Karem Rohana è scampato all’eccidio in corso a Gaza perché la sua famiglia ha avuto la possibilità, e la fortuna, di emigrare. Discendente da una famiglia di Haifa, che con la nascita di Israele ha perso tutto ed è diventata arabo-israeliana, Karem, fin da bambino, vive in Italia. E attraverso il suo profilo Instagram, “Karem From Haifa”, racconta la storia e la causa palestinese e contribuendo a diffondere la verità su quanto accade a Gaza e nei territori occupati sfidando la censura e l’odio dei supporters di Israele, al punto da aver subito anche un brutale pestaggio. L’Indipendente lo ha raggiunto per una intervista.
Leggendo la tua storia, sono rimasta colpita dalla tua doppia cittadinanza per così dire. Tu sei palestinese, ma hai un passaporto israeliano. Cosa si prova a vivere da palestinese in uno stato come quello di Israele?
I palestinesi che vivono dentro lo Stato di Israele sono meno colpiti da violenze fisiche rispetto agli abitanti di Gaza o della Cisgiordania, (in Cisgiordania ad esempio l’Occupazione passa attraverso la militarizzazione del territorio e una violenza sistematica) ma siamo colpiti da violenze identitarie. Un palestinese che vive in Israele di fatto non può essere palestinese. Non ti puoi dichiarare palestinese, non puoi usare simboli palestinesi. Ci sono tante tradizioni palestinesi che sono state vietate per legge, come la raccolta della za’atar, una spezia che fa parte della nostra tradizione culinaria. Nel 48 Israele ha cancellato l’identità palestinese e continua a farlo tuttora. I palestinesi, inoltre, non hanno gli stessi diritti dei cittadini israeliani: ci sono cittadini di serie a e cittadini di serie b, cioè noi.
Parlando invece di Gaza e della Cisgiordania; nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni, come si manifesta la presenza israeliana?
Non esiste un aspetto della tua vita in Cisgiordania o a Gaza che non sia controllato da Israele. Checkpoint disseminati lungo tutto il territorio, requisizioni di terre e proprietà che vengono poi assegnate a quelli che si definiscono «Coloni», violenze continue e perfino uccisioni. Ma tutto questo tipo di violenza non puoi neanche denunciarla. Quando dei militari assaltano il tuo villaggio, confiscando e distruggendo tutto quello che possedevi e coltivavi magari da generazioni, tu poi per ottenere giustizia dovresti rivolgerti alla polizia militare. Tribunali cioè che sono fatti di quelle persone che hanno preso di mira il tuo villaggio. E che tipo di giustizia puoi sperare di ottenere? Esistono infatti due tipi di tribunali: i tribunali civili per gli israeliani, e i tribunali militari per i palestinesi. Noi siamo l’unico posto al mondo dove i minori, anche i bambini, vengono giudicati da tribunali militari.
Mi domando come si possa vivere con la consapevolezza di non essere realmente libero, di non avere un tribunale, uno Stato, un corpo di Polizia che ti difenda… anzi, oggi essere palestinese significa vivere con la certezza che tutto ciò che conosci e ami può esserti strappato via da un momento all’altro. Qual è secondo te la cosa più preziosa di cui ti privano? O la più dolorosa?
Soprattutto ti tolgono il «tempo». Per fare una qualsiasi cosa, dalla più importante alla più banale, ci metti ore, perché gli israeliani controllano i tuoi spostamenti. Ci sono ovunque posti di blocco. Se vieni fermato a un posto di blocco, la polizia può trattenerti per ore. O arrestarti per nessun motivo, oltre al fatto di essere palestinese. Ti pesa anche il dover convivere con l’assenza di qualsiasi punto fermo, di qualsiasi certezza. Non hai la certezza di poter andare a scuola, perché da un momento all’altro quella scuola possono demolirla per «ragioni militari». Tu stesso puoi venire ucciso, una realtà con cui ogni palestinese deve scendere a patti.
Quando si parla di Palestina e di Israele si incomincia partendo dal 7 ottobre, come se fosse una data simbolica che ha fatto da spartiacque nell’immaginario collettivo tra un «prima» e un «dopo». Tu credi sia giusto?
Il 7 ottobre fu il giorno in cui morirono per colpa di Hamas tanti israeliani, ma ci si dimentica che prima, per i palestinesi, ogni giorno poteva essere il 7 ottobre. I palestinesi morivano, ma nessuno ne parlava. Nessuno se ne interessava. Quel tipo di violenza che ha scosso l’opinione pubblica, com’è giusto che sia, era però esercitato nei confronti dei palestinesi tutti i giorni.
Nadav Weimen, il direttore dell’associazione Braeking the Silence, che raccoglie le testimonianze e i racconti di ex soldati dell’IDF che lottano contro l’Occupazione, ha raccontato di un tipo di violenza sistematica. Queste sono le sue parole: «Ogni notte mettevamo in atto un’operazione chiamata “Straw Window”. Essa consisteva in sostanza nell’impossessarsi di una casa privata palestinese e convertirla in un avamposto militare; e come lo facevamo? Assaltando letteralmente la casa nel bel mezzo della notte, trascinando tutti i membri della famiglia giù dai loro letti e confinandoli tutti in una stanza così che non potessero disturbarci. (…) Lo scopo era di far percepire la nostra presenza e di rinnovare nei palestinesi la consapevolezza di chi aveva il loro controllo.» Ecco, io mi domando: come possa una società come quella israeliana, vicina per cultura, tradizioni e filosofia all’Occidente, accettare che questo tipo di violenza e di brutalità coesista al suo interno. Tu cosa ne pensi?
La società israeliana deve ignorare certi suo aspetti, i più violenti e scabrosi, per mantenere viva l’Occupazione. Si tratta di una società che ha accettato una violenza intrinseca strutturale. Per andare avanti devono fingere di non sapere e di non vedere, o al contrario giustificare questa violenza sostenendo che tutto ciò viene fatto in nome della sicurezza. Per garantire e proteggere la «nostra sicurezza», così dicono.Ma di fatto questo tipo di violenza non fa che alimentare estremismi, odio e fenomeni di guerriglia armata; oggi c’è Hamas, ma domani chissà quanti altri ne nasceranno se non si interrompe questa spirale di violenza.
In questi ultimi anni sei stato sempre più presente sui social, fino a costruirti una comunità con migliaia e migliaia di lettori. Come ti è nata l’idea di raccontare la Palestina usando i social?
L’idea mi è nata dall’esigenza che avvertivo di parlare della Palestina, in un momento in cui nel dibattito pubblico e politico non trovava spazio. All’epoca non si poteva parlare di Palestina, era un argomento tabù. Ricordo che quando uscì il report di Amnesty International sull’apartheid palestinese, riconoscendo che quello vissuto dai palestinesi ora in Cisgiordania ora a Gaza era un vero e proprio apartheid, la politica e le istituzioni all’epoca finsero di ignorarlo. O addirittura lo censurarono. Così decisi di crearmi da solo uno spazio dove poter dar voce a tutto questo.
Proprio in questi giorni al centro del dibattito pubblico, soprattutto in Italia, vi è l’uso della parola «genocidio». Lo scrittore israeliano David Grossman ha ammesso che quello portato avanti da Israele a Gaza è un genocidio; della stessa opinione è la storica Anna Foa. Qual è la tua opinione?
Il termine genocidio presuppone che dietro vi sia una disumanizzazione di certi gruppi etnici e quindi presuppone un’ideologia che va smantellata, perché non è compatibile con i valori umani. Se parliamo di crimini di guerra, possiamo sempre sperare di identificare e punire i colpevoli, in questo caso il governo di Netanyahu, se, invece, riconosci il genocidio, sei costretto ad ammettere che dietro c’è tutta una struttura ideologica che lo porta avanti. In questo caso la disumanizzazione del popolo palestinese.
Dopo l’annuncio di Macron e di Starmer, molti paesi europei e non, stanno discutendo della possibilità di ufficializzare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Io, invece, mi chiedo quanto il riconoscimento tardivo della Palestina come Stato possa realmente incidere sulle sorti del popolo palestinese, in un contesto in cui il diritto internazionale, come ci insegna la Storia recente e passata, viene puntualmente calpestato. Secondo te è ancora possibile l’opzione del «due popoli, due Stati?» Oppure tu auspichi e vorresti qualcosa di diverso?
La soluzione dei due Stati a ora non è fattibile. Non è accettata nemmeno da chi la millanta. Di fatto è una narrazione che serve a legittimare la politica portata avanti da Israele, perché nel frattempo (così si giustificano i paesi occidentali) stiamo riconoscendo lo Stato palestinese. E continua a non andare alla radice del problema: uno Stato come quello di Israele basato su una supremazia etnico-religiosa non potrà mai accettare l’esistenza di uno Stato palestinese. La soluzione percorribile per me è uno Stato unico, uno Stato democratico che accolga tutti, israeliani e palestinesi, senza più fare discriminazioni. Una convivenza pacifica tra i due popoli non vuol dire dimenticare ciò che è stato, ma rispettare la terra, il posto, i diritti umani non solo di alcuni ma di tutti.
Per Ferragosto, il ministero della Salute ha previsto 16 città italiane con il livello massimo di rischio caldo, indicato come “bollino rosso”: Bologna, Bolzano, Brescia, Firenze, Frosinone, Genova, Latina, Milano, Perugia, Rieti, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Verona e Viterbo. Questo livello di rischio riguarda le condizioni meteorologiche pericolose per la salute, non solo per le persone vulnerabili, ma anche per i soggetti sani. Le temperature previste variano tra i 34°C di Milano e i 38°C di Firenze. Si prevede che l’ondata di calore, causata da un anticiclone subtropicale, durerà almeno fino al 17-18 agosto.
Ieri, per il secondo giorno di fila, si sono tenute diverse manifestazioni in varie aree della Serbia, che hanno portato a scontri tra la polizia e i dimostranti. Nella capitale Belgrado, i manifestanti si sono radunati vicino alla piazza del parlamento, ma sono stati fermati dalla polizia, che avrebbe usato gas lacrimogeni per disperderli. A Kraljevo, si sono verificati scontri tra manifestanti antigovernativi e sostenitori del presidente Vucic, che la polizia avrebbe provato a sedare separando i gruppi. Scontri anche nella stessa Novi Sad, città da cui è partita la mobilitazione, dove i gruppi pro-Vucic avrebbero lanciato petardi contro quelli antigovernativi.
Una misteriosa azienda italiana è legata a un progetto plurimiliardario per costruire una cittadella futuristica in un quartiere di Damasco. Si tratta di Ubako-I SRL, che ha firmato un memorandum con il governo siriano per sviluppare il piano Damascus Towers City, dal valore di 2,5 miliardi di euro. Un progetto mastodontico, la “Damasco due” del futuro: 60 torri alte fino a 45 piani, campi sportivi, zone commerciali, alberghi e ventimila appartamenti. Ma a costruirlo sarebbe una Srl con sede in un anonimo palazzo di Milano, un solo dipendente e un fatturato inferiore a quello della tabaccheria sotto casa: appena duecentomila euro. Come è possibile che una realtà del genere abbia vinto l’appalto per costruire la nuova Damasco? Per provare a capirlo ci siamo imbattuti in sedi inesistenti, persone inventate a capo della società e soci dell’azienda dei quali l’unica traccia è la partecipazione a una puntata nel programma tv Sos Tata.
Di Ubako-I non si sa apparentemente niente. Tutto ciò che è noto è che è stata fondata a Milano nel 2022, anno in cui risulta avere fatturato 209.007 euro, con un utile di 3.316 euro in negativo. Nel 2025, il suo capitale sociale è di 16.000 euro, e ha un solo dipendente. L’azienda ha creato profili sulle piattaforme social Instagram e Facebook solo qualche ora dopo l’annuncio del memorandum; accanto a esse, sono comparse analoghe pagine arabe dell’azienda siriana coinvolta con gli stessi nome e logo, e omologa ragione sociale. Se si cerca il nome di Ubako sul motore di ricerca di Google i primi risultati – non viziati dai cookie – corrispondono a una stazione funicolare giapponese. L’azienda, insomma, sembra comparire dal nulla.
Scavando nei meandri del web, però, siamo riusciti a scovare il suo sito. Questo risulta creato nel maggio del 2025, e mostra un’azienda attiva prevalentemente nella produzione di ascensori di lusso e nella fornitura di materiali. Il sito fa due nomi che ci pare di avere già sentito: Giovanni Rossi e Alessia Conti, rispettivamente amministratore delegato e capa operativa. Cercandoli, si trovano, come prevedibile, miriadi di persone diverse; nessuna di loro, però, sembra collegata a Ubako-I. Il sito dell’azienda, tuttavia, rimanda alla pagina Facebook personale di un uomo chiamato Bassam Al Sabea, senza immagine profilo che scrive solo in arabo. Bassam sostiene di essere un costruttore con aziende negli Stati Uniti e in Libano. Ha condiviso il rendering del progetto e, intervistato da un’emittente siriana, viene presentato come il «direttore dell’italiana Ubako». Lo stesso Bassam descrive Ubako-I come «parte di un consolidato gruppo di aziende fondato nel 1892 a Milano, in Italia», il cui «fatturato annuo è stimato in decine di miliardi di euro».
Il momento dell’annuncio del memorandum con il governo siriano (Bassam è l’individuo all’estrema sinistra).
In uno scenario tanto surreale, sono parecchie le cose che non tornano; sembra che lo abbiano notato anche gli utenti siriani dei social, che nei commenti sotto i post di Bassam hanno iniziato a premere sul costruttore, chiedendo spiegazioni. Per diradare la nebbia, abbiamo provato a raggiungere i contatti forniti da sito e piattaforme dell’azienda. Cercando risposte, però, sono solo sbocciate nuove domande: abbiamo chiamato il numero italiano da tre recapiti diversi, ma tutto ciò che abbiamo ottenuto subito dopo esserci presentati è stato un fermo «non sono interessato». Il numero siriano, invece, non ci ha nemmeno risposto, e come esso la mail aziendale. Decisi a trovare risposte, ci siamo diretti di persona presso la sede dell’azienda che però risultava una mera sede di rappresentanza.
Dopo due giorni di ricerca a vuoto, abbiamo optato per l’unica strada rimasta: scaricare la visura camerale della società. Abbiamo scoperto che Ubako-I è di proprietà di due uomini, entrambi nati nel 2002: Fayez Al Sabea, che detiene la quasi totalità delle quote, ed Edoardo Zaccour, che possiede solo l’1% del capitale; di Giovanni Rossi, neanche l’ombra. Il cognome del primo ci ha subito fatto pensare a Bassam; siamo riusciti a trovarlo e abbiamo provato a metterci in contatto con lui, ma per l’ennesima volta non abbiamo ottenuto alcuna risposta. Abbiamo dunque cercato Zaccour, che, nonostante il nome singolare, non sembrava avere lasciato tracce sul web. Siamo però approdati a SOS Tata: l’unico indizio che rimandasse a una persona col suo nominativo era infatti una puntata del noto show televisivo, risalente al 2005. Il bambino della puntata, all’epoca, aveva proprio 3 anni. In un misto di nostalgia e disorientamento, abbiamo guardato l’episodio: il padre del bambino, Mario Zaccour, risultava lavorare in aziende specializzate nella fornitura di ascensori, uno dei settori principali in cui Ubako-I sostiene di operare. Abbiamo deciso di contattarlo.
Mario, finalmente, ci ha fornito qualche chiarimento: Fayez Al Sabea è il figlio di Bassam Al Sabea, arrivato in Italia per studiare ingegneria civile all’università. Mario e Bassam si conoscono da diversi anni, perché hanno collaborato in passato nello sviluppo di alcuni progetti, per cui Mario ha fornito ascensori. All’epoca dell’arrivo di Fayez in Italia, Mario era stato contattato dal suo amico di lunga data per dare una mano al figlio a sistemarsi. Mario ci ha comunicato di non sapere niente né del progetto attivo in Siria, né del coinvolgimento di Edoardo nella costituzione di Ubako-I, che credeva essere registrata con il solo nome di Fayez. Edoardo, secondo la spiegazione fornitaci dal padre, sembrerebbe essere stato utilizzato come secondo prestanome per la creazione della società italiana, così da fornirle una parvenza più “reale”.
I chiarimenti fornitici da Mario rispecchiano in parte una spiegazione fornita da Bassam agli utenti Facebook, arrivata dopo le incessanti richieste: «Il quadro giuridico di Ubako-I è concepito per garantire la flessibilità necessaria per stipulare accordi con aziende e governi al di fuori dell’Unione Europea, come il governo siriano e altri, nel rispetto delle leggi internazionali ed evitando la trappola delle sanzioni economiche imposte a determinati Paesi. Questa struttura giuridica consente al gruppo di assicurarsi ampi mercati di esportazione per i suoi prodotti al di fuori dell’Unione Europea, senza alcun impatto sulla società madre». Secondo le stesse parole di Bassam, insomma, Ubako-I fa parte di un sistema di scatole di rappresentanza fatto apposta per accedere alle offerte di diversi Paesi; se Bassam suggerisce tra le righe che a essere a capo del sistema vi sia la divisione italiana, però, i dati camerali dell’azienda suggeriscono il contrario, ossia che essa sia una delle scatole vuote piuttosto che il vertice della catena.
A confermarlo è arrivato lo stesso Mario: Fayez «non fa niente», ci ha detto. «Tutto ruota attorno a Bassam», che tra l’altro, al contrario di quanto egli sostenga, non avrebbe mai avuto alcun rapporto con aziende o finanziatori italiani; non possiamo verificare questa informazione, ma va sottolineato che cercando il nome di Bassam su internet (tanto traslitterato in diversi modi, quanto scritto in arabo), non si trova nulla che lo colleghi a delle aziende italiane diverse da Ubako-I. Ubako-I, secondo Mario, sarebbe stata costituita per partecipare ai bandi siriani più facilmente accessibili alle aziende estere, specialmente se europee. Nel progetto Damascus Towers City, inoltre, l’azienda costituirebbe un buon “volto” da mostrare al pubblico, essendo essa una ditta straniera di un Paese influente. Lo stesso progetto non è una novità: Damascus Towers City sarebbe stata pensata da Bassam nel 2010, sotto il regime del presidente Bashar al Assad. Pare che Bassam fosse addirittura riuscito a proporlo e ad arrivare a un accordo preliminare; alla fine, però, si risolse tutto in un nulla di fatto.
Nonostante le spiegazioni di Mario L’Indipendente rispecchino in parte quella rilasciata pubblicamente da Bassam, resta da comprendere per quale motivo sia stata coinvolta una società di rappresentanza italiana. Ad alimentare i dubbi è giunto – di nuovo – lo stesso Bassam, con un altro post su Facebook. Il costruttore sostiene di avere «un piano di finanziamento» integrato basato sul mercato finanziario italiano, sulle già citate aziende plurimiliardarie italiane (che Bassam sostiene di rappresentare «da oltre trent’anni») e sul «sostegno della Fondazione Nazionale Italiana Garanzia dell’Export, che fornirà garanzie per prestiti per favorire l’esportazione di prodotti italiani all’estero». Quello alla «Fondazione» è un chiaro riferimento a SACE, gruppo assicurativo-finanziario italiano per il sostegno alle imprese, sotto diretto controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Bassam, insomma, Damascus Towers City avrebbe il sostegno di un’agenzia ministeriale. Abbiamo immediatamente scritto a SACEper chiedere chiarimenti, ma i ritmi estivi degli uffici ministeriali non ci sono stati di aiuto.
Un estratto del rendering del progetto.
A fornire una spiegazione è arrivato, inaspettatamente, Fayez, che ha preferito parlare per iscritto. Le domande principali che gli abbiamo posto erano quattro: che ruolo svolge Ubako-I nel progetto? Di chi parla Bassam quando si riferisce a un presunto «consolidato gruppo di aziende» multimiliardarie risalente al 1892? C’è davvero un accordo con SACE? Chi è Giovanni Rossi? Fayez, dopo giorni passati a spiegarci il progetto, gli ideali delle torri farfalla, e il funzionamento del memorandum (che da quanto ci comunica sarebbe stato siglato con Ubako Siria come appaltatore principale), ci ha parlato del suo “piano di finanziamento”: dopo avere ottenuto il terreno dal governo, Ubako Siria effettuerebbe i lavori iniziali per lo sviluppo della cittadella (a spese proprie), per poi aprire le sottoscrizioni degli appartamenti ai futuri cittadini con acconti compresi tra il 10% e il 15% del valore degli immobili e il resto della cifra rateizzabile in cinque anni.
A quel punto i fondi che proverrebbero da chi ha comprato gli appartamenti verrebbero messi in un conto vincolato congiunto tra l’azienda e il governo siriano, che permetterebbe l’utilizzo dei fondi solo mediante la firma di entrambe le parti; tali fondi, assicura Fayez, verrebbero spesi solo per costruire e per chiedere alle banche l’emissione di lettere di credito verso i possibili fornitori italiani. Tra questi ultimi figurerebbero le solite aziende miliardarie per cui Bassam avrebbe svolto ruoli di «agente esclusivo per la Siria», e con cui intratterrebbe relazioni di stretta amicizia. Passato un anno o costruiti cinque piani di una delle torri, Ubako-I si trasformerebbe in SPA, puntando a raggiungere la soglia valoriale di un miliardo di euro. Le azioni della società verrebbero usate come ulteriore garanzia, e ove fosse necessario, si chiederebbero a SACE ulteriori garanzie. Il ruolo di Ubako-I, invece, appare poco chiaro: nella sostanza, l’azienda farebbe da ponte con le imprese italiane che investono e forniscono materiale.
Il piano descritto da Fayez, che egli, come Bassam, dice essere pronto a venire realizzato «immediatamente», è estremamente generico e controverso, e le risposte alla maggior parte dei nostri dubbi lo sono state allo stesso modo. Le quattro domande principali, tuttavia, inoltrate più volte nell’arco di svariati giorni, sono rimaste inevase: dei presunti rapporti da «agente» di Bassam con le multinazionali italiane e del consorzio 1892, di cui non figura alcuna traccia sul web, non è stato fornito alcun chiarimento esplicito; di accordi vigenti con SACE, neanche (anche se sembra implicito che non ve ne sia nessuno); il ruolo di Ubako-I, invece, viene relegato a quello di procurement hub e di finanziatore sul mercato secondo un non meglio precisato piano per trasformarla in SPA che la coinvolgerebbe dopo almeno un anno, tempistica che non spiega per quale motivo sia stata inclusa nel memorandum. Nei giorni, Fayez non ci ha parlato del suo effettivo ruolo nell’azienda, in che termini egli sia coinvolto e come partecipi effettivamente al progetto, senza chiarire se il suo ruolo sia effettivo o paragonabile a quello di un prestanome. Come se ciò non bastasse, dopo oltre una settimana di ricerche, non abbiamo ancora sentito il nome di Giovanni Rossi.
L’Estonia ha espulso un diplomatico russo per «violazioni delle sanzioni» e «crimini contro lo Stato». A dichiararlo è stato il ministero degli esteri del Paese, ripreso dallo stesso ministro. A venire espulso è quello che viene definito «Primo Segretario dell’ambasciata» russa a Tallinn, dichiarato persona non grata. Secondo quanto comunica il ministro, il diplomatico sarebbe stato coinvolto in «tentativi diretti e attivi di minare l’ordine costituzionale dell’Estonia» e di «interferire negli affari interni» del Paese.
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