sabato 10 Maggio 2025
Home Blog Pagina 8

“Il seminatore”, una poesia di Humberto Ak’abal (1998)

0

Muore la sera ingoiandosi
l’ultimo sguardo del giorno.

Il seminatore
appende la sua bisaccia di speranze
al corno di cervo
che ha inchiodato alla parete.
Si siede a sognare, a seminare
sogni nel sogno.

A guardare nell’oscurità
le sue illusioni.

E se ne va volando, volando
come un clarinero,
o come il canto di un tulul.

Si sveglia.
La notte se n’è andata.

Si rimette in spalla la sua bisaccia.

Il poeta è guatemalteco, di etnia quiché come Rigoberta Menchú, appartiene alla tradizione maya. E Rigoberta, premio Nobel per la Pace, 1992, così descrive la semina come una cerimonia nella sua comunità. «È questa una festa speciale, in cui vengono evocati anche la terra, la luna, il sole, gli animali che devono contribuire tutti, assieme alla semente, a darci da mangiare. I membri della famiglia recitano delle preghiere e promettono che non sprecheranno questo cibo. Poi, il giorno successivo, tutti quanti si dan la voce per andare a seminare» (E. Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchú, Giunti 1987, pp. 67-69).

Una volta seminato il mais, i fagioli e le patate, bisogna sorvegliare ogni notte che gli scoiattoli e gli altri animali selvatici non vengano a portarsi via i semi.

Ecco dunque che la notte, come scrive il poeta, è il tempo del sogno di un grande raccolto, perché, come scrive Rigoberta, il mais è il centro di tutto, «è la nostra cultura». E il mais, che è coltura e cultura, va sorvegliato sempre: anche quando spuntano le prime foglie, che sono oggetto, di altri gesti rituali, bisogna stare attenti perché gli uccelli non mangino le gemme.

Anche la poesia è un gesto rituale. I contadini maya chiedono alla terra il permesso di coltivare, di sfruttarla, così da potersi mantenere in vita, e il poeta, dal canto suo, si incarica di mantenere in vita i sogni suoi e le tradizioni millenarie del suo popolo: «Anche i sentieri ci insegnano qualcosa. Un sentiero vecchio resta per sempre un sentiero, che riassume in sé tutta la storia di coloro che vi sono transitati», scrive Rigoberta in un altro suo libro, dove impietosamente rileva che «le Nazioni Unite dovrebbero essere l’organismo di elezione per risolvere i problemi. Ma il fatto è che le vittime hanno non poche difficoltà ad accedervi» (Rigoberta, i Maya e il mondo, Giunti 1997, p.207 e 209).

Così il sogno di un poeta e di una scrittrice ambasciatrice di pace diventa il sogno di un popolo, quel popolo sterminato dagli squadroni della morte e che, nonostante questi orrori, continua a credere che l’intero universo non vada violato e che nessuno possa «comprare e vendere l’aria, la vita, e che questo non si possa fare con moltissime altre cose».

In Italia il giornalismo non se la passa bene

2

Come ogni anno, nella giornata della libertà di stampa arriva puntuale la classifica mondiale di Reporter Sans Frontieres (Reporter Senza Frontiere, RSF), che stila la lista dei Paesi in base al grado di tutela della libertà di informazione. Quest’anno, in un generico contesto di peggioramento globale, l’Italia scivola al 49° posto, tra le peggiori in Europa, complice una classe politica che cerca di «ostacolare la libera informazione» con provvedimenti quali la cosiddetta “legge bavaglio” e un gran numero di procedure SLAPP (azioni strategiche volte a reprimere il dibattito pubblico). Seppure questo sia vero, la classifica si sofferma di nuovo su criteri del tutto parziali, incapace di individuare le cause profonde della crisi dell’informazione (basti pensare che quest’anno, come l’anno scorso e quello prima ancora, tra le principali minacce per l’Italia vi sono ancora i no vax).

Il rapporto di RSF cita il fatto che in Italia esiste un «panorama mediatico ben sviluppato», con «un’ampia gamma di media che garantiscono una diversità di opinioni». Una diversità che «si riflette anche nella carta stampata», che «comprende una ventina di quotidiani (Corriere della Sera, La Repubblica, ecc.), una cinquantina di settimanali (L’Espresso, Famiglia Cristiana, ecc.), oltre a numerose riviste e siti web di informazione». Quello che il rapporto non dice, tuttavia, è che si tratta di una diversificazione solo apparente, in quanto la quasi totalità delle testate più diffuse appartiene a una manciata di gruppi editoriali, a loro volta alle dirette dipendenze di un certo numero di aziende. Solo in chiusura, si fa un rapido accenno al fatto che «i media dipendono sempre più dagli introiti pubblicitari e da eventuali sovvenzioni pubbliche».

Peccato che il problema delle sovvenzioni private sia uno dei più grandi ostacoli all’esercizio di un giornalismo che possa chiamarsi tale. Il fenomeno ha raggiunto in Italia picchi tali da portare le stesse redazioni a ribellarsi contro i propri dirigenti. È stato il caso di Repubblica di qualche mese fa, quando lo stesso Comitato di redazione denunciò la pubblicazione, dietro lauto compenso, di contenuti pressochè dettati dalle aziende e spacciati come giornalistici (l’insofferenza verso Molinari da parte dei suoi stessi dipendenti lo portò ad essere poco dopo silurato dalla direzione del giornale). La manipolazione delle notizie a scopi politici è una costante dell’informazione degli ultimi anni, particolarmente evidente quando si parla di guerra in Ucraina o di aggressione militare israeliana a Gaza (dalle bufale sugli attacchi alle sinagoghe alle innumerevoli fake news sull’esercito russo, passando per la distorsione dei sondaggi e, quando non si riesce a fare di meglio, l’omissione vera e propria – ricordiamo un Mentana balbuziente che non riesce a pronunciare le parole “coloni israeliani” in diretta tv?). Il tutto a scapito della deontologia e dell’onestà intellettuale, che dovrebbero essere la base di questa professione.

Un esempio di tutto ciò lo abbiamo fornito nemmeno 12 ore fa: nel pomeriggio del 30 aprile, a seguito degli incendi che si sono propagati intorno alla città di Gerusalemme, la quasi totalità dei quotidiani italiani ha rilanciato la notizia (falsa) secondo la quale Hamas avrebbe incitato i palestinesi a «bruciare tutto». Una lettura diffusa dai media di informazione israeliani e ripresa acriticamente dai nostri quotidiani, che si sono ben guardati dall’esercitare il dovuto lavoro di verifica.

Se è vero, poi, che il governo Meloni ha messo in atto una serie di provvedimenti che limitano la libertà dei giornalisti di esercitare la propria professione (quali la citata “legge bavaglio”), il rapporto RSF non fa alcun riferimento al fatto che l’esecutivo abbia posto il segreto di Stato sul caso Paragon, il software militare israeliano dal quale un numero crescente di giornalisti ed esponenti della società civile hanno denunciato di essere stati spiati. Pur ammettendo l’esistenza di un legame contrattuale tra l’impresa israeliana e lo Stato, il governo ha risposto solamente con mezze verità, decidendo infine di trincerarsi dietro l’assoluto silenzio. La Federazione nazionale della Stampa italiana (Fnsi) e l’Ordine nazionale dei giornalisti hanno entrambe avviato una denuncia contro ignoti presso la Procura di Roma.

Insomma, i problemi che affliggono la stampa italiana sono ben più complessi, strutturali e profondi rispetto a quanto emerge dalla superficiale analisi di RSF, che sembra appellarsi più a problemi di allineamento politico. In fondo, basta osservare come sono distribuiti i colori sulla cartina per farsi venire qualche dubbio: ancora una volta, tutto ciò che non si trova allineato con le posizioni occidentali (quindi tutta la parte orientale della cartina, più Venezuela, Nicaragua, Honduras e, naturalmente, Cuba) è colorato di rosso – salvo qualche piccola eccezione. E il fatto che gran parte delle sovvenzioni all’organizzazione provengano dagli Stati Uniti, da grandi società con interessi e da enti statali potrebbe fornire una spiegazione più che sufficiente.

Siria, raid israeliani su tutto il Paese: morto un civile

0

Otre 20 raid dell’esercito israeliano hanno preso di mira stanotte siti militari in tutta la Siria. Lo ha reso noto l’Osservatorio siriano per i diritti umano, che ha parlato degli «attacchi più violenti dall’inizio dell’anno». L’esercito israeliano ha annunciato di avere colpito un’infrastruttura militare. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale siriana Sana, un civile è rimasto ucciso negli attacchi. I raid sono avvenuti dopo sanguinosi combattimenti nei pressi di Damasco e nel sud del Paese, al confine con Israele, che hanno coinvolto combattenti della minoranza drusa, supportati da Tel Aviv.

Irlanda, multa da 530 milioni a TikTok

0

La Commissione irlandese per la protezione dei dati (DPC) ha annunciato una multa di 530 milioni di euro a TikTok. L’indagine della DPC è stata avviata per «esaminare la liceità dei trasferimenti da parte di TikTok di dati personali», si legge in un comunicato rilasciato dalla stessa Commissione, e intendeva verificare se la fornitura di informazioni agli utenti in relazione a tali soddisfacesse i requisiti di trasparenza previsti dal Paese. TikTok ha dichiarato di rigettare la decisione della Commissione, annunciando un ricorso.

No, Hamas non ha incitato i palestinesi a “bruciare Gerusalemme”

0

Il pomeriggio di mercoledì 30 aprile, sulle alture attorno a Gerusalemme si è diffuso un vastissimo incendio che ha interessato un’area di almeno 2.000 ettari e provocato il ferimento di almeno 29 persone. Le fiamme hanno costretto le autorità israeliane a evacuare tre autostrade e oltre 7.000 persone dalle proprie case, a mobilitare 119 squadre di vigili del fuoco e 12 aerei, a dichiarare l’emergenza nazionale e a chiedere il supporto degli alleati internazionali. La notizia non è tardata ad arrivare anche in Italia: Allarme incendi a Gerusalemme. E Hamas chiama la jihad dei roghi: “Bruciate le case, ha titolato il Giornale; Brucia Israele, Hamas minaccia: «Incendiate tutto, boschi e case», l’Avvenire. Insomma, per i giornali italiani è tutto chiaro: Hamas avrebbe incitato i palestinesi a insorgere e bruciare la propria stessa terra, e sfruttato, se non addirittura provocato, lo scoppio dell’incendio per danneggiare Israele. Un’interpretazione, come prevedibile, lanciata e diffusa dai media israeliani, che i nostri giornali hanno preferito prendere per vera piuttosto che esercitare il dovuto lavoro di verifica.

La notizia del presunto appello a «bruciare tutto» di Hamas è stata lanciata dal Jerusalem Post con un articolo uscito alle 16:55 del 30 aprile e aggiornato alle 18:40 dello stesso giorno. Il JP scrive che «mercoledì Hamas ha pubblicato su Telegram un messaggio che incoraggia i palestinesi a “bruciare tutto ciò che possono di boschi, foreste e case dei coloni”». Precedentemente, sostiene il JP, «in un post su Telegram, il canale Telegram della Jenin News Network aveva invitato i palestinesi a “bruciare gli alberi vicino agli insediamenti”». L’appello sarebbe arrivato attraverso una serie di messaggi, un video e una immagine-manifesto entrambi di origine chiaramente grafica. Quest’ultimo dettaglio relativo alla locandina non è stato riportato da nessun quotidiano italiano, neanche da quelli che riprendono l’immagine senza mostrarla ai lettori descrivendola con formule a tratti fuorvianti: è il caso per esempio di Libero e il Tempo, che scrivono – usando le stesse parole – che «nel post è stata anche pubblicata la foto di una persona mascherata che appicca il fuoco a un campo».

Le parole del JP sono state riprese dalla quasi totalità della stampa italiana, nella maggior parte dei casi senza effettuare alcuna verifica. Nel suo articolo, L’Avvenire scrive che il messaggio su Telegram sarebbe comparso «nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme». Anche Sky tg24il Corriere della Sera, il Tempo, Libero, e diversi altri spiegano, usando su per giù le stesse parole, che «l’incendio è scoppiato in concomitanza» con un appello di Hamas, mentre il Messaggero e l’Huffington Post sostengono che l’appello sarebbe stato lanciato prima dei roghi: «l’appello di Hamas sui social prima dei roghi», titola il primo; «“Bruciate tutto”. la minaccia è stata seguita», il secondo.

La questione della coincidenza degli orari è stata, nella migliore delle ipotesi, frutto di una libera interpretazione dei redattori che si sono occupati degli articoli. Lo stesso articolo del JP ripreso da quasi tutte le testate italiane, infatti, sottolinea come «gli incendi boschivi sono scoppiati mercoledì mattina sulle colline della Giudea». I post incriminati di Jenin News, tuttavia, sono usciti alle 15:12 (il video) e alle 15:22 (l’immagine), e lo stesso canale riportava la prima notizia sull’incendio alle 10:30. I pochi che hanno notato il problema cronologico hanno comunque dato per certa la notizia del JP e hanno addossato ad Hamas la responsabilità di avere «approfittato» delle fiamme per lanciare gli appelli: Israele, incendi intorno Gerusalemme. Hamas ne approfitta e lancia l’appello: “Bruciate tutto”, titola per esempio La Repubblica.

I vari messaggi di incitamento a bruciare le colline attorno a Gerusalemme provengono dalla stessa Jenin News, che malgrado quanto sostengono alcune testate, come per esempio Today, non è affiliata ad Hamas, e da altri canali di informazione palestinesi anch’essi svincolati dai vari gruppi palestinesi. La foto e il video postati da Jenin News che hanno fatto tanto discutere la stampa italiana, invece, sono stati originariamente diffusi da un canale privato denominato al-Mutarad (traducibile in italiano con Il Fuggitivo) che ha condiviso i file rispettivamente alle 14:07 e alle 14:11. Neanche questo, contrariamente a quanto sostenuto da molti, risulta legato ad Hamas. Sui canali che invece sono realmente gestiti o affiliati alla firma palestinese, non compare alcun appello, e i media del gruppo palestinese si limitano a dare la notizia dell’incendio.

Hamas, insomma, non ha lanciato nessun appello a bruciare Gerusalemme, e la notizia che sarebbe all’origine degli incendi non poggia su alcuna fonte  attendibile. La causa dello scoppio dei roghi risulta infatti ancora ignota. Una fonte di sicurezza israeliana, tuttavia, ha rivelato al quotidiano israeliano Haaretz che a iniziare gli incedi sarebbero stati gli stessi coloni israeliani. Questa notizia non è verificabile, ma va sottolineato che, se fosse vera, non costituirebbe il primo episodio in cui i cittadini israeliani danno fuoco ai campi palestinesi. Articoli e inchieste giornalistici, rapporti di ONG, studi di movimenti, monografie specializzate, bollettini di istituzioni internazionali, e numerose altre analisi testimoniano infatti che una delle pratiche coloniali comuni in Palestina è proprio quella di dare fuoco ai campi dei palestinesi per espropriare i terreni alla popolazione araba e trapiantarvi flora non autoctona. Lo stesso Jewish National Fund (JNF), che possiede circa il 13% di tutto il territorio israeliano e si occupa della flora locale, ammette che alcuni degli alberi piantati dall’organizzazione non sono autoctoni. Questi, tra l’altro, sono particolarmente sensibili ai climi caldi della Palestina, fattore che li rende soggetti al rischio di incendi.

Ucraina: l’accordo con Trump sulle terre rare torna ad alimentare il conflitto

3

Dopo mesi di trattative, l’Ucraina e gli Stati Uniti hanno siglato il cosiddetto accordo sulle terre rare che, oltre a risarcire Washington per gli aiuti finanziari forniti finora a Kiev, cambia radicalmente il modo di gestire il conflitto da parte dell’amministrazione Trump. Se finora, infatti, il presidente statunitense aveva sospeso gli aiuti militari all’Ucraina per dare più spazio alle trattative diplomatiche tra Kiev e Mosca, lo stesso giorno della firma dell’intesa, il capo della Casa Bianca ha dichiarato al Congresso di voler autorizzare l’esportazione di prodotti per la difesa all’ex Paese sovietico attraverso vendite commerciali dirette di 50 milioni di dollari o più, come riferito dal Kiev Post. Dopo lo stallo delle trattative con la Russia e le difficoltà incontrate per conciliare le posizioni dei due Stati belligeranti, riprendono così le forniture d’armi a Kiev, non più sotto la forma degli aiuti, bensì in cambio dell’utilizzo di risorse minerarie. Ciò significa che Washington di fatto torna ad alimentare il conflitto che Trump aveva dichiarato di voler chiudere nel minor tempo possibile dal momento del suo ritorno al governo: l’autorizzazione all’esportazione di armi, infatti, è la prima da quando il tycoon è tornato in carica.

Il Consigliere per la Sicurezza nazionale USA, Marco Rubio, ha comunque precisato che gli Stati Uniti non hanno intenzione di rinunciare a risolvere il conflitto in Ucraina, sottolineando però che «questioni più importanti stanno accadendo in tutto il mondo» e gli Stati Uniti devono decidere quanto tempo dedicare alla questione russo-ucraina. Tradotto, Washington avrebbe problemi più importanti da affrontare, in primis quelli economico-commerciali con la Cina. Nel frattempo, però, l’amministrazione Trump pare intenzionata a sfruttare il più possibile a suo favore le ricchezze dell’Ucraina: oltre a ottenere un risarcimento per i 350 miliardi di dollari spesi dagli Stati Uniti dall’inizio della guerra, infatti, l’accordo stipulato con Kiev garantisce alla potenza a stelle e strisce una corsia preferenziale per accedere alle risorse minerarie e ai progetti d’investimento in questo settore del Paese europeo. L’intesa ha istituito il “Fondo di Investimento per la Ricostruzione Usa-Ucraina” in cui Kiev verserà il 50% di tutti i proventi generati dalle nuove licenze per l’estrazione di minerali in nuove aree. Entrambi i Paesi avranno, inoltre, pari diritti di voto nella gestione del fondo. Il documento è stato stipulato a seguito dell’incontro in Vaticano tra Trump e il presidente ucraino Zelensky in occasione dei funerali del papa sabato scorso.

Secondo il Washington Post, che ha visionato una versione dell’accordo, l’Ucraina non è riuscita a ottenere garanzie di sicurezza esplicite nel contratto, ma il testo chiarisce comunque che gli Stati Uniti si impegnano a mantenere un “allineamento strategico a lungo termine” con Kiev e a e a creare “un’Ucraina libera, sovrana e prospera”. Secondo Scott Bessent, segretario al Tesoro USA, l’intesa «segnala chiaramente alla Russia che l’amministrazione Trump è impegnata in un processo di pace incentrato su un’Ucraina libera, sovrana e prospera a lungo termine». Nel comunicato del Tesoro americano si chiarisce anche che “a nessuno Stato o persona che abbia finanziato o fornito la macchina da guerra russa sarà consentito di beneficiare della ricostruzione dell’Ucraina”. Da parte sua, il ministro dell’Economia, Yulia Svyrydenko ha detto che l’intesa «riflette l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza, la ripresa e la ricostruzione dell’Ucraina» e che «Il documento può garantire successo a entrambi i paesi».

In termini economici e di risorse minerarie, l’accordo per ora potrebbe non soddisfare le aspettative dell’amministrazione americana, nonostante l’ottimismo di Trump: secondo alcuni esperti, infatti, dopo la guerra saranno necessari investimenti privati per sviluppare un settore devastato dal conflitto. Allo stesso tempo, si sottolinea anche come, al momento, lo sviluppo di un’industria mineraria legata al litio – minerale di cui l’Ucraina è ricca – non esista fuori dalla Cina. Creare da zero tale settore richiederebbe ingenti investimenti. Nonostante il nome dell’accordo faccia riferimento solo alle terre rare, in realtà nel documento stipulato tra Washington e Kiev sono compresi anche minerali e giacimenti di idrocarburi. Kiev possiede il 6% delle risorse globali di grafite, l’1- 2% di quelle di litio, l’1% di quelle di titanio e il 2-4% delle risorse di Uranio. Per quanto riguarda le terre rare, nel sottosuolo ucraino sono presenti il lantanio e il cerio. Bisogna però considerare che in seguito alla conquista da parte di Mosca della parte orientale dell’Ucraina, circa il 40% delle risorse metalliche del Paese è ora sotto il controllo russo: la Nazione eurasiatica ha occupato almeno due giacimenti di litio, uno a Donetsk e un altro nella regione di Zaporizhia, nel sud-est. Kiev controlla ancora i giacimenti di litio nella regione centrale di Kyrovohrad.

Se da un lato, dunque, non è garantito un ritorno in termini economici in tempi rapidi, dall’altro Washington sembra avere fatto retromarcia circa la volontà di portare a termine i negoziati, tornando, al contrario, ad alimentare la guerra attraverso la vendita di prodotti bellici all’ex Stato sovietico. Se continuare a fornire armi all’Ucraina non cambierà i risultati sul campo, può in ogni caso contribuire a logorare la capacità difensiva, l’economia e il morale della Russia. Inoltre, causerà altre vittime militari e civili da una parte e dall’altra, mentre gli Stati Uniti sono impegnati a ottenere il massimo profitto possibile.

Project Kuiper: Bezos sfida Musk per il controllo di internet satellitare

1

Jeff Bezos ha lanciato nell’orbita bassa terrestre il primo lotto di satelliti del suo Project Kuiper, il quale mira a competere con la rete Starlink di Elon Musk per la diffusione di internet. Il progetto intende creare una massiccia costellazione di satelliti, che si va ad aggiungere ai 6 mila già in orbita di proprietà di Musk – il quale dispone di 5 milioni di clienti in tutto il mondo. Il lancio costituisce una delle ormai innumerevoli contraddizioni che segnano la narrazione di queste aziende, che da un lato si ergono a protettrici dell’ambiente (si pensi al Bezos Earth Fund, che vuole «combattere il cambiamento climatico» e  «proteggere la natura»), dall’altro lo devastano tramite il lancio di razzi spaziali enormemente inquinanti.

Sono 27 i satelliti di Project Kuiper che sono decollati in cima a un razzo Atlas V dalla Cape Canaveral Space Force Station, in Florida. Il razzo è stato costruito dalla United Launch Alliance, una joint venture tra Lockheed Martin Space and Boeing. «Questa è una pietra miliare importante per il Progetto Kuiper e un entusiasmante passo avanti nella missione di Amazon di chiudere il divario digitale globale», ha affermato Rajeev Badyal, vicepresidente del Progetto Kuiper. Come spiegato sul sito di Amazon, Project Kuiper è un’iniziativa che mira ad aumentare l’accesso globale alla banda larga attraverso una costellazione di oltre 3.000 satelliti posizionati nell’orbita terrestre bassa. Project Kuiper ha già prenotato almeno 80 lanci da condurre, oltre che con Blue Origin dello stesso Bezos, con diverse aziende aerospaziali. Tra queste vi sono United Launch Alliance, Arianespace e persino SpaceX del rivale Musk. Project Kuiper combina una costellazione satellitare in orbita terrestre bassa con terminali di una rete globale di stazioni di terra e un’infrastruttura di comunicazione alimentata da Amazon Web Services (AWS).

Oltre alla competizione nel settore dell’internet satellitare, dove Musk è in netto vantaggio con il suo sistema Starlink, Bezos è in competizione con il fondatore di SpaceX anche nel settore aerospaziale, con la sua compagnia Blue Origin. L’ultimo lancio dell’azienda ha peraltro fatto molto discutere. Lo scorso 14 aprile, infatti, un equipaggio composto da donne miliardarie (tra i quali la cantante Katy Perry e la compagna di Bezos, Lauren Sánchez) è stato mandato nello spazio a bordo del razzo New Sheperd, di proprietà di Blue Origin. Durato appena pochi minuti, con un costo di centinaia di migliaia di dollari ed emissioni pari a 75 tonnellate di CO2, il viaggio è stato un mix perfetto di pinkwashing (ovvero di tentativo di mascherare con retoriche falsamente femministe la promozione commerciale dell’azienda) e devastazione ambientale.

Evidentemente, attività come questa stridono con la retorica di filantropia ambientale dietro la quale queste aziende cercano di nascondersi. La corsa alla conquista dello spazio e alla privatizzazione dell’orbita terrestre è infatti caratterizzata da un enorme dispendio di energia, oltre che dalla produzione di grandi quantità di CO2 e altre sostanze inquinanti – che i miliardari stessi dicono di voler contribuire a limitare. «Jeff e Lauren stanno facendo la storia, non solo con la somma del loro investimento nella natura, ma anche con la sua velocità», ha detto il CEO di Conservation International, M. Sanjayan, quando nel maggio 2024 ha consegnato ai due coniugi il Global Vision Prize. Il riferimento era all’attività del loro fondo per il clima e la biodiversità da 10 miliardi di dollari, il Bezos Earth Fund. Lo stesso che, nel febbraio scorso, ha interrotto i finanziamenti a Science Based Targets, organizzazione che monitora la decarbonizzazione delle aziende, sulla scia del riallineamento dei miliardari alla nuova presidenza Trump. A sottolineare, insomma, che le dichiarazioni ambientaliste di questi magnati puzzano quanto la CO2 che i loro enormi razzi si lasciano dietro al decollo.

[di Michele Manfrin]

Germania, AfD è stato dichiarato un pericolo per la democrazia

0

Il partito tedesco di estrema destra Alternativa per la Germania è stato dichiarato una organizzazione estremista che mette in pericolo la democrazia. A inserirlo nella lista dei pericoli per la democrazia è l’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione – i servizi segreti del Paese – che ha indicato il partito come possibile causa di discriminazione verso alcune frange della popolazione. Alcuni rami di AfD, come la sua sezione giovanile, erano già stati denominati pericoli per la democrazia, ma tale indicazione non era mai stata estesa all’intero partito. Il nuovo status di AfD non ha conseguenze dirette, ma il Parlamento tedesco utilizzarlo per chiedere lo scioglimento del partito.

Altro che festa dei lavoratori: nel mondo aumentano solo gli stipendi dei top manager

1

Mentre in molti Paesi del mondo si è celebrata ieri la “Festa dei Lavoratori”, le statistiche sulla distribuzione della ricchezza fotografano una realtà in cui si ha ben poco da festeggiare. Secondo una recente analisi di Oxfam, infatti, tra il 2019 e il 2024 la retribuzione reale degli amministratori delegati è cresciuta del 50%, passando da 2,9 a 4,3 milioni di dollari. Parallelamente, nel medesimo arco temporale, il salario medio reale dei lavoratori nei Paesi monitorati è aumentato di appena lo 0,9%. Il risultato è che i compensi dei CEO sono cresciuti 56 volte più rapidamente rispetto a quelli dei lavoratori. Una sproporzione che, secondo Oxfam, fa apparire «grottesca» la narrativa ufficiale sul progresso economico.

Oxfam ha preso in esame le retribuzioni totali – inclusi bonus e stock option – di quasi 2.000 amministratori delegati in 35 Paesi. Tutti hanno guadagnato più di un milione di dollari nel 2024. I dati mostrano una crescita spaventosa ai vertici, con picchi in Europa: in Irlanda, la retribuzione mediana degli ad ha toccato i 6,7 milioni di dollari, in Germania 4,7 milioni. Anche in economie emergenti come Sudafrica e India le retribuzioni sono elevate, rispettivamente a 1,6 e 2 milioni di dollari annui. Nel frattempo, i miliardari, spesso azionisti principali delle grandi imprese, hanno visto la loro ricchezza aumentare in media di 206 miliardi di dollari nell’ultimo anno. Questo scollamento tra vertice e base si fa ancora più doloroso se si considera il dato dell’inflazione. Dopo due anni, 2022 e 2023, segnati da un’impennata dei prezzi, il potere d’acquisto è crollato per milioni di lavoratori a basso reddito. I costi, tra cui quelli per gli affitti, per il cibo e per le cure sanitarie, sono esplosi mentre le retribuzioni restavano al palo. E se nel 2024, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i salari reali sono cresciuti del 2,7% a livello globale, in molti Paesi – come Francia, Sudafrica e Spagna – l’aumento effettivo è stato di appena lo 0,6%. Troppo poco per recuperare le ingenti perdite degli anni precedenti.

Anche l’Italia, in questo quadro, si distingue in negativo. In seguito al crollo del potere d’acquisto provocato dalla fiammata inflattiva, nel 2024 i salari reali sono sì aumentati (+2,3%), ma la somma delle perdite dal 2008 a oggi parla chiaro: -8,7%. Se si considera solo il periodo 2019-2023 e si tiene conto dell’inflazione sui beni essenziali, la riduzione sfiora addirittura il 15%. Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia, ha commentato le statistiche affermando che fino ad oggi, nell’azione del governo italiano, «è del tutto mancata una chiara politica industriale, orientata alla creazione di posti di lavoro di qualità, che scommetta su innovazione, transizione verde e formazione, senza lasciare indietro nessuno». Oltre alla stagnazione salariale, persiste il divario retributivo di genere, sebbene leggermente diminuito (dal 27% al 22% in un anno). Su oltre 11mila aziende analizzate in 82 Paesi, solo il 7% ha una donna al vertice. A pesare sulle prospettive dei lavoratori ci sono ora anche i nuovi dazi statunitensi, che secondo l’organizzazione potrebbero determinare una contrazione dell’occupazione e un ulteriore aumento del costo dei beni di prima necessità, amplificando ancora di più le disuguaglianze.

Il quadro globale, insomma, è chiaro: la forbice tra i super-ricchi e il resto del mondo del lavoro si allarga. Un dato già ben delineato dal recente rapporto di Oxfam intitolato Takers, not Makers (letteralmente “coloro che predano, non coloro che producono”), in cui si è attestato come, nel 2024, la ricchezza dei miliardari sia cresciuta di duemila miliardi di dollari, pari a circa 5,7 miliardi di dollari al giorno, a un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente. Il report ha mostrato che, nonostante i tassi di povertà complessivi siano diminuiti nel mondo, il numero di persone che vivono nell’indigenza rimane invariato rispetto al 1990, rappresentando ancora il 44% della popolazione globale. Nel frattempo, l’1% delle persone più ricche possiede circa il 45% dell’intera ricchezza mondiale.

Saluti romani ad Acca Larentia, chiesto rinvio a giudizio per 31 persone

0

La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di 31 militanti di CasaPound che il 7 gennaio 2024, durante la commemorazione di Acca Larentia, eseguirono il saluto romano, violando le leggi Mancino e Scelba. Coordinati dal procuratore Francesco Lo Voi, i pm ritengono quella cerimonia una riproposizione della «liturgia delle adunanze usuali del disciolto partito fascista». Affidate a Digos e carabinieri, le indagini – concluse a dicembre – hanno identificato gli imputati attraverso l’analisi dei video che mostrano la «chiamata del presente». Il procedimento fu aperto alcuni giorni dopo l’adunata in una strada non lontana da via Tuscolana.