Ieri, per il secondo giorno di fila, si sono tenute diverse manifestazioni in varie aree della Serbia, che hanno portato a scontri tra la polizia e i dimostranti. Nella capitale Belgrado, i manifestanti si sono radunati vicino alla piazza del parlamento, ma sono stati fermati dalla polizia, che avrebbe usato gas lacrimogeni per disperderli. A Kraljevo, si sono verificati scontri tra manifestanti antigovernativi e sostenitori del presidente Vucic, che la polizia avrebbe provato a sedare separando i gruppi. Scontri anche nella stessa Novi Sad, città da cui è partita la mobilitazione, dove i gruppi pro-Vucic avrebbero lanciato petardi contro quelli antigovernativi.
Ubako-I: la misteriosa società italiana senza soldi che costruisce la Siria del futuro
Una misteriosa azienda italiana è legata a un progetto plurimiliardario per costruire una cittadella futuristica in un quartiere di Damasco. Si tratta di Ubako-I SRL, che ha firmato un memorandum con il governo siriano per sviluppare il piano Damascus Towers City, dal valore di 2,5 miliardi di euro. Un progetto mastodontico, la “Damasco due” del futuro: 60 torri alte fino a 45 piani, campi sportivi, zone commerciali, alberghi e ventimila appartamenti. Ma a costruirlo sarebbe una Srl con sede in un anonimo palazzo di Milano, un solo dipendente e un fatturato inferiore a quello della tabaccheria sotto casa: appena duecentomila euro. Come è possibile che una realtà del genere abbia vinto l’appalto per costruire la nuova Damasco? Per provare a capirlo ci siamo imbattuti in sedi inesistenti, persone inventate a capo della società e soci dell’azienda dei quali l’unica traccia è la partecipazione a una puntata nel programma tv Sos Tata.
Di Ubako-I non si sa apparentemente niente. Tutto ciò che è noto è che è stata fondata a Milano nel 2022, anno in cui risulta avere fatturato 209.007 euro, con un utile di 3.316 euro in negativo. Nel 2025, il suo capitale sociale è di 16.000 euro, e ha un solo dipendente. L’azienda ha creato profili sulle piattaforme social Instagram e Facebook solo qualche ora dopo l’annuncio del memorandum; accanto a esse, sono comparse analoghe pagine arabe dell’azienda siriana coinvolta con gli stessi nome e logo, e omologa ragione sociale. Se si cerca il nome di Ubako sul motore di ricerca di Google i primi risultati – non viziati dai cookie – corrispondono a una stazione funicolare giapponese. L’azienda, insomma, sembra comparire dal nulla.
Scavando nei meandri del web, però, siamo riusciti a scovare il suo sito. Questo risulta creato nel maggio del 2025, e mostra un’azienda attiva prevalentemente nella produzione di ascensori di lusso e nella fornitura di materiali. Il sito fa due nomi che ci pare di avere già sentito: Giovanni Rossi e Alessia Conti, rispettivamente amministratore delegato e capa operativa. Cercandoli, si trovano, come prevedibile, miriadi di persone diverse; nessuna di loro, però, sembra collegata a Ubako-I. Il sito dell’azienda, tuttavia, rimanda alla pagina Facebook personale di un uomo chiamato Bassam Al Sabea, senza immagine profilo che scrive solo in arabo. Bassam sostiene di essere un costruttore con aziende negli Stati Uniti e in Libano. Ha condiviso il rendering del progetto e, intervistato da un’emittente siriana, viene presentato come il «direttore dell’italiana Ubako». Lo stesso Bassam descrive Ubako-I come «parte di un consolidato gruppo di aziende fondato nel 1892 a Milano, in Italia», il cui «fatturato annuo è stimato in decine di miliardi di euro».

In uno scenario tanto surreale, sono parecchie le cose che non tornano; sembra che lo abbiano notato anche gli utenti siriani dei social, che nei commenti sotto i post di Bassam hanno iniziato a premere sul costruttore, chiedendo spiegazioni. Per diradare la nebbia, abbiamo provato a raggiungere i contatti forniti da sito e piattaforme dell’azienda. Cercando risposte, però, sono solo sbocciate nuove domande: abbiamo chiamato il numero italiano da tre recapiti diversi, ma tutto ciò che abbiamo ottenuto subito dopo esserci presentati è stato un fermo «non sono interessato». Il numero siriano, invece, non ci ha nemmeno risposto, e come esso la mail aziendale. Decisi a trovare risposte, ci siamo diretti di persona presso la sede dell’azienda che però risultava una mera sede di rappresentanza.
Dopo due giorni di ricerca a vuoto, abbiamo optato per l’unica strada rimasta: scaricare la visura camerale della società. Abbiamo scoperto che Ubako-I è di proprietà di due uomini, entrambi nati nel 2002: Fayez Al Sabea, che detiene la quasi totalità delle quote, ed Edoardo Zaccour, che possiede solo l’1% del capitale; di Giovanni Rossi, neanche l’ombra. Il cognome del primo ci ha subito fatto pensare a Bassam; siamo riusciti a trovarlo e abbiamo provato a metterci in contatto con lui, ma per l’ennesima volta non abbiamo ottenuto alcuna risposta. Abbiamo dunque cercato Zaccour, che, nonostante il nome singolare, non sembrava avere lasciato tracce sul web. Siamo però approdati a SOS Tata: l’unico indizio che rimandasse a una persona col suo nominativo era infatti una puntata del noto show televisivo, risalente al 2005. Il bambino della puntata, all’epoca, aveva proprio 3 anni. In un misto di nostalgia e disorientamento, abbiamo guardato l’episodio: il padre del bambino, Mario Zaccour, risultava lavorare in aziende specializzate nella fornitura di ascensori, uno dei settori principali in cui Ubako-I sostiene di operare. Abbiamo deciso di contattarlo.
Mario, finalmente, ci ha fornito qualche chiarimento: Fayez Al Sabea è il figlio di Bassam Al Sabea, arrivato in Italia per studiare ingegneria civile all’università. Mario e Bassam si conoscono da diversi anni, perché hanno collaborato in passato nello sviluppo di alcuni progetti, per cui Mario ha fornito ascensori. All’epoca dell’arrivo di Fayez in Italia, Mario era stato contattato dal suo amico di lunga data per dare una mano al figlio a sistemarsi. Mario ci ha comunicato di non sapere niente né del progetto attivo in Siria, né del coinvolgimento di Edoardo nella costituzione di Ubako-I, che credeva essere registrata con il solo nome di Fayez. Edoardo, secondo la spiegazione fornitaci dal padre, sembrerebbe essere stato utilizzato come secondo prestanome per la creazione della società italiana, così da fornirle una parvenza più “reale”.
I chiarimenti fornitici da Mario rispecchiano in parte una spiegazione fornita da Bassam agli utenti Facebook, arrivata dopo le incessanti richieste: «Il quadro giuridico di Ubako-I è concepito per garantire la flessibilità necessaria per stipulare accordi con aziende e governi al di fuori dell’Unione Europea, come il governo siriano e altri, nel rispetto delle leggi internazionali ed evitando la trappola delle sanzioni economiche imposte a determinati Paesi. Questa struttura giuridica consente al gruppo di assicurarsi ampi mercati di esportazione per i suoi prodotti al di fuori dell’Unione Europea, senza alcun impatto sulla società madre». Secondo le stesse parole di Bassam, insomma, Ubako-I fa parte di un sistema di scatole di rappresentanza fatto apposta per accedere alle offerte di diversi Paesi; se Bassam suggerisce tra le righe che a essere a capo del sistema vi sia la divisione italiana, però, i dati camerali dell’azienda suggeriscono il contrario, ossia che essa sia una delle scatole vuote piuttosto che il vertice della catena.
A confermarlo è arrivato lo stesso Mario: Fayez «non fa niente», ci ha detto. «Tutto ruota attorno a Bassam», che tra l’altro, al contrario di quanto egli sostenga, non avrebbe mai avuto alcun rapporto con aziende o finanziatori italiani; non possiamo verificare questa informazione, ma va sottolineato che cercando il nome di Bassam su internet (tanto traslitterato in diversi modi, quanto scritto in arabo), non si trova nulla che lo colleghi a delle aziende italiane diverse da Ubako-I. Ubako-I, secondo Mario, sarebbe stata costituita per partecipare ai bandi siriani più facilmente accessibili alle aziende estere, specialmente se europee. Nel progetto Damascus Towers City, inoltre, l’azienda costituirebbe un buon “volto” da mostrare al pubblico, essendo essa una ditta straniera di un Paese influente. Lo stesso progetto non è una novità: Damascus Towers City sarebbe stata pensata da Bassam nel 2010, sotto il regime del presidente Bashar al Assad. Pare che Bassam fosse addirittura riuscito a proporlo e ad arrivare a un accordo preliminare; alla fine, però, si risolse tutto in un nulla di fatto.
Nonostante le spiegazioni di Mario L’Indipendente rispecchino in parte quella rilasciata pubblicamente da Bassam, resta da comprendere per quale motivo sia stata coinvolta una società di rappresentanza italiana. Ad alimentare i dubbi è giunto – di nuovo – lo stesso Bassam, con un altro post su Facebook. Il costruttore sostiene di avere «un piano di finanziamento» integrato basato sul mercato finanziario italiano, sulle già citate aziende plurimiliardarie italiane (che Bassam sostiene di rappresentare «da oltre trent’anni») e sul «sostegno della Fondazione Nazionale Italiana Garanzia dell’Export, che fornirà garanzie per prestiti per favorire l’esportazione di prodotti italiani all’estero». Quello alla «Fondazione» è un chiaro riferimento a SACE, gruppo assicurativo-finanziario italiano per il sostegno alle imprese, sotto diretto controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Bassam, insomma, Damascus Towers City avrebbe il sostegno di un’agenzia ministeriale. Abbiamo immediatamente scritto a SACE per chiedere chiarimenti, ma i ritmi estivi degli uffici ministeriali non ci sono stati di aiuto.

A fornire una spiegazione è arrivato, inaspettatamente, Fayez, che ha preferito parlare per iscritto. Le domande principali che gli abbiamo posto erano quattro: che ruolo svolge Ubako-I nel progetto? Di chi parla Bassam quando si riferisce a un presunto «consolidato gruppo di aziende» multimiliardarie risalente al 1892? C’è davvero un accordo con SACE? Chi è Giovanni Rossi? Fayez, dopo giorni passati a spiegarci il progetto, gli ideali delle torri farfalla, e il funzionamento del memorandum (che da quanto ci comunica sarebbe stato siglato con Ubako Siria come appaltatore principale), ci ha parlato del suo “piano di finanziamento”: dopo avere ottenuto il terreno dal governo, Ubako Siria effettuerebbe i lavori iniziali per lo sviluppo della cittadella (a spese proprie), per poi aprire le sottoscrizioni degli appartamenti ai futuri cittadini con acconti compresi tra il 10% e il 15% del valore degli immobili e il resto della cifra rateizzabile in cinque anni.
A quel punto i fondi che proverrebbero da chi ha comprato gli appartamenti verrebbero messi in un conto vincolato congiunto tra l’azienda e il governo siriano, che permetterebbe l’utilizzo dei fondi solo mediante la firma di entrambe le parti; tali fondi, assicura Fayez, verrebbero spesi solo per costruire e per chiedere alle banche l’emissione di lettere di credito verso i possibili fornitori italiani. Tra questi ultimi figurerebbero le solite aziende miliardarie per cui Bassam avrebbe svolto ruoli di «agente esclusivo per la Siria», e con cui intratterrebbe relazioni di stretta amicizia. Passato un anno o costruiti cinque piani di una delle torri, Ubako-I si trasformerebbe in SPA, puntando a raggiungere la soglia valoriale di un miliardo di euro. Le azioni della società verrebbero usate come ulteriore garanzia, e ove fosse necessario, si chiederebbero a SACE ulteriori garanzie. Il ruolo di Ubako-I, invece, appare poco chiaro: nella sostanza, l’azienda farebbe da ponte con le imprese italiane che investono e forniscono materiale.
Il piano descritto da Fayez, che egli, come Bassam, dice essere pronto a venire realizzato «immediatamente», è estremamente generico e controverso, e le risposte alla maggior parte dei nostri dubbi lo sono state allo stesso modo. Le quattro domande principali, tuttavia, inoltrate più volte nell’arco di svariati giorni, sono rimaste inevase: dei presunti rapporti da «agente» di Bassam con le multinazionali italiane e del consorzio 1892, di cui non figura alcuna traccia sul web, non è stato fornito alcun chiarimento esplicito; di accordi vigenti con SACE, neanche (anche se sembra implicito che non ve ne sia nessuno); il ruolo di Ubako-I, invece, viene relegato a quello di procurement hub e di finanziatore sul mercato secondo un non meglio precisato piano per trasformarla in SPA che la coinvolgerebbe dopo almeno un anno, tempistica che non spiega per quale motivo sia stata inclusa nel memorandum. Nei giorni, Fayez non ci ha parlato del suo effettivo ruolo nell’azienda, in che termini egli sia coinvolto e come partecipi effettivamente al progetto, senza chiarire se il suo ruolo sia effettivo o paragonabile a quello di un prestanome. Come se ciò non bastasse, dopo oltre una settimana di ricerche, non abbiamo ancora sentito il nome di Giovanni Rossi.
Estonia, espulso un diplomatico russo
L’Estonia ha espulso un diplomatico russo per «violazioni delle sanzioni» e «crimini contro lo Stato». A dichiararlo è stato il ministero degli esteri del Paese, ripreso dallo stesso ministro. A venire espulso è quello che viene definito «Primo Segretario dell’ambasciata» russa a Tallinn, dichiarato persona non grata. Secondo quanto comunica il ministro, il diplomatico sarebbe stato coinvolto in «tentativi diretti e attivi di minare l’ordine costituzionale dell’Estonia» e di «interferire negli affari interni» del Paese.
Le fiamme sul Vesuvio hanno compromesso uno dei principali scrigni di biodiversità italiani
Dopo giorni di lotta incessante, l’incendio che ha devastato le pendici del Vesuvio è stato finalmente domato grazie all’intervento coordinato di Vigili del Fuoco, Protezione Civile, volontari e, nelle ultime ore decisive, a un temporale pomeridiano che ha aiutato a contenere gli ultimi focolai. Nel picco di maggior intensità, sul posto operavano oltre cento vigili del fuoco, sei Canadair e quattro elicotteri. Restano aperti i lavori di bonifica per mettere in sicurezza le aree bruciate ed evitare pericolosi reinneschi. Le fiamme, divampate nella notte tra il 7 e l’8 agosto nella pineta di Terzigno, si sono propagate velocemente verso Boscotrecase, Trecase e Torre del Greco, alimentate da caldo torrido, siccità e vento, distruggendo oltre 560 ettari di vegetazione, pari a oltre 5 km² del Parco Nazionale del Vesuvio. Stiamo parlando di una superficie che rappresenta il 6% dell’area protetta nazionale, un prezioso ecosistema ricco di specie animali e vegetali compromesso da atti verosimilmente dolosi.
Danni limitati ad agricoltura e abitazioni
Compromesso un prezioso ecosistema naturale

Certo è che a pagare il prezzo più caro è stato invece l’ecosistema naturale. Al riguardo si è espresso anche il Ministro della Difesa Crosetto, definendo l’evento «un disastro naturale da arginare con ogni mezzo». Il rogo ha infatti colpito duramente una delle aree protette più preziose d’Italia. Il Parco Nazionale del Vesuvio ospita oltre 700 specie vegetali, tra cui la rara Silene giraldi, presente solo sulle pendice del “gigante” e sulle isole di Capri ed Ischia, e diverse specie di ginestra. Degni di nota inoltre dei piccoli nuclei relitti di betulla (Betula pendula), specie tipica di boschi mediamente freschi che ricoprivano le pendici del vulcano in passato, quando le condizioni climatiche erano meno torride di quelle attuali. Abbondano poi le specie tipiche della macchia mediterranea e, con oltre 20 censite, diverse orchidee selvatiche tutelate dalla Convenzione di Washington. Volendo azzardare delle stime, poiché l’incendio ha riguardato il settore sudorientale del Parco, le comunità vegetazionali di interesse conservazionistico più compromesse coinciderebbero con pinete mediterranee di pini mesogeni endemici e, in misura minore, quelle dei campi di lava e delle cavità naturali (entrambe habitat di direttiva comunitaria), nonché alcuni boschi di leccio. Guardando alla fauna, fattori come la vicinanza alla fascia costiera, il fatto di essere l’unico rilievo posto al centro della pianura nolana, e la grande eterogeneità ambientale, fanno del Vesuvio una importante area di sosta e rifugio per specie migratorie ed hanno contribuito all’insediarsi, in un territorio di modesta estensione, di una interessante comunità faunistica, arricchita di specie legate a peculiari microhabitat tipiche di ambienti rurali di limitata estensione. In generale, le comunità faunistiche, protagoniste al pari della vegetazione di cicliche ricolonizzazioni, contano uccelli migratori, medi e piccoli mammiferi, rettili e anfibi, i quali hanno sicuramente visto ridursi gli habitat e le zone di sosta a seguito dei roghi, con le specie più vulnerabili probabilmente andate in contro a forti cali di popolazione. Ma è presto per dirlo. La buona notizia è che – stando ad una recente valutazione della letteratura scientifica – una percentuale relativamente bassa di animali (in media circa il 3%) viene uccisa durante gli incendi a livello globale grazie alla spiccata e innata spinta alla sopravvivenza che caratterizza ogni esemplare. La cattiva notizia è che gli effetti ambientali non si fermano solo alle fiamme. Vanno infatti considerati gli effetti tossici del fumo e in generale la riduzione della copertura di habitat già di per sé esigui. Inoltre, tornando sul fronte vegetale – come affermato da esperti del CNR – la perdita della copertura vegetale e il deposito di cenere rendono il terreno impermeabile, aumentando nei mesi successivi il rischio di frane e colate detritiche in caso di piogge intense, come accadde dopo l’incendio del 2017. Senza contare che il disturbo provocato dagli incendi comporta il successivo insediamento di specie vegetali pioniere, naturalmente adibite alla ricolonizzazione, ma che spesso, in contesti fortemente antropizzati, potrebbero coincidere con specie alloctone invasive, come robinia e ailanto, le quali potrebbero potenzialmente insediarsi a discapito di specie locali.
Aree protette in fumo

Il Vesuvio non è comunque un caso isolato. Dal 15 giugno, solo in Campania sono andati in fumo oltre 2.500 ettari. Secondo Legambiente, nei primi sette mesi del 2025, in Italia si sono registrati 851 incendi, che hanno bruciato quasi 31mila ettari di territorio, di cui più di 18.700 in siti della rete Natura2000, aree protette a livello UE. Ciononostante, solo 8 parchi nazionali italiani su 24 dispongono di un Piano Antincendio Boschivo aggiornato, mentre in molte riserve naturali i piani sono scaduti o incompleti. Risulta quindi assente un documento essenziale per rispondere ad un’emergenza che ha cadenza annuale e spesso origine dolosa o colposa. A detta dell’ultimo Rapporto Ecomafia, nel 2024 sono stati 3.239 i reati di “incendi boschivi e di vegetazione, dolosi, colposi e generici in Italia” contestati dalle forze dell’ordine, Carabinieri forestali e Corpi forestali regionali. Un problema cronico, esacerbato da disattenzione e inciviltà (è sufficiente un mozzicone di sigaretta ad innescare un grave incendio), per cui sono necessarie nuove tecnologie investigative, maggiori risorse e una visione integrata e orientata alla prevenzione.
Migranti, naufragio a Lampedusa: almeno 20 morti
Una imbarcazione con a bordo 97 persone migranti è naufragata a circa 20 chilometri dalle coste di Lampedusa. A dare la notizia è l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati, che comunica che il decesso di almeno 20 persone e 27 dispersi. Una cinquantina di persone sono invece state soccorse dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza, per poi essere trasferite nella struttura di accoglienza dell’isola. Ancora ignoto il luogo di partenza dell’imbarcazione.
L’Estonia installa cancelli e barriere a tutti i valichi di frontiera con la Russia
Nel contesto di generale ostilità che oppone i Paesi baltici alla Russia, l’Estonia ha aggiunto un ulteriore tassello nelle azioni contro la Nazione eurasiatica confinante. Ha infatti deciso di installare cancelli scorrevoli e blocchi stradali nei tre valichi di frontiera estoni con la Russia per bloccare la circolazione di persone e veicoli in pochi secondi. Le barriere sono state installate al valico di frontiera di Narva, nel nord del Paese, e ai valichi di Koidula e Lujamaa, nel sud, per un costo complessivo di circa tre milioni di euro. Il governo estone ha giustificato la nuova misura citando l’ingresso di trenta migranti irregolari provenienti dal territorio russo. Secondo le guardie di frontiera, grazie alle nuove installazioni, ora saranno sufficienti circa tre secondi per chiudere i posti di controllo. «Non possiamo mai escludere completamente un attacco migratorio ai nostri confini», ha dichiarato Peter Maran, responsabile del valico di frontiera sud-orientale.
Il problema dei flussi migratori illegali coinvolge anche cittadini estoni che tentano di entrare senza documenti in Russia: negli ultimi anni, infatti, diverse persone hanno provato ad attraversare illegalmente il confine aggirando i posti di blocco. A Lujamaa, ad esempio, recentemente un conducente lettone ubriaco alla guida di uno scooter ha tentato di attraversare il valico per entrare in Russia senza fermarsi al posto di blocco, ma è stato ostacolato grazie al nuovo sistema.
Al di là del problema migratorio, il nuovo provvedimento del governo estone riflette in realtà una più profonda avversione storica non solo nei confronti della Russia, ma anche dei suoi cittadini: i Paesi baltici, infatti, al momento dell’indipendenza dall’Unione sovietica non hanno riconosciuto la cittadinanza ai cittadini russi che vivevano sul loro territorio e, ancora oggi, in Estonia e Lettonia la minoranza russa – costituita da migliaia di persone – vive senza essere riconosciuta da alcuna madrepatria. Si tratta dei cosiddetti russi “apolidi”, che ancora oggi posseggono i passaporti grigi per non-cittadini e non hanno accesso al diritto di voto o al pubblico impiego. Quest’anno, inoltre, con il pretesto di invasione da parte di Mosca, il governo estone ha deciso, attraverso una riforma del sistema scolastico, di abolire la lingua russa dalle scuole entro il 2030, sostituendola con l’uso esclusivo dell’estone e rendendo il russo una lingua «straniera». Una decisione che rischia di esasperare le discriminazioni etniche fomentando l’attrito tra russi e estoni.
La decisione di installare barriere ai valichi di frontiera si inserisce in questo contesto e avviene proprio in un momento in cui gli Stati Uniti e la Russia stanno cercando una possibile strada per avviare i negoziati, attraverso l’incontro tra Trump e Putin previsto in Alaska il prossimo 15 agosto. Rispetto alla volontà di Washington di instaurare quantomeno un dialogo con il Cremlino, l’Ue e in particolare i Paesi baltici continuano a prepararsi per quella che definiscono una sempre più probabile guerra contro la Russia. Per questa ragione, le tre Repubbliche baltiche, insieme a Finlandia e Polonia, hanno deciso di ritirarsi dalla convenzione di Ottawa, che vieta l’uso di mine antiuomo, pianificando di disseminare i territori al confine con la Federazione russa con milioni di mine. Oltre a questo, in molte nazioni nordiche sono state incrementate esercitazioni e simulazioni di guerra per prepararsi a quella che considerano una possibile invasione.
L’attuale decisione di bloccare i valichi non fa altro che inasprire le relazioni già tese con la Russia, confermate anche dall’annunciata espulsione di un diplomatico russo dall’ambasciata estone, definito «persona non grata». I Paesi baltici sono saldamente schierati a fianco dell’Ucraina e non sono inclini a concessioni o negoziati per risolvere il conflitto che da tre anni si svolge nel cuore dell’Europa. Pochi giorni fa, infatti, hanno dichiarato in una nota – insieme a Danimarca, Norvegia, Finlandia, Islanda e Svezia – di «riaffermare il principio secondo cui i confini internazionali non possono essere modificati con la forza». Il tutto mentre, in vista dell’incontro tra Trump e Putin, diversi funzionari e politici cominciano a parlare della necessità di uno scambio di territori. Similmente, il capo della politica estera dell’Unione europea, l’estone Kaja Kallas, ha dichiarato domenica che qualsiasi accordo tra Washington e Mosca per porre fine alla guerra in Ucraina deve includere l’Ucraina e l’UE, aggiungendo che «tutti i territori temporaneamente occupati appartengono all’Ucraina». L’installazione delle barriere ai valichi di frontiera con la Russia non solo inasprisce le tensioni con la Russia, ma riassume anche la fondamentale chiusura verso ogni soluzione diplomatica, che non lascia altra via di risoluzione delle controversie se non la guerra.
Do Kwon confessa la frode dietro le criptovalute TerraUSD e Luna
Chi segue le criptovalute se lo ricorderà bene: nel 2022, il crollo delle monete digitali controllate dalla startup singaporiana Terraform Labs — TerraUSD e Luna — ha innescato un effetto domino che ha travolto l’intero ecosistema blockchain, causando perdite stimate in oltre 40 miliardi di dollari per gli investitori. Ora, Do Kwon, il magnate sudcoreano dietro al progetto, si è dichiarato colpevole di molteplici capi d’accusa e rischia fino a 25 anni di carcere.
In qualità di cofondatore e dirigente di Terraform Labs, Kwon ha ammesso di aver cospirato per commettere frodi su materie prime, frodi sui titoli e frodi telematiche. La dichiarazione di colpevolezza è stata presentata martedì — mercoledì, in orario italiano — presso il tribunale del distretto meridionale di New York, nell’ambito di un accordo di patteggiamento. Solo lo scorso gennaio, l’imprenditore si era dichiarato non colpevole; tuttavia, secondo la procuratrice Kimberly Ravener, l’accusa ha accettato di limitare la richiesta di pena qualora Kwon si fosse assunto la piena responsabilità dei suoi crimini. In caso contrario, sarebbero stati presi in esame tutti e nove i capi di imputazione originali, con un potenziale massimo di 135 anni di carcere. I pubblici ministeri riferiscono che il criptomanager ha accettato di rinunciare a 19,3 milioni di dollari di proventi illeciti. Già nel 2024, Kwon aveva affrontato una causa civile conclusasi con una multa di 80 milioni di dollari e il divieto di effettuare transazioni in criptovalute, come parte di un accordo da 4,55 miliardi di dollari che lui e Terraform hanno raggiunto con la Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC) degli Stati Uniti.
Kwon è accusato di aver ingannato gli investitori presentando TerraUSD come una stablecoin in grado di mantenere il valore di un dollaro senza interventi esterni: tutto sarebbe stato gestito da un algoritmo avanzato. In realtà, la start-up avrebbe stretto un accordo con una società di trading al fine di drogare il mercato e sostenere artificialmente il valore di TerraUSD e del suo token satellite, Luna. “Do Kwon ha sfruttato la promessa tecnologica e l’euforia degli investitori verso la criptovaluta per mettere in atto una delle più grandi frodi della storia”, ha dichiarato il procuratore statunitense Jay Clayton. “Ha attirato decine di miliardi di dollari nell’ecosistema di Terraform, promettendo una stablecoin autostabilizzante. Quando i mercati hanno capito che il sistema era instabile, era ormai troppo tardi: tutto è crollato e investitori in tutto il mondo hanno subito perdite miliardarie.”
Dopo il tracollo, sono state avviate class action milionarie e nel settembre 2022, le autorità sudcoreane hanno emesso un mandato di arresto nei confronti di Kwon e ha avviato la procedura per la revoca del suo passaporto, segnalandolo all’Interpol. Nel frattempo, l’imprenditore si è dato alla fuga per evitare l’estradizione. Nel marzo 2023, è stato infine arrestato all’aeroporto di Podgorica, in Montenegro, mentre tentava di raggiungere Dubai con documenti falsi, tra cui passaporti contraffatti della Costa Rica e del Belgio.
Sebbene i procuratori abbiano accettato di chiedere un massimo di 12 anni di carcere, il giudice distrettuale statunitense Paul Engelmayer potrebbe infliggergli fino a 25 anni di reclusione, una pena paragonabile a quella comminata a Sam Bankman-Fried, l’imprenditore crypto responsabile del collasso di FTX e Alameda Research. La sentenza è attesa per l’11 dicembre.
Australia-Vanuatu accordo di sicurezza da 300 milioni
Australia e Vanuatu hanno siglato un accordo da 500 milioni di dollari australiani (circa 280 milioni di euro) per rafforzare i legami economici e di sicurezza tra i due Paesi. L’intesa, che ha preso il nome di “Accordo Nakamal” prevede che l’Australia investa i fondi in Vanuatu nel prossimo decennio, e introduce vantaggi commerciali e maggiore mobilità in ambito lavorativo. L’accordo, che verrà siglato formalmente il prossimo mese, si inserisce in un contesto di crescente concorrenza tra Australia e Cina, principale creditore esterno di Vanuatu, per gli investimenti all’interno del Paese e per mantenere una influenza nell’area del Pacifico.
Media israeliani rivelano: dall’Italia milioni di euro alle startup israeliane
Nonostante le parole di condanna da parte del governo Meloni, l’Italia non cessa di fare affari con le aziende israeliane. I media israeliani hanno infatti rivelato che Cassa Depositi e Prestiti, fondo a partecipazione maggioritaria del Ministero dell’Economia, avrebbe intenzione di investire decine di milioni di euro in start-up israeliane, una delle categorie di imprese su cui Israele sta puntando maggiormente. Gli investimenti sarebbero rivolti ai settori relativi alla tecnologia, con l’obiettivo di portare l’attività delle aziende in Italia. Il primo di questi è già noto ed è stato condotto alla luce del sole: CDP ha partecipato alla terza grande tornata di investimenti a favore di Classiq, start-up israeliana che sviluppa software quantistici, fondata da un’ex comandante dell’unità di intelligence 8200 delle Forze di Difesa Israeliane. Il round di investimenti ha un valore totale di oltre 110 milioni di euro e, da quanto comunicano i media israeliani, il governo italiano sarebbe «ben consapevole» di questo e degli altri movimenti di CDP.
La notizia sui movimenti di CDP è stata data dal quotidiano israeliano specializzato in economia Globe, che cita fonti anonime di alto rilievo. Secondo Globe, CDP avrebbe in piano di investire decine di milioni di euro – «e forse ancora di più» – sulle start-up israeliane del settore tecnologico, puntando prevalentemente «nell’intelligenza artificiale e nel calcolo quantistico, con l’obiettivo di portare l’attività delle aziende in Italia, per sviluppare e far progredire l’industria tecnologica locale». Proprio a fine luglio è arrivato un investimento, condotto con la giapponese SoftBank, da un valore stimato tra i 20 e i 30 milioni di euro. «CDP Venture Capital investe nei campioni tecnologici di domani in aree come il calcolo quantistico, attraendo e coltivando talenti e facilitando l’integrazione della tecnologia nelle filiere industriali, con l’obiettivo di rendere il sistema economico italiano più competitivo a livello globale», ha dichiarato Alessandro Scortecci, responsabile degli investimenti di CDP. La tornata di finanziamenti a cui ha partecipato CDP era stata annunciata a maggio e comprendeva, tra i cosiddetti follower (ossia le imprese o fondi che partecipano a una tornata senza guidare l’offerta), anche Neva SGR, che fa capo a Intesa San Paolo. A maggio, Classiq sosteneva di avere radunato 110 milioni di euro.
Classiq è una start-up israeliana co-fondata nel 2020 da Nir Minerbi, ex comandante di un team di ricercatori dell’unità 8200, specializzata in attività di spionaggio e controspionaggio in ambito tecnologico. La start-up sostiene di avere «triplicato la sua base clienti e i suoi ricavi anno dopo anno», un destino che condividerebbe con diverse delle sue omologhe israeliane. Israele viene infatti detto spesso «Paese delle start-up». Nel suo rapporto sull’economia del genocidio, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, parla proprio di come le start-up rappresentino tra le maggiori fonti di profitto della macchina genocidaria, tanto che nel 2024 Israele ha registrato un aumento del 143% delle start-up di tecnologia militare, i cui prodotti hanno rappresentato il 64% delle esportazioni israeliane durante il genocidio. Nonostante ciò, l’Italia continua a finanziare le imprese israeliane con fondi, come CDP, a partecipazione maggioritaria ministeriale. Secondo Globe, inoltre, questi investimenti sarebbero fatti con il beneplacito della stessa premier Meloni, che ancora una volta confermerebbe la scarsa concretezza delle proprie condanne, forti a parole ma inconsistenti nei fatti.