La Conscience, una delle navi facente parte della flotta navale Freedom Flotilla, è stata attaccata alle 00.23 del 2 maggio nelle acque internazionali al largo delle coste di Malta. L’equipaggio, composto da una trentina di attivisti e attiviste provenienti da ventuno Paesi del mondo, denuncia che a quattordici miglia nautiche dalle coste maltesi vari droni armati hanno colpito «la prua di un’imbarcazione civile disarmata, causando un incendio e una falla nello scafo», interrompendo, di fatto, la missione umanitaria diretta verso Gaza e lasciando la flotta in una situazione critica, nella quale l’imbarcazione rischia l’affondamento.
In seguito al messaggio di SOS inviato dall’equipaggio, un’imbarcazione proveniente da Cipro del Sud si è recata sul posto, senza però ripristinare la corrente elettrica sulla nave colpita. Dalle prime ricostruzioni sembra che i droni fossero diretti sul generatore, per isolare deliberatamente l’imbarcazione e impedire ogni tipo di comunicazione e contatto con l’esterno. Mentre dal centro di coordinamento del soccorso marino di Roma annunciano l’invio sul posto di un rimorchiatore, l’equipaggio denuncia che la guardia costiera maltese, obbligata a servire assistenza, non ha risposto ai segnali di SOS, infrangendo le norme del diritto internazionale. «Chiediamo che Malta risponda immediatamente al suo obbligo e garantisca la sicurezza di tutti coloro che sono a bordo della nave. La comunità internazionale condanni questa aggressione contro una nave umanitaria disarmata e chieda alle autorità maltesi di agire immediatamente» afferma l’equipaggio nel suo comunicato. «Tutti gli Stati pongano fine al sostegno politico, finanziario e militare all’assedio illegale, al blocco, all’occupazione e all’apartheid di Israele» denunciano dalla Flotilla.
Non è la prima volta che questa flotta subisce un attacco. Quindici anni fa, il 31 maggio del 2010, dieci attivisti furono uccisi e altre centinaia furono detenuti dalle forze speciali israeliane, che giustificarono il massacro affermando che le navi stessero trasportando armi per Hamas.
La flotta, che fu obbligata a rimandare la partenza prevista per il 24 aprile a causa della richiesta di Israele di imporre un blocco amministrativo, ha l’urgenza di consegnare 5.500 tonnellate di cibo a Gaza. L’organizzazione della missione, che denuncia l’impassibilità della comunità internazionale dinanzi alle azioni genocide dello stato di Israele e accusa le soluzioni messe in atto, come «il corridoio marittimo di Cipro, il porto galleggiante improvvisato degli Stati Uniti e il simbolico lancio di cibo», sceglie di intervenire direttamente mettendo in evidenza la forza della società civile e il subdolo oblio delle istituzioni politiche internazionali.
A due mesi dalla rinnovata chiusura delle frontiere della Striscia e l’impedimento da parte dello stato di Israele di far entrare i camion con aiuti umanitari destinati alla popolazione, Gaza sta rimanendo inesorabilmente senza cibo. Mentre la comunità internazionale offre aiuto per spegnere i vasti incendi che hanno colpito la città di Gerusalemme, simultaneamente le forze israeliane continuano a bombardare i territori palestinesi e attaccano impunemente mezzi civili disarmati che hanno la missione di rompere l’embargo umanitario imposto da Israele aggirando le frontiere e intervenendo via mare.
Il rapporto tra l’uomo e l’olivo in Italia sarebbe iniziato almeno 3.700 anni fa, durante l’età del bronzo. Le prime tracce documentate di questo legame arrivano dalla Sicilia: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team italiano delle università di Pisa, della Tuscia e della Sapienza di Roma, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Quaternary Science Reviews. Secondo la ricerca, in un’area paludosa vicino Messina chiamata Pantano Grande risiederebbero le più antiche prove di sfruttamento umano dell’olivo mai trovate nella Penisola, seconde in assoluto solo a quelle di Malta – risalenti a circa 5.000 anni fa. Il tutto grazie alle analisi delle carote di sedimento che hanno permesso di rilevare elevate concentrazioni di polline di olivo, segno di una sua presenza massiccia e gestita nel paesaggio. Secondo gli autori, tale sfruttamento non si limitava solo alla produzione di olio, ma anche all’utilizzo del legno come combustibile e materiale di costruzione, e delle foglie come foraggio. «Abbiamo condotto un approccio fortemente interdisciplinare che ci ha consentito di ricostruire le dinamiche a lungo termine dell’interazione tra uomo e ambiente», spiega il coautore e professore dell’Università di Pisa Giovanni Zanchetta.
L’olivo è un simbolo millenario del paesaggio mediterraneo, ma la sua storia nell’Italia centro-occidentale è ancora poco documentata rispetto all’Oriente. Le testimonianze archeobotaniche e archeologiche relative alla domesticazione e alla coltivazione dell’olivo in Sicilia, infatti, risultavano ancora sporadiche e spesso limitate a frammenti non databili con precisione. Per questo motivo, spiegano i ricercatori, si è deciso di tentare di colmare tale lacuna: nello studio recentemente pubblicato sono stati combinati i dati ricavati da analisi polliniche ad alta risoluzione – ovvero le analisi dei pollini conservati nei sedimenti per ricostruire la vegetazione del passato – con riferimenti storici e archeologici e indicatori paleoambientali, ovvero misure che permettono di ricostruire l’ambiente e il clima di epoche remote. Il tutto nel sito di Pantano Grande che, come spiegano gli autori, si trova in una posizione strategica lungo lo Stretto di Messina, antica rotta commerciale tra il Mediterraneo orientale e quello tirrenico. Le cosiddette carote sedimentarie – ossia cilindri di terreno estratti in profondità per analizzare gli strati accumulatisi nel tempo – sono state ottenute mediante carotaggi profondi fino a oltre sette metri e datate con precisione grazie alle analisi del carbonio-14 e dei livelli di cenere vulcanica e ciò, grazie all’utilizzo di tecniche di palinologia – ovvero metodi consolidati per lo studio dei pollini fossili al microscopio – ha permesso di identificare fasi distinte nell’abbondanza del polline di olivo, che gli autori hanno confrontato con la presenza di altri pollini mediterranei e con indicatori ambientali per distinguere cause naturali da interventi umani.
Secondo i principali risultati ottenuti, nel periodo compreso tra il 1750 ed il 1150 a.C, corrispondente alle Media età del Bronzo, il polline di olivo rappresentava in media il 35% del totale nel sito di Pantano Grande, con punte superiori al 50%: valori eccezionali che, secondo i coautori, indicano una presenza dominante nel paesaggio. Dopo un crollo drastico nel XII secolo a.C., poi, lo studio individua altre due fasi espansive: la prima si verifica in epoca romana – tra il II secolo a.C. e il III d.C. – con una ripresa significativa del polline di olivo accompagnata da evidenze archeologiche come anfore e torchi, compatibili con una vera e propria olivicoltura. La seconda esplosione, invece, sarebbe avvenuta in epoca moderna, tra il XIII e il XIX secolo, durante il Regno di Sicilia, quando le fonti storiche parlano esplicitamente di coltivazione sistematica. Tutte analisi che, secondo gli esperti, suggeriscono che la diffusione dell’olivo non può essere spiegata soltanto da condizioni ambientali favorevoli, ma piuttosto dall’esito di scelte culturali e agricole consapevoli e di reti commerciali che hanno attraversato i millenni: «Abbiamo adottato un approccio fortemente interdisciplinare per indagare l’evoluzione storica, ecologica e culturale degli olivi in Sicilia orientale – conclude Zanchetta – questa sinergia tra scienze naturali e discipline umanistiche ci ha consentito di ricostruire le dinamiche a lungo termine dell’interazione tra uomo e ambiente, evidenziando come fattori culturali, climatici e commerciali abbiano modellato il paesaggio olivicolo. L’espansione degli olivi non è spiegabile solo con condizioni ambientali favorevoli, ma è piuttosto il risultato di scelte antropiche, pratiche agricole, e reti di scambio che hanno attraversato i millenni», spiega Zanchetta.
Il partito nazionalista di destra Reform UK, guidato da Nigel Farage, ha ottenuto importanti successi nelle elezioni amministrative e suppletive inglesi, conquistando anche il suo primo seggio parlamentare a Runcorn e Helsby per soli sei voti, in un’ex roccaforte laburista. Questi risultati segnano un colpo al tradizionale bipartitismo britannico e un duro colpo al governo laburista di Keir Starmer, già in calo di popolarità per scelte impopolari su tasse e welfare. Gli elettori hanno votato per oltre 1.600 seggi locali e per sei elezioni di sindaci particolarmente rilevanti. Tra queste c’è la vittoria di Andrea Jenkyns, ex ministra conservatrice, divenuta sindaca della Greater Lincolnshire.
Dopo la richiesta avanzata dalla Germania, altri 15 Paesi dell’Unione Europea hanno presentato domanda per sospendere il Patto di stabilità e aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. Si tratta, nello specifico, di Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, e Ungheria. La richiesta arriva proprio allo scadere del termine consigliato dalla Commissione, anche se il Commissario per l’Economia, Valdis Dombrovskis, ha detto che «restiamo aperti a ulteriori richieste di esenzione». I piani di spesa dei Paesi risultano ancora ignoti, ma nell’ambito del piano di riarmo la Commissione Europea ha proposto agli Stati membri di aumentare la spesa per la difesa fino all’1,5% del prodotto interno lordo annuo per quattro anni. Questo debito aggiuntivo, sostiene von der Leyen, potrebbe generare fino a 650 miliardi di euro nel prossimo quadriennio.
La notizia della richiesta di sospensione del Patto di stabilità da parte dei 15 Paesi dell’UE è arrivata mercoledì 30 aprile. Ad aprire le fila, dopo la Germania, è stata la Polonia, a cui sono seguiti altri 10 Paesi. Dopo un primo annuncio da parte del Commissario Dombrovskis, gli ultimi a rispondere all’appello sono stati Bulgaria, Croazia, Lituania e Repubblica Ceca. «In altri casi», rimarca inoltre la Commissione, «si sta procedendo anche a potenziamenti delle capacità di difesa già pianificati». La clausola, spiega il comunicato, copre un periodo di quattro anni e prevede un margine di flessibilità massimo dell’1,5% del PIL. Essa rientra all’interno del «quadro riformato di governance economica» dell’UE, che consente agli Stati membri di «avvalersi di misure di flessibilità economica», e dunque di sospendere i vincoli del Patto di stabilità, «laddove circostanze eccezionali al di fuori del controllo dello Stato membro abbiano un impatto significativo sulle finanze pubbliche dello Stato membro interessato». Secondo l’UE, «la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e la sua minaccia alla sicurezza europea» giustificherebbero il ricorso a tale misura emergenziale.
La Commissione ha ora un mese di tempo per valutare le richieste presentate dagli Stati membri e per formulare le raccomandazioni necessarie per attivare la clausola nell’ambito del prossimo pacchetto del semestre europeo di primavera 2025. Nel frattempo, come sottolineato da Dombrovskis e dal portavoce della Commissione Europea, Balazs Ujvari, «se dovessero arrivare richieste di sospensione due o tre giorni in ritardo non sarebbe certo la fine del mondo». La scadenza per la presentazione delle domande, in teoria, era fissata allo stesso 30 aprile. Tale data era stata stabilita con l’approvazione del piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen. Secondo la presidente della Commissione, il meccanismo a cui hanno fatto domanda di accesso gli Stati consentirebbe di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Un’altra misura chiave prevista dal piano è l’istituzione di un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti nel settore della difesa. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, sfruttando strumenti come i programmi della politica di coesione e altre risorse finanziarie comunitarie.
Il consigliere per la sicurezza nazionale USA, Mike Waltz, e il suo vice Alex Wong lasciano l’amministrazione Trump dopo lo scandalo “Signalgate”, nato dalla diffusione involontaria di piani segreti per un attacco in Yemen in una chat riservata. Trump ha annunciato la rimozione come una “promozione”, nominando Waltz prossimo ambasciatore all’ONU. Il ruolo di consigliere passa così ad interim al segretario di Stato Marco Rubio. L’incidente ha sollevato dubbi sulla gestione della sicurezza. Waltz, ex deputato della Florida e veterano decorato dei Berretti Verdi, si era assunto nelle scorse settimane la piena responsabilità per l’incidente, definendolo «imbarazzante» in un’intervista a Fox News.
Sarebbero almeno 400 le persone arrestate dalla polizia turca in occasione della manifestazione del 1° maggio a Istanbul. A dare la notizia è l’Associazione dei Giuristi Contemporanei (CHD), che spiega che la polizia è intervenuta contro alcuni gruppi di manifestanti mentre questi cercavano di raggiungere Piazza Taksim. La stessa piazza, storico simbolo della Festa dei Lavoratori, era stata designata come zona rossa dalle forze dell’ordine, che prima della manifestazione hanno schierato decine di migliaia di agenti attorno ai quartieri Sisli, Kadikoy e Besiktas e bloccato metro, autobus e traghetti.
Il primo ministro e presidente ad interim della Corea del Sud, Han Duck-soo, ha rassegnato le dimissioni e annunciato la propria candidatura alle prossime presidenziali. L’annuncio arriva dopo una decisione della Corte Suprema che potrebbe minare la candidatura di Lee Jae-myung, esponente del rivale Partito Democratico e favorito per la vittoria elettorale: Lee è stato giudicato colpevole di avere rilasciato false dichiarazione durante la sua ultima campagna elettorale, e ora la Corte d’Appello dovrà decidere se ammetterlo alle elezioni. La prossima tornata elettorale è prevista il 3 giugno, ed è stata indetta dopo la destituzione dell’ex presidente Yoon Suk-yeol, accusato di tradimento per avere provato a instaurare la legge marziale.
Recentemente, Amnesty ha pubblicato l’annuale rapporto sui diritti umani nel mondo. Il documento analizza lo stato in cui versano i diritti in 150 diversi Paesi del pianeta, sottolineando «l’insinuarsi di pratiche autoritarie e le feroci repressioni contro il dissenso». Quest’anno, a ricevere un posto d’onore nella trattazione, è quello che Amnesty definisce «Effetto Trump», ossia quella «campagna contro i diritti umani» portata avanti dall’amministrazione del presidente statunitense attraverso il sostegno indiscriminato allo Stato di Israele e alle grandi aziende finanziarie, nonché mediante il trattamento che riserva a migranti e minoranze. Tra guerre e genocidi, discriminazione delle minoranze e repressione del dissenso, i diritti umani nel mondo stanno entrando in una vera e propria «crisi» nella maggior parte dei Paesi analizzati, tra cui anche nella stessa Italia.
Conflitti armati e rispetto del diritto internazionale
Un gruppo di bambini ammassato per ottenere una razione di cibo nella Striscia di Gaza
Una delle principali cause della regressione dei diritti umani sono le guerre, i genocidi e i conflitti armati sparsi per il mondo. Nella maggior parte dei conflitti citati (tra cui figurano Gaza, Birmania, Repubblica Democratica del Congo, Sudan), infatti, i civili sono stati privati dei diritti all’istruzione, al cibo, a un alloggio adeguato, all’assistenza sanitaria e alla sicurezza. Nel 2024, guerre e conflitti hanno portato a «un’impennata» dei casi di violenza sessuale e di genere legata al conflitto, con un «impatto sproporzionato» su donne e ragazze. Il caso di Gaza, in questo, è forse uno dei più emblematici, poiché violenze, abusi e privazioni dei diritti fondamentali si configurano come un vero e proprio genocidio, e i crimini assumono i tratti della discriminazione razziale. Come a Gaza, anche in Birmania il «razzismo sistemico» la fa da padrone, di fronte a una sempre più disinteressata risposta politica internazionale.
«Mentre in alcuni casi i meccanismi di giustizia internazionale hanno compiuto importanti passi avanti verso l’accertamento delle responsabilità», si legge infatti nel rapporto, «i governi potenti hanno ripetutamente bloccato i tentativi di adottare azioni significative per porre fine alle atrocità». USA, Regno Unito e molti Stati dell’UE, continua il rapporto «hanno pubblicamente appoggiato le azioni compiute da Israele a Gaza», facendo, nel caso degli Stati Uniti, un «ricorso improprio» al diritto di veto in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La soluzione, scrive Amnesty, è riformare tale istituzione, «in modo che gli Stati membri permanenti non possano esercitare il potere di veto per bloccare azioni finalizzate a far cessare i crimini di atrocità e garantire un rimedio».
Razzismo e repressione delle minoranze
La privazione dei diritti dei più deboli, scrive Amnesty, non è aumentata solo nei Paesi in guerra, ma in tutto il mondo. In cima alla lista delle minoranze discriminate figurano rifugiati e persone migranti. «Diversi Paesi, tra cui Arabia Saudita, Canada e Qatar», scrive Amnesty, «hanno continuato ad applicare programmi di gestione dei visti caratterizzati da razzismo e a vincolare i lavoratori migranti a uno specifico datore di lavoro», aprendo la strada allo sfruttamento. Le persone migranti sarebbero inoltre oggetto di «misure estreme e violente» per impedirne e respingerne l’arrivo nei Paesi, spesso portate avanti, come nel caso della Grecia, ignorando o aggirando gli ordini emessi dall’autorità giudiziaria. L’attacco alle persone migranti è direttamente collegato ai casi di discriminazione razziale, che Amnesty definisce «sistemica» e «radicata». In Brasile, in Ecuador e negli USA, «le operazioni di pubblica sicurezza hanno preso di mira o colpito in modo sproporzionato le persone afrodiscendenti»; in Cina e in Tagikistan, «le minoranze etniche e religiose hanno subìto persecuzioni e una discriminazione sistemica», mentre in Danimarca, nei Paesi Bassi e in Svezia «sistemi di welfare automatizzati hanno portato a pratiche discriminatorie contro le persone razzializzate».
Tra i casi di discriminazione citati da Amnesty vi è anche quella di genere: in Afghanistan i talebani hanno «escluso completamente» le donne dalla vita pubblica «limitando di fatto tutti gli aspetti della loro vita». In Argentina, è stato registrato un femminicidio ogni 33 ore. In Iran, è invece aumentata la repressione contro le ragazze «che sfidavano le leggi sull’obbligo di indossare il velo». Malgrado i passi avanti in Thailandia, in Grecia, in Repubblica Ceca, in Corea del Sud, in Giappone e a Taiwan, inoltre, «la proliferazione della discriminazione e di leggi repressive guidate da movimenti anti-diritti e anti-gender» è aumentata, specialmente nei Paesi africani, in Bulgaria e in Georgia.
Repressione del dissenso e delle libertà
Le forze dell’ordine arrestano un manifestante contro il genocidio in Palestina, ad Amsterdam
La discriminazione delle minoranze ha un effetto diretto su un altro dei punti fondamentali affrontati da Amnesty: la repressione del dissenso e delle libertà. «I gruppi marginalizzati sono stati utilizzati come capri espiatori e presentati come una minaccia alla stabilità politica o economica», scrive infatti il gruppo, «al fine di legittimare ulteriori restrizioni ai diritti umani e permettere a chi detiene il potere di rafforzare il proprio controllo». Quei fenomeni di orientamento discriminatorio, insomma, sarebbero solo un modo per scaricare le colpe del malfunzionamento dei meccanismi sociali alle minoranze e aprire la strada a una maggiore restrizione dei diritti. Mentre dal basso si è impegnati a farsi la guerra gli uni con gli altri, dall’alto si sfrutterebbe la polarizzazione del dibattito per inasprire la repressione della conflittualità sociale. Al tempo stesso, l’attacco ai diritti delle minoranze costituirebbe un fertile precedente, fornendo una base solida per una futura estensione delle restrizioni all’intera società.
In termini di repressione del dissenso, sono state colpite tanto la libertà di riunione quanto quella di espressione. In Argentina, Georgia, Nicaragua, Pakistan e Perù sono sorte nuove norme a restrizione del diritto di protesta; in Bangladesh, Egitto, Georgia, Giordania, Guinea, India, Indonesia, Kenya, Mozambico, Nepal, Nigeria, Pakistan e Senegal sono aumentati i casi di violenza da parte delle forze dell’ordine; e in quasi tutto il mondo chi ha manifestato per la Palestina «ha dovuto affrontare violenze, vessazioni o l’arresto». Parallelamente, in Paesi come la Cina è aumentato il ricorso a tecnologie che impiegano spyware e sistemi di riconoscimento facciale, i social media hanno diminuito le «protezioni finalizzate a prevenire danni agli individui più marginalizzati» e in tutto il mondo le nuove tecnologie sono ancora prive di una regolamentazione che ne garantisca un impiego etico e rispettoso dei diritti individuali. La progressiva privazione delle libertà avviene sullo sfondo di un aumento della povertà e delle disuguaglianze economiche, e dei sempre più frequenti disastri climatici, che si verificano in assenza di meccanismi giuridici che garantiscano la giustizia ambientale.
Il caso dell’Italia
Nel rapporto, Amnesty dedica una parte a un focus sull’Italia. Il rapporto, di preciso, cita i casi di tortura e maltrattamenti da parte del personale penitenziario ai danni dei detenuti, che nel 2024 sono stati almeno 83. Ad aprile, «alcune procuratrici hanno rivelato che 13 agenti penitenziari erano stati arrestati e otto sospesi per accuse di tortura e altre violazioni contro ragazzi trattenuti nel carcere minorile di Milano», caso che abbiamo trattato in un articolo de L’Indipendente. I casi di violenza domestica contro donne e ragazze registrati, invece, risultano almeno 59, e i femminicidi almeno 95. Amnesty cita poi i rapporti di ONU e Commissione Europea contro il Razzismo e l’Inclusione (ECRI) che «descrivevano come le persone rom, africane e di discendenza africana, migranti e LGBTI continuassero a essere vittime di razzismo e discriminazione, anche da parte di ufficiali statali».
In Italia, ritiene Amnesty, le persone migranti continuano a subire discriminazioni con il protocollo Italia-Albania, che costituirebbe anche un esempio di scavalcamento degli ordini emessi dall’autorità giudiziaria, e con i pluridocumentati maltrattamenti nei CPR. Stanno inoltre restringendosi le libertà economiche – con un aumento delle persone a rischio povertà – sociali – come nel caso dei diritti sanitari – e il diritto a vivere in un ambiente salubre, come testimoniato dall’ondata di siccità che ha colpito la Sicilia. Ultimo, ma non meno importante, l’attacco alle libertà e la repressione del dissenso rappresentato dal pacchetto “Sicurezza”, recentemente approvato sotto forma di decreto legge, che ha già ricevuto diverse critiche da giuristi, magistrati, e istituzioni internazionali come l’ONU.
Un giudice del tribunale di Santa Cruz, in Bolivia, ha annullato il mandato di arresto nei confronti dell’ex presidente indigeno Evo Morales. Il mandato era stato emesso lo scorso dicembre, sulla base di accuse di tratta di minori. Morales, di preciso, era accusato di avere avuto rapporti sessuali con una ragazza di quindici anni durante il periodo della sua presidenza, fra il 2016 e il 2019. Non sono ancora note le motivazioni con cui è stato ritirato il mandato. L’indagine nei suoi confronti, tuttavia, resta ancora aperta, e il ritiro del mandato potrebbe venire impugnato.
Le ultime notizie risalgono a ieri: Moamen Khairy Selim Osman, gruista di 35 anni, ha perso la vita a Cremona dopo essere stato colpito alla testa da un piccolo escavatore. A Frosinone, un operaio di 44 anni è rimasto ferito gravemente mentre manovrara un carrello elevatore. Due giorni prima, Paolo Lambruschi, 59 anni, è precipitato all’interno di una cava di marmo, a Carrara, mentre era alla guida di un dumper, morendo sul colpo. La lista prosegue senza sosta. I dati sul 2025 sono ancora parziali ma, stando ai conteggi del sindacato USB, potrebbero essere già 300 le morti sul lavoro quest’anno. Quasi tre operai al giorno. Proprio ieri, alla vigilia del 1° maggio, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato 650 milioni di euro in finanziamenti aggiuntivi per provvedimenti volti a «migliorare la sicurezza sui posti di lavoro». Le ipotesi? Generici «incentivi e disincentivi» per le aziende in base alla loro condotta e formazione di studenti e lavoratori, con copertura assicurativa per tutti. Misure emergenziali, che coprono un velo una problematica strutturale di lunghissima data nel nostro Paese. Eppure, una possibile soluzione concreta ci sarebbe: l’entrata in vigore di una legge che istituisca il reato di omicidio e lesioni gravi o gravissime sul lavoro, che porterebbe, secondo i promotori, a significative modifiche nell’atteggiamento dei responsabili della sicurezza. Attualmente, la proposta di legge giace in Senato da oltre un anno. Il governo non ha dato cenni di voler procedere ulteriormente in quella direzione.
La manovra annunciata da Meloni si profila, insomma, come un cerotto elargito con quel tempismo simbolico ormai di prassi (fu alla vigilia della festa della donna, lo scorso 7 marzo, che fu annunciato il decreto contro i femminicidi), che sembra puntare a smorzare le possibili critiche contro l’operato dell’esecutivo. Nello stesso comunicato di governo, infatti, non vengono menzionate nemmeno una volta misure radicali volte a responsabilizzare aziende e datori di lavoro. Le aziende avranno sì degli «incentivi» o «disincentivi» in base alla «condotta in materia di sicurezza», ma ad essere davvero centrale, per l’esecutivo, è la «cultura della prevenzione». Da parte dei lavoratori, sia chiaro. Così, vengono annunciate iniziative per la formazione già a partire dalle scuole, non solo «rafforzando la conoscenza di questi temi, di queste materie tra i giovani», ma anche «rendendo strutturale l’assicurazione INAIL per studenti e docenti». Una sorta di misura-beffa, quest’ultima, introdotta nel 2023 dopo la morte di Giuliano De Seta, 18 anni, durante il percorso di alternanza scuola-lavoro in fabbrica. Sin dal momento della sua introduzione è stata fortemente contestata dagli studenti, che all’eventuale risarcimento post-mortem avrebbero preferito l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro (tema centrale delle infuocate proteste studentesche del 2022).
Proprio in queste ore, invece, il ministero dell’Istruzione ha deciso di tirare dritto sul tema, proponendo addirittura l’abbassamento dell’età in cui è possibile accedere all’alternanza scuola-lavoro a 15 anni. Negli istituti tecnici, «nel primo biennio, oltre alle attività orientative collegate al mondo del lavoro e delle professioni, è possibile realizzare, a partire dalla seconda classe, i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento». PCTO, una denominazione generica che indica un tema ben preciso: lo sfruttamento della manodopera giovanile a costo zero, proprio perchè parte di un «percorso formativo». Obbligatorio, peraltro.
Per sottolineare l’urgenza di affrontare la questione della sicurezza sul lavoro, CGIL, CISL e UIL hanno deciso di farne il tema centrale di questo 1° maggio 2025. E rispondono al comunicato di Meloni sottolineando che «esperienza e giurisprudenza dimostrano che la sicurezza, o l’insicurezza, è il risultato della influenza reciproca di un esteso numero di fattori, dei quali il comportamento dei lavoratori non è neanche il più rilevante». I sindacati di base chiedono una «svolta radicale» nella gestione della sicurezza sul lavoro, che sia accompagnata da un salario degno. Secondo gli ultimi dati Eurostat, infatti, i lavoratori (anche a tempo pieno) con uno stipendio inferiore del 60% alla media nazionale sono in aumento, rappresentando il 9% del totale, mentre oltre il 10% degli occupati, tanto full-time quanto part-time, è a rischio povertà. Nel frattempo, l’INAIL riferisce che, tra i propri assicurati, sono stati 1077 i decessi dei lavoratori nel 2024 (in aumento del 4,7% rispetto ai 1029 del 2023),13 quelli degli studenti (rispetto ai 12 del 2023). Dati che, sottolinea l’Osservatorio Indipendente Morti sul Lavoro di Bologna, non tengono conto di una lunga serie di casistiche, tra le quali i lavoratori in nero o i morti in itinere (mentre si recano o rientrano da lavoro). Il totale, secondo l’Osservatorio, sarebbe di almeno 1481. Sono dati che urlano forte, più di qualsiasi proclama politico. E che richiedono azioni e risposte urgenti.
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