giovedì 21 Agosto 2025
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Do Kwon confessa la frode dietro le criptovalute TerraUSD e Luna

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Chi segue le criptovalute se lo ricorderà bene: nel 2022, il crollo delle monete digitali controllate dalla startup singaporiana Terraform Labs — TerraUSD e Luna — ha innescato un effetto domino che ha travolto l’intero ecosistema blockchain, causando perdite stimate in oltre 40 miliardi di dollari per gli investitori. Ora, Do Kwon, il magnate sudcoreano dietro al progetto, si è dichiarato colpevole di molteplici capi d’accusa e rischia fino a 25 anni di carcere.

In qualità di cofondatore e dirigente di Terraform Labs, Kwon ha ammesso di aver cospirato per commettere frodi su materie prime, frodi sui titoli e frodi telematiche. La dichiarazione di colpevolezza è stata presentata martedì — mercoledì, in orario italiano — presso il tribunale del distretto meridionale di New York, nell’ambito di un accordo di patteggiamento. Solo lo scorso gennaio, l’imprenditore si era dichiarato non colpevole; tuttavia, secondo la procuratrice Kimberly Ravener, l’accusa ha accettato di limitare la richiesta di pena qualora Kwon si fosse assunto la piena responsabilità dei suoi crimini. In caso contrario, sarebbero stati presi in esame tutti e nove i capi di imputazione originali, con un potenziale massimo di 135 anni di carcere. I pubblici ministeri riferiscono che il criptomanager ha accettato di rinunciare a 19,3 milioni di dollari di proventi illeciti. Già nel 2024, Kwon aveva affrontato una causa civile conclusasi con una multa di 80 milioni di dollari e il divieto di effettuare transazioni in criptovalute, come parte di un accordo da 4,55 miliardi di dollari che lui e Terraform hanno raggiunto con la Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC) degli Stati Uniti.

Kwon è accusato di aver ingannato gli investitori presentando TerraUSD come una stablecoin in grado di mantenere il valore di un dollaro senza interventi esterni: tutto sarebbe stato gestito da un algoritmo avanzato. In realtà, la start-up avrebbe stretto un accordo con una società di trading al fine di drogare il mercato e sostenere artificialmente il valore di TerraUSD e del suo token satellite, Luna. “Do Kwon ha sfruttato la promessa tecnologica e l’euforia degli investitori verso la criptovaluta per mettere in atto una delle più grandi frodi della storia”, ha dichiarato il procuratore statunitense Jay Clayton. “Ha attirato decine di miliardi di dollari nell’ecosistema di Terraform, promettendo una stablecoin autostabilizzante. Quando i mercati hanno capito che il sistema era instabile, era ormai troppo tardi: tutto è crollato e investitori in tutto il mondo hanno subito perdite miliardarie.”

Dopo il tracollo, sono state avviate class action milionarie e nel settembre 2022, le autorità sudcoreane hanno emesso un mandato di arresto nei confronti di Kwon e ha avviato la procedura per la revoca del suo passaporto, segnalandolo all’Interpol. Nel frattempo, l’imprenditore si è dato alla fuga per evitare l’estradizione. Nel marzo 2023, è stato infine arrestato all’aeroporto di Podgorica, in Montenegro, mentre tentava di raggiungere Dubai con documenti falsi, tra cui passaporti contraffatti della Costa Rica e del Belgio.

Sebbene i procuratori abbiano accettato di chiedere un massimo di 12 anni di carcere, il giudice distrettuale statunitense Paul Engelmayer potrebbe infliggergli fino a 25 anni di reclusione, una pena paragonabile a quella comminata a Sam Bankman-Fried, l’imprenditore crypto responsabile del collasso di FTX e Alameda Research. La sentenza è attesa per l’11 dicembre.

Australia-Vanuatu accordo di sicurezza da 300 milioni

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Australia e Vanuatu hanno siglato un accordo da 500 milioni di dollari australiani (circa 280 milioni di euro) per rafforzare i legami economici e di sicurezza tra i due Paesi. L’intesa, che ha preso il nome di “Accordo Nakamal” prevede che l’Australia investa i fondi in Vanuatu nel prossimo decennio, e introduce vantaggi commerciali e maggiore mobilità in ambito lavorativo. L’accordo, che verrà siglato formalmente il prossimo mese, si inserisce in un contesto di crescente concorrenza tra Australia e Cina, principale creditore esterno di Vanuatu, per gli investimenti all’interno del Paese e per mantenere una influenza nell’area del Pacifico.

Media israeliani rivelano: dall’Italia milioni di euro alle startup israeliane

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Nonostante le parole di condanna da parte del governo Meloni, l’Italia non cessa di fare affari con le aziende israeliane. I media israeliani hanno infatti rivelato che Cassa Depositi e Prestiti, fondo a partecipazione maggioritaria del Ministero dell’Economia, avrebbe intenzione di investire decine di milioni di euro in start-up israeliane, una delle categorie di imprese su cui Israele sta puntando maggiormente. Gli investimenti sarebbero rivolti ai settori relativi alla tecnologia, con l’obiettivo di portare l’attività delle aziende in Italia. Il primo di questi è già noto ed è stato condotto alla luce del sole: CDP ha partecipato alla terza grande tornata di investimenti a favore di Classiq, start-up israeliana che sviluppa software quantistici, fondata da un’ex comandante dell’unità di intelligence 8200 delle Forze di Difesa Israeliane. Il round di investimenti ha un valore totale di oltre 110 milioni di euro e, da quanto comunicano i media israeliani, il governo italiano sarebbe «ben consapevole» di questo e degli altri movimenti di CDP.

La notizia sui movimenti di CDP è stata data dal quotidiano israeliano specializzato in economia Globe, che cita fonti anonime di alto rilievo. Secondo Globe, CDP avrebbe in piano di investire decine di milioni di euro – «e forse ancora di più» – sulle start-up israeliane del settore tecnologico, puntando prevalentemente «nell’intelligenza artificiale e nel calcolo quantistico, con l’obiettivo di portare l’attività delle aziende in Italia, per sviluppare e far progredire l’industria tecnologica locale». Proprio a fine luglio è arrivato un investimento, condotto con la giapponese SoftBank, da un valore stimato tra i 20 e i 30 milioni di euro. «CDP Venture Capital investe nei campioni tecnologici di domani in aree come il calcolo quantistico, attraendo e coltivando talenti e facilitando l’integrazione della tecnologia nelle filiere industriali, con l’obiettivo di rendere il sistema economico italiano più competitivo a livello globale», ha dichiarato Alessandro Scortecci, responsabile degli investimenti di CDP. La tornata di finanziamenti a cui ha partecipato CDP era stata annunciata a maggio e comprendeva, tra i cosiddetti follower (ossia le imprese o fondi che partecipano a una tornata senza guidare l’offerta), anche Neva SGR, che fa capo a Intesa San Paolo. A maggio, Classiq sosteneva di avere radunato 110 milioni di euro.

Classiq è una start-up israeliana co-fondata nel 2020 da Nir Minerbi, ex comandante di un team di ricercatori dell’unità 8200, specializzata in attività di spionaggio e controspionaggio in ambito tecnologico. La start-up sostiene di avere «triplicato la sua base clienti e i suoi ricavi anno dopo anno», un destino che condividerebbe con diverse delle sue omologhe israeliane. Israele viene infatti detto spesso «Paese delle start-up». Nel suo rapporto sull’economia del genocidio, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, parla proprio di come le start-up rappresentino tra le maggiori fonti di profitto della macchina genocidaria, tanto che nel 2024 Israele ha registrato un aumento del 143% delle start-up di tecnologia militare, i cui prodotti hanno rappresentato il 64% delle esportazioni israeliane durante il genocidio. Nonostante ciò, l’Italia continua a finanziare le imprese israeliane con fondi, come CDP, a partecipazione maggioritaria ministeriale. Secondo Globe, inoltre, questi investimenti sarebbero fatti con il beneplacito della stessa premier Meloni, che ancora una volta confermerebbe la scarsa concretezza delle proprie condanne, forti a parole ma inconsistenti nei fatti.

ENEL: il volto italiano del neocolonialismo che affama il popolo Mapuche

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La macchina di Elena, la nostra accompagnatrice, scivola veloce lungo l’autostrada deserta. «Devi renderti conto che quello che stiamo per fare è molto importante». Mariela, dal lato passeggero, guarda dritta davanti a sé, tenendo stretta la maniglia della porta. Fuori dal finestrino, le monocolture di pini ed eucalipti, l’oro verde del Cile, sfilano veloci al lato della strada. Un po’ più in là, il profilo imponente delle pale eoliche si staglia contro il cielo azzurrino dell’orizzonte, dove tra poco sorgerà l’alba. Ovunque si volga lo sguardo, il paesaggio restituisce le ferite di una terra ricca di risorse che il colonizzatore ha fatto proprie, calpestando tutto ciò che c’era prima. La distruzione che ha lasciato intorno a sé l’ha chiamata “progresso”. So che Mariela ha paura, anche se il suo volto non lo dà a vedere. Se i carabineros ci fermano, lei sarà la prima a essere arrestata. Anche senza motivo. Per lei non sarebbe la prima volta e nemmeno l’ultima. Accade a centinaia di persone come lei, in questa parte di Cile. È il colore della sua pelle, è il retaggio che porta con sé. È l’essere mapuche. «La persona che stiamo per incontrare è molto importante, devi essere consapevole di questo. E normalmente non accetta visite di questo tipo». Tradotto: di bianchi, europei. «Però nessuno meglio di lui ha la visione d’insieme. Nessuno meglio di lui ti sa raccontare l’impatto che le grandi aziende come ENEL hanno sul nostro popolo, sulle nostre vite, e quanto costa la lotta per la terra». Mapuche. Mapu, la terra. Che, il popolo, la gente. Due concetti fusi nella stessa parola, l’esistenza dell’uno impossibile senza l’altro. La macchina di Elena prosegue silenziosa verso ovest. I primi raggi del sole fanno brillare l’asfalto umido dalla notte. Ancora un centinaio di chilometri e saremo a destinazione. 

Colonialismi vecchi e nuovi

Il centro urbano di Coronel. In lontananza, sulla destra, si vedono le due cupole bianche dellacentrale, costruite per evitare la
dispersione di carbone [foto di Valeria Casolaro]

Il Cile è una striscia di terra di appena 180 km di larghezza, che si estende in lunghezza per oltre 4300. Il suo territorio attraversa almeno quattro climi diversi, cui corrispondono una varietà di ecosistemi e ricchezze naturali sterminate – venti, corsi d’acqua, foreste, riserve di litio e terre rare, tra gli altri. Per questo, da secoli, è una preda appetitosa per governi e aziende estere, in particolare quelle energetiche, che qui hanno potuto diversificare la produzione arricchendosi a non finire. E tra queste, nessuna ha saputo farlo meglio dell’italiana ENEL. 

Il gruppo è presente nel Paese con ENEL Chile S.A., che controlla un gruppo di compagnie operanti nel settore dell’energia elettrica cilena. Si tratta di ENEL Green Power Chile, ENEL Generación Chile, ENEL Distribución Chile ed ENEL X. James Lee Stancampiano, ex CEO di ENEL Green Power, ha definito il Paese «il laboratorio della transizione»: qui è stata realizzata la prima centrale solare industriale di grandi dimensioni, installato il primo pannello fotovoltaico bifacciale, costruita la prima centrale geotermica dell’America Latina, portate a termine le prime sperimentazioni nel campo dell’energia mareomotrice. In questa «palestra dell’innovazione» dalle uova d’oro, ENEL ha costruito un piccolo impero: qui, l’azienda ha infatti la più alta capacità di produzione di energia nel campo delle rinnovabili al mondo, dopo Italia, Spagna e Nordamerica – 7,3 GW, l’11% della produzione globale, il 37% di quella prodotta in tutto il Sudamerica. 

Per facilitare le operazioni ad aziende come ENEL, nel 2025 è entrato in vigore l’Advanced Framework Agreement (AFA), accordo sottoscritto dal Cile con l’Unione Europea per rafforzare la cooperazione politica, economica e istituzionale e incentrato sullo sviluppo dell’energia verde e sostenibile. Grazie a esso, il 99% delle esportazioni UE sarà esente da dazi (con potenziale aumento delle esportazioni fino a 4,5 miliardi di euro) e l’Unione potrà avere più facile accesso alle materie prime e ai combustibili necessari per la transizione – come litio, rame e idrogeno. Inoltre, l’AFA garantisce parità di trattamento agli investitori cileni ed europei e migliora l’accesso delle imprese UE agli appalti pubblici cileni. Contestualmente, sarà sviluppata la cooperazione nell’ambito della lotta al terrorismo: un elemento non da poco conto, considerato che la Camera dei Deputati cilena sta spingendo per l’approvazione di una risoluzione che identifica come terroriste le organizzazioni che si battono contro la colonizzazione dei territori da parte dello Stato e delle aziende straniere. Si tratta, in particolare, della Coordinadora Arauco-Malleco (CAM), della Resistencia Mapuche Malleco (RMM), della Resistencia Mapuche Lafkenche (RML) e della Weichán Auka Mapu (WAM), tutte organizzazioni del popolo mapuche, nativo del Cile, che rappresenta circa il 10% della popolazione totale. Fino a ora, il presidente Boric non ha dato seguito alla richiesta. Tuttavia, il documento porta come prima firma quella di Johannes Kaiser, favorito alle presidenziali del prossimo novembre. La lotta del popolo mapuche costituisce la principale spina nel fianco per il governo cileno e per le aziende che operano nelle regioni della Macrozona Sur, ricche di risorse.

 

Elaborazione grafica de L’Indipendente

Le critiche all’AFA sono già tante: l’eurodeputata Ana Miranda, per esempio, ha sottolineato la mancanza di trasparenza nelle negoziazioni, dove il Cile non ha potuto dire pressoché nulla. L’AFA, sostiene, dà il via libera «alle multinazionali e a un modello agroesportatore ed estrattivista che promuove l’aumento delle estrazioni di materiali strategici, come il rame e il litio», permettendo allo stesso tempo «lo sfruttamento dei territori e della biodiversità». In questo contesto, «non sono stati consultati i popoli originari», in particolare «il popolo mapuche, il più messo a rischio». Numerose realtà ambientaliste, tra le quali Friends of the Earth Europe (la filiale europea della più grande rete ambientalista di base del mondo), hanno parlato di «sfruttamento ecologico» che avrà implicazioni «sui diritti umani e sull’ambiente», in quanto «favorisce modalità di produzione e di scambio insostenibili e ingiuste, volte a rafforzare i termini di commercio neocoloniali». 

Il concetto di transizione energetica non implica quelli di giustizia ecologica, decolonizzazione, giustizia sociale. Costituisce per lo più un passaggio da un sistema economico predatorio a un altro, al quale sopravvivono le aziende con la maggiore capacità di adattamento. 

Le ceneri tossiche del passato

La discarica delle ceneri delle centrali Bocaminas di Coronel, ora ricoperta di terra e piante secondo il progetto di ENEL di creare un bosco. Attivisti e municipio denunciano contaminazioni, ma non risultano analisi effettuate [foto di Valeria Casolaro]

ENEL fortifica la propria presenza in Cile nel 2009, quando acquisisce un ulteriore 25% (in aggiunta al 67% già posseduto) del capitale di ENDESA S.A., principale impresa del settore elettrico spagnolo, arrivando a detenere il 92% del gruppo e acquisendo quindi pieno controllo su di esso. ENDESA S.A. controllava allora, attraverso la sussidiaria Enersis, ENDESA Chile (principale azienda energetica del Paese), la quale possedeva numerosi progetti energetici nel Paese. Tra questi vi erano le centrali idroelettriche Pangue, Ralco e Palmucho (tutte e tre situate a poca distanza sul fiume Bío Bío e in funzione rispettivamente dal 1996, 2004 e 2008), situate in una zona ad alto conflitto con le popolazioni locali, e la termoelettrica a carbone Bocamina I (in funzione dal 1970 fino al 2020), situata nella città di Coronel. Nel 2012 entrò in funzione anche la seconda termoelettrica a carbone di ENDESA, Bocamina II, la cui attività fu interrotta nel 2022, nell’ambito del piano di decarbonizzazione del Paese. Dopo una serie di riaggiustamenti societari, nel 2016 ENDESA Chile cambiò definitivamente nome in ENEL Generación Chile. Il controllo di ENEL sulle attività di ENDESA Chile, tuttavia, è effettivo già dal 2009 – ma una notevole influenza la esercitava già dal 2007, quando divenne socia di maggioranza di ENDESA S.A. al 67%. 

La cittadina di Coronel, 127 mila abitanti, è oggi una delle cinque “zone di sacrificio” del Cile – dove l’alta concentrazione di industrie ha compromesso la qualità della vita e l’equilibrio ambientale, senza peraltro generare un vantaggio economico adeguato per i residenti. Ci troviamo a circa 500 km a sud di Santiago, nella provincia di Concepción, regione di Bío Bío. Qui, la presenza di 3 termoelettriche a poche centinaia di metri dalle zone abitate, 7 industrie del settore ittico e un parco industriale con oltre un centinaio di aziende ha saturato completamente l’ambiente di sostanze contaminanti. Uno studio realizzato dalla Universidad Catolica de la Santisima Concepción ha rilevato come il suolo del Porto di Coronel, nelle immediate vicinanze delle Bocamina di ENEL, sia fortemente contaminato, tanto a livello superficiale quanto in profondità, da metalli pesanti quali rame, piombo e vanadio, presentando anche livelli moderati di contaminazione da nichel e arsenico, altamente dannosi per l’organismo – l’arsenico, per esempio, può causare problematiche gastrointestinali, cardiache, renali e neurologiche. «Non siamo a conoscenza di questo studio» ha commentato l’azienda a una nostra domanda in merito, ma «durante gli anni di attività delle unità Bocamina 1 e 2, entrambe sono state gestite secondo meccanismi ambientali che rispettavano i più alti standard tecnologici dell’epoca, costantemente aggiornati nel tempo». Alla domanda riguardo eventuali opere di bonifica dell’area, ENEL ha evitato di fornire risposte dirette, asserendo che «le analisi effettuate negli ultimi anni riguardo alla presenza di metalli pesanti, condotte dall’autorità sanitaria locale, non sono mai state conclusive circa le cause, la persistenza, i livelli di tossicità o le caratteristiche principali di questi metalli. Inoltre, i campioni finora pubblicati non indicano livelli differenti da quelli registrati nel resto del Paese e, in alcuni casi, si attestano persino al di sotto della media nazionale». Va sottolineato che numerosi studi hanno confermato l’alto potenziale inquinante di questo tipo di centrali, proprio a causa del deposito di metalli pesanti nell’ambiente circostante, con conseguenze sulla salute degli ecosistemi e delle persone. 

La lotta socioambientale dei residenti contro le termoelettriche dura da almeno due decenni. Nel 2018, un’inchiesta riconobbe il ruolo delle Bocamina nella contaminazione atmosferica e idrica della baia: nell’ambito di quest’ultima, tre dirigenti di ENEL furono accusati di diffusione di agenti chimici dannosi per l’ambiente e le persone e di immissione di sostanze nocive in mare, ma l’azienda trovò il modo di accordarsi con la procura, impegnandosi a ridurre le emissioni del 30%, ed evitò il rinvio a giudizio. Nell’ambito dello stesso processo, si determinò che il deposito scoperto delle ceneri di scarto, situato a 500 metri dal centro abitato, stava contaminando le falde acquifere e il mare, mentre il vento stava trasportando le ceneri tossiche verso la popolazione. Le analisi condotte dimostrarono anche che altissime concentrazioni di arsenico, cadmio e zinco, insieme a cromo, rame, alluminio, manganese, vanadio, cobalto e ferro furono trovate nei controsoffitti delle scuole e delle case – tutti materiali correlati a gravi malattie. Inoltre, nel 2016, iniziarono ad emergere i primi casi di bambini contaminati con metalli pesanti. Nonostante ciò, la Commissione investigativa della Camera, nel 2021, ha riscontrato che non fossero ancora state adottate misure sufficienti per prevenire o trattare le patologie rilevate. Nello stesso anno, è stato avviato un primo studio sulla correlazione tra contaminazione del suolo da parte delle termoelettriche dalla Università Cattolica di Concepción e finanziato dal Ministero della Salute, ma ad oggi i risultati non sembra siano stati resi noti.

Elaborazione grafica de L’Indipendente

Nel 2019, l’azienda cominciò a ricoprire la discarica di ceneri con l’intento di farne un bosco nativo, ma per i residenti si tratta solamente di un tentativo di nascondere sotto la terra qualcosa che ha già causato una contaminazione grave e che, a loro parere, potrebbe essere ancora oggi fonte di contaminazione. È opinione diffusa tra la popolazione che lo Stato nasconda i dati ufficiali sulla contaminazione. «È inconcepibile che una impresa si sia arricchita così tanto lucrando sulla salute dei nostri figli» mi dice Flavia, madre di uno dei primi 18 bambini sui quali fu scoperta la contaminazione. Lo Stato, sottolinea, ha avuto un ruolo decisivo nel permettere «che la sua popolazione fosse contaminata per le azioni di una impresa che non è nemmeno di qui». A Coronel, dice, la situazione è «apocalittica», ma per la maggior parte dei residenti non c’è alternativa. «Questa è una cittadina molto, molto povera. Io a fatica ho ottenuto qui una casa popolare, non posso lasciarla per andare da un’altra parte». Le misure di compensazione dell’azienda, secondo quanto riferisce Flavia, sono poca cosa: qualche risarcimento per gli abitanti le cui abitazioni sorgevano sul terreno dove è stata costruita la termoelettrica, il ricollocamento di alcune strutture che si trovavano troppo vicine alla centrale in zone più lontane (come la scuola Rosa Medel, nella quale numerosi studenti risultarono contaminati da metalli pesanti, originariamente situata a meno di 500 metri dalla Bocamina). 

La contaminazione, però, è sotto gli occhi di tutti: «l’acqua che beviamo è contaminata, il pesce che mangiamo è contaminato, la terra stessa è contaminata. Da anni al mattino le macchine sono coperte da un sottile strato di polvere, che sono le emissioni delle centrali». «Spesso quando apri il rubinetto l’acqua che esce è gialla e puzza. Chiaro che non è possibile berla», mi racconta Pepe, attivista di lunga data. 

Abbiamo chiesto a ENEL se, considerata la prossimità delle centrali con il centro urbano e le denunce da parte dei residenti di malattie sviluppate a seguito della contaminazione del territorio, fosse stato avviato un monitoraggio dell’impatto delle attività della Bocamina sull’ambiente e se i dati fossero consultabili. L’azienda ha risposto che le operazioni di deposito/discarica delle ceneri sono terminate con la chiusura delle centrali e che «l’attività operativa delle due unità e del deposito è stata regolata dalle autorizzazioni ambientali pertinenti, che includevano misure di tutela e monitoraggio ambientale sia da parte dell’azienda che delle autorità competenti». In aggiunta a ciò, «i rapporti di monitoraggio ambientale previsti nelle rispettive Risoluzioni di Valutazione Ambientale (RCA) sono stati pienamente eseguiti durante la fase operativa della centrale Bocamina e pubblicati attraverso le piattaforme gestite dalle autorità ambientali. Attualmente, le infrastrutture industriali relative alle unità 1 e 2 sono state messe in sicurezza. Le attività di smantellamento e chiusura della centrale verranno svolte in conformità a tutta la normativa vigente e con le necessarie autorizzazioni ambientali. L’attuale RCA della centrale non prevede obblighi di monitoraggio ambientale nella fase post-chiusura, poiché non è stato rilevato un impatto ambientale persistente». Il 2025 segna cinque anni dalla chiusura della prima centrale, tre dalla chiusura della seconda. Eppure, lo smantellamento non sembra essere in programma a breve.

Transizione ecologica, non etica

Coronel rappresenta (per il momento) il passato. Ora il Paese punta alla transizione energetica, all’energia verde e le aziende si adattano. Replicando i medesimi comportamenti predatori che hanno caratterizzato il guadagno fossile. In questo contesto, la lotta del popolo mapuche contro l’invasore europeo prima e lo Stato cileno dopo ha dato per secoli filo da torcere a chiunque tentasse di colonizzare le loro terre ancestrali. «Io preferisco il termine “pre-esistenti”» mi ha detto una volta Mariela, mentre mangiavamo una empanada sulla spiaggia di Penco, durante uno dei nostri primi incontri, «è più corretto, perché sottolinea che noi eravamo qui prima. Prima dell’arrivo degli spagnoli, prima della creazione dello Stato cileno, prima che fossimo sterminati da un popolo invasore e oppressore». 

Quando la macchina di Elena si ferma all’esterno del cancello di legno, ho un sussulto. Ci troviamo nella comunità mapuche tradizionale di Temucuicui, nel cuore dell’Araucania. Oltre il cancello di legno c’è la casa del lonko Victor Queipul, la massima autorità politica e spirituale della comunità. In genere, l’ingresso di estranei in questa comunità non è permesso – tanto più se europei. Organizzare questo incontro ha richiesto settimane di paziente attesa e preparazione, tanto mentale quanto logistica. Superare la barriera di diffidenza delle comunità non è semplice. Così come non sarebbe stato semplice giustificare, alle decine di carabineros che pattugliano le strade, perché ci stiamo recando nella comunità che è il cuore di quella che lo Stato definisce «lotta violenta», che ha spinto il governo a istituire a partire dal 2021 lo stato di emergenza e dove negli anni sono fallite diverse operazioni di polizia. È a Temucuicui che nasce la RMM, autrice di attacchi incendiari proprio contro mezzi ENEL e altre aziende e di vari altri atti di «violenza politica» contro lo Stato. Nel 2022, il tentativo della ministra dell’Interno Izkia Siches di visitare la comunità è stato bruscamente interrotto quando il suo convoglio ha incontrato un veicolo bruciato a bloccare la strada. Colpi di arma da fuoco sparati in aria e un cartello che riportava che «finché ci saranno prigionieri politici non ci sarà dialogo» hanno fatto chiaramente capire che il governo cileno non è il benvenuto da queste parti. 

 

Per rimediare alla presenza delle centrali termoelettriche a carbone nel centro della città, ENEL fece
dipingere gli esterni della centrale con murales, per «integrare maggiormente nel tessuto urbano
una installazione industriale» [foto di Valeria Casolaro]

Nell’area compresa tra Collipulli, Angol, Ercilla e Victoria, nel mezzo della quale si trova Temucuicui, sarebbero almeno 354 le turbine eoliche installate. 22 di queste si trovano nel parco eolico La Cabaña, di proprietà di ENEL Green Power, alle quali vanno aggiunte quelle del progetto Renaico II, suddiviso nei parchi eolici di Las Viñas e Puelche, dove sono presenti un totale di 32 turbine. La maggior parte di questi progetti, denunciano collettivi e organizzazioni, avrebbero ricevuto il via libera dallo Stato senza che vi sia stata alcuna approvazione o consultazione delle comunità indigene o della cittadinanza, le quali si devono tuttavia fare carico delle conseguenze negative – come la chiusura dei cammini rurali, la presenza costante di guardie di sicurezza, il rumore delle pale in funzione e così via. Nel caso del parco di Las Viñas, per esempio, i residenti hanno chiesto lo stop al progetto per via delle conseguenze che poteva avere su qualità dell’aria, rumore, luminosità (per via dell’ombra proiettata dalle pale, alte centinaia di metri), suolo, fauna, flora e paesaggio, oltre che costringere al reinsediamento le persone e interferire con i luoghi di svolgimento delle cerimonie sacre. Il Tribunale Ambientale di Valdivia ha tuttavia rigettato le loro richieste, negando che esistessero prove in merito a tutte le rimostranze avanzate. «Non c’è alcuna giustificazione legale per applicare un Processo di Consultazione Indigena [ovvero per includere gli indigeni nel procedimento decisionale, ndr]», ha scritto il Tribunale. 

«La povertà del popolo mapuche è iniziata quando lo Stato cileno ha cominciato a toglierci le terre». Il tono del lonko Queipul è grave, il volto corrucciato. «Quello che fa ENEL con i suoi progetti, come tutte le grandi aziende che operano in maniera simile, è dire “Non vi arriva l’acqua? Mettete una firma qui e ve la facciamo arrivare”. Promettono alla gente di fare le strade e di fare arrivare l’energia elettrica, insomma necessità basiche delle quali dovrebbe incaricarsi lo Stato, non l’azienda. In questo modo possono dire di aver fatto la consultazione con la popolazione. In realtà, si infilano nel territorio mapuche con l’inganno». Il lonko non nega che vi siano alcuni rappresentanti delle comunità disposti a scendere a compromessi, ma si tratta di persone alle quali la “coperta da lonko” (abito tradizionale) è stata data dallo Stato. «Sono persone che si accordano con la politica, che non hanno quel ruolo per tradizione, quindi non sanno compiere appieno gli interessi delle comunità». 

Per chi si trova delle turbine a pochi metri da casa, la vita è impossibile, riferisce il lonko. «Le turbine sono enormi, la terra vibra costantemente. Anche per gli uccelli la vita è impossibile. Tutti gli animali che vivono in quel luogo devono andarsene e tutti i mapuche anche». Le persone che vivono vicino alle pale riferiscono che la sensazione sia quella di convivere con un terremoto continuo. «A Renaico la gente sta iniziando ad ammalarsi nella testa, per via del rumore. Questa gente è povera, non ha le risorse per farsi curare. E non è un problema solo dei mapuche, anche per il resto dei cileni che abitano queste zone. Prima lo Stato ci impoverisce, poi le aziende distruggono quello che resta. Alla fine, queste sono terre usurpate al nostro popolo dai coloni, non importa che fine fa la gente povera, loro installano le loro pale eoliche e non gli importa nulla del resto». A peggiorare il quadro, denuncia il lonko, vi è il fatto che il 60% dell’energia prodotta dalle turbine non è destinata alle famiglie o agli utenti, ma alle miniere. «Lo stesso succede con le dighe», spiega il lonko. Abbiamo chiesto a ENEL se fosse a conoscenza della percentuale di energia elettrica prodotta nella Macrozona Sur che veniva destinata alle comunità, ma ci è stato risposto che il processo è regolato direttamente dal Coordinador Eléctrico Nacional, ente autonomo e indipendente dalle aziende produttrici, e che «le imprese di generazione non hanno accesso al dettaglio della distribuzione dell’energia né possono influenzarla». 

Dei 63 impianti green esistenti in Cile e di proprietà di ENEL Green Power, una dozzina si trovano in Araucania e producono oltre un terzo dell’energia rinnovabile di tutto il Paese. La quasi totalità si trova in contesti di forte conflitto sociale e opposizione delle popolazioni locali – come nel caso delle centrali idroelettriche Pangue, Ralco e Palmucho. Nel corso di una chiacchierata in un caffè di Concepción, Javier Arroyo Olea, ricercatore dell’Osservatorio Latinoamericano dei Conflitti Ambientali (OLCA), mi spiega che le continue inondazioni causate dall’innalzamento del fiume per effetto dell’attività delle dighe continuano a provocare problemi alle popolazioni locali, per lo più mapuche pewenche. Queste ultime accusano infatti l’azienda di non essersi dotata di un adeguato sistema di allarme per avvisare la popolazione delle piene del Bío Bío, che causerebbero spesso la distruzione delle abitazioni e un rischio di morte per gli abitanti, oltre che l’annegamento degli animali e l’allagamento dei raccolti. Dal canto suo, l’azienda ha sempre negato ogni responsabilità, sostenendo che le centrali abbiano invece un effetto ammortizzante sulle piene. 

Dal 2019 l’associazione Malen Leubü denuncia a ENEL «profonda preoccupazione e malessere» per la gestione delle tre dighe, che si trovano a monte della comunità Callqui, specialmente per quanto riguarda il controllo del livello del fiume. Da anni, infatti, ENEL e il Comune di Alto Bío Bío starebbero scaricando l’una sull’altra la responsabilità della realizzazione di allarmi e piani di emergenza. La mancanza di chiarezza da entrambe le parti e di misure di prevenzione efficaci, sottolinea Malen Leubü, mette a rischio la vita della popolazione, che negli anni ha osservato «un aumento nella frequenza e nella portata degli innalzamenti, che ha conseguenze non solo sulla sicurezza delle persone, ma anche sulle attività sportive e ricreative». La situazione è grave al punto da essere stata esposta «di fronte alla sede ONU di Ginevra», fatto che «sottolinea la gravità della situazione e la necessità urgente di attenzione». 

A fronte dell’alto livello di conflitto sociale che permea molte delle zone della Macrozona Sur nelle quali sono presenti suoi progetti, l’azienda ritiene tuttavia che le proprie politiche rispettino pienamente i diritti umani e l’ambiente, prevedendo una partecipazione pubblica e un’adeguata tutela delle comunità indigene durante il processo di valutazione ambientale.

La lotta rimane

Sulla strada del ritorno, Mariela è più rilassata. Quando siamo abbastanza lontane dalla zona di Temucuicui, ci fermiamo in un autogrill. Fino ad ora abbiamo visto una sola camionetta di carabineros, appostata in una piazzola lungo l’autostrada. «Non vogliono spaventare troppo i turisti» mi dice Elena, facendomi l’occhiolino. Sorrido distrattamente, la testa distante, immersa nei pensieri. Mariela mi osserva. Sul suo volto è scritto il significato delle parole del lonko Queipul: «Non c’è nessun’altra organizzazione in Cile che lotta per un diritto come la popolazione mapuche. La nostra lotta non è temporanea. Rimane. Non esistono alternative». «E ora?» le chiedo, mentre cerco di mettere in fila i pensieri. Mi sorride, ha l’aria stanca. «Ora sta a te. Ma prima, andiamo a prenderci una bella birra».

L’indomita resistenza dei mapuche per la propria esistenza

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A lato della strada, un trattore blu è circondato da bandiere mapuche, che si agitano insieme alle fronde degli alberi quando il vento soffia. Le ruote ormai sgonfie sono afflosciate sul terreno. Il volto di Camilo Catrillanca mi fissa serio dalla fotografia appoggiata sul mezzo. Si trovava su questo trattore quando, il 14 novembre 2018, una pallottola lo ha raggiunto alla base del cranio. A sparagli alle spalle è stato Carlos Alarcón Molina, carabinero del gruppo antiterrorismo denominato Comando Jungla. Un omicidio a sangue freddo. Camilo, 24 anni, era già un weichafe, guerriero difensore del popolo e della terra. «Che il fuoco ribelle della memoria non si spenga», recita un cartello apposto sul trattore. «Né il carcere né le pallottole spegneranno la lotta del mio popolo. Camilo Catrillanca vive per sempre». 

Morire per il diritto a esistere 

Camilo è stato ucciso nel corso di un’operazione di polizia portata a termine all’interno della comunità di Temucuicui. Non è l’unico rappresentante di una comunità mapuche ucciso dalle forze dell’ordine, sparito o morto in circostanze poco chiare. Il 3 gennaio del 2008 Matias Catrileo, 22 anni, fu ucciso da un colpo di arma da fuoco esploso dal capo dei carabineros Walter Ramírez nel corso di una operazione di recuperación, ovvero l’occupazione da parte dei mapuche di una porzione di terra originariamente di loro proprietà, sottratta illegalmente dallo Stato e rivenduta a privati – imprese forestali come Mininco o Arauco, che in Cile hanno fatto i miliardi con l’industria del legno, multinazionali o famiglie di coloni. Prima di lui c’era stato Edmundo Alex Lemún Saavedra, 17 anni, anche lui ucciso durante una recuperación nelle terre di cui si era appropriata la Mininco da un colpo di pistola alla testa esploso dal carabinero Marco Aurelio Treuer. Ma c’è anche Macarena Valdés, 33 anni, che aveva lottato contro la costruzione dell’idroelettrica sul fiume Tranguil ed “è stata suicidata”, impiccata a una corda, il 22 agosto del 2016. E Nicolasa Quintremán, attivista mapuche conosciuta in tutto il mondo per la sua strenua lotta contro l’idroelettrica Ralco (ex ENDESA, oggi ENEL), il cui corpo è stato trovato a galleggiare nel bacino della diga. Probabilmente scivolata, hanno detto, possibilità che ai compagni di lotta e a tutto il popolo mapuche suona più che inverosimile. E poi Emilia Herrera, i fratelli Huenupe Pavián, Jorge Suárez Marihuan. E molti, molti altri. 

L’ultima di questa macabra lista è Julia Chuñil Catricura. Capo della comunità Putraguel, 72 anni, sparita nel nulla l’8 novembre del 2024 insieme ai suoi cani mentre si trovava all’interno di un territorio recuperato di proprietà di Juan Carlos Morstadt Anwandter, discendente di una delle più potenti famiglie di coloni tedeschi del Paese. La sua scomparsa ha generato un’ondata di mobilitazioni in tutto il Cile, con manifestazioni organizzate ogni 8 del mese a Santiago e in tutte le principali città per chiedere verità e giustizia. Otto mesi dopo, le indagini procedono a rilento, dopo essere passate per le mani di almeno quattro distinti procuratori e, secondo l’avvocato che rappresenta il figlio, con varie irregolarità nel procedimento. 

La terra non si compra, si recupera

Il memoriale per il weichafe Camilo Catrillanca, all’interno della comunità di Temucuicui [foto di Valeria Casolaro]

«In genere, per farlo ci troviamo in tanti. Tagliamo il filo spinato e occupiamo la terra». Ho conosciuto Mariela a una delle manifestazioni per Julia Chuñil. Mentre parliamo, scalda sul fuoco le humitas preparate da sua madre, un piatto tipico cileno a base di mais. I cani, fermi sull’orlo della porta, annusano l’aria. «Funziona così: prima si fanno delle barricate per le strade, con pneumatici incendiati e altri oggetti, in modo che i veicoli dei carabineros e delle imprese forestali non possano arrivare. Poi si corre nel territorio che si vuole occupare, si pianta una bandiera mapuche e si costruiscono case di fortuna, che vengono migliorate col tempo. È necessario che ci sia qualcuno a presidiare costantemente, per evitare che vengano distrutte in nostra assenza». 

Le recuperaciónes sono lo strumento con il quale la popolazione mapuche si riappropria delle terre che le appartengono da secoli e che lo Stato cileno ha sottratto con la violenza a più riprese, a partire dal XIX secolo. Tra il 1861 e il 1883, una serie di campagne militari portarono all’annessione dell’Araucania e all’imposizione dell’autorità legale dello Stato sulla popolazione nativa. Le terre furono sottratte ai loro legittimi proprietari per essere date in mano a soggetti privati. Solamente una piccolissima parte dei territori ancestrali originari (poco più del 6%) vennero riconosciuti di proprietà del popolo mapuche, attraverso documenti detti “Titulos de Merced”. Il furto delle terre e il massacro della popolazione mapuche fu chiamata dallo Stato “pacificazione dell’Araucania”. 

Un terzo delle terre concesse ai mapuche tramite i Titulos de Merced venne loro sottratto nel corso degli anni ’30 del ’900. Il tentativo di Allende di restituirne almeno una parte ai legittimi proprietari fu cancellato dalla campagna di privatizzazioni di Pinochet. Durante la dittatura, tra il 1973 e il 1990, almeno 136 attivisti mapuche vennero dichiarati scomparsi o uccisi, mentre venne legalizzato il furto delle terre da parte dello Stato e criminalizzata la resistenza nativa, con l’introduzione di norme (come la legge antiterrorismo) oggi ampiamente riprese dal governo attuale. 

Dalla fine degli anni ’90 a oggi, la recuperación delle terre è lo strumento principale con il quale la popolazione mapuche sta piano piano recuperando pezzetti di terreno. In alcuni dei territori occupati il livello del conflitto è minore, perché quelli che lo Stato ritiene i legittimi proprietari non sono troppo interessati a riprendervi possesso. Poi ci sono quelle ad alto livello di conflitto, dove in qualunque momento può capitare una retata o un’operazione di polizia. Come la recuperación nella quale vive Mariela. «Questa casa è stata costruita in due giorni dopo un’operazione simile a quelle che ti ho raccontato». Una volta che l’operazione è conclusa, si cerca di dimostrare che le terre appartenevano ai nonni, ai bisnonni di chi sta occupando. Mariela, per esempio, è titolare di un Titulo de Merced. Nonostante questo, è già stata incarcerata e si trova ora ad affrontare un processo per il reato di occupazione, grazie a una delle nuove leggi introdotte dal governo “socialista” di Boric. Di fatto, non c’è una sola tra le persone che ho incontrato che non sia stata arrestata almeno una volta. «Tutti qui hanno documenti che dimostrano che le terre appartenevano ai loro antenati. Ma è una battaglia lunga. C’è anche molta gente che quei documenti non li ha più, ma non intende comunque andarsene». 

«La lotta ha l’andamento delle onde del mare» dice Pedro. Anche lui vive in una recuperación, ma a basso livello di conflitto. «Si conquistano le terre, poi si perdono, poi si torna a conquistare qualcosa di più, poi si perde di nuovo. Però è un andamento in salita, quello che ci rimane è sempre un pezzo in più. La retrocessione che stiamo affrontando ora è la più forte che abbiamo vissuto in un lunghissimo tempo». Sul suo viso si dipinge un sorriso amaro. «Speriamo che la riconquista sia altrettanto intensa». Pedro ha militato per tanti anni nella CAM, la Coordinadora Arauco-Malleco, autrice per decenni di quelli che lo Stato definisce atti di “violenza politica” – sabotaggi, occupazione dei terreni, incendi a macchinari delle aziende. Il suo leader, Hector Llaitul, è stato condannato nel 2024 a 23 anni di carcere per reati contro l’autorità statale. Nella visione di Llaitul, la restituzione delle terre non può avvenire entro i confini dettati dallo Stato neoliberale (acquistandole, per esempio), ma solamente per mezzo delle recuperaciónes. 

Lo Stato cileno continua oggi a depredare terre che non gli appartengono, al fine di svenderle alle multinazionali (come ENEL) che in questo modo si arricchiscono enormemente. Lo storico cileno Igor Goicovic Donoso spiega che, in questo contesto, il governo cerca di nascondere l’altissima conflittualità esistente tra comunità locali e istituzioni nella zona dell’Araucania, minimizzando anche il ruolo degli attori sociali che ne sono protagonisti attraverso tutti gli strumenti che ha a disposizione – mezzi di comunicazione, discorsi istituzionali, repressione, clientelismo e così via. Nel 2019, al fine di intensificare la repressione, il governo Piñera ha introdotto in Araucania lo stato di emergenza. L’attuale governo Boric, che aveva promesso di essere di orientamento socialista e di tutelare gli interessi delle popolazioni native, ha prorogato ulteriormente lo stato di eccezione, emanando anche alcune leggi che i mapuche denunciano essere studiate apposta per contrastare la lotta per la terra. 

Tra queste, è stata “perfezionata” la legge antiterrorismo mutuando alcuni elementi dal modello statunitense e tedesco. In particolare, sono state aggravate ulteriormente le pene per tutti i reati che lo Stato ritiene di matrice terrorista. Tra questi non vi sono solo sequestri, torture, omicidi, lesioni a pubblico ufficiale e mutilazioni di vario genere, ma anche l’incendio di macchinari o edifici, anche se vuoti, come anche di «impianti di distribuzione o generazione di energia elettrica», così come l’utilizzo di mezzi esplosivi o incendiari. Già negli anni precedenti, la legge veniva applicata in Araucania molto più che nel resto del Paese, permettendo di applicare la carcerazione preventiva a un elevato numero di leader delle comunità – tanto da costare allo Stato una condanna da parte della Corte Interamericana per i Diritti Umani, nel 2014. A questa si aggiunge la legge contro le occupazioni illegali (Ley de Usurpaciones), che fissa nuove pene e nuove forme di commissione del reato. Chi occupa rischia ora dai 541 giorni ai 5 anni di carcere, mentre se il proprietario della casa o del terreno occupato usa violenza per liberare la proprietà incorre al massimo in una multa. Al contrario, gli occupanti finiscono in cella anche se non arrecano danni all’immobile o al terreno. Inoltre, tanto la polizia quanto i cittadini comuni sono autorizzati a procedere a detenere chi occupa illegalmente ed è colto in flagranza di reato. 

Una terza controversa legge approvata dal governo Boric è infine la Nain-Retamal, che rafforza i poteri di polizia e carabineros introducendo il concetto di presunzione di legittima difesa e razionalità nell’uso della forza, oltre ad aggravare le pene nel caso di reati commessi contro le forze dell’ordine. «Praticamente ora il rischio è che se mandi a quel paese un agente, quello può spararti senza nemmeno doversi giustificare» è un commento che sento ripetere abbastanza di frequente da più persone. 

Prigionieri politici 

L’intensificarsi della repressione contro la popolazione in lotta ha riempito le carceri da Santiago in giù di prigionieri politici mapuche. Secondo l’organizzazione Prison Politica Mapuche, alla fine del 2024 questi erano quasi un centinaio, ma i numeri sono in aggiornamento. Questi si trovano in carcere per via «delle loro azioni, idee e opinioni in relazione alle rivendicazioni sociali e politiche proprie del popolo mapuche». I prigionieri politici mapuche, spiega l’organizzazione, non godono di alcuna garanzia durante i processi, trovandosi spesso con condanne superiori a parità di reato o venendo incarcerati preventivamente in misura di molto superiore alla popolazione cilena. Sono inoltre soggetti a condanne esemplari che mirano a distruggere qualsiasi espressione politica di ricostruzione della nazione mapuche, ad esempio tramite la feroce persecuzione delle rivendicazioni territoriali e delle occupazioni. La loro vita in carcere è inoltre resa più complicata tramite violazioni quotidiane quali impedire l’ingresso di cibo mapuche in carcere, limitare l’esercizio della spiritualità, impedire ai familiari di andare a trovare i detenuti se indossano abiti tradizionali mapuche e così via. 

Mariela, che svolge lavori a contatto con i detenuti, mi spiega inoltre che per poter difendere adeguatamente un mapuche un avvocato o un procuratore deve avere una formazione specifica, al fine di praticare una difesa adeguata di fronte alla persecuzione statale. «Tuttavia, è difficile che queste figure siano di stanza in un territorio mapuche a lungo. In genere li tengono per un anno e poi li spediscono da qualche altra parte, di modo che sia impossibile per i mapuche accedere a un diritto alla difesa adeguato». 

Razzismo e violenza strutturale 

A quanto detto si aggiunge il fatto che il razzismo contro la comunità mapuche permea in maniera strutturale la società cilena, che pratica forme di esclusione sociale accompagnate da un discorso sui mezzi di comunicazione fortemente discriminatorio, funzionale a criminalizzare la protesta e delegittimare le loro rivendicazioni. All’interno delle recuperaciónes si vive per lo più grazie al baratto (trafkin nella lingua mapuche, il mapu gundun), anche perché è impossibile per un mapuche trovare lavoro e, quando questo accade, spesso il compenso è molto più basso rispetto a quello riconosciuto a un cileno. Spostarsi dalla comunità in città come Temuco o Cañete per assistere alle proprie udienze richiede una preparazione che può durare settimane, per raccogliere il denaro sufficiente per un pieno da 50 euro da mettere alla macchina. 

Nel 2022, secondo i dati del governo, in Araucania (dove si concentra il 51% della popolazione rurale mapuche) il tasso di povertà multidimensionale (ovvero che riguarda più aspetti della vita, come salute, educazione, lavoro) riguardava quasi il 20% della popolazione nativa del Cile, con una media nazionale pari al 15%. Nel 2018, la Conferenza Latinoamericana delle Scienze Sociali ha rilevato che, a fronte di una generale diminuzione della povertà nelle aree rurali del Cile, questo non è valso per le comunità mapuche. La media degli stipendi della popolazione tra i 15 e i 64 non raggiunge il salario minimo cileno, con alti livelli di precarietà lavorativa e lavoro informale. Nonostante lo Stato voglia a tutti i costi incorporare la Nazione mapuche entro i propri confini, insomma, non garantisce poi al suo popolo i requisiti basilari per la sopravvivenza. 

In questo contesto di povertà diffusa, la rivendicazione territoriale è di centrale importanza per la popolazione mapuche, perché il legame con la terra costituisce il fondamento primario dell’esistenza di questo popolo. Difendere la terra dagli abusi e dagli espropri significa letteralmente difendere l’esistenza della popolazione, che rigetta l’idea dominante secondo la quale l’unico modello di sviluppo accettato è quello della modernità occidentale e reclama il diritto all’autodeterminazione e alle proprie terre ancestrali. Di fatto, come scrive lo storico Donoso, «le forme di violenza impiegate oggi dalla società mapuche in conflitto sono espressione di autodifesa di fronte agli assalti del capitalismo (compagnie di legname, agroesportatrici, idroelettriche), appoggiati da un crescente accerchiamento militare imposto dai carabineros nella zona. La resistenza non è terrorismo, come scrivono i mezzi di informazione al servizio del capitale». 

Come le multinazionali sfruttano il sud globale: intervista a Luca Saltalamacchia

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In che modo le aziende e le multinazionali europee possono permettersi di agire quasi indisturbate all’estero, scavalcando leggi e volontà delle popolazioni locali? Ne abbiamo discusso con Luca Saltalamacchia, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente contro gli abusi delle grandi multinazionali. Ha seguito casi emblematici, come quello contro Eni per i danni ambientali causati in Nigeria, dando voce alle comunità locali colpite dall’inquinamento petrolifero. È tra i promotori dell’iniziativa Giudizio Universale, che chiede allo Stato italiano azioni concrete contro la crisi climatica. Con un approccio che coniuga diritto e giustizia sociale, Saltalamacchia porta avanti una battaglia legale per tutelare popoli vulnerabili e territori minacciati da interessi economici globali 

In che modo gli accordi internazionali di libero scambio e protezione degli investimenti, spesso firmati tra Paesi del nord e del sud globale, si trasformano in strumenti giuridici che rafforzano le disuguaglianze e legittimano pratiche predatorie da parte delle multinazionali? 

È una domanda complessa che richiede anche una contestualizzazione. In giurisprudenza esiste una gerarchia delle fonti: l’ordinamento è pieno di norme, che tuttavia non hanno tutte la stessa forza. Le norme internazionali hanno una forza superiore alle leggi nazionali e al loro interno ce ne sono alcune che fanno parte dello ius cogens, ossia considerate assolutamente inderogabili e di importanza superiore a tutte le altre. È all’interno di questo nucleo duro di norme che si trovano quelle sul rispetto dei diritti fondamentali. Nella pratica di avvocato che opera nel settore, mi sono reso conto che queste previsioni così chiare sulla carta, nella pratica vengono svilite. L’esempio degli accordi di libero scambio va proprio in questa direzione: nella pratica, per la maggior parte degli Stati, le norme più importanti sono quelle commerciali. Quello che dice l’Organizzazione Mondiale del Commercio è considerato immensamente più importante e rilevante di quello che può dire la Corte Internazionale di Giustizia quando si parla di violazioni dei diritti fondamentali. E quando c’è un conflitto tra la protezione di diritti fondamentali e la protezione delle attività commerciali, a livello internazionale si tende a dare più importanza alle seconde. Quello che dico non deriva solo da considerazioni pratiche, ma anche dalla giurisprudenza delle corti arbitrali, che spesso vengono chiamate a intervenire in casi di presunta violazione degli accordi commerciali: l’aspetto della protezione dei diritti umani raramente entra nelle considerazioni di queste camere arbitrali. 

Ci può fare degli esempi di come funziona il meccanismo ISDS (Investor-State Dispute Settlement)? 

In Italia abbiamo avuto il caso della piattaforma Ombrina Mare sull’Adriatico, che è finito davanti al tribunale della Banca Mondiale per le dispute tra investitori e Stati. Lo Stato italiano si è difeso sostenendo che avesse degli obblighi derivanti dai trattati sul clima e sull’approvvigionamento energetico sostenibile: pur essendoci una disputa tra la protezione di un accordo commerciale e gli obblighi internazionali sul cambiamento climatico, il Collegio arbitrale ha condannato l’Italia a risarcire 190 milioni di euro in favore dell’impresa inglese Rockhopper Exploration. Per fortuna, in sede di reclamo la condanna è stata annullata. 

Il caso dell’Italia costituisce un esempio del cosiddetto “nord del mondo contro nord del mondo”; quando questi accordi commerciali riguardano aziende multinazionali del nord del mondo e Paesi del cosiddetto “sud globale”, la situazione è ancora peggiore. Innanzitutto perché c’è una sproporzione nella forza contrattuale: gli Stati del “sud del mondo” non hanno la forza contrattuale di quelli del “nord”. Se poi l’implementazione degli accordi travolgesse i diritti fondamentali e lo Stato del “sud” chiedesse di cambiarli o adeguarli in modo conforme al rispetto dei diritti fondamentali, scatterebbero delle clausole che permetterebbero alle multinazionali di rivolgersi agli organismi che applicano solo le regole commerciali, senza effettuare nessuna graduazione dell’importanza delle norme. Il caso Chevron è emblematico: l’azienda ha devastato l’Amazzonia, distrutto l’habitat, e l’impatto dell’inquinamento ha portato all’estinzione di alcuni gruppi indigeni. Alcuni cittadini ecuadoriani hanno intentato una causa contro la compagnia dinanzi ai tribunali nazionali, vincendola. Come rappresaglia a tale affronto, la Chevron ha avviato una causa contro l’Ecuador davanti alla Corte Permanente di Arbitrato (CPA) dell’Aia, sostenendo che lo Stato, per il semplice fatto di aver con i propri tribunali condannato l’impresa, avesse violato il Trattato Bilaterale di Investimento (BIT) del 1993 tra Ecuador e Stati Uniti. Inutile dire che il Collegio arbitrale ha dato ragione alla Chevron. 

Chi sono i giudici che operano in questo meccanismo? Come vengono selezionati? 

Gli arbitri sono tutti individui privati, che io sappia. Si tratta di specialisti che hanno una brillante carriera e conoscenze adeguate nel settore del diritto commerciale internazionale e dello sviluppo economico; è difficile reperirne qualcuno che abbia una formazione specifica sui diritti umani. Si comportano come se fossero in un vero e proprio tribunale nel senso che disciplinano la procedura, danno i termini per il deposito delle memorie e se c’è la necessità fanno anche l’istruttoria, ascoltano testimoni, nominano periti… alla fine del procedimento emettono un provvedimento definito “Lodo”, che ha la stessa funzione e lo stesso peso di una sentenza. Insomma: questi organismi sono dei veri e propri tribunali, ma privati. Non sono espressione dell’organizzazione giudiziaria di un Paese o di un’entità sovranazionale. 

Prima diceva che questo è uno dei modi attraverso i quali le imprese possono evitare di incorrere in sanzioni e attribuzioni di responsabilità vera e propria. Ci sono altre ragioni dal punto di vista giuridico che permettono alle imprese occidentali, e spesso del nord globale, di operare in maniera abusiva in violazione di diritti umani e norme ambientali senza alcun tipo di responsabilità dal punto di vista legale? 

Questo è un discorso complesso perché bisognerebbe analizzare per ciascun Paese il funzionamento del suo ordinamento giuridico. Tendenzialmente, io credo che sia difficile che vi sia una specifica normativa di favore che consenta l’abuso o la devastazione ambientale, anche perché la gran parte dei Paesi della comunità internazionale ha ratificato i trattati internazionali che proteggono diritti fondamentali, gli habitat, la biodiversità, l’ambiente. Molti Paesi sono inoltre membri di organizzazioni regionali sui diritti umani e sull’ambiente. Il problema sta piuttosto nel come vengono attuati questi accordi e come vengono implementate le regole che esistono, vuoi di natura nazionale vuoi di natura internazionale: più che le norme, insomma, esiste una prassi che favorisce l’abuso, un modus operandi che favorisce le devastazioni ambientali.  

Chi dovrebbe far rispettare le leggi non lo fa. Io, ad esempio, ho svolto parecchie indagini relativamente ai disastri che ENI ha commesso nel delta del fiume Niger. Ho ricevuto mandato da diverse comunità e se ho deciso di lanciare i giudizi in Italia e non in Nigeria è perché in Nigeria non esiste un apparato in grado di imporre a una multinazionale il rispetto di una sentenza. Casi come questo provano che non è un problema di regole, perché le regole ci sono. È un problema di applicazione delle regole. 

Quali sono stati i principali ostacoli a livello processuale nel far valere i diritti delle comunità locali? Cosa rivelano questi casi sull’effettiva accessibilità alla giustizia internazionale per le vittime? 

Lanciare una causa davanti a un tribunale significa innanzitutto dover individuare un soggetto che ha la legittimazione ad agire davanti a quel tribunale. La legittimazione ad agire è una sorta di prerequisito per poter fare una causa, ovvero il giudice si deve interrogare se chi sta davanti a lui sia effettivamente il soggetto legittimato a proporre quella causa. Ti faccio un esempio semplice per capire: se Tizio e Caia sono sposati non è che Sempronio, un terzo, può attivare un giudizio per la separazione giudiziale; solo uno dei due può adire il tribunale. Questa regola, molto semplice nel caso della separazione, è molto complicata quando si tratta di danni alla salute o danni all’ambiente, perché il giudice deve verificare se il soggetto che intenta la causa ha un interesse a farla e ha la legittimazione a rappresentare quell’interesse. Il fatto è che, in genere, chi agisce sono le comunità indigene o le comunità locali, ma il soggetto “comunità locale” o “comunità indigena” è un soggetto sconosciuto nel nostro ordinamento. Noi conosciamo le persone, conosciamo i gruppi in cui le persone si aggregano, le associazioni, i condomini, le società di capitali, le società di persone… la comunità indigena non è un soggetto riconosciuto nel nostro ordinamento. Naturalmente aziende come ENI pongono il problema alla radice, e contestano il potere di rappresentare la comunità a coloro che intentano la causa. Questo significa dover scrivere pagine e pagine di difese per convincere il giudice che il soggetto che agisce è quello che realmente ha il potere di rappresentare la comunità. Questa è una prima grandissima difficoltà. 

E gli altri problemi? 

Sulla stessa linea della definizione del soggetto ci sono tutte le difficoltà relative alla sua identificazione dovuta alla digitalizzazione: un tempo io andavo in tribunale, depositavo il fascicolo sulla scrivania del funzionario del tribunale, e lui lo accoglieva, metteva il timbro e mi dava un numero di identificazione della procedura. Ora si fa tutto telematicamente. Io devo iscrivere a ruolo la causa compilando un software che ha delle voci obbligatorie; uno di questi campi obbligatori è il codice fiscale. 

Quando nel 2017 lanciai la mia prima causa per conto di una comunità indigena nigeriana, questa voce costituiva un problema: le comunità indigene non possono avere un codice fiscale in Italia. Mi è capitato varie volte di scontrarmi con l’Agenzia delle Entrate, che sottolineava che se un soggetto non è in Italia e non ha un rappresentante in Italia, non può avere per legge codice fiscale. Il fatto è che l’Agenzia delle Entrate, dal suo punto di vista ha ragione; ma ho ragione anche io, dal mio. Il fatto che un soggetto non abbia un codice fiscale non può impedirgli di presentare una causa in tribunale. Tutto questo senza parlare della questione dell’asimmetria tra la capacità delle multinazionali di far valere le loro ragioni e l’analoga capacità delle comunità, che sono abituate a pensare in una maniera molto più spontanea. 

Davanti a questo squilibrio strutturale, conosce storie virtuose, proposte concrete o, appunto, forme di resistenza tanto dal basso quanto ai piani più alti che stanno cercando di sovvertire questo meccanismo? 

Secondo me un punto chiave è che la società civile sia quella del nord del mondo sia quella del sud globale sta cambiando. Un tempo le multinazionali la facevano da padrone e quando incontravano ostacoli mandavano le milizie private a reprimere le comunità locali. Oggi è molto più difficile che questo possa accadere: innanzitutto perché le comunità locali sono molto più consapevoli dei loro diritti e del fatto che possono lottare per ottenere che vengano rispettati anche solo in parte. La globalizzazione ha poi fatto sì che anche le comunità più remote possano in qualche modo contare su una rete e avere l’appoggio, per esempio, di associazioni ambientaliste locali collegate con associazioni di respiro internazionale. Questa rete crea una pressione tanto sul posto che nei Paesi di origine delle multinazionali. Le multinazionali devono dare conto alla società civile di quello che fanno e questo porta a delle riforme giudiziarie e politiche non indifferenti: l’ONU ha approvato, oltre dieci anni fa, una serie di princìpi che dovrebbero ispirare le multinazionali in materia di diritti umani. A ruota, l’OCSE ha approvato le linee guida destinate alle imprese multinazionali; poi sono arrivati singoli Stati come Francia e Germania, che hanno anch’essi pensato norme apposite; da ultimo, anche l’UE ha approvato una direttiva in tal senso, sebbene sia stata molto annacquata. Tutte queste forme di regolamentazione, sebbene alcune non siano nemmeno vincolanti, esercitano comunque una pressione sulle multinazionali che sono sempre più costrette a rendere conto alla società civile, la quale sta dimostrando di diventare sempre più consapevole.

Corea del Sud: arrestata la moglie dell’ex presidente

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Una corte della Corea del Sud ha emesso un mandato di arresto nei confronti dell’ex first lady Kim Keon Hee, che è stata arrestata. Kim è accusata di corruzione, manipolazione del mercato e ingerenza elettorale. Kim è la moglie dell’ex presidente Yoon Suk Yeol, che si trova in carcere con le accuse di insurrezione e tradimento per avere provato a implementare la legge marziale nel Paese. Al momento dell’emissione del mandato, la donna si trovava in via preventiva presso il Centro di Detenzione Meridionale di Seul, nella zona sud-occidentale di Seul. Con il suo arresto, Kim e Yoon diventano la prima coppia presidenziale a venire arrestati contemporaneamente.

Francia: la mobilitazione ferma la reintroduzione dei pesticidi tossici per le api

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Il consiglio costituzionale francese ha bloccato l'introduzione di una legge che avrebbe reintrodotto l’acetamiprid, un pesticida tossico per le api. La scelta del tribunale sostiene che l'articolo che avrebbe reintrodotto il pesticida andasse contro il diritto di vivere in un ambiente equilibrato e rispettoso della salute, garantito dalla Carta dell'Ambiente incorporata nella Costituzione dal 2005. Essa arriva dopo una ingente mobilitazione dal basso, guidata dai cittadini, da scienziati e apicoltori, e da comitati per l'ambiente, che hanno promosso una petizione per fermare l'articolo in que...

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Questura di Torino e Viminale sono stati condannati per discriminazioni sui migranti

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La Questura di Torino e il Ministero dell’Interno sono stati condannati dal Tribunale di Torino per le pratiche discriminatorie adottate nei confronti dei richiedenti asilo. La sentenza, datata 4 agosto 2025, ha infatti sottolineato come il sistema di gestione delle domande di protezione internazionale imponga condizioni «mortificanti e con effetti discriminatori» per i migranti, violando il diritto di accesso ai servizi pubblici. La decisione è stata presa a seguito di una causa legale promossa da diciotto richiedenti asilo. In un contesto normativo che impone l’uguaglianza di trattamento, tale pronuncia ha sollevato interrogativi fondamentali sull’accesso equo alle procedure di protezione internazionale, mettendo in evidenza gravi lacune nell’organizzazione dei servizi da parte delle autorità italiane.

Nel suo pronunciamento, il Tribunale ha stabilito che «le procedure adottate dalla Questura di Torino Ufficio immigrazione sono illegittime», in quanto «ostacolano, ritardano e rendono eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e dalla legge italiana di recepimento ai cittadini stranieri che intendono manifestare la volontà di presentare una domanda di protezione», ma anche che «costituiscono una discriminazione» che viene «consumata in contrasto con le norme che impongono la parità di trattamento tra i cittadini italiani e i cittadini stranieri, nonché tra i cittadini stranieri di diversa nazionalità». È stato infatti accertato come i migranti siano stati obbligati a mettersi in fila ore prima dell’apertura degli uffici, affrontando situazioni di estremo disagio – spesso accampandosi di notte per riuscire ad essere i primi ad entrare – senza la certezza di riuscire a presentare la propria domanda di protezione. Inoltre, la selezione delle persone che possono accedere agli sportelli avviene senza trasparenza, con criteri oscuri che discriminano esplicitamente alcune nazionalità. Nel corso del processo, è emerso che la Questura di Torino non solo non applicava criteri chiari per l’accesso, ma, in alcune occasioni, escludeva migranti di certe nazionalità, come nel caso in cui un funzionario avrebbe detto «per oggi, basta sudamericani». Questo comportamento ha alimentato la percezione di una selezione etnica nei servizi pubblici, confermando la natura discriminatoria delle prassi adottate. L’amministrazione – ha evidenziato il tribunale – non ha fornito spiegazioni adeguate sui criteri adottati per selezionare chi potesse entrare per formalizzare la domanda.

Il caso ha avuto inizio con una serie di ricorsi presentati da cittadini stranieri, assistiti da vari legali, che avevano cercato ripetutamente di formalizzare la loro richiesta di protezione internazionale presso la Questura di Torino senza successo. Secondo quanto emerso durante il processo, i ricorrenti avevano fatto numerosi tentativi, tra cui l’invio di comunicazioni formali tramite i propri avvocati e attese estenuanti in coda, spesso dalle prime ore del mattino. Nonostante questi sforzi, nessuno di loro è riuscito a registrare la domanda nei tempi stabiliti dalla legge. A supporto della causa, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) ha documentato numerosi episodi di discriminazione, tra cui le testimonianze di richiedenti asilo che, dopo aver atteso a lungo, sono stati respinti con frasi come «oggi basta sudamericani». Inoltre, sono emerse criticità relative alla gestione dei diritti fondamentali dei migranti, in particolare per quanto riguarda l’accesso a servizi sociali e sanitari, che risultano preclusi a chi non riesce a formalizzare la domanda di asilo.

Il Ministero dell’Interno e la Questura sono stati obbligati ad adottare nuove modalità organizzative entro quattro mesi dalla sentenza. In particolare, è statoaimposta l’adozione di un portale telematico per facilitare l’accesso alle procedure, nonché la pubblicazione della sentenza su giornali e siti istituzionali per garantire la trasparenza e la possibilità di evitare futuri comportamenti discriminatori. Nel frattempo, con un comunicato congiunto, Questura e Viminale hanno però già annunciato l’intenzione di ricorrere in appello contro la sentenza, sostenendo che le difficoltà derivino dalla grande mole di persone in attesa e non da un’intenzionalità discriminatoria.

Il lato oscuro delle infradito di gomma

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L’infradito, o flip-flop, unisce un po’ tutti. Almeno nei mesi estivi, la tipica ciabatta in gomma avvicina gli esseri umani delle parti più disparate del globo con quel suo stile pratico che tanto ricorda i surfisti. Popolarissime anche per i prezzi popolari a cui si trovano molti modelli, ma allo stesso tempo adorate anche dai ricchi che ricercano uno stile casual e portate in passarella da diversa stilisti di grido (e nei negozi più chic con cartellini che possono arrivare a marcare 600 euro). Uno stile da spiaggia che si adatta anche in città, che va d’accordo con i costumi e anche con abiti più strutturati, meglio se accompagnati da una borsa importante. Quello con cui non vanno d’accordo, però, è l’ambiente: queste coloratissime icone estive nascondono svariati lati oscuri. E anche sulla salute, alla lunga, ci sono diverse controversie. 

Storia di una ciabatta

Un modello di infradito dell’Antico Egitto, esposto al Museo Egizio di Torino

Le infradito non sono certo un’invenzione dei tempi moderni. La storia di queste calzature risale a migliaia di anni fa, addirittura nell’antico Egitto. Le prime si hanno intorno al 4000 a.C., dove si indossavano comunemente sandali realizzati in papiro e foglie di palma. Uomini con indosso questi sandali compaiono persino su manufatti reali egizi, a dimostrazione dell’importanza sociale e simbolica di queste semplici calzature. Apparvero poi nell’antica Grecia, a Roma e in gran parte dell’Asia, reinterpretate con l’uso dei materiali locali: papiro in Egitto, legno in India, paglia di riso in Cina e Giappone, foglie di yucca in Messico e pelli di animali in Africa. Le differenze erano anche strutturali: mentre gli antichi greci indossavano la cinghia tra il primo e il secondo dito del piede, i romani optarono per il secondo e il terzo dito, mentre i mesopotamici usavano il separatore tra il terzo e il quarto.

Ad influenzare la forma moderna di queste calzature, però, sono stati due sandali tradizionali giapponesi: gli Zori piatti in paglia e i Geta rialzati in legno. Gli zori somigliano molto agli odierni sandali da spiaggia e sono diventati, nel tempo, un articolo di uso quotidiano in Giappone. L’esportazione vera e propria si deve ai soldati americani di stanza in Giappone durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, che riportarono in patria lo stile zori. Questi sandali, leggeri, economici e facili da indossare, apparvero presto nei negozi e diedero inizio a una tendenza globale.

Il vero boom si ebbe tra gli anni cinquanta e sessanta, periodo in cui le aziende occidentali, valutato il potenziale e la popolarità, iniziarono la produzione in serie di infradito di gomma. Associate spesso allo stile da spiaggia degli spensierati surfisti californiani, divennero subito icone di un certo tipo di moda estiva e di una vita rilassata. Anche il nome “flip flop” arriva nello stesso periodo, derivazione onomatopeica del suono che i sandali producono quando si cammina (soprattutto se bagnati), adottato in primis negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. 

Oggi le infradito sono realizzate in gomma, schiuma, pelle, sughero o plastica e vengono indossate ovunque. Marchi come il brasiliano Havaianas hanno contribuito a renderle popolari in tutto il mondo, con infinite varianti di stile e decorazioni. Le infradito sono e rimangono un simbolo di comfort, libertà e stile casual, indossate da miliardi di persone e continuamente reinventate da stilisti e case di moda.

Plastica, sostanze chimiche e danni ambientali

Pratiche, convenienti, comode, ma con un certo impatto ambientale. Le Infradito non sono così innocue come sembrano. Il loro apporto all’inquinamento non è trascurabile, dovuto principalmente sia ai materiali sia alle pratiche di smaltimento, che causano danni alla fauna selvatica e alla salute umana.

A partire dalla loro “esplosione”, la produzione di massa di queste calzature è realizzata in plastica sintetica, (poliuretano, PVC o EVA), tutti polimeri derivati dal petrolio che non sono biodegradabili. Anzi, persistono nelle discariche e negli oceani per centinaia di anni, decomponendosi in microplastiche che contribuiscono all’inquinamento degli oceani e minacciano la vita marina. Anche il loro processo produttivo non è del tutto innocuo: consuma risorse petrolifere ed emette gas serra, utilizza sostanze chimiche spesso tossiche che possono diffondersi nell’ambiente, influendo sugli ecosistemi.

Ed è proprio su questi che si ha l’impatto maggiore: come spesso succede, le infradito scartate e gettate anche dopo pochi utilizzi (magari una stagione sola o una singola vacanza) finiscono sulle spiagge con il rischio di essere ingerite da animali marini, causando soffocamento, fame o avvelenamento. Le sostanze chimiche disperse in fase di scomposizione, oltre che danneggiare fauna e ambiente, rischiano di arrivare agli esseri umani se entrano nella catena alimentare. Non è raro osservare intere spiagge in alcune regioni dell’Africa orientale totalmente ricoperte di flip flop, dove questi fiumi di plastica formato ciabatta si infilano nei corsi d’acqua, ostruendoli, uccidendo la flora e inibendo i cicli riproduttivi degli animali.

I pericoli per la salute umana

Un negozio di infradito a Abong-Mbang, in Camerun

I rischi per la salute arrivano anche per l’uomo. Sostanze chimiche e tossine, come coloranti e ritardanti di fiamma, possono rappresentare un rischio sia per chi queste calzature le produce sia per gli utenti finali. Chimica, ma anche fisica: molti podologi avvertono che le infradito offrono pochissimo supporto plantare o ammortizzazione, aumentando il rischio di lesioni a piedi, caviglie e ginocchia. L’uso prolungato può portare a problemi come fascite plantare e tendinite, soprattutto in quei modelli progettati per la loro estetica più che per la funzionalità ergonomica. Ma alla Moda poco importa: sull’altare dello stile, la salute è più che sacrificabile!

E le infradito continuano ad essere le calzature più usate, con miliardi di pezzi venduti ogni anno, soprattutto nei paesi in via di sviluppo per via del loro prezzo di base assolutamente economico. Un prezzo basso che, come sempre, viene pagato da una filiera sfruttata con manodopera sottopagata e in condizioni di lavoro al limite del rischio.

Le alternative possibili

Per contrastare questo fenomeno, sono già in commercio alternative in materiali biodegradabili o riciclati, con un impatto notevolmente inferiore. Si passa da quelle realizzate in gomma naturale al 100%, biodegradabile e priva di plastiche nocive, proveniente da coltivazioni di gomma etiche (ad esempio, coltivazioni dello Sri Lanka che rispettano il commercio equo e solidale) a quelle in plastica riciclata, come quella oceanica, o le infradito scartate o il PVC riciclato, fino ad alcune varianti realizzate con materiali vegetali e rinnovabili, integrati con suole in sughero o pneumatici riciclati per un assorbimento degli urti e un’ammortizzazione naturali. Diverse sono prodotte in maniera etica con produzioni locali per una filiera più sostenibile.

Alcune aziende poi, si sono impegnate con programmi di riciclo per recuperare le loro infradito in gomma naturale per chiudere il ciclo dei rifiuti, promuovendo la moda circolare ma anche sostenendo progetti di upcycling. L’Organizzazione non governativa Ocean Sole, ad esempio, pulisce le spiagge e ricicla gli scarti delle infradito trasformandoli in opere d’arte, calzature, giocattoli, contribuendo a creare posti di lavoro ed opportunità economiche.

Nonostante i lati oscuri siano sempre più noti, le infradito sono state largamente viste sulle passerelle e promosse da celebrità e influencer, a dimostrazione di quanto la moda finga di tenere alla sostenibilità mentre nella pratica continua per la sua strada lastricata di rifiuti.