sabato 22 Novembre 2025
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Le bugie dell’industria alimentare sull’agricoltura biologica

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L’affermazione estremamente diffusa, «L’agricoltura biologica non sfamerà il mondo», rappresenta in realtà un’affermazione priva di fondamento e dati scientifici. Viene diffusa per lo più da produttori, distributori e commercianti aderenti alla Grande Distribuzione Organizzata e al modello di agricoltura e allevamento intensivo industriale. Vi sono tante evidenze che dimostrano esattamente il contrario, ovvero che un’agricoltura rispettosa dell’ambiente, di piccola scala, sia più produttiva e sostenibile di una massiva di larga scala. Questo modello agricolo produce di più, in quanto praticabile anche in piccole realtà territoriali grazie alla rotazione delle coltivazioni e a un intelligente utilizzo dei terreni, e inoltre prevede pratiche che rispettano la stagionalità e la località del cibo che viene prodotto. Un recente studio pubblicato su Nature Sustainability ha analizzato tutta la più recente bibliografia di settore, concludendo che l’agricoltura di piccola scala garantisce più alte produzioni e una maggiore capacità di conservazione della biodiversità.

I progetti agricoli sostenibili

Un esempio di tutto questo sono i progetti agricoli sostenibili nati attorno a Slow Food, l’associazione per la tutela del cibo sano fondata in Piemonte nel 1986 e poi diventata un movimento internazionale. I progetti agricoli avviati da questa associazione si chiamano Presidi Slow Food e sono finalizzati alla tutela e salvaguardia di tutti quei prodotti del settore agroalimentare che rappresentano l’eccellenza della tradizione e della genuinità di un territorio, in Italia e nel mondo. In Italia, questi presidi sono a oggi circa 400, oltre 600 nel mondo. Tra queste vi è, per esempio, La Granda, associazione di allevatori nata a Cuneo nel 1996 con l’intento di allevare bovini in maniera diversa da quella industriale e intensiva. L’ispiratore e fondatore di questa associazione fu Sergio Capaldo, medico veterinario, che aveva osservato come gli allevatori dovessero sottostare a troppi compromessi dettati dal sistema. Gli allevatori di La Granda mettono in atto una forma di allevamento sostenibile: il numero di capi è proporzionato ai terreni dell’azienda, l’allevatore produce da sé il foraggio e gli alimenti necessari, i terreni sono fertilizzati con lo stesso letame dei suoi animali, che è sano perché non contiene medicinali e altre sostanze chimiche. Si tratta insomma di quella forma di allevamento naturale praticato per secoli, prima dell’arrivo dell’allevamento intensivo. In questo modello il letame è fondamentale perché la qualità di tutto quello che si coltiva nel terreno è data dalla fertilizzazione con letame di qualità. Una sana alimentazione degli animali e un modo non stressante di vivere come quello messo in atto dagli allevatori di La Granda, porta a non avere necessità di trattamenti farmacologici. Al contrario, negli allevamenti intensivi la patologia si sviluppa a causa di spazi chiusi e sovraffollamento, ma un ruolo importante nella diffusione delle malattie lo riveste anche il trasporto su camion, il quale copre tragitti molto lunghi (basti pensare, per esempio, alla dicitura «nato in Francia, allevato in Italia»). Tutto questo rende necessari i trattamenti farmacologici con antibiotici, cortisone e farmaci antinfiammatori. Tipico il caso della mastite nelle bovine da latte, riscontrato di recente (nel 2020) anche nel latte commerciale italiano grazie ad analisi chimiche di laboratorio.

L’uso intensivo di fitosanitari e fertilizzanti chimici causa degrado del suolo e perdita di biodiversità

Per chi sceglie di fare agricoltura in modo diverso, sostenibile, conta molto sia come si produce sia cosa si produce. Vediamo il caso delle mele antiche e biologiche coltivate dalla Cooperativa agricola Il Frutto Permesso, sempre in Piemonte, che opera col metodo biologico in maniera credibile e sostenibile dal 1987. Le mele antiche sono quelle varietà di mele che esistevano già al tempo dei romani, dei greci e dei celti e che dopo più di duemila anni sono arrivate fino a noi. La ricerca scientifica ci dice che questi frutti contengono il più alto quantitativo di vitamine, minerali, polifenoli e sostanze antiossidanti, decisamente superiore rispetto alle mele moderne selezionate e ibridate con l’ingegneria agricola, vendute nei supermercati. Inoltre, le mele antiche sono straordinariamente resistenti alle malattie. Solamente in Piemonte ci sono circa 400 varietà diverse di mele antiche, mentre in altre regioni italiane ce ne sono altre – si pensi alla mela annurca campana o alla mela rossa di Corone in Friuli, tra le tante. Produrre una varietà di mela antica non è un vezzo o una nostalgia, ma significa poter contare su una varietà più resistente alle malattie che si sviluppano in quel dato territorio, evitare di usare pesticidi e insetticidi chimici e, in generale, fare un’agricoltura più pulita. Molti documenti e ricerche dimostrano inoltre che frutti e ortaggi da agricoltura BIO sono più ricchi di nutrienti: una ricerca durata 10 anni dell’Università della California ha mostrato che, in media, i pomodori BIO hanno il 79% in più di quercetina e il 97% in più di camferolo, due sostanze antiossidanti del frutto. Anche uno studio italiano condotto da INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per l’Alimentazione e l’Agricoltura) conferma che pesche e pere BIO sono superiori a quelle prodotte con agricoltura chimica per sostanze nutritive, vitamine, antiossidanti. 

Solo l’agricoltura chimica è progresso?

Un falso mito riguardante il metodo biologico, fatta circolare dall’industria della chimica e degli agrofarmaci, è quello di far credere che il BIO rappresenti una sorta di regressione della tecnica, quando in realtà il regime di coltivazione biologica è la più avanzata forma di agricoltura esistente (insieme a quello biodinamico), perché ri-mette a disposizione tutta una serie di saperi e competenze, in primis proprio a chi opera come azienda biologica. Si impara nuovamente a coltivare la terra sfruttando tutte le risorse che essa possiede e tutte le conoscenze agrarie del passato che erano state accantonate e tacciate di inaccuratezza dall’avvento dell’agricoltura industriale, ma in realtà validissime ancora oggi, oltre che utili nel procedere verso la vera transizione ecologica, di cui abbiamo effettivamente bisogno. 

L’uso di fitosanitari chimici compromette la sopravvivenza degli impollinatori, fondamentali per la fertilità dei campi e la
produzione alimentare

La consapevolezza sulle potenzialità del metodo biologico ha spinto in Italia molte aziende a passare dal metodo convenzionale a quello BIO. Nel Sud Italia, per esempio, è successo con molti produttori di agrumi, olio e vino. E i costi del produrre in regime biologico? Molte aziende biologiche sono riuscite ad abbattere i costi di produzione e ora spendono un terzo rispetto al regime di agricoltura convenzionale. Le spese per la concimazione, per esempio, si riducono drasticamente, dal momento che i terreni non ne hanno bisogno e, anche quando la si fa, si utilizza il letame delle aziende agricole limitrofe, che ha un costo inferiore ai fertilizzanti chimici (anche perché servono molti meno fitofarmaci). Sono diversi gli esperti in agronomia, biodiversità e coltivazioni biologiche a sostenere proprio questo paradigma: tra i più noti in Italia vi è Francesco Santopolo, agronomo calabrese, che ha maturato una consapevolezza sul biologico proprio a partire da un’analisi tecnica e dai numeri che l’agricoltura convenzionale mostra nitidamente. Iniziò negli anni Ottanta del secolo scorso a capire che la difesa delle coltivazioni col metodo convenzionale, cioè con i pesticidi, non produceva gli effetti sperati, così ha cominciato a interessarsi allo studio degli insetti utili in agricoltura. «A un certo punto – racconta il professore – mi accorsi che gli insetti non morivano più e i funghi diventavano resistenti. La gente non vuole rendersi conto che tra il 1942 e il 2000 i danni da insetti sono aumentati del 6,2% pur in presenza di un aumento esponenziale di molecole chimiche. Erano 6, ora sono 380». La differenza di resa per ettaro tra produzioni biologiche e convenzionali va invece valutata settore per settore e alimento per alimento. Tuttavia, la produzione di minore quantità di cibo non dovrebbe rappresentare un problema nei Paesi occidentali, dove lo spreco alimentare ha raggiunto livelli impressionanti – viene gettato in discarica un terzo di tutto quello prodotto. Gran parte di quello che viene consumato, inoltre, è cibo industriale di pessima qualità che non solo non giova alla nostra salute ma contribuisce ai costi ambientali e alla riduzione della biodiversità. 

Secondo gli ultimi rapporti della FAO, in Europa e Stati Uniti d’America ogni anno si buttano via tra i 95 e i 115 kg di cibo buono per persona, tra il cibo che viene scartato e perso durante le fasi di produzione dalla Grande Distribuzione Organizzata, e quello sprecato e buttato nella pattumiera di casa dal consumatore finale. Nei Paesi dell’Africa sub-sahariana invece, nel Sud-Est asiatico e nell’Asia del Sud, lo spreco è di soli 6-11 kg per persona all’anno. La sproporzione è notevole e ricorda come i Paesi ricchi del pianeta producano tanto cibo da poter idealmente sfamare tutti gli abitanti del mondo, ma finiscono in realtà per buttarlo.  

Sostenibilità ambientale 

La coltivazione intensiva impoverisce il suolo riducendo la sostanza organica e ne accellera l’erosione

Analizzando poi il discorso della sostenibilità ambientale in relazione ai metodi biologico e convenzionale, vanno sottolineati alcuni aspetti che sono di importanza cruciale ma che vengono volutamente omessi o minimizzati dai sostenitori dell’agricoltura industriale convenzionale. Si tratta delle quantità di CO2 (anidride carbonica) che vengono emesse in atmosfera dall’agricoltura convenzionale, rispetto a quella BIO. Esiste infatti un rapporto di causa-effetto tra la perdita di sostanza organica nei terreni, dovuta ai continui cicli di aratura e concimazione chimica, e la produzione e liberazione nell’aria di anidride carbonica. Ripercorriamo per un momento il procedimento: l’erba e le foglie delle coltivazioni metabolizzano tramite fotosintesi l’anidride carbonica, liberano l’ossigeno nell’aria, trattengono il carbonio che si fissa nel terreno e si combina con le sostanze organiche. I continui cicli di aratura e di concimazione chimica distruggono le sostanze organiche, il carbonio viene liberato nell’aria e, combinandosi con l’ossigeno, diventa anidride carbonica. In sostanza, ogni volta che viene arato un campo che è stato iper concimato, questo contribuisce all’emissione di gas serra e al riscaldamento globale tanto quanto una colonna di camion in autostrada. 

Al contrario, la concimazione naturale limita fortemente la liberazione di carbonio nell’aria e la formazione di CO2 e gas serra. Non a caso, gli esperti definiscono quella biologica come agricoltura rigenerativa e conservativa, e lo stesso vale per l’allevamento.

Un’agricoltura migliore, rispettosa dell’ambiente, della sopravvivenza del nostro pianeta e dei cibi che produce non solo è possibile, ma si sta già realizzando, grazie a migliaia di agricoltori. Tuttavia, un vero cambiamento non sarà possibile senza un riorientamento delle nostre scelte di consumatori e fruitori. Dobbiamo imparare a fare delle scelte responsabili in merito a ciò che mettiamo sulle nostre tavole, che mangiamo al bar, al ristorante o nella mensa aziendale. Mai come oggi suona vera e profonda l’affermazione dello scrittore contadino americano Wendel Berry: «mangiare è un atto agricolo ed ecologico».

Repubblica Democratica del Congo: crolla ponte in miniera, 32 morti

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Almeno 32 persone hanno perso la vita ieri nel sud-est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) dopo che un ponte su cui si trovavano è crollato all’interno della miniera di cobalto di Kalando, nella provincia di Lualaba, travolgendo i lavoratori. Le autorità locali hanno spiegato che nonostante il sito fosse vietato per le forti piogge e il rischio frane, i minatori irregolari si erano introdotti nell’area. Le ricerche continuano: il bilancio potrebbe aumentare.

Libano: Israele spara contro le forze ONU e dà la colpa al maltempo

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Nel sud del Libano, ieri un carro armato Merkava ha aperto il fuoco contro una postazione della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL), distruggendo le telecamere di sorveglianza e danneggiando la torre di osservazione, mentre i caschi blu si riparavano a pochi metri dai colpi. L’episodio, denunciato dalla missione ONU, è stato immediatamente attribuito dalle forze israeliane alle «cattive condizioni metereologiche», indicate come causa di un errore di identificazione. La giustificazione non ha però convinto i peacekeeper, che parlano di una direzione di tiro inequivocabile e di un atto che mette nuovamente a rischio la loro sicurezza in un’area già segnata da mesi di escalation e di violazioni.

Secondo la versione fornita da UNIFIL in una nota, i colpi sarebbero stati esplosi da una posizione israeliana rivolta direttamente verso un osservatorio dell’ONU nel settore meridionale spagnolo vicino a Khiuam. I proiettili di mitragliatrice pesante hanno impattato a cinque metri dalla postazione, costringendo il personale a ripararsi. Le forze ONU hanno chiesto alle IDF di cessare il fuoco e sono riuscite a ritirarsi in sicurezza dopo circa mezz’ora, quando il carro armato si è allontanato. Non ci sono stati feriti, ma il gesto rappresenta una grave violazione delle regole d’ingaggio e della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, cardine del fragile equilibrio che regola la linea di demarcazione. Le forze israeliane hanno confermato la presenza del carro armato e l’apertura del fuoco, sostenendo che le condizioni di visibilità fossero compromesse dal maltempo. L’unità avrebbe scambiato la torretta ONU per un avamposto sospetto, reagendo in maniera “difensiva”, dopo aver avvistato due persone “sospette” nella zona di Hammis. UNIFIL ha contestato questa versione, sottolineando come la postazione fosse chiaramente contrassegnata e visibile anche in condizioni climatiche avverse. La missione ha, quindi, chiesto un’indagine approfondita, ribadendo la necessità che Israele rispetti le proprie responsabilità sulla sicurezza dei peacekeeper.

Il nuovo incidente ha suscitato immediata preoccupazione a livello internazionale, alimentando il timore che la situazione lungo il confine possa degenerare ulteriormente. Da settimane, la regione è teatro di scambi di artiglieria, bombardamenti mirati e operazioni di sorveglianza sempre più aggressive. A ciò si aggiunge la difficoltà operativa di UNIFIL, chiamata a vigilare su un cessate il fuoco che appare ormai solo formale. Solo pochi giorni fa, Beirut aveva denunciato pubblicamente che le violazioni israeliane mettono a rischio la stabilità nel sud del Paese. Il rappresentante permanente libanese all’ONU, Ahmad Arafa, ha ribadito che tali azioni minano la sovranità e l’integrità territoriale del Libano e compromettono il lavoro delle autorità nazionali che tentano di estendere il controllo statale e ridurre l’influenza delle milizie. Il rapporto dell’esercito libanese, presentato al governo, denuncia oltre 7.000 violazioni dello spazio aereo dal cessate il fuoco dell’anno precedente e definisce tali attacchi «una manifesta violazione del diritto internazionale».

Dal riaprirsi della crisi regionale nell’autunno del 2023, UNIFIL ha denunciato più volte episodi simili. Nel corso del 2024, si sono registrati diversi casi di fuoco diretto contro pattuglie e basi ONU, inclusi ferimenti causati da colpi sparati da carri armati israeliani nei pressi di Naqoura. Nel 2025, la situazione è ulteriormente precipitata: droni israeliani hanno sganciato munizioni vicino ai caschi blu, mentre artiglieria e mezzi corazzati hanno più volte colpito aree dove operavano gli osservatori internazionali. In tutti i casi, Israele ha parlato di errori di valutazione o condizioni ambientali sfavorevoli, giustificazioni giudicate insufficienti e poco credibili dalla missione ONU. Le statistiche accumulate negli ultimi due anni suggeriscono un incremento costante delle violazioni e un progressivo restringimento dello spazio operativo di UNIFIL. Il 14 novembre, la missione ha reso noto di aver condotto un’indagine geospaziale che ha individuato un muro in cemento eretto dalle IDF nell’area di Yaroun. L’inchiesta ha confermato che la struttura oltrepassa la Linea Blu, sottraendo oltre 4.000 metri quadrati di territorio al Libano. Nonostante le richieste dell’ONU, Israele avrebbe continuato a costruire muri anche a novembre, con nuove sezioni che sconfinano in territorio libanese. Il nuovo episodio di ieri si inserisce in una serie di attacchi e violazioni che, sommati alla pressione militare lungo il confine, rischiano di compromettere definitivamente il ruolo della forza ONU in uno dei fronti più instabili del Medio Oriente.

Cile: ballottaggio tra la comunista Jara e l’ultraconservatore Kast

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Nel primo turno delle elezioni presidenziali in Cile la candidata di sinistra Jeannette Jara ha ottenuto circa il 26-27% dei voti, seguita dall’ultranazionalista di destra José Antonio Kast con circa il 24%. Nessuno dei due ha superato la soglia del 50% necessaria per la vittoria al primo turno, perciò si andrà al ballottaggio il 14 dicembre. La destra, pur arrivata seconda, gode del vantaggio dell’aggregazione dei voti degli altri candidati conservatori e appare favorita alla vigilia della sfida decisiva.

In Sri Lanka è stata scoperta una barriera corallina ricca di biodiversità

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Al largo di Colombo, capitale dello Sri Lanka, è stata scoperta una nuova cresta corallina, che collega le già note barriere di Yakampita e Gingiripita. La Blue Resources Trust ha infatti individuato una formazione sotterranea che restituisce, almeno per il momento, la più fedele rappresentazione dell'ecosistema costiero di Colombo, un'area che si estende per circa 130 ettari. Come sottolineato dagli esperti, le sezioni sotterranee svolgono funzioni fondamentali per la fauna locale, fungendo da rifugi naturali per gli animali e preservando la biodiversità. La scoperta avvenuta al largo della c...

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Atene, firmato accordo energetico Grecia-Ucraina

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Grecia e Ucraina hanno firmato una dichiarazione di intenti tra DEPA Emporia e Naftogaz per fornire gas naturale liquefatto statunitense a Kiev tramite infrastrutture greche. Il GNL sarà rigassificato a Revithoussa e trasportato lungo il Corridoio verticale tra dicembre 2025 e marzo 2026, garantendo energia all’Ucraina nel prossimo inverno. Il gas attraverserà Bulgaria, Romania e Moldova fino a raggiungere Kiev. Secondo Atene, l’accordo rafforza la sicurezza energetica regionale ed europea. L’intesa si inserisce nel tour europeo di Zelensky, che dopo Atene vedrà Macron e poi si recherà a Madrid.

Libia, almeno 4 migranti morti dopo ribaltamento barche

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Al largo della costa libica, vicino alla città di Al Khums, almeno quattro cittadini bengalesi sono morti dopo il naufragio di due imbarcazioni cariche di migranti e richiedenti asilo. Lo ha riferito la Mezzaluna rossa libica, precisando che l’incidente è avvenuto la sera del 13 novembre. La prima barca trasportava 26 persone dal Bangladesh, quattro delle quali hanno perso la vita; la seconda imbarcava 69 migranti, tra cui due egiziani e numerosi sudanesi. Alle operazioni di soccorso hanno partecipato la Guardia costiera libica e l’Agenzia per la sicurezza del porto di Al Khums. I corpi sono stati affidati alle autorità locali.

Teva: la multinazionale del farmaco complice dell’occupazione israeliana

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Teva, multinazionale israeliana e una delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, con un fatturato di oltre 16 miliardi di dollari, vuol essere riconosciuta come un’azienda etica e corretta – o almeno così afferma il suo codice etico. Tuttavia, l’azienda è complice dell’occupazione israeliana in Palestina, in quanto gode dei vantaggi del mercato vincolato legato alle politiche oppressive e discriminatorie nei Territori Palestinesi Occupati (che lascia campo libero alle imprese israeliane e soffoca quelle palestinesi, controllando importazioni ed esportazioni), e del genocidio a Gaza, avendo sostenuto psicologicamente e materialmente l’esercito israeliano per diversi anni con l’iniziativa Adopt a Batallion. Nel 2017, Teva è stata tra le 150 imprese che hanno ricevuto una lettera di avvertimento dall’ONU per aver operato all’interno delle colonie illegali in Cisgiordania ed era prevista la sua inclusione nel database delle aziende che fanno affari nei territori occupati. Tuttavia, l’azienda non compare tra le 112 (delle 188 analizzate) incluse nella blacklist pubblicata nel 2020 dalla Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite; la sua inclusione andrà verificata nel prossimo aggiornamento. Dopo il 7 ottobre 2023, Teva ha istituito Mental Caregivers, un programma per rafforzare la resilienza mentale delle vittime israeliane, e un fondo in collaborazione con la Israeli Trauma Coalition. L’azienda stessa dichiara di aver donato all’esercito e alle famiglie israeliane farmaci essenziali, cibo e tonnellate di attrezzature. Teva afferma di impegnarsi per «la creazione di un’economia sempre più inclusiva, sostenibile e responsabile», ma appoggia un Paese che annette la Cisgiordania e devasta Gaza, incluso il suo sistema sanitario. 

Per questi motivi, BDS Italia e Sanitari per Gaza hanno lanciato la campagna Teva? No grazie!: ulteriori informazioni al riguardo sono disponibili sul sito di BDS.

Il lato sanitario del genocidio 

Nicoletta Dentico, giornalista ed esperta di diritto alla salute, già direttrice di Medici Senza Frontiere (MSF), scrive su Il manifesto del 30 luglio 2025: «Secondo l’UNICEF a Gaza è stato distrutto l’84% delle strutture sanitarie e il 75% di quelle idriche. (…) Il rapporto di Physicians for Human Rights introduce il concetto di iatrocidio (dal greco iatros, persona che guarisce, e cidio, uccisione) per descrivere la distruzione di infrastrutture sanitarie e lo smantellamento dei sistemi di conoscenza medica collettiva. (…) La distruzione materiale degli edifici di cura – gli ospedali, i centri per il trauma, i locali per la maternità, le ambulanze e le cliniche mobili – è la forma più spettacolare. (…) Anche quando gli edifici restano in piedi, il sabotaggio delle altre infrastrutture – i sistemi fognari, elettrici, di gestione delle acque – li rendono letali. Un ospedale senza elettricità è una trappola. Una clinica senza acqua è un sito infettivo. Una sala operatoria senza anestesia una camera di tortura. Poi ci sono gli episodi di criminalizzazione, le sparizioni forzate e le uccisioni del personale sanitario. Il blocco o sabotaggio dei medicinali. La definitiva distruzione degli ecosistemi di ricerca medica e sanitaria (università, laboratori, ecc.) incluse le pratiche locali di cura». Ospedali e personale sanitario sono obiettivi deliberatamente scelti dall’esercito israeliano, in aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra (Articoli 18, 19, 20 e 21) e di ogni norma del diritto internazionale.

Una strategia abituale è quella del “doppio colpo”: si bombarda, si aspetta l’arrivo dei soccorsi e si attacca di nuovo. Tutti i 36 ospedali della Striscia di Gaza sono stati bombardati. A partire dal 7 ottobre 2023, oltre 1600 operatori sanitari sono stati uccisi e oltre 400 risultano illegalmente detenuti, senza accuse e senza processo; 70 sono stati torturati a morte. Il giornalista Farid Adly, nella newsletter Anbamed del 3 agosto 2025, scrive: «Il numero dei pazienti supera enormemente le capacità degli ospedali: del 240% a Shifà, del 210% a Rantissi, del 180% a Nasser e del 300% a AlAhli. Per sopperire alla mancanza di letti, i sanitari stendono i malati per terra, su coperte, nei corridoi e sui marciapiedi attorno alle strutture». Mancano medicine, materiali e attrezzature. «Non sono più ospedali, ma cimiteri», ha detto il direttore del Nasser. Il 10 luglio scorso, mentre i carri armati ne distruggevano i muri di cinta, il personale ha lanciato questo appello: «Lavoriamo in ospedale con i carri armati a pochi metri di distanza, e siamo più vicini alla morte che alla vita. I soldati non hanno pietà per bambini, anziani, medici o infermieri. Restiamo qui perché siamo esseri umani (…) Non dimenticateci e non riduceteci a numeri». E non succede solo a Gaza. A Jenin, Tulkarem, Hebron e altre città in Cisgiordania e nel Sud del Libano gli ospedali sono stati ripetutamente attaccati o bombardati, i soccorsi impediti, i rifornimenti bloccati, gli operatori sanitari uccisi o arrestati illegalmente.

Cosa possiamo fare? 

La campagna Teva? No grazie! invita a compiere azioni di boicottaggio etico: i pazienti possono scegliere di non acquistare farmaci Teva e delle sue consociate (Dorom, Rathiopharm, Cephalon), consegnare lettere sulle ragioni del boicottaggio al proprio medico e farmacista e scrivere a Teva Italia per comunicare l’adesione al boicottaggio.

I medici possono scegliere di non prescrivere farmaci prodotti da Teva (per ogni specialità esistono equivalenti) e i farmacisti possono scegliere di non venderli. Paolo Usai, farmacista di Bari Sardo, racconta la scelta di boicottare le aziende che supportano l’economia israeliana: «Se io voglio mantenere una certa etica e guardarmi allo specchio senza vergogna, oggi boicottare a livello economico e finanziario diventa un dovere: per molto tempo ho provato vergogna nel non riuscire totalmente a boicottare prodotti di aziende che supportano l’apartheid israeliana, come invece riuscivo a fare nella vita privata. Era ora di dire basta. La scelta di boicottare nasce da questo: una collettiva presa di posizione etica» (Lisa Ferreli, La farmacia che a Bari Sardo sceglie di boicottare il genocidio e stare con la Palestina, www.italiachecambia.org, 20 luglio 2025).

Infine, le amministrazioni locali possono scegliere di non includere Teva tra i fornitori delle farmacie comunali. Da luglio l’AFS (Azienda Farmacie e Servizi spa), società controllata dal Comune di Sesto Fiorentino, ha smesso di vendere farmaci, parafarmaci, attrezzature mediche e preparati cosmetici prodotti da aziende israeliane o realizzati con capitale israeliano. L’AFS è il primo soggetto istituzionale ad aderire ufficialmente al boicottaggio. Il Comune di Sesto Fiorentino comunica «l’interruzione di ogni forma di relazione istituzionale tra l’amministrazione comunale e i rappresentanti del governo israeliano o enti e istituzioni a esso riconducibili fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale». Nell’agosto scorso, Sanitari per Gaza e BDS hanno lanciato la campagna #Digiunopergaza, che ha raccolto oltre 30.000 adesioni e che invita le aziende sanitarie di valutare con criteri etici la stipula di accordi e partenariati scientifici e commerciali per evitare collaborazioni con enti legati a Stati accusati di genocidio e di adottare regole per gli approvvigionamenti che escludano fornitori riconducibili agli stessi Stati. E a settembre anche il Comune di Jesi ha deciso di aderire alla campagna: le due farmacie municipali non venderanno più prodotti a marchio Teva.

Tutti noi, cittadini, medici, farmacisti e amministratori locali possiamo agire per boicottare TEVA, un’azienda complice dello Stato genocida israeliano: il boicottaggio economico funziona!

Venezuela, liberato cittadino francese detenuto da giugno

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Il cittadino francese Camilo Castro, 41 anni, detenuto in Venezuela dalla fine di giugno, è stato rilasciato, come annunciato dal presidente Emmanuel Macron. Castro, insegnante di yoga residente in Colombia, era scomparso il 26 giugno al valico di Paraguachón, dove si era recato per rinnovare il visto. La sua famiglia e Amnesty International avevano denunciato che fosse trattenuto dalle autorità venezuelane. Amnesty aveva inoltre accusato Caracas di ricorrere a «sparizioni forzate» dopo la rielezione di Nicolás Maduro, usandole per costruire narrazioni su «cospirazioni straniere» e come strumento nei negoziati internazionali.

In Italia sono stati chiusi 140.000 negozi negli ultimi 12 anni

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Un fenomeno di desertificazione commerciale senza precedenti sta trasformando il volto delle città italiane. Negli ultimi dodici anni, infatti, il Paese ha registrato la chiusura di oltre 140mila esercizi tra negozi e attività ambulanti, ai quali si aggiungono 105.000 spazi sfitti, un quarto dei quali da più di un anno. L’allarme viene da un report di Confcommercio, che evidenzia come ogni saracinesca abbassata significhi meno servizi, minore sicurezza e un progressivo indebolimento del tessuto sociale. La prospettiva per il futuro è tutt’altro che ottimistica: secondo l’organizzazione, senza un’inversione di tendenza attraverso politiche di rigenerazione urbana, entro il 2035 potrebbero scomparire ulteriori 114mila attività, oltre un quinto del totale.

I dati elaborati dall’Ufficio studi di Confcommercio descrivono una situazione drammatica. Attualmente in Italia operano 534.000 imprese del commercio al dettaglio, di cui circa 434.000 in sede fissa e 71.000 ambulanti. Rispetto al 2012, però, il calo è stato drastico: hanno chiuso i battenti quasi 118.000 negozi fissi e circa 23.000 attività ambulanti. Questo crollo è il risultato di una crescita insufficiente dei consumi interni, del cambiamento dei comportamenti di spesa degli italiani e dell’ascesa del commercio digitale, che nello stesso periodo è cresciuto del 114,9%, con oltre 16.000 imprese in più operanti prevalentemente online o per corrispondenza.

L’emorragia non ha colpito tutti i settori allo stesso modo. Le contrazioni più rilevanti hanno interessato i distributori di carburante (-42,2%), le attività culturali e ricreative (-34,5%), il commercio non specializzato (-34,2%), i negozi di mobili e ferramenta (-26,7%) e l’abbigliamento con le calzature (-25%). Unica eccezione in controtendenza il comparto dei servizi di alloggio e ristorazione, cresciuto del 5,8% con circa 18.000 attività in più, trainato soprattutto dalla ristorazione (+17,1%). Mentre gli alberghi tradizionali segnano un -9,5%, le altre forme ricettive come B&B e affittacamere sono esplose con un incremento del 92,1%, sostenute dall’aumento dei turisti e dalla diffusione di nuovi modelli di consumo.

Anche la distribuzione geografica del fenomeno risulta assai disomogenea: in termini assoluti le regioni più colpite sono Lombardia, Veneto e Piemonte; in rapporto alla rete distributiva, invece, soffrono maggiormente le regioni più piccole (Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria). Tra i comuni con minore densità commerciale emergono Fiumicino, Trento, Cinisello Balsamo, Sesto San Giovanni e Ancona. Le città medio-grandi del Centro-Nord appaiono più esposte, anche per il maggiore ricorso all’e-commerce, mentre in alcune aree del Mezzogiorno il calo è più contenuto per la minore diffusione degli acquisti online, nonché per il progressivo decremento demografico.

Al fine di contrastare tale deriva, Confcommercio ha presentato un’Agenda Urbana Nazionale attraverso il progetto Cities, che verrà approfondito durante l’evento “inCittà. Spazi che cambiano, economie urbane che crescono”, in programma a Bologna il 20 e 21 novembre. Le proposte includono patti locali per la riattivazione dei locali sfitti con canoni calmierati, interventi di animazione urbana, azioni per una logistica urbana sostenibile e piattaforme di welfare territoriale. L’obiettivo è quello di realizzare un coordinamento stabile tra Governo, Regioni e Comuni per rigenerare i centri urbani valorizzando le economie di prossimità, prima che il deserto commerciale renda irreversibile il declino di interi quartieri.