martedì 1 Luglio 2025
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Sudan, attacco in un ospedale: almeno 40 morti

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Nel fine settimana, in Sudan, è avvenuto un attacco a un ospedale, in seguito a cui sono state uccise almeno 40 persone. La notizia è stata data oggi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che tuttavia non ha individuato il responsabile dell’aggressione. L’attacco è avvenuto presso l’ospedale Al Mujlad, nel Kordofan Occidentale, area vicino alla linea del fronte tra l’esercito regolare e i ribelli delle Forze di Supporto Rapido. In seguito all’annuncio, il direttore dell’ospedale ha condannato le aggressioni alle strutture sanitarie chiedendo ad entrambe le forze di cessarle immediatamente; neanche il medico ha identificato l’autore degli attacchi.

Thailandia: chiuso il confine con la Cambogia

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L’esercito thailandese ha chiuso i valichi di frontiera con la Cambogia a quasi tutti i viaggiatori, compresi turisti e commercianti. La chiusura dei confini è stata motivata con motivi di sicurezza, e arriva in un momento di tensione tra i due Paesi del Sud-est asiatico. Il deterioramento dei rapporti è scattato dopo lo scoppio di ridotti scontri armati in una zona di confine, che alla fine di maggio hanno causato la morte di un soldato cambogiano. I Paesi hanno poi adottato misure di ritorsione l’uno contro l’altro, come per esempio la sospensione di tutte le importazioni di carburante e gas dalla Thailandia annunciata dalla Cambogia.

Trump annuncia il cessate il fuoco tra Israele e Iran: “chiamatela la guerra dei 12 giorni”

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un cessate il fuoco «completo e totale» tra Israele e Iran, che aprirebbe la strada alla conclusione definitiva di quella che ha ribattezzato «Guerra dei 12 giorni». La pace inizierebbe formalmente domani, mercoledì 25 giugno, dopo un cessate il fuoco transitorio diviso in due fasi di 12 ore ciascuna: la prima a smettere di bombardare sarebbe Teheran, e poi toccherebbe a Israele. Poco dopo l’annuncio di Trump, il ministro degli Esteri iraniano Araghchi ha smentito il raggiungimento di un accordo, ma ha affermato che l’Iran avrebbe rispettato la tregua se Israele avesse fatto lo stesso, riservandosi il diritto di rispondere agli attacchi. È esattamente quello che è successo: nella notte, Israele e Iran hanno continuato a scambiarsi attacchi, l’ultimo dei quali è giunto da Teheran attorno allo scoccare dell’ora stabilita. Non risulta insomma chiaro se la tregua annunciata da Trump terrà, ma le rispettive emittenti di Stato hanno riportato l’entrata in vigore del cessate il fuoco, e Israele ha annunciato di avere accettato la proposta di Trump.

Nel proprio annuncio, il presidente degli Stati Uniti ha usato i suoi caratteristici toni entusiasti: «Congratulazioni a tutti», ha scritto Trump interamente in maiuscolo. «È stato pienamente concordato tra Israele e Iran che ci sarà un cessate il fuoco completo e totale». Trump ha pubblicato il proprio post sul social Truth pochi minuti dopo mezzanotte (ora italiana); qualche minuto prima, un ufficiale iraniano avrebbe detto all’emittente statunitense CNN che l’Iran non aveva ancora ricevuto alcuna richiesta di cessate il fuoco. Poco prima delle 3 è arrivata la smentita ufficiale da parte di Araghchi: «Al momento, non esiste alcun “accordo” su alcun cessate il fuoco o cessazione delle operazioni militari. Tuttavia, a condizione che il regime israeliano ponga fine alla sua aggressione illegale contro il popolo iraniano entro le 4 del mattino, ora di Teheran, non abbiamo intenzione di proseguire la nostra risposta in seguito. La decisione finale sulla cessazione delle nostre operazioni militari verrà presa in seguito».

Il ministro degli Esteri iraniano è stato di parola: nella notte Repubblica Islamica e Stato ebraico hanno infatti continuato a scambiarsi missili fino allo scadere del termine fissato da Trump. Proprio mentre Trump rilasciava l’annuncio del presunto accordo, Israele ha lanciato un bombardamento verso Teheran, e l’Iran ha attaccato il Golan. I bombardamenti si sono protratti tutta la notte da ambo le parti; l’ultimo che si registra è stato lanciato dall’Iran pochi minuti prima dello scattare del cessate il fuoco, e sembra essere andato avanti fino a circa mezz’ora dopo. A partire da circa le 6:30, tanto l’Iran quanto Israele sembrano avere cessato gli attacchi. Alle 7, Trump ha condiviso un altro post sul proprio social Truth, in cui annuncia l’entrata in vigore del cessate il fuoco e chiede a Israele e Iran di non violarlo. Non è ancora chiaro se il cessate il fuoco terrà: al momento solo Israele ha accettato ufficialmente la proposta di Trump, mentre l’ultimo aggiornamento dall’Iran risulta quello di Araghchi.

L’Australia cancella le discriminazioni per i donatori di sangue

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donare sangue

A partire dal 14 luglio, l'Australia abrogherà il divieto che impediva alle persone omosessuali, bisessuali e transessuali di donare sangue e plasma. Tale decisione, accolta positivamente da molte organizzazioni per i diritti civili, segna un cambiamento significativo nelle politiche sanitarie australiane, che fino ad ora escludevano una parte della popolazione dalla possibilità di contribuire alla donazione di sangue. Il divieto era stato introdotto negli anni '80, quando la diffusione dell'HIV e dell'epatite C attraverso trasfusioni di sangue contaminato aveva sollevato preoccupazioni sanita...

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Russia e Mali rilanciano la cooperazione economica ed energetica

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La Russia e il Mali hanno firmato una serie di accordi per rafforzare i legami commerciali ed economici. La firma è avvenuta a Mosca, in occasione di una visita del leader della giunta militare malese, il colonnello Assimi Goita, al Cremlino. Putin si è mostrato soddisfatto dell’intensificazione dei rapporti con il Paese africano, affermando che ci sono aree in cui la cooperazione potrebbe essere rilanciata: si tratta, in particolare, «dell’esplorazione geologica, dello sviluppo delle risorse naturali, dell’energia, della logistica e del settore umanitario». Uno degli accordi firmati da Putin e Goita riguarda proprio la cooperazione nel settore dell’energia nucleare.

La Global March si sposta a Bruxelles: proteste alla Commissione UE, altri attivisti bloccano due aziende di armi

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Bruxelles, Belgio – La Global March to Gaza, bloccata al Cairo la settimana scorsa, si è spostata a Bruxelles. Centinaia di persone provenienti da diversi Paesi europei si sono ritrovate oggi per una settimana di mobilitazione nella capitale europea, mentre nei palazzi della politica sono previste riunioni e votazioni sugli accordi tra Unione Europea e Israele. Oggi, 23 giugno, la protesta è stata fermata a circa duecento metri dal Parlamento e si è trasformata in un presidio con bandiere e cartelli, tra cori e interventi. «Siamo qui per opporci agli accordi tra l’Unione Europea e Israele» dice a L’Indipendente Andrea, uno dei manifestanti italiani giunti a Bruxelles dopo essere stati al Cairo. «Il sostegno politico, economico e materiale dell’UE al genocidio in corso deve finire. Oggi, dentro quelle mura, il Consiglio dei ministri degli affari esteri discuterà dell’Accordo di associazione tra l’UE e Israele: un accordo che deve essere immediatamente cancellato. Basta complicità con questo genocidio».

In sottofondo riecheggiano i cori per la liberazione della Palestina che da mesi risuonano in tutte le città europee. In discussione oggi era proprio l’accordo di associazione UE-Israele, che alcuni leader, tra cui la Spagna, avevano chiesto di sospendere per la violazione dell’articolo 2 dello stesso accordo, il quale stabilisce esplicitamente come clausola che «le relazioni tra le Parti… si basano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, che costituisce un elemento essenziale del presente accordo». Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha confermato al suo arrivo a Bruxelles la linea filo-israeliana del governo, dichiarando che l’Italia si sarebbe opposta alla sospensione. Sempre oggi, anche 22 associazioni italiane si sono radunate a Roma per manifestare contro il rinnovo dell’accordo. Nella sede della Commissione europea, intanto, mentre a Gaza il massacro prosegue, è stato accolto anche il ministro israeliano degli Affari esteri.

«Chi bombarda è invitato, chi resiste è ignorato. Questa è complicità» scrivono sui social i manifestanti. «L’Europa guarda altrove mentre Gaza muore. Chiudere gli occhi è una scelta politica. È il momento di farsi sentire». La Global March ha così lanciato una settimana di protesta, iniziata oggi e destinata a proseguire fino al 26 e 27 giugno, giorni del vertice del Consiglio europeo a Bruxelles, durante il quale i leader dell’Unione discuteranno delle priorità politiche e delle relazioni esterne e di sicurezza. Ma senza alcun riferimento a Gaza.

Dopo che la marcia per raggiungere il valico di Rafah è stata bloccata e repressa dalle autorità egiziane, molti attivisti hanno deciso di portare la propria voce nel cuore dell’Europa, dove si stringono gli accordi che consentono a Israele di proseguire indisturbato questa guerra unilaterale, sbarcata da poco anche in territorio iraniano, dove si contano già centinaia di vittime. «Dobbiamo agire qui. L’UE deve prendere posizione contro il genocidio. I popoli del continente sono con la Palestina: i governanti europei hanno il dovere di ascoltarci invece di schierarsi con Israele» continua Andrea.

Le mobilitazioni continuano in tutta Europa; la settimana scorsa, proprio a Bruxelles, sono scese in piazza almeno 75mila persone, a cui si sommano altre 100mila che hanno protestato all’Aia. Vestite di rosso, simboleggiavano «la linea rossa» non tracciata dal governo per fermare Israele. È stata una delle manifestazioni più grandi di sempre a favore di Gaza in seno all’UE, dove la richiesta verso i propri governi era semplice: «basta complicità con Tel Aviv. Fermiamo il genocidio».

Bruxelles è una città molto viva e solidale con la Palestina: ogni sera c’è una manifestazione davanti alla Borsa, e ad oggi le associazioni e i gruppi attivi si sono organizzati per ospitare le centinaia di persone venute dal resto d’Europa per la Global March. Intanto, mentre fuori dalla Commissione continuava il sit-in, un migliaio di attivisti belgi della rete Stop arming Israel hanno bloccato due aziende di armi, responsabili di rifornire Israele di droni e tecnologie.

I manifestanti, molti vestiti con tute bianche e mascherine, hanno bloccato l’accesso alla Syensqo di Bruxelles, lanciato vernice rossa sulla facciata e lasciato numerose scritte per denunciare la complicità dell’azienda nel genocidio in corso. Syensqo, spin-off di Solvay (già al centro dello scandalo PFAS in Piemonte), fornisce materiali alla UAV Tactical Systems Ltd (di proprietà di Elbit e Thales, altro colosso della produzione bellica), rendendo possibile la costruzione dei droni Hermes 450 che Tel Aviv sta impiegando su larga scala. Poche ore prima anche OIP-Elbit, a Tournai, era stata bloccata e colpita con vernice rossa. Nella notte, inoltre, un centinaio di persone si sono introdotte in uno degli hangar dell’azienda, danneggiando alcuni mezzi militari e materiale informatico.

Elbit Systems è la principale azienda di armi israeliana, produttrice di circa l’85% dei droni e della maggior parte delle attrezzature militari terrestri utilizzate dall’esercito di Tel Aviv. «La campagna Stop arming Israel chiede di fermare la produzione di equipaggiamenti militari e il loro transito dal Belgio verso Israele. L’azione mira a rendere effettivo l’embargo militare contro Israele decretato dal Belgio nel 2009 e a chiedere sanzioni contro Israele, tra cui la cancellazione dell’accordo di associazione UE-Israele» scrivono gli attivisti nel comunicato stampa che rivendica l’azione.

E concludono: «Il genocidio inizia qui. Abbiamo il dovere morale di interrompere le catene di approvvigionamento dell’esercito israeliano. L’impunità e i crimini del governo israeliano devono finire. Di fronte alla complicità dei nostri governi, stiamo agendo per applicare noi stessi delle sanzioni e per rendere effettivo l’embargo militare che il Belgio dovrebbe applicare».

Centinaia di persone sono state messe in stato di fermo e portate in questura. Molte delegazioni della March to Gaza hanno raggiunto il presidio in solidarietà ai fermati, anche perché il senso profondo di questi gruppi è lo stesso: agire in prima persona e bloccare la violenza di Israele, anche contro le scelte politiche dei governanti UE.

Nigeria, le comunità devastate dal petrolio portano la Shell in tribunale

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Le comunità nigeriane di Bille e Ogale — circa 50mila abitanti complessivi — hanno avviato un’azione legale contro la multinazionale Shell e la sua ex controllata nigeriana, oggi ribattezzata Renaissance Africa Energy, per decenni di inquinamento ambientale causato dalle attività petrolifere, incluso il grave danneggiamento delle risorse idriche potabili. La vicenda giudiziaria, avviata nel 2015, approderà a processo nel marzo 2027 presso l’Alta Corte di Londra. Il tribunale ha già riconosciuto l’esistenza di 85 episodi di sversamento e ha stabilito che Shell può essere ritenuta responsabile anche per i danni derivanti da azioni di terzi, come i frequenti sabotaggi alle condutture. Le comunità locali chiedono bonifiche ambientali e risarcimenti economici, mentre la compagnia continua a negare ogni responsabilità diretta, affermando di aver sempre operato in conformità alle normative vigenti.

A Ogale, almeno 40 fuoriuscite dalle infrastrutture Shell dal 1989 hanno provocato una contaminazione delle falde acquifere mille volte superiore ai limiti di legge, secondo quanto rilevato dall’UNEP nel 2010. L’acqua, secondo le Nazioni Unite, «richiede un intervento di emergenza prima di qualsiasi altro intervento di bonifica» e l’esposizione agli idrocarburi «avrebbe certamente portato a conseguenze a lungo termine sulla salute». Le famiglie, dedite alla pesca e all’agricoltura, non possono più utilizzare i pozzi o coltivare i campi, resi sterili dall’inquinamento. A Bille, tra il 2011 e il 2013, enormi fuoriuscite hanno devastato 13.200 ettari di mangrovie, sterminando i pesci e privando i pescatori della loro principale fonte di cibo. La comunità, costituita da circa 45 isole, ha subito danni ambientali ed economici ingenti. Leigh Day, lo studio legale britannico che rappresenta i ricorrenti, ha intentato l’azione contro Shell per ottenere bonifiche e risarcimenti.

Lo scorso 20 giugno, la giudice May si è pronunciata su oltre 20 questioni preliminari. Ha riconosciuto che «finora sono state identificate circa 85 fuoriuscite», e ha affermato che, pur essendo il caso «ancora in una fase molto iniziale», Shell potrebbe essere ritenuta responsabile anche per le perdite causate da terzi – ad esempio i “bunkeraggi”, ovvero i sabotaggi agli oleodotti per il furto di petrolio. Ha inoltre affermato che, sebbene esista un termine di prescrizione di cinque anni per intentare azioni legali, «ogni giorno in cui il petrolio rimarrà» sui terreni interessati dalle fuoriuscite, nascerà una nuova causa legale.

La multinazionale ha risposto con fermezza, attribuendo la maggior parte delle perdite ad «atti criminali di terzi», come i ladri di petrolio o le raffinerie illegali, negando la propria responsabilità diretta. «Questa criminalità è la causa della maggior parte delle fuoriuscite nei bacini di Bille e Ogale», ha dichiarato un portavoce, aggiungendo che le contestazioni sono oggi gestite da una joint venture con l’ex filiale Shell, che «si avvale della sua competenza in materia di risposta alle fuoriuscite e di bonifica». Shell ha sottolineato che «i certificati di bonifica sono stati emessi dall’ente regolatore nigeriano NOSDRA». Ma per le comunità la posizione dell’azienda è inaccettabile.

È notizia di oggi che Bubaraye Dakolo, sovrano tradizionale del regno di Ekpetiama (Bayelsa, Nigeria), ha citato in giudizio Shell chiedendo 12 miliardi di dollari – circa 10,4 miliardi di euro – per bonifiche, smantellamento di infrastrutture e risarcimenti, dopo la vendita a Renaissance Africa di attività on-shore senza riparare i danni ambientali. Conosciuto anche come re Agada IV e attivista per i diritti umani e ambientali, Dakolo è sostenuto da ONG nigeriane che denunciano inquinamento di fiumi e terreni.

Il percorso giudiziario ha segnato una svolta nel 2021, quando la Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che sussistono «fondati motivi» per ritenere la Royal Dutch Shell, con sede nel Regno Unito, responsabile per i danni ambientali causati dalla sua controllata. Si è trattato di una sentenza storica, che ha ribaltato le decisioni dell’Alta Corte e della Corte d’Appello, affermando che una società madre può essere chiamata a rispondere delle azioni delle sue filiali se esercita un sufficiente grado di controllo. Questo precedente, insieme a due importanti verdetti nei Paesi Bassi contro Shell, ha aperto la strada a una maggiore responsabilizzazione delle multinazionali per le loro attività nei Paesi del Sud globale.

Trapani, referti oncologici non consegnati a pazienti: 8 medici indagati

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Otto medici degli ospedali di Trapani e Castelvetrano sono indagati per omicidio colposo e lesioni personali in un’inchiesta su oltre 3.300 referti istologici mai consegnati tra il 2024 e il 2025. La procura di Trapani ha chiesto un incidente probatorio su dieci pazienti per verificare se i ritardi abbiano aggravato le loro condizioni. Il caso ha assunto una rilevanza mediatica nazionale in seguito alle interrogazioni parlamentari presentate dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè e la storia di Maria Cristina Gallo. L’ASP di Trapani attribuisce i ritardi alla carenza di medici, ma le proteste hanno rivelato ulteriori criticità nella sanità locale.

Il governo stanzia 394 milioni per coprire i debiti di Cortina ’26

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394 milioni di euro: sarebbe questa la spesa prevista dal Governo per coprire i buchi finanziari della Fondazione Milano-Cortina. Eppure, il governo aveva assicurato che l’evento non avrebbe levato un euro dalle tasche dei contribuenti. Con il Decreto Legge Sport, infatti, l’esecutivo intende destinare 328 milioni di euro alla istituzione di un nuovo Commissario per le Paralimpiadi, che avrebbe il compito di «favorire l’inclusione sociale e l’abbattimento delle barriere», e soprattutto, quello di «subentrare nei rapporti giuridici della Fondazione». Sembrerebbe insomma una scusa per scorporare parte dei costi, quella fornita dal governo, visto che le Paralimpiadi erano già presenti nel Comitato. A queste spese vanno inoltre aggiunte quelle del ministero della Difesa – di 12 milioni – e del ministero dell’Interno, di 44 milioni.

Il decreto-legge “Sport” approvato dal governo Meloni concentra l’attenzione sulle criticità finanziarie della Fondazione Milano–Cortina 2026, destinando complessivamente 394 milioni di euro a tamponare i debiti accumulati in vista dei Giochi olimpici e paralimpici. L’intervento, presentato come necessario per garantire il rispetto del cronoprogramma, mette in luce questioni di governance, trasparenza e sostenibilità economica dell’organizzazione. La Fondazione ha fronteggiato un deficit stimato in oltre 500 milioni di euro, mai ufficialmente riconosciuto dagli organizzatori. Il decreto istituisce un “commissario straordinario” con il compito formale di promuovere l’inclusione sociale e l’abbattimento delle barriere nelle Paralimpiadi. In realtà, grazie a questa figura tutti i costi legati ai Giochi paralimpici — finora a carico della Fondazione — vengono scorporati, liberando 328 milioni di risorse originariamente imputate al Comitato organizzatore, alleggerendone il bilancio. Ad essi si aggiungono i 56 milioni complessivamente stanziati dal Ministero dell’Interno per la sicurezza e dal Ministero della Difesa per il supporto logistico. Con ulteriori accantonamenti tecnici minori e arrotondamenti di bilancio lo stanziamento complessivo si porta vicino ai 394 milioni di euro, così da colmare il deficit operativo della Fondazione e garantire il completamento di infrastrutture e servizi nei tempi previsti

Il decreto-legge fissa come scadenza la conversione in legge entro luglio, pena il recupero delle somme. Nel frattempo, l’esecutivo assicura che tali fondi non graveranno sul deficit strutturale dello Stato, attingendo a residui del PNRR e a un fondo ad hoc del Ministero dell’Economia. Il commissario straordinario verrà inquadrato con uno stipendio di 68.000 euro già nel 2025 e 136.000 euro nel 2026. Tra i candidati più accreditati spicca il nome di Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico, appoggiato dal ministro Andrea Abodi e dal gruppo di Forza Italia in Parlamento.

L’organizzazione delle Olimpiadi di Milano‑Cortina 2026, promessa come «green» e «a costo zero», si è rivelata un coacervo di scandali e mala gestione. Lo scorso aprile la Procura di Milano ha chiesto di archiviare l’inchiesta sulla Fondazione organizzatrice, in cui si ipotizzano reati di corruzione e turbativa d’asta, ma hanno sollevato la questione di costituzionalità sul decreto del governo che, trasformandola in ente privato, avrebbe ostacolato intercettazioni e sequestri preventivi di un presunto profitto di reato di circa 4 milioni. A Cortina, invece, nonostante le illazioni del ministro Salvini sul presunto «sabotaggio» della pista da bob, la magistratura ha archiviato l’inchiesta, inquadrandolo come un semplice incidente. A marzo, i cittadini di San Vito di Cadore avevano vinto la causa per il loro diritto di protesta contro una variante stradale, mentre il Veneto ha approvato la cabinovia Socrepes, su cui pendono ombre di criticità geologiche. In un contesto già segnato da deficit patrimoniali accumulati dalla Fondazione – oltre 107 milioni -, in un assordante silenzio mediatico la stima dei costi è lievitata di ulteriori 180‑270 milioni. Di recente, La Direzione Investigativa Antimafia ha segnalato il rischio concreto di infiltrazioni mafiose nei cantieri delle Olimpiadi: uno dei 50 provvedimenti antimafia emessi nel 2024 in Lombardia ha infatti colpito una società edile milanese coinvolta nella costruzione di un parcheggio interrato a Sondrio, opera inserita nel piano olimpico. Gli amministratori dell’azienda risultano legati a cosche della ‘Ndrangheta.

Accordo Mercosur-Europa: le conseguenze e i rischi per l’alimentazione degli italiani

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L’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e il Mercosur è un’intesa commerciale tra i 27 Paesi membri dell’UE, da una parte, e l’area di libero scambio sudamericana composta da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, dall’altra. Il negoziato mira a eliminare o ridurre i dazi sul 90% circa delle importazioni reciproche, creando una delle più vaste aree di libero scambio al mondo. Questi i toni trinfalistici con cui presenta l’accordo la Commissione Europea: «Si tratta di un accordo vantaggioso per tutti, che recherà benefici importanti per i consumatori e le imprese di entrambe le parti....

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