mercoledì 8 Ottobre 2025
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Le 6 bugie che governo italiano e media hanno detto sulla Global Sumud Flotilla

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Man mano che le barche della Global Sumud Flotilla si avvicinano al territorio palestinese, il pericolo di eventuali azioni israeliane aumenta. In Italia, invece, la disinformazione dilaga, promossa dal governo e dai media mainstream. Nell’arco di queste ultime settimane, sono diverse le menzogne diffuse sulla missione e sul quadro giuridico entro cui essa si muove: la narrazione dominante ha trasformato le acque palestinesi in «territorio israeliano», il blocco marittimo su Gaza in un’azione riconosciuta dal diritto internazionale, le potenziali operazioni israeliane contro gli attivisti in manovre legittime. Nel tentativo di screditare l’iniziativa umanitaria, gli attivisti della Flotilla sono stati dipinti come «irresponsabili» dalle tendenze piromane, capaci di condurre veri e propri atti di auto-sabotaggio al solo scopo di attirare i riflettori, mentre la stessa missione, sorta con l’esplicito scopo di rompere l’assedio, è stata nel migliore dei casi circoscritta al solo tema degli aiuti, fino a essere accusata di essere «finanziata dai terroristi» senza alcuna prova reale.

1. La Flotilla è finanziata da Hamas

Uno dei primi giornali a scagliarsi contro l’iniziativa è stato Il Tempo, con la sua «inchiesta» sulla rete del terrore dietro la Flotilla. L’articolo del Tempo riporta un documento pubblicato dal ministero della Diaspora di Tel Aviv, in cui Israele svelerebbe i presunti legami della GSF con Hamas e i gruppi palestinesi. Il rapporto, tuttavia, non prova niente. Esso fa il nome di cinque membri di associazioni di attivisti per la Palestina legate alla GSF: il primo, Yahia Sarri, avrebbe avuto contatti con membri dei Fratelli Musulmani e di Hamas e mostrerebbe affinità con le ideologie di Daesh; tre gruppi non sono solo distinti, ma in conflitto da anni, visto che Hamas ha abbandonato la propria affiliazione con i Fratelli Musulmani nel 2017 e ha sempre combattuto contro l’ISIS. In ogni caso, il ministero non chiarisce in che termini i presunti contatti di Sarri con tali gruppi dimostrerebbero che dietro la GSF ci siano proprio queste organizzazioni.

Come per Sarri, anche per gli altri quattro: il secondo nome che compare è quello di un giornalista palestinese, reo di avere lavorato per un media di proprietà di Hamas; il terzo attivista, è menzionato perché arrestato in Egitto durante la marcia su Gaza di giugno, e come lui il quarto; l’ultimo, invece, è un membro di BDS accusato di legami con “gruppi terroristici” per alcuni suoi post sui social. In nessuno dei loro casi vengono portati elementi che colleghino la loro partecipazione a gruppi attivisti che appoggiano la GSF con presunti finanziamenti o coinvolgimenti diretti del «terrorismo» con la Flotilla.

Ieri, al documento del ministero della Diaspora è seguita una rivelazione di altri due documenti rinvenuti a Gaza e pubblicati dal ministero degli Esteri israeliano. Questi, secondo Israele e i media italiani che li hanno ripresi, dimostrerebbero che la GSF avrebbe ricevuto finanziamenti da Hamas: il primo documento è una semplice lettera alla Conferenza Popolare per i Palestinesi all’Estero (PCPA), un’organizzazione palestinese che raccoglie membri della diaspora palestinese. Il secondo, invece, è una tabella con dei nomi di individui legati alla PCPA, tra cui figura quello di un imprenditore che avrebbe donato «dozzine di barche» alla Flotilla. Anche in questo caso, tuttavia, i documenti non citano alcun finanziamento.

2. Gli attacchi alla Flotilla sono una montatura

Un frammento del dispositivo incendiario che ha attaccato la Global Sumud Flotilla.

Nei primi giorni di settembre a dominare i titoli di giornale sulla Flotilla sono stati gli attacchi con drone scagliati contro le barche ancorate in Tunisia. Gli attivisti, in questo caso, sono stati accusati di avere inscenato gli attacchi ricevuti per attirare l’attenzione dei media. L’accendino, i giubbetti, la traiettoria, titola Il Giornale, interrogandosi su ciò che non torna nel racconto della Flotilla. Secondo il quotidiano, l’attacco con droni, di cui sono presenti più video con audio e diversi testimoni, sarebbe in realtà un colpo di pistola di segnalazione «amica» andato male. Nonostante la pubblicazicone di foto e video dei detriti dei dispositivi incendiari e dei successivi attacchi in mare, le teorie del complotto sono andate avanti per giorni, tanto che c’è chi è arrivato a pensare che fosse tutto organizzato appositamente dagli attivisti – a quanto pare giornalisti di tutto il mondo compresi visto che nessuno a bordo ha denunciato niente.

3. “Non è una vera missione umanitaria: non vogliono portare gli aiuti”

Nei suoi vari interventi, la premier Meloni ha spesso affermato che quella della GSF non sarebbe una missione umanitaria accusando gli attivisti di non volere davvero consegnare gli aiuti. Su questo punto, la GSF è sempre stata limpida: lo scopo della missione non si limita alla consegna degli aiuti umanitari, che loro stessi ammettono essere simbolici e di quantità fin troppo ridotta per sfamare la popolazione di Gaza, ma intende smuovere i governi perché facciano pressione su Israele e gli impongano di fermare il genocidio. Lo ha detto la portavoce del gruppo Maria Elena Delia nel corso della sua intervista a L’Indipendente: «L’obiettivo è semplice. Dire no al genocidio, rompere il blocco di Gaza, e chiedere a gran voce la riapertura dei corridoi umanitari istituzionali». Il punto non è mai stato quello di consegnare gli aiuti, ma quello di fermare i massacri e istituire corridoi umanitari solidi, ed è sempre stato esplicito. In tal senso, le parole di Meloni sembrano essere tese a l’attenzione sul reale scopo del progetto, così da potere accusare l’iniziativa di essere velleitaria e «irresponsabile».

4. “L’Italia potrebbe consegnare gli aiuti quando vuole”

Sulla scia dello spostamento dell’attenzione sulla questione degli aiuti Meloni ha affermato che «non c’è bisogno di infilarsi in un teatro di guerra per consegnare aiuti che il governo italiano avrebbe potuto consegnare in poche ore». La domanda sorge spontanea: se davvero poteva, perché non lo ha fatto? La consegna degli aiuti umanitari a Gaza è infatti più complessa di quanto sembri, perché Israele controlla tutte le vie d’accesso alla Striscia. Questo significa che perché essi entrino, di fatto, serve il permesso israeliano. Visti i costanti bombardamenti, se l’Italia volesse consegnare degli aiuti non lo farebbe di prima mano, bensì affidandoli ad agenzie internazionali o attive sul posto come la Croce Rossa o i vari uffici dell’ONU. Il problema, tuttavia, continuerebbe a porsi: controllando i valichi di frontiera, è Israele a gestire cosa entra nella Striscia.

Il tutto non considera che una volta entrati, gli aiuti vanno distribuiti, e con l’istituzione della Gaza Humanitarian Foundation, lo Stato ebraico ha accentrato la maggior parte delle attività nei centri GHF. Questa è tra le altre una delle ragioni per cui il vero scopo della Global Sumud Flotilla è forzare il blocco israeliano: la missione vuole rompere l’assedio israeliano e creare un reale corridoio umanitario che non dipenda dalla volontà di Israele. Gli unici a poterlo fare realmente, tuttavia, sono i governi, esercitando pressioni su Tel Aviv.

5. Le acque di Gaza sono israeliane

Una barca nel porto di Gaza City, foto del 2011.

Tra le più reiterate menzogne sulla missione, alimentate direttamente dalla politica, vi sono quelle relative al quadro giuridico in cui essa si inserisce. Tajani ha parlato di «territorio israeliano», e Crosetto di acque «di un altro Paese che può considerare [ndr. l’entrata nel proprio territorio] un atto ostile», riferendosi chiaramente a Israele. La GSF, tuttavia, non prevede di entrare in territorio israeliano: le navi della Flotilla navigano piuttosto in acque internazionali e contano di sbarcare sui litorali gazawi, ossia in acque che il diritto internazionale riconosce alla Palestina. Il territorio marittimo palestinese è infatti tracciato in una dichiarazione del 2019, che risponde alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNLOCS), di cui la Palestina è firmataria dal 2015; la UNLOCS è il principale trattato internazionale che regola la gestione dei territori marittimi e riconosce come parte del territorio degli Stati tutte le acque entro le 12 miglia dalla costa. L’Italia stessa ha ratificato la Convenzione, e, con essa, oltre 160 Paesi.

6. Il blocco israeliano è legale

Parlando dell’ipotesi di entrata nelle acque gazawi, Crosetto ha espresso la sua preoccupazione sul destino della missione, affermando di dare «per scontato» che gli attivisti verrebbero arrestati. Le parole di Crosetto suggeriscono che una simile operazione da parte di Israele sarebbe normale o legittima, ma anche in questo caso, non è così: contrariamente a quanto sostengono in molti, il blocco navale di Israele non è riconosciuto dalle istituzioni internazionali; il falso mito sulla presunta legalità del blocco navale ruota attorno al cosiddetto “rapporto Palmer” del 2011, con il quale l’omonima commissione si esprimeva sull’attacco alla nave della Freedom Flotilla Mavi Marmora condotto dalle IDF, in seguito a cui l’esercito israeliano uccise 10 attivisti. Il rapporto condanna l’attacco e giudica il blocco legale per motivi di sicurezza; esso però non ha alcun valore vincolante, ed è meramente consultivo.

Anche se il blocco fosse legale, inoltre, la legge internazionale non permetterebbe a Israele di bloccare le navi o arrestare gli attivisti a bordo. L’Articolo 59 della IV Convenzione di Ginevra impone infatti alla “potenza occupante” di un “territorio occupato” di “accettare le azioni di soccorso organizzate a favore di detta popolazione”, di facilitarle, e di garantire il libero passaggio degli aiuti umanitari; tale prassi è confermata anche dal manuale di San Remo sulla legge internazionale nei conflitti marini. Secondo la legge internazionale, se le navi della GSF dovessero entrare in acque palestinesi, Israele potrebbe inviarvi le proprie truppe, che tuttavia potrebbero solo ispezionarle; Israele non può impedirne arbitrariamente il passaggio o confiscarne il carico, a meno di trovare beni illegali. Qualsiasi azione in acque internazionali è invece illegale.

Un altro cittadino ucraino è stato arrestato per il sabotaggio del Nord Stream

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Il mistero attorno al sabotaggio dei gasdotti Nord Stream si arricchisce di un nuovo tassello. La polizia polacca ha annunciato l’arresto di un cittadino ucraino, con mandato europeo emesso dalle autorità tedesche, accusato di aver partecipato all’attentato che, il 26 settembre del 2022, fece esplodere le condutture sottomarine nel Mar Baltico. La notizia diffusa dalla rete radiofonica privata RMF è stata confermata dal legale dell’uomo, identificato con il nome di Volodymyr Z.. L’arresto è avvenuto a Pruszkow, nel centro del Paese, alle porte della capitale Varsavia dove l’uomo è già stato messo a disposizione della procura. Si tratta del secondo fermo legato all’inchiesta: lo scorso maggio, infatti, un tribunale tedesco aveva già disposto la custodia cautelare per Serhii K., anch’egli di nazionalità ucraina, ritenuto parte del commando responsabile dell’operazione. Secondo le autorità di Varsavia, il nuovo indagato avrebbe avuto un ruolo nella logistica e nella preparazione dell’azione di sabotaggio, fornendo supporto e materiali utili all’esecuzione. La vicenda riporta così sotto i riflettori un caso che da tre anni continua a sollevare interrogativi e tensioni geopolitiche. Quando i gasdotti furono colpiti, il dibattito internazionale si concentrò immediatamente sulle possibili responsabilità della Russia. Gran parte della stampa occidentale, nonostante l’assenza di prove concrete, alimentò la tesi secondo cui Mosca avrebbe avuto interesse a danneggiare la propria stessa infrastruttura energetica per ricattare l’Europa e mantenere alta l’instabilità.

Una narrazione che già allora appariva contraddittoria e che oggi, alla luce degli arresti e delle nuove indagini si è sgretolata, inchiodando Kiev alle sue responsabilità. Da subito erano emerse le anomalie e le incongruenze di una pista che puntava a Mosca: il sabotaggio del Nord Stream aveva privato la Russia di uno strumento cruciale di pressione economica e politica, oltre che di miliardi di euro di introiti derivanti dalla vendita di gas all’Europa. Nonostante questo, i governi occidentali insistevano sulla responsabilità del Cremlino, rafforzando così la linea della contrapposizione totale e giustificando il sostegno militare a Kiev. Nel novembre del 2023, però, fonti governative statunitensi ammisero in via confidenziale che il sabotaggio era stato pianificato e condotto da un gruppo legato ai servizi segreti ucraini. La versione venne rilanciata dal Washington Post e confermata da ulteriori riscontri investigativi tedeschi. Secondo il quotidiano statunitense, sarebbe stato Roman Chervinsky, un colonnello delle forze armate ucraine per le operazioni speciali a gestire la logistica e il supporto a un team di circa sei persone che avrebbe poi piazzato l’esplosivo sotto al gasdotto. Chervinsky avrebbe preso ordini da funzionari ucraini sotto la guida diretta del generale Valery Zaluhny, il comandante in capo delle forze armate ucraine. Parallelamente, l’inchiesta del premio Pulitzer Seymour Hersh, pubblicata nel febbraio 2023, aveva scosso il dibattito internazionale. Secondo il giornalista investigativo americano, dietro l’operazione vi sarebbe stata la mano diretta degli Stati Uniti, con la collaborazione della Norvegia. Hersh sosteneva che Washington avesse avuto tutto l’interesse a spezzare definitivamente i rapporti energetici tra Europa e Russia, garantendo al contempo una maggiore dipendenza del Vecchio Continente dal gas liquefatto statunitense. L’arresto in Polonia conferma un quadro che, pur restando frammentario, conferma le responsabilità di Kiev per il sabotaggio, nonostante Zelensky abbia cercato fino all’ultimo di negare, dichiarando che «niente del genere è stato fatto dall’Ucraina, mostratemi le prove». Dopo il dossier pubblicato dal Washington Post, sono arrivati gli arresti.

Se da un lato le indagini tedesche e polacche hanno già raccolto prove concrete contro idue cittadini ucraini coinvolti in prima persona, dall’altro rimangono aperte le domande sugli eventuali mandanti politici. Era un’operazione condotta da Kiev in piena autonomia, oppure si trattò di un’azione coperta e appoggiata da partner occidentali, interessati a isolare definitivamente Mosca dal mercato energetico europeo? Ciò che appare evidente è che la narrazione dominante del 2022, che puntava il dito esclusivamente contro la Russia, si è rivelata infondata. Per mesi, Mosca è stata dipinta come il nemico pronto a sabotare se stesso, mentre oggi le rivelazioni giornalistiche, le ammissioni riservate di funzionari statunitensi e gli arresti in Europa convergono tutte nella stessa direzione: la Russia fu accusata senza prove, mentre i veri autori dell’attacco sembrano sempre più vicini al governo ucraino. La notizia dell’arresto giunge in un contesto di scambi di accuse reciproche di sabotaggi, con Mosca che ha insinuato che Kiev starebbe preparando una provocazione clamorosa in Polonia, un’azione di “false flag” per scatenare la reazione della NATO ed entrare in una guerra aperta. In questo clima di alta tensione, il caso del Nord Stream rappresenta un punto nevralgico della propaganda bellica e mostra come l’opinione pubblica occidentale sia stata guidata verso una lettura univoca, utile a giustificare scelte politiche e militari già prese.

Creme di nocciola e cacao in commercio: quali sono realmente quelle di qualità?

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Negli ultimi tempi sul mercato alimentare assistiamo ad una vera e propria esplosione di creme nocciola e cacao. In qualsiasi supermercato possiamo tranquillamente trovare a scaffale almeno 6 o 7 marche diverse di questo prodotto, accanto alla più famosa Nutella. E alcuni di questi marchi più recenti si presentano a livello di marketing come delle alternative più salutari rispetto ad altre che godono di vendite e consensi molto popolari. In questo articolo cerchiamo di dare qualche informazione accurata sulla composizione e le proprietà nutrizionali di queste creme spalmabili, allo scopo di fare scelte di acquisto più consapevoli e mirate. 

Qualità: materia prima e altri ingredienti

L’elemento decisivo per valutare la qualità di questi prodotti è sicuramente la quantità di nocciole in esse contenute, perché rappresentano l’ingrediente più pregiato e di base, insieme al cacao. Molti consumatori non fanno attenzione a questo aspetto, perché è ancora troppo diffusa l’abitudine di valutare come “buono” o “cattivo” un alimento in base al suo sapore e gusto, tralasciando completamente il suo valore nutrizionale o attribuendo a ciò solo un’importanza marginale e secondaria. In realtà una crema di nocciole e cacao dovrebbe contenere in prevalenza solo questi 2 ingredienti e al limite piccolissime quantità di altre sostanze, altrimenti è come se acquistassimo dei biscotti “integrali” dove la composizione prevede in gran parte la farina bianca e solo una piccola percentuale di grano integrale, oppure una pasta integrale dove solo il 13%, poniamo, sia semola integrale ma il rimanente 87% sia invece farina di riso bianco. 

Da questo punto di vista sul mercato è presente una grande varietà di prodotti in cui si passa da quantitativi davvero minimi di nocciola attorno al 10%, fino a creme che ne contengono oltre il 70% o addirittura arrivano al 100% di nocciole. Qualitativamente parlando, e anche dal punto di vista nutrizionale, una crema con più nocciola sarà sempre migliore di un’altra con meno nocciole, proprio perché la frutta secca conferisce all’alimento un valore intrinseco in termini di apporto di fibre, proteine, grassi buoni, vitamine, minerali e antiossidanti. Questi sono infatti i nutrienti presenti nelle nocciole e di conseguenza anche nella crema che daremo ai nostri figli o che consumiamo golosamente anche noi adulti. 

Crema con olio aggiunto, emulsionanti e aromi.

Il contenuto di nocciole è determinante anche per capire se il prodotto è troppo ricco di zucchero, oli aggiunti e additivi vari, come gli emulsionanti. Infatti possiamo vedere che nei prodotti in cui troviamo lo zucchero al primo posto della lista ingredienti, vengono inseriti anche oli raffinati, aromi ed emulsionanti, sostanze di cui sarebbe bene fare a meno perché vanno a detrimento della nostra salute. Dato che le nocciole sono poche, bisognerà aggiungere olio (per rendere il prodotto cremoso e spalmabile) emulsionanti (per aumentare cremosità e miscelabilità degli ingredienti) e aromi per restituire gusto che manca a causa del basso quantitativo dell’ingrediente di base (nocciola). 

Le creme che hanno dunque lo zucchero al primo posto della lista ingredienti e soltanto poche nocciole, contengono per forza anche oli raffinati aggiunti (palma, girasole), emulsionanti e aromi. Questo è il genere di prodotto peggiore in assoluto dal punto di vista nutrizionale. Non adatto certamente per un consumo frequente e regolare. 

Salendo in termini di quantità è possibile trovare le creme che non hanno più lo zucchero come primo ingrediente, ma la nocciola. Questi prodotti non contengono più nemmeno oli raffinati e grassi estranei come olio di palma o girasole, al massimo il burro di cacao che fa parte però di uno degli ingredienti caratterizzanti la ricetta: il cacao appunto. Il quantitativo di zucchero è inferiore ma sono presenti ancora aromi ed emulsionanti. 

Valore nutritivo e gusto possono andare a braccetto

Un ulteriore scatto di qualità si fa invece scegliendo quei prodotti che oltre ad avere un più elevato quantitativo di nocciola (oltre il 70%), non presentano più aromi, emulsionanti e grassi di nessun tipo. Lo zucchero è presente ma in piccole quantità. I grassi e gli oli estranei non servono perché la cremosità e spalmabilità è data dai grassi naturali delle nocciole, finalmente presenti in quantità. A questo livello qualitativo si riduce drasticamente quindi il numero di ingredienti che compongono il prodotto, solitamente 3 al massimo.

Crema con 70% di nocciole e soltanto 3 ingredienti

Il massimo livello qualitativo dal punto di vista nutrizionale e salutistico si può ottenere quando arriviamo ad acquistare una crema di nocciole pura, cioè con un unico ingrediente e col 100% di nocciola. Queste creme sono arrivate in commercio solo negli ultimi 2 anni e costituiscono il gioiello più ambito da tutti i consumatori che gravitano nel mondo del benessere e del fitness. Ma personalmente consiglio fortemente anche ai genitori e a tutti gli altri consumatori in genere, di orientarsi verso questo genere di soluzione, la quale garantirà nutrimento sano per i figli in termini di valore nutrizionale (senza più zuccheri inutili e grassi raffinati nocivi), oltre ad essere una scelta appagante per il gusto e il piacere. Queste non hanno nulla da invidiare ai prodotti più pubblicizzati e il costo di acquisto è di poco superiore, giustificato da una qualità nettamente più alta e da un profilo salutare che non si ritrova nelle creme più “famose” e con un marketing portentoso di supporto.

A questo punto, finalmente, abbiamo trovato un prodotto che è possibile consumare anche tutti i giorni senza alcun problema, dato che è esattamente equivalente a mangiare della frutta secca, nello specifico le nocciole, ma sul mercato ci sono anche le creme di altri frutti come mandorle, pistacchio, arachidi. Se proprio lo si desidera, aggiungiamo del cacao in polvere ed ecco che ci ritroveremo tra le papille gustative una vera crema di nocciole e non più una crema di zucchero e olio di palma spacciata per crema di nocciole e cacao.

Aereo militare precipita nel Parco Nazionale del Circeo: due morti

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Un velivolo T-260B appartenente al 70° Stormo di Latina è precipitato durante una missione addestrativa all’interno del Parco Nazionale del Circeo, nel territorio di Sabaudia. L’aereo si è schiantato tra la Migliara 49 e Cerasella, vicino a una delle entrate del parco, in una zona boschiva isolata. Sul posto i soccorritori hanno trovato i resti del velivolo in fiamme e i corpi senza vita dei due militari a bordo. Non risultano persone civili ferite. Le cause dell’incidente sono ora al vaglio dell’Aeronautica Militare, che ha aperto un’inchiesta per chiarire le circostanze del tragico evento.

Allarme bomba all’Oktoberfest: festival sospeso per sicurezza dopo esplosione

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L’Oktoberfest è stato evacuato e chiuso al pubblico fino alle 17 per un allarme bomba scattato in seguito a un’esplosione e a un incendio in un’abitazione di Monaco, sulla Lerchenauer Strasse che collega il Parco Olimpico al quartiere universitario. Nella casa è stato trovato il corpo di un uomo con ferite da arma da fuoco e, secondo fonti locali, sarebbero stati rinvenuti materiali esplosivi. Secondo il quotidiano tedesco Bild l’uomo avrebbe tentato di far saltare in aria la casa dei genitori con dell’esplosivo, poi si sarebbe tolto la vita. Le autorità hanno disposto la chiusura del festival per precauzione, mentre artificieri e polizia stanno conducendo accertamenti per verificare possibili collegamenti con l’evento. La Farnesina ha fatto sapere che non risultano cittadini italiani coinvolti.

La pace è “woke”: Trump presenta il nuovo Dipartimento della Guerra USA

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«Eravamo diventati il Dipartimento woke. Ma ora non più. L’era del Dipartimento della Difesa è finita, benvenuti in quello della Guerra». Con queste parole il segretario alla Difesa Pete Hegseth, nel suo discorso rivolto a centinaia di alti comandanti militari alla Marine Corps Base di Quantico, in Virginia, ha sancito il cambio di paradigma voluto da Donald Trump: il Pentagono non è più il custode della Difesa, ma il cuore pulsante di un nuovo “Dipartimento della Guerra”. Una scelta simbolica e politica che segna un ritorno al passato, quando, fino al 1947, la struttura militare americana si presentava con questo stesso nome, e allo stesso tempo un rovesciamento retorico di sapore orwelliano, che trasforma la pace in debolezza, la difesa in offesa, la protezione in attacco. Davanti a centinaia di generali riuniti a Quantico, Hegseth ha attaccato le precedenti leadership militari, accusate di aver indebolito l’esercito con le “sciocchezze ideologiche” progressiste – come le preoccupazioni per il cambiamento climatico, il bullismo o le promozioni basate sulla razza o sul genere – e di aver perso di vista la missione essenziale: prepararsi alla guerra e vincerla. Al tempo stesso, ha invitato chi non condivide la nuova linea a dimettersi, ridicolizzato i comandanti che non incarnano lo spirito di forza e disciplina, criticato aspramente l’inclusione femminile se non allineata agli standard maschili. Da oggi, ha annunciato Hegseth, si torna a standard fisici rigorosi con un inasprimento delle norme sulla forma fisica. Il nemico da combattere non è soltanto esterno, ma soprattutto interno: la cultura della diversità e dell’inclusione, definita “woke”, è considerata da questa amministrazione un’arma che corrode dall’interno la macchina bellica americana.

Anche i test di idoneità cambieranno, con le truppe da combattimento tenute a sostenere valutazioni neutre rispetto al genere e con un punteggio di età superiore al 70%. Inoltre, tutti i membri del servizio dovranno superare l’allenamento fisico e i controlli di altezza e peso due volte all’anno. Cambia tutto anche in materia di standard estetici: saranno vietati barbe, capelli lunghi e “espressioni individuali superficiali”, con un ritorno a un aspetto professionale e rasato. «Le uniche persone che meritano la pace sono quelle disposte a fare la guerra per difenderla. Ecco perché il pacifismo è così ingenuo e pericoloso», ha dichiarato Hegseth, secondo cui «o proteggi il tuo popolo e la tua sovranità o sarai sottomesso da qualcosa o qualcuno». Trump, intervenuto di persona, ha rincarato la dose. Ha rivendicato di aver “ricostruito l’esercito” proprio licenziando i generali che non seguivano i suoi ordini, ammonendo i presenti con il suo celebre “You’re fired” (“Sei licenziato”). Ha parlato di una “invasione dall’interno” che trasforma le città americane in veri e propri teatri di guerra, in cui il nemico non porta uniforme e non si distingue a occhio nudo. Da qui la proposta del presidente: le città americane che, come Portland, sembrano «una zona di guerra» vedranno sempre di più il dispiegamento dei militari americani, che potranno usarle anche per addestrarsi. Ha ribadito che l’arsenale nucleare statunitense è il più potente del mondo, affermando di sperare di non doverlo mai usare, ma lasciando intendere che la sua disponibilità costituisce la vera garanzia della pace. Nel suo discorso alla platea di vertici militari ha fatto riferimento diretto alle bombe nucleari e alle minacce che arrivano dalla Russia: «Siamo stati minacciati un pochino dalla Russia recentemente e io ho inviato un sottomarino, un sottomarino nucleare, l’arma più letale che sia stata mai fatta. Numero uno, non si può localizzare, siamo 25 anni avanti rispetto a Cina e Russia sui sottomarini». In questo scenario, la pace viene celebrata come conquista ottenuta solo attraverso la forza. Trump non ha rinunciato alla sua ossessione per il Nobel per la pace, ricordando come a suo dire avrebbe risolto sette guerre senza ricevere il riconoscimento. Un’uscita che mostra l’incredibile contraddizione di fondo: autoproclamarsi pacificatore mentre si rilancia la logica della guerra permanente. Va in questa direzione quanto emerso grazie a un sistema di tracciamento open source che ha rivelato, nelle scorse ore, un dispiegamento su larga scala di aerei cisterna dell’Aeronautica Militare statunitense verso il Qatar, alimentando speculazioni su un’imminente azione contro l’Iran. Gli aerei KC-135 Stratotanker e KC-46 Pegasus sono in rotta verso la base aerea di Al Udeid, a indicare una maggiore prontezza militare statunitense.

Alcuni generali, dietro le quinte, avrebbero espresso riserve, come già anticipato dal Washington Post: la concentrazione ossessiva sul nemico interno rischia di far dimenticare sfide più complesse e reali, come l’ascesa della Cina. Ma la macchina comunicativa trumpiana non ammette esitazioni: chi non si allinea viene rimosso, chi resta deve giurare fedeltà assoluta. Hegseth ha anche annunciato una serie di tagli e riforme all’esercito statunitense, spiegando che «È quasi impossibile cambiare una cultura con le stesse persone che hanno contribuito a creare o addirittura beneficiato di quella cultura». Il capo del Pentagono ha ordinato una riduzione del 10% nel numero di generali e ammiragli in tutte le forze armate, con un taglio più drastico del 20% per i generali e ammiragli a quattro stelle e ha invitato i comandanti di più alto grado che non concordano con la sua visione a dimettersi. L’operazione appare come una controrivoluzione culturale che mira a epurare le Forze armate da ogni traccia di pluralismo o dissenso, ripristinando un modello di comando verticale, duro e monolitico. Il ribattezzato Dipartimento della Guerra non è soltanto un nuovo nome, ma una vera e propria dichiarazione ideologica: se la pace è “woke”, la guerra diventa il linguaggio naturale del potere. La contrapposizione non è più tra guerra e pace, ma tra forza e debolezza, tra supremazia e resa. In questo quadro, l’America si presenta come una nazione che non cerca più di difendere l’ordine mondiale, ma di imporlo con una politica muscolare e aggressiva, con la minaccia costante al ricorso della violenza. Intanto, mentre si discute della nuova politica del Pentagono, gli Stati Uniti sono entrati ufficialmente in shutdown, con il congelamento di parte dell’amministrazione federale: è la prima volta che accade in sette anni e al momento non c’è una soluzione in vista per l’impasse di bilancio al Congresso americano. Lo scontro riguarda i fondi per la sanità, con i repubblicani che hanno bocciato l’estensione dei sussidi dell’Obamacare. Trump, durante il suo primo mandato presidenziale fu protagonista della sospensione amministrativa più lunga della storia americana: 35 giorni, dal 22 dicembre 2018 al 25 gennaio 2019, con una piccola ininfluente pausa all’inizio. Allora, il nodo del contendere riguardava i cosiddetti Dreamers e le risorse per la costruzione del muro al confine con il Messico. Ora, la crisi di bilancio rischia di aggravarsi, acuendo non solo la frattura tra Trump e l’opposizione, ma anche quella tra la Casa Bianca e un mondo che osserva con crescente inquietudine le sue prossime mosse.

Trasnova, Stellantis diserta il tavolo con governo e sindacati: 300 lavoratori a rischio

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Per la terza volta consecutiva Stellantis ha disertato il tavolo con rappresentanti sindacali e governo, riunitisi ieri a Roma per trovare una soluzione alla vertenza Trasnova, azienda dell’indotto che insieme alle subappaltatrici Logitech, Teknoservice e CSA si occupa della logistica. La commessa, in scadenza a dicembre, riguarda circa 300 dipendenti i quali, in assenza di un accordo, rischiano di perdere il posto di lavoro dal primo gennaio 2026. I sindacati confederali presenti a Roma chiedono al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) di far tornare Stellantis sui propri passi e prorogare il contratto, come già successo l’anno scorso al culmine di due settimane di mobilitazione organizzate dai lavoratori. Questi ultimi sono pronti a scendere in piazza e a far sentire la propria voce in tutte le sedi possibili. Sullo sfondo si giocherà la partita tra il governo e la multinazionale dell’automotive che a suon di perdite, cassa integrazione e assenza di piani industriali guarda altrove, riservando all’Italia le scorie della delocalizzazione.

«Siamo delusi. Dopo dieci mesi di trattative non ci hanno ancora proposto soluzioni concrete», racconta a L’Indipendente Gianluca Bencivenga, tra i dipendenti Trasnova che rischiano il posto di lavoro. Il tavolo organizzato ieri a Roma dal MIMIT è stato disertato da Stellantis e quindi si è concluso con un nulla di fatto. Il gruppo italo-francese non sembrerebbe intenzionato a rinnovare il contratto a Trasnova, preferendo internalizzare le spedizioni delle automobili prodotte, ad oggi gestite dall’azienda frusinate e dalle ditte subappaltatrici. In alternativa alla proroga del contratto, i sindacati confederali chiedono garanzie per un passaggio di prestazioni verso nuovi appaltanti. Con più cautela discutono della via prospettata dall’esecutivo, quella del ricollocamento (outplacement), che in passato ha dimostrato limiti e criticità nell’efficacia del reinserimento lavorativo.

Al momento Trasnova, di fronte al muro eretto da Stellantis, prospetta la via del licenziamento per i suoi dipendenti (un centinaio), il che provocherebbe un effetto domino per le ditte subappaltatrici, coinvolgendo nel complesso 300 lavoratori. Le conseguenze di tale scenario potrebbero andare anche oltre, rappresentando un precedente importante nell’indotto Stellantis, soprattutto se si considera che la multinazionale dell’automotive è sempre più intenzionata a lasciare l’Italia per spostare la produzione all’estero, Serbia in primis. Soltanto pochi giorni fa Stellantis ha annunciato una nuova ondata di cassa integrazione in sei stabilimenti europei; negli ultimi quattro anni l’erede della FIAT ha tagliato quasi diecimila posti di lavoro. I dipendenti sono infatti crollati dalle 37.288 unità del 2020 alle 27.632 nel 2024, per un’emorragia di forza-lavoro che si accompagna a quelle delle vendite e della produzione.

Le uniche certezze restano i dividendi per gli azionisti e gli assegni da capogiro per gli amministratori delegati. Il successore di Carlos Tavares, Antonio Filosa, si è aggiudicato uno stipendio annuale base di 1,8 milioni di dollari, cui si aggiungono svariati bonus che potrebbero permettere al nuovo Ad di guadagnare fino a 24 milioni di dollari l’anno, circa 1100 volte in più rispetto a quanto percepisce un operaio Stellantis.

Filippine, terremoto di magnitudo 6.9: decine di morti e danni gravi

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Un violentissimo sisma di magnitudo 6,9 ha colpito le Filippine centrali con epicentro al largo di Bogo, una città costiera di circa 90mila abitanti sull’isola di Cebu. Il bilancio provvisorio parla di almeno 60 morti e oltre 140 feriti, mentre decine di edifici risultano distrutti o gravemente danneggiati. Gli ospedali locali sono al collasso, le squadre di soccorso lavorano nelle macerie e le autorità avvertono che il numero delle vittime rischia di salire. Le piogge intermittenti e i danni a ponti e strade stanno ostacolando le operazioni di soccorso.

Livorno, i portuali impediscono l’attracco di una nave commerciale israeliana

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container porto

Una nave portacontainer israeliana è rimasta bloccata in rada, a pochi chilometri dal porto di Livorno. Non trasporta armi né materiali a uso militare, ma il suo carico non ha comunque ottenuto l’autorizzazione ad approdare. I lavoratori del porto, infatti, si sono rifiutati di operare sulla nave Zim Virginia, appartenente alla compagnia di bandiera israeliana.
Il presidio è iniziato all’alba di lunedì 29 settembre, con centinaia di persone riunite all’ingresso della darsena, tra portuali, attivisti e sindacati. «Nessuna operazione di imbarco, sbarco o stoccaggio verrà effettuata», hanno annun...

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Parigi, trovato morto ambasciatore del Sudafrica in Francia: ipotesi suicidio

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L’ambasciatore del Sudafrica in Francia, Emmanuel Nkosinathi Mthethwa, 50 anni, è stato trovato morto oggi, martedì 30 settembre, davanti all’hotel Hyatt Regency Paris Étoile, nel XVII arrondissement. La polizia lo cercava da lunedì, dopo la denuncia di scomparsa della moglie, che aveva ricevuto un “messaggio preoccupante”. Mthethwa aveva prenotato una camera al 22esimo piano dell’albergo, dove la finestra risultava forzata nonostante non potesse aprirsi completamente. Tra le ipotesi al vaglio degli inquirenti c’è il suicidio. La procura di Parigi ha aperto un’indagine per chiarire le circostanze della morte.