giovedì 21 Agosto 2025
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Questura di Torino e Viminale sono stati condannati per discriminazioni sui migranti

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La Questura di Torino e il Ministero dell’Interno sono stati condannati dal Tribunale di Torino per le pratiche discriminatorie adottate nei confronti dei richiedenti asilo. La sentenza, datata 4 agosto 2025, ha infatti sottolineato come il sistema di gestione delle domande di protezione internazionale imponga condizioni «mortificanti e con effetti discriminatori» per i migranti, violando il diritto di accesso ai servizi pubblici. La decisione è stata presa a seguito di una causa legale promossa da diciotto richiedenti asilo. In un contesto normativo che impone l’uguaglianza di trattamento, tale pronuncia ha sollevato interrogativi fondamentali sull’accesso equo alle procedure di protezione internazionale, mettendo in evidenza gravi lacune nell’organizzazione dei servizi da parte delle autorità italiane.

Nel suo pronunciamento, il Tribunale ha stabilito che «le procedure adottate dalla Questura di Torino Ufficio immigrazione sono illegittime», in quanto «ostacolano, ritardano e rendono eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e dalla legge italiana di recepimento ai cittadini stranieri che intendono manifestare la volontà di presentare una domanda di protezione», ma anche che «costituiscono una discriminazione» che viene «consumata in contrasto con le norme che impongono la parità di trattamento tra i cittadini italiani e i cittadini stranieri, nonché tra i cittadini stranieri di diversa nazionalità». È stato infatti accertato come i migranti siano stati obbligati a mettersi in fila ore prima dell’apertura degli uffici, affrontando situazioni di estremo disagio – spesso accampandosi di notte per riuscire ad essere i primi ad entrare – senza la certezza di riuscire a presentare la propria domanda di protezione. Inoltre, la selezione delle persone che possono accedere agli sportelli avviene senza trasparenza, con criteri oscuri che discriminano esplicitamente alcune nazionalità. Nel corso del processo, è emerso che la Questura di Torino non solo non applicava criteri chiari per l’accesso, ma, in alcune occasioni, escludeva migranti di certe nazionalità, come nel caso in cui un funzionario avrebbe detto «per oggi, basta sudamericani». Questo comportamento ha alimentato la percezione di una selezione etnica nei servizi pubblici, confermando la natura discriminatoria delle prassi adottate. L’amministrazione – ha evidenziato il tribunale – non ha fornito spiegazioni adeguate sui criteri adottati per selezionare chi potesse entrare per formalizzare la domanda.

Il caso ha avuto inizio con una serie di ricorsi presentati da cittadini stranieri, assistiti da vari legali, che avevano cercato ripetutamente di formalizzare la loro richiesta di protezione internazionale presso la Questura di Torino senza successo. Secondo quanto emerso durante il processo, i ricorrenti avevano fatto numerosi tentativi, tra cui l’invio di comunicazioni formali tramite i propri avvocati e attese estenuanti in coda, spesso dalle prime ore del mattino. Nonostante questi sforzi, nessuno di loro è riuscito a registrare la domanda nei tempi stabiliti dalla legge. A supporto della causa, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) ha documentato numerosi episodi di discriminazione, tra cui le testimonianze di richiedenti asilo che, dopo aver atteso a lungo, sono stati respinti con frasi come «oggi basta sudamericani». Inoltre, sono emerse criticità relative alla gestione dei diritti fondamentali dei migranti, in particolare per quanto riguarda l’accesso a servizi sociali e sanitari, che risultano preclusi a chi non riesce a formalizzare la domanda di asilo.

Il Ministero dell’Interno e la Questura sono stati obbligati ad adottare nuove modalità organizzative entro quattro mesi dalla sentenza. In particolare, è statoaimposta l’adozione di un portale telematico per facilitare l’accesso alle procedure, nonché la pubblicazione della sentenza su giornali e siti istituzionali per garantire la trasparenza e la possibilità di evitare futuri comportamenti discriminatori. Nel frattempo, con un comunicato congiunto, Questura e Viminale hanno però già annunciato l’intenzione di ricorrere in appello contro la sentenza, sostenendo che le difficoltà derivino dalla grande mole di persone in attesa e non da un’intenzionalità discriminatoria.

Il lato oscuro delle infradito di gomma

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L’infradito, o flip-flop, unisce un po’ tutti. Almeno nei mesi estivi, la tipica ciabatta in gomma avvicina gli esseri umani delle parti più disparate del globo con quel suo stile pratico che tanto ricorda i surfisti. Popolarissime anche per i prezzi popolari a cui si trovano molti modelli, ma allo stesso tempo adorate anche dai ricchi che ricercano uno stile casual e portate in passarella da diversa stilisti di grido (e nei negozi più chic con cartellini che possono arrivare a marcare 600 euro). Uno stile da spiaggia che si adatta anche in città, che va d’accordo con i costumi e anche con abiti più strutturati, meglio se accompagnati da una borsa importante. Quello con cui non vanno d’accordo, però, è l’ambiente: queste coloratissime icone estive nascondono svariati lati oscuri. E anche sulla salute, alla lunga, ci sono diverse controversie. 

Storia di una ciabatta

Un modello di infradito dell’Antico Egitto, esposto al Museo Egizio di Torino

Le infradito non sono certo un’invenzione dei tempi moderni. La storia di queste calzature risale a migliaia di anni fa, addirittura nell’antico Egitto. Le prime si hanno intorno al 4000 a.C., dove si indossavano comunemente sandali realizzati in papiro e foglie di palma. Uomini con indosso questi sandali compaiono persino su manufatti reali egizi, a dimostrazione dell’importanza sociale e simbolica di queste semplici calzature. Apparvero poi nell’antica Grecia, a Roma e in gran parte dell’Asia, reinterpretate con l’uso dei materiali locali: papiro in Egitto, legno in India, paglia di riso in Cina e Giappone, foglie di yucca in Messico e pelli di animali in Africa. Le differenze erano anche strutturali: mentre gli antichi greci indossavano la cinghia tra il primo e il secondo dito del piede, i romani optarono per il secondo e il terzo dito, mentre i mesopotamici usavano il separatore tra il terzo e il quarto.

Ad influenzare la forma moderna di queste calzature, però, sono stati due sandali tradizionali giapponesi: gli Zori piatti in paglia e i Geta rialzati in legno. Gli zori somigliano molto agli odierni sandali da spiaggia e sono diventati, nel tempo, un articolo di uso quotidiano in Giappone. L’esportazione vera e propria si deve ai soldati americani di stanza in Giappone durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, che riportarono in patria lo stile zori. Questi sandali, leggeri, economici e facili da indossare, apparvero presto nei negozi e diedero inizio a una tendenza globale.

Il vero boom si ebbe tra gli anni cinquanta e sessanta, periodo in cui le aziende occidentali, valutato il potenziale e la popolarità, iniziarono la produzione in serie di infradito di gomma. Associate spesso allo stile da spiaggia degli spensierati surfisti californiani, divennero subito icone di un certo tipo di moda estiva e di una vita rilassata. Anche il nome “flip flop” arriva nello stesso periodo, derivazione onomatopeica del suono che i sandali producono quando si cammina (soprattutto se bagnati), adottato in primis negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. 

Oggi le infradito sono realizzate in gomma, schiuma, pelle, sughero o plastica e vengono indossate ovunque. Marchi come il brasiliano Havaianas hanno contribuito a renderle popolari in tutto il mondo, con infinite varianti di stile e decorazioni. Le infradito sono e rimangono un simbolo di comfort, libertà e stile casual, indossate da miliardi di persone e continuamente reinventate da stilisti e case di moda.

Plastica, sostanze chimiche e danni ambientali

Pratiche, convenienti, comode, ma con un certo impatto ambientale. Le Infradito non sono così innocue come sembrano. Il loro apporto all’inquinamento non è trascurabile, dovuto principalmente sia ai materiali sia alle pratiche di smaltimento, che causano danni alla fauna selvatica e alla salute umana.

A partire dalla loro “esplosione”, la produzione di massa di queste calzature è realizzata in plastica sintetica, (poliuretano, PVC o EVA), tutti polimeri derivati dal petrolio che non sono biodegradabili. Anzi, persistono nelle discariche e negli oceani per centinaia di anni, decomponendosi in microplastiche che contribuiscono all’inquinamento degli oceani e minacciano la vita marina. Anche il loro processo produttivo non è del tutto innocuo: consuma risorse petrolifere ed emette gas serra, utilizza sostanze chimiche spesso tossiche che possono diffondersi nell’ambiente, influendo sugli ecosistemi.

Ed è proprio su questi che si ha l’impatto maggiore: come spesso succede, le infradito scartate e gettate anche dopo pochi utilizzi (magari una stagione sola o una singola vacanza) finiscono sulle spiagge con il rischio di essere ingerite da animali marini, causando soffocamento, fame o avvelenamento. Le sostanze chimiche disperse in fase di scomposizione, oltre che danneggiare fauna e ambiente, rischiano di arrivare agli esseri umani se entrano nella catena alimentare. Non è raro osservare intere spiagge in alcune regioni dell’Africa orientale totalmente ricoperte di flip flop, dove questi fiumi di plastica formato ciabatta si infilano nei corsi d’acqua, ostruendoli, uccidendo la flora e inibendo i cicli riproduttivi degli animali.

I pericoli per la salute umana

Un negozio di infradito a Abong-Mbang, in Camerun

I rischi per la salute arrivano anche per l’uomo. Sostanze chimiche e tossine, come coloranti e ritardanti di fiamma, possono rappresentare un rischio sia per chi queste calzature le produce sia per gli utenti finali. Chimica, ma anche fisica: molti podologi avvertono che le infradito offrono pochissimo supporto plantare o ammortizzazione, aumentando il rischio di lesioni a piedi, caviglie e ginocchia. L’uso prolungato può portare a problemi come fascite plantare e tendinite, soprattutto in quei modelli progettati per la loro estetica più che per la funzionalità ergonomica. Ma alla Moda poco importa: sull’altare dello stile, la salute è più che sacrificabile!

E le infradito continuano ad essere le calzature più usate, con miliardi di pezzi venduti ogni anno, soprattutto nei paesi in via di sviluppo per via del loro prezzo di base assolutamente economico. Un prezzo basso che, come sempre, viene pagato da una filiera sfruttata con manodopera sottopagata e in condizioni di lavoro al limite del rischio.

Le alternative possibili

Per contrastare questo fenomeno, sono già in commercio alternative in materiali biodegradabili o riciclati, con un impatto notevolmente inferiore. Si passa da quelle realizzate in gomma naturale al 100%, biodegradabile e priva di plastiche nocive, proveniente da coltivazioni di gomma etiche (ad esempio, coltivazioni dello Sri Lanka che rispettano il commercio equo e solidale) a quelle in plastica riciclata, come quella oceanica, o le infradito scartate o il PVC riciclato, fino ad alcune varianti realizzate con materiali vegetali e rinnovabili, integrati con suole in sughero o pneumatici riciclati per un assorbimento degli urti e un’ammortizzazione naturali. Diverse sono prodotte in maniera etica con produzioni locali per una filiera più sostenibile.

Alcune aziende poi, si sono impegnate con programmi di riciclo per recuperare le loro infradito in gomma naturale per chiudere il ciclo dei rifiuti, promuovendo la moda circolare ma anche sostenendo progetti di upcycling. L’Organizzazione non governativa Ocean Sole, ad esempio, pulisce le spiagge e ricicla gli scarti delle infradito trasformandoli in opere d’arte, calzature, giocattoli, contribuendo a creare posti di lavoro ed opportunità economiche.

Nonostante i lati oscuri siano sempre più noti, le infradito sono state largamente viste sulle passerelle e promosse da celebrità e influencer, a dimostrazione di quanto la moda finga di tenere alla sostenibilità mentre nella pratica continua per la sua strada lastricata di rifiuti.

Vaccini: il governo rende plurale il Comitato Consultivo, media e virostar insorgono

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Con un decreto firmato il 5 agosto, il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha nominato i nuovi componenti del Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni (NITAG), che dovrebbe supportare le politiche vaccinali nazionali con raccomandazioni basate su evidenze scientifiche e valutazioni indipendenti. L’incarico di vertice passa a Roberto Parrella, presidente della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali. Riguardo ai ventidue membri del Comitato, a far discutere sono due nomi in particolare, che segnano una novità rispetto al passato, avendo difeso posizioni critiche nei confronti dei vaccini, compresi quelli contro il Covid. I due profili che hanno innescato un’aspra polemica sono quelli di Paolo Bellavite, ex docente di Patologia Generale all’università di Verona e di Eugenio Serravalle, specialista in Pediatria preventiva e Neonatologia, presidente dell’associazione dell’Associazione di studi e informazione sulla salute (Assis). Con attacchi durissimi, sia di colleghi che a mezzo stampa, sulla presenza di due “no vax” nel Comitato, mentre nessuna eco hanno avuto altre nomine che mostrano come Schillaci abbia aperto le porte del NITAG a esponenti che sono diretta espressione dell’industria farmaceutica.

La cornice mediatica, costruita chirurgicamente, ha innescato una sorta di macchina del fango: le opinioni dei due medici vengono presentate come “antiscientifiche”, mentre il racconto punta tutto sull’indignazione, la levata di scudi dell’opposizione e la reazione stizzita della “comunità scientifica”. Tra etichette diffamatorie di “no vax” e “terrapiattisti”, petizioni lampo e pressioni su Schillaci per spingerlo a revocare le nomine e le dimissioni di Francesca Russo, dirigente del Veneto, con un ultimatum al ministro: “O loro o me”. Una sorta di maccartismo, in cui il confronto si trasforma in tribunale virtuale e il dibattito scientifico in una gogna pubblica. Ironia della sorte, il prestigio scientifico di Bellavite, misurato internazionalmente attraverso il suo punteggio H-Index (l’indice che classifica i ricercatori in base alle pubblicazioni effettuate e alle citazioni dei loro lavori scientifici), che è di 51, è nettamente superiore a quello di diverse virostar come Roberto Burioni (fermo a 38) e Fabrizio Pregliasco (che ha 29 punti). Tuttavia, invece di analizzare il merito della produzione scientifica di Bellavite, è stata suonata la tromba dell’ennesima caccia alle streghe, con titoli a effetto che tuonano in merito al rischio dell’insinuarsi strisciante delle “pseudoscienze nelle istituzioni”, e articoli del calibro: “Schillaci senza vergogna nomina gli idoli dei no-vax nel comitato per le politiche vaccinali” (Il Domani).

A guidare le proteste è il Patto Trasversale per la Scienza, promosso da Guido Silvestri e Roberto Burioni, che ha lanciato una petizione per chiedere la revoca delle nomine su Change.org che, in pochi giorni, ha raccolto oltre 14 mila firme. 

Quella messa in atto è la tecnica che negli studi sui media viene definita character assassination (distruzione della reputazione), con l’utilizzo di tecniche di manipolazione per screditare i due medici “eretici”, in modo da dipingerli come dei mezzi stregoni, etichettati dall’opposizione a “ultrà no vax” e ridotti dai quotidiani a “due esperti di omeopatia schierati al fianco dei gruppi no vax più rumorosi”. 

Qual è la loro colpa? Aver espresso critiche e richieste di prudenza durante la gestione della pandemia e sulle vaccinazioni pediatriche anti-Covid. Già nel 2021, Bellavite aveva messo in dubbio la relazione tra rischi e benefici, parlando dei vaccini contro il Covid-19 nella trasmissione diMartedì su La7 («Chi ha paura del vaccino ha ragione, in un certo senso, perché mancavano informazioni su rischi e benefici»). Anche Serravalle ha sollevato questioni etiche e scientifiche riguardo alla moltiplicazione dei vaccini pediatrici, arrivando a paventare un tema tabù, ossia, una possibile correlazione con alcuni casi di autismo, senza però superare mai il limite della riflessione critica. Proprio Serravalle, con una decennale esperienza sul campo, ha deciso di adottare il principio di cautela, ricordando che «I vaccini possono causare reazioni avverse anche gravi» e che «Come tutti i farmaci non sono esenti da effetti collaterali». In un contesto sano, ciò dovrebbe alimentare un dibattito basato su dati, non essere motivo di esclusione. Invece, la prudenza metodologica viene impacchettata dentro il frame “no vax”, sinonimo di pericolo pubblico. 

E, mentre si demonizza chi esprime un pensiero scientifico non omologato, si adotta il doppio standard e si chiude un occhio su possibili conflitti di interesse di altri membri del comitato legati a industrie farmaceutiche, come Emanuele Montomoli, ordinario di igiene presso l’Università degli Studi di Siena, fondatore, presidente (non con funzione esecutiva) e direttore scientifico di VisMederi, un’azienda biotecnologica che si occupa di sviluppo clinico di vaccini e di progetti nell’ambito delle malattie infettive emergenti, in collaborazione con le più importanti aziende farmaceutiche internazionali.

Siria, scontri tra Forze Democratiche Siriane ed esercito

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L’agenzia di stampa statale siriana Sana ha riportato di scontri tra le Forze Democratiche Siriane (SDF), coalizione a guida curda, e l’esercito regolare. Secondo fonti del ministero della Difesa, gli scontri sarebbero avvenuti ad Aleppo, e un soldato dell’esercito sarebbe rimasto ucciso. I combattimenti si inseriscono all’interno di un contesto di aumento delle tensioni tra le SDF e il governo centrale. A marzo, le parti avevano raggiunto un accordo per unirsi all’esercito del Paese, che tuttavia non è ancora stato implementato. In questi giorni era previsto un incontro a Parigi tra i rappresentanti di SDF e di Damasco, ma il governo ha annunciato di avere ritirato la propria partecipazione.

Jimmy Lai: il processo simbolo su cui si misura il futuro democratico di Hong Kong

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Il 14 agosto 2025 la corte speciale di Hong Kong ascolterà le arringhe finali nel processo a Jimmy Lai, imprenditore e attivista pro-democrazia e cittadino del regno Unito detenuto da oltre quattro anni con accuse legate alla controversa Legge di Sicurezza Nazionale imposta mentre infuriavano le proteste popolari del 2020. Accusa e difesa presenteranno le rispettive sintesi delle prove, prima che i tre giudici — nominati direttamente dal capo del governo e che decideranno in assenza di giuria — si ritirino per deliberare. Dopo le arringhe, la sentenza potrebbe richiedere settimane o mesi. In caso di condanna per “collusione con forze straniere” e altri reati previsti dalla legge, Lai rischia l’ergastolo.

Si tratta di un momento di particolare rilevanza per il significato politico che il caso ha assunto nel dibattito globale sui diritti e le libertà a Hong Kong. «A quattro anni dal suo arresto le autorità di Hong Kong hanno una strategia chiara: mantenere il processo in corso, sfumare la strada e sperare che il mondo dimentichi Jimmy Lai», ha dichiarato la direttrice delle campagne di Reporter Senza Frontiere (RSF). Nel 2020, la stessa organizzazione aveva conferito a Lai il Premio Speciale per la Libertà di Stampa.

La vicenda di Jimmy Lai non può essere compresa senza ripercorrere la sua storia personale. Nato a Canton (Guangzhou), grande città portuale cinese, nel 1947, Lai lasciò la Cina nel 1961 all’età di 12 anni, arrivando clandestinamente a Hong Kong nascosto nella stiva di un’imbarcazione. Iniziò a lavorare come operaio tessile, dormendo in fabbrica e vivendo con mezzi minimi; grazie a intraprendenza e determinazione divenne direttore di stabilimento entro i vent’anni. Nel 1981 fondò Giordano, catena di abbigliamento che crebbe fino a diventare un marchio internazionale.

Il massacro di piazza Tiananmen del 1989 rappresentò il punto di svolta politico nella sua vita. Lai sostenne apertamente il movimento democratico e iniziò a criticare pubblicamente la leadership di Pechino, attirandosi l’ostilità del Partito Comunista Cinese. In quello stesso anno lanciò il magazine Next e, nel 1995, il quotidiano Apple Daily, noto per il suo stile popolare e la linea editoriale critica verso il governo centrale. Negli anni successivi fu bersaglio di boicottaggi e pressioni economiche. L’entrata in vigore della Legge di Sicurezza Nazionale nel 2020 segnò una svolta definitiva: nell’agosto di quell’anno venne arrestato con accuse gravi, tra cui collusione con forze straniere e pubblicazione di materiale sovversivo.

Il processo attuale è iniziato il 18 dicembre 2023 e ha visto mesi di deposizioni, comprese oltre cinquanta giornate di testimonianza diretta di Lai. Nel luglio 2024, come riportato da Reuters, il tribunale di Hong Kong ha respinto la richiesta dei legali di porre fine anticipatamente al processo, stabilendo che esistevano prove sufficienti per procedere. In quell’occasione, i giudici fissarono la ripresa delle udienze al 20 novembre 2024, tappa intermedia che ha portato alla chiusura della fase istruttoria e alla fissazione della data del 14 agosto come ultimo atto in aula prima che la corte decida

Per i sostenitori di Lai, un’eventuale condanna rappresenterebbe un ulteriore passo nella trasformazione della città da centro libero a territorio sottoposto a un controllo politico stretto da parte di Pechino. Tra i suoi sostenitori internazionali figura anche Jennifer Robinson, nota per essere stata l’avvocato chiave nella liberazione di Julian Assange — giornalista e fondatore di WikiLeaks perseguito dagli Stati Uniti per la pubblicazione di documenti segreti.

L’ipotesi di pace in Ucraina spaventa le aziende di armi: cala anche Leonardo SPA

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La prospettiva di una soluzione pacifica al conflitto russo-ucraino, sostenuta dagli Stati Uniti, sta mettendo sotto pressione il settore della difesa europeo. L’incontro tra Trump e Putin in Alaska, previsto per venerdì, alimenta le speculazioni su una possibile soluzione di pace, con conseguenti timori tra gli investitori del comparto. Dall’annuncio dell’incontro, le azioni dell’azienda italiana Leonardo, a maggioranza statale, sono scese di oltre l’8%. In Europa, anche Thales, BAE Systems e Rheinmetall segnano ribassi significativi. Nonostante il rallentamento del flusso di ordini, tuttavia, il mercato resta volatile, con la crescente tensione in Medio Oriente che continua a influenzare il settore.

Dopo l’annuncio dell’incontro tra Trump e Putin rilasciato lo scorso giovedì 7 agosto, tutte le maggiori aziende europee delle armi sono calate a picco. Il 7 agosto, Leonardo aveva aperto con 49,28€ per azione, per scendere a 46,49€ nell’arco di sole due ore dopo l’annuncio, con una variazione pari al -5,66%. Dopo il picco al ribasso, raggiunto alle 13, a fine giornata l’azienda è risalita leggermente a 47,03€, chiudendo così il primo giorno dopo l’annuncio del Cremlino a -4,56%. Oggi, scattato il quinto giorno dall’annuncio, ha aperto a 45,11 €, segnando un calo dell’8,46% rispetto all’apertura di giovedì scorso. Gli investitori dell’azienda italiana non sono gli unici a nutrire timori per una soluzione pacifica alla guerra in Ucraina. La francese Thales ha segnato un calo del 2,28% nella sola giornata dell’annuncio, e a oggi i suoi titoli valgono il 3,34% in meno; il 7 agosto, la multinazionale britannica BAE Systems aveva perso il 4,25%, e negli ultimi quattro giorni ha registrato un calo del 6,97%. Giovedì scorso, Rheinmetall, la maggiore azienda tedesca delle armi, era calata del 3,9%, e oggi registra un calo dell’11,02% rispetto all’apertura del medesimo giorno. Tiene, a suo modo, l’azienda di diritto europeo Airbus Group (a partecipazione olandese, francese, tedesca e spagnola), che dal 7 agosto ha registrato un calo dell’1,56%.

Il calo generalizzato registrato dalle maggiori aziende europee delle armi negli ultimi cinque giorni costituisce una delle maggiori tendenze al ribasso dall’inizio dell’anno. Tutte le aziende citate, comunque, risultano in piena crescita: a marzo, gli annunci militaristi dei leader sulla necessità di un piano per riarmare l’Europa hanno esaltato le aziende di armi in borsa; qualche giorno dopo, Leonardo ha rivisto le stime di crescita al rialzo e ha distribuito dividendi raddoppiati. Dall’inizio dell’anno, l’azienda italiana è cresciuta del 76,36%, Thales è cresciuta del 67,37%, BAE Systems del 49,2%, e Rheinmetall ha registrato un incremento pari al 158,52%.

Taranto, ambientalisti ricorrono al TAR contro l’AIA concessa all’ex Ilva

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Le associazioni ambientaliste Peacelink e Giustizia per Taranto hanno presentato un ricorso al Tar contro l’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) concessa lo scorso mese all’ex Ilva, che consente l’uso del carbone per altri 12 anni. «È inaccettabile», ha dichiarato Alessandro Marescotti di Peacelink, sottolineando che molte realtà locali si sono associate all’iniziativa. A tal fine è stata avviata una raccolta fondi, che in poche ore ha superato i 5.000 euro. Le associazioni chiedono il fermo delle emissioni pericolose e propongono un piano di riqualificazione per i lavoratori in esubero, stimando un costo di 500 milioni l’anno, inferiore alle perdite aziendali.

Spagna, in atto decine di incendi: un morto e 7mila evacuati

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In Spagna, decine di incendi boschivi stanno devastando varie aree del Paese, con un morto e centinaia di chilometri quadrati bruciati. Circa 7mila persone sono state evacuate, tra cui 3.700 nella Castiglia e León, 2.000 a Cadice e 180 a nord di Madrid. Un incendio scoppiato a Tres Cantos ha ucciso un uomo, mentre le fiamme hanno distrutto 10 km². Le condizioni climatiche, come il caldo intenso, la siccità e i venti forti, hanno alimentato gli incendi in corso in Galizia, Andalusia, Castiglia e León e Castiglia-La Mancha. Interventi aerei e di terra sono in atto.

Crosetto: “Netanyahu ha perso la ragione e va fermato”, il governo farà finalmente qualcosa?

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Per la prima volta, un membro del governo italiano ha duramente attaccato il premier israeliano Benjamin Netanyahu per i massacri a Gaza e ipotizzato conseguenze per le sue azioni. Si tratta del ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, che ha rilasciato un’intervista a La Stampa dai toni molto accesi. «A Gaza siamo di fronte alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà» ha dichiarato il capo del dicastero di via XX Settembre, aggiungendo che «non convince più» la motivazione della «legittima difesa di una democrazia di fronte a un terribile attacco terroristico», e che «contro l’occupazione di Gaza e alcuni atti gravi in Cisgiordania» occorre «prendere decisioni che obblighino Netanyahu a ragionare». Si attende ora di vedere se alle dure parole di Crosetto seguiranno fatti da parte del governo Meloni, che si è finora contraddistinto come uno dei maggiori difensori d’Israele in Europa, al punto da rinunciare – tra i pochi – al riconoscimento dello Stato di Palestina e votare contro la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Crosetto si è espresso senza mezzi termini sulle colonne del giornale diretto da Andrea Malaguti, intervistato dal giornalista Alessandro De Angelis. «Noi siamo impegnati sul fronte degli aiuti umanitari, ma oltre alla condanna bisogna ora trovare il modo per obbligare Netanyahu a ragionare». Secondo il ministro, infatti, «non sarebbe una mossa contro Israele, ma un modo per salvare quel popolo da un governo che ha perso ragione e umanità», dal momento che occorre sempre «distinguere i governi dagli Stati e dai popoli come dalle religioni che professano». Un discorso che «vale per Netanyahu, vale per Putin, i cui metodi, ormai, pericolosamente si assomigliano». Un conto, ha dichiarato il ministro, «è liberare Gaza da Hamas, un conto dai palestinesi. La prima si può chiamare liberazione. Cacciare invece un popolo dalla sua terra è ben altro, e il termine usato mi pare del tutto improprio». Crosetto afferma l’esecutivo di Tel Aviv «non è disposto a dialogare» poiché «ha assunto una linea fondamentalista e integralista». Non si tratta più di «legittima difesa», ha evidenziato il ministro, ma «un progetto di segno diverso: la conquista di un territorio straniero mettendo in conto una catastrofe umanitaria».

In realtà, fino ad oggi, nessuna delle timide e sparute critiche avanzate da ministri del governo italiano nei confronti di Israele ha mai portato ad alcuna conseguenza tangibile. Dopo quasi due anni di violenze e oltre 50mila morti, solo lo scorso luglio – e solo in seguito all’attacco contro la chiesa cattolica a Gaza – l’esecutivo Meloni ha trovato il tempo di condannare gli attacchi israeliani, ma ha evitato azioni concrete. Nonostante le parole di Giorgia Meloni e Antonio Tajani contro Israele, l’Italia non ha infatti intrapreso misure politiche decisive, come il riconoscimento dello Stato di Palestina, sospensione dei trattati con Israele o sanzioni contro i responsabili israeliani. Anche la proposta di sospendere il memorandum di cooperazione militare con Israele, che sarebbe conforme agli obblighi internazionali, è stata completamente ignorata, così come l’interruzione dell’Accordo di associazione UE-Israele.

L’Italia ha rifiutato anche iniziative come il blocco del commercio di armi verso Israele o la sospensione degli scambi con le colonie israeliane, nonostante il parere della Corte Internazionale di Giustizia che considera illegali gli insediamenti nei territori occupati. Mentre Stati come Belgio, Spagna e Regno Unito hanno intrapreso azioni simili, il nostro Paese ha impedito che tali misure venissero adottate, rimanendo in una posizione di sostegno implicito a Israele. Anche per quanto riguarda le sanzioni, mentre altri Paesi europei hanno agito contro i coloni israeliani e i ministri estremisti, l’Italia ha opposto resistenza, definendo le sanzioni contro Tel Aviv come «velleitarie». Ora il ministro Crosetto sembra essere uscito allo scoperto in maniera chiara. Solo il tempo chiarirà se questa “fuga in avanti” potrà essere foriera di un cambio di rotta da parte dell’esecutivo sulla lettura dei massacri in Palestina da parte del governo israeliano.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza si continua a morire di morte violenta e di stenti. Solo dall’alba di oggi, come attestato da Al Jazeera, nel governatorato di Khan Younis almeno cinque persone sono state uccise in un attacco israeliano contro una tenda che ospitava civili sfollati nella zona di al-Mawasi. Nella città di Gaza, che Israele ha dichiarato di voler invadere, almeno quattro persone sono state uccise e altre sono rimaste ferite in un attacco aereo su un appartamento nella zona di al-Sahaba. Pesanti bombardamenti hanno colpito anche altre abitazioni nella città di Gaza, provocando ulteriori 8 morti. Almeno 20 persone sono rimaste intrappolate sotto le macerie dopo che è stata colpita una struttura residenziale nei pressi della moschea di al-Faruq. Inoltre, il Ministero della Salute di Gaza ha registrato cinque morti dovute a carestia e malnutrizione nelle ultime 24 ore, tra cui due bambini, il che porta il numero totale di decessi correlati alla fame registrati dal 7 ottobre 2023 a 227. 103 di questi erano bambini.

Trump esclude Zelensky dal vertice con Putin e annuncia che dovrà “scambiare territori”

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Zelensky non sarà presente ai colloqui tra Trump e Putin in programma venerdì 15 agosto, e Russia e Ucraina dovranno con ogni probabilità «scambiare territori». A dirlo è stato lo stesso presidente Donald Trump durante una conferenza stampa alla Casa Bianca. «Il prossimo incontro sarà tra Zelensky e Putin o tra Zelensky, Putin e me: sarò presente se ce ne fosse bisogno», ha detto Trump; «ma prima voglio tenere un incontro tra i due leader», ha precisato, riferendosi a sé e all’omologo russo. Parlando dello scambio di territori, Trump ha spiegato che tale scenario è emerso «parlando con la Russia» e con «tutti quanti». Niente da fare, insomma, per i leader europei e Zelensky, che si sono scagliati contro la decisione di Trump di incontrare Putin in solitaria, negando la presenza di altri rappresentanti. Per ora, gli autoproclamatisi “volenterosi” sembrano essere riusciti a ottenere solo una telefonata con Trump, che dovrebbe tenersi domani.

L’incontro tra Trump e Putin, sostiene il presidente statunitense, servirà a «sondare il terreno» e comprendere se e quanto spazio vi sia per un accordo di pace tra Russia e Ucraina. Nel corso della conferenza stampa, Trump ha ribadito la sua posizione già espressa in passato, secondo cui entrambi i Paesi dovrebbero fare concessioni l’uno all’altro: un accordo prevedrà «cose buone, non cose cattive, anche un po’ di cose cattive per entrambi», ha detto Trump. «Cambieremo le linee di battaglia». Insomma, secondo il presidente statunitense, un accordo con la Russia non può che passare dalla cessione di alcuni territori ucraini e dal ritiro delle truppe russe da alcune delle posizioni conquistate. Zelensky, dal canto suo, ha rifiutato l’idea di uno scambio di territori e ha affermato che un simile accordo richiederebbe una riforma costituzionale. Trump si è detto «scocciato» dalla posizione di Zelensky: «Ha l’approvazione per andare in guerra e uccidere tutti, ma ha bisogno dell’approvazione per fare uno scambio di terre. Perché uno scambio di terre ci sarà».

Sull’ipotesi dello scambio di territori, i leader europei hanno fatto eco alle parole di Zelensky e si sono opposti all’incontro a due tra Trump e Putin: «Restiamo fedeli al principio secondo cui i confini internazionali non devono essere modificati con la forza», si legge in un comunicato firmato da Francia, Italia, Germania, Polonia e Commissione europea, rilasciato dopo l’annuncio dell’incontro tra i due leader; «l’attuale linea di contatto dovrebbe essere il punto di partenza dei negoziati». L’Europa ha poi contestato l’assenza di Zelensky all’incontro di venerdì. I leader europei e il presidente ucraino ritengono infatti che l’imbastimento di un tavolo delle trattative possa avvenire solo dopo l’implementazione di un cessate il fuoco e con la presenza di Kiev: «Negoziati significativi possono aver luogo solo nel contesto di un cessate il fuoco o di una riduzione delle ostilità», affermano i politici europei. «Il percorso verso la pace in Ucraina non può essere deciso senza l’Ucraina». Anche su questo punto, Trump è stato piuttosto chiaro: gli incontri tra Putin e Zelensky si terranno, ma solo dopo il suo personale vertice con il presidente russo. I Paesi dell’UE hanno reiterato la loro posizione in un comunicato uscito questa mattina firmato da tutti gli Stati membri a esclusione dell’Ungheria.

Nonostante le richieste europee, insomma, Trump non ha mutato prospettiva e ha chiuso la porta alla possibilità di invitare Zelensky all’incontro. Ha tuttavia rassicurato che aggiornerà lui e l’Europa subito dopo la sua conclusione. Sembra inoltre che la cosiddetta “coalizione dei volenterosi” sia riuscita a strappare in extremis un colloquio telefonico con Trump, a cui dovrebbero partecipare Zelensky, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il premier britannico Keir Starmer. La telefonata dovrebbe tenersi domani, ma non è ancora chiaro se il presidente Trump abbia a tutti gli effetti accettato l’invito.