giovedì 9 Ottobre 2025
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Pakistan, attentato suicida nel Belucistan: 10 morti

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Oggi in Pakistan, nella regione separatista del Belucistan è stato condotto un attentato suicida in seguito al quale sono state uccise almeno 10 persone e altre 33 sono rimaste ferite. L’attentato, riportano le autorità, è avvenuto all’esterno della sede di una forza paramilitare situata nella città di Quetta, una delle principali città della regione. Dopo l’attacco, diversi uomini armati hanno fatto irruzione nel quartier generale innescando uno scontro a fuoco con i paramilitari. Il Belucistan è una regione da tempo al centro di moti indipendentisti tanto in Pakistan quanto in Iran; Islamabad accusa l’India di finanziare i movimenti separatisti, ma Nuova Dehli ha sempre rigettato le accuse.

«Malato e affaticato»: i media tornano a speculare sulla salute di Putin

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Da anni, con cadenza quasi ciclica, la stampa occidentale torna a speculare sulle presunte condizioni di salute di Vladimir Putin. Non importa che le voci siano state smentite ripetutamente dal Cremlino o che nessuna prova concreta sia mai emersa: il mito di “Putin malato” resta una delle narrazioni più amate dai media mainstream. Negli ultimi giorni, testate come il Corriere della Sera, Il Messaggero e Tgcom24 hanno rilanciato per l’ennesima volta teorie che oscillano dal cancro al Parkinson, passando per tremori sospetti, problemi di vista e gonfiori del volto, basandosi su immagini decontestualizzate o su presunte testimonianze. I “nuovi” dubbi sono emersi alla parata militare del 3 settembre a Pechino, dove Massimo D’Alema, presente all’evento, ha raccontato al Corriere della Sera di aver visto Putin «molto affaticato», sorretto da due persone durante la camminata. Il racconto di D’Alema ha spianato la strada alle nuove speculazioni sulle condizioni fisiche di Putin che, per i media citati, «restano avvolte nel mistero». Non si tratta di una novità. Tutto ha avuto inizio dieci anni fa, quando proprio nel 2015, il leader russo non apparve in pubblico per qualche giorno e molti giornali ipotizzarono che fosse stato ucciso. Poco dopo, i media occidentali si sbizzarrirono a diagnosticare a Putin dei disturbi mentali, in un caso la sindrome di Asperger, in altri casi la paranoia, riportando con enfasi la diceria secondo cui Angela Merkel lo avrebbe definito “psicopatico”. Da allora, la stampa occidentale alterna accuse di crimini efferati e omicidi su commissione a diagnosi improvvisate.

Già nel 2021 il tabloid britannico The Sun titolava che Putin stesse per lasciare il potere a causa del Parkinson, citando come unica fonte l’analista russo Valery Solovei, noto oppositore del Cremlino. La notizia, priva di conferme, fece il giro del mondo e venne prontamente bollata come “totale assurdità” dal portavoce Dmitrij Peskov. Nel 2022, il media indipendente Proekt, riportò che i documenti di viaggio degli aerei di Putin rilevavano a bordo quasi sempre un oncologo e due otorinolaringoiatri. Nello stesso anno, un’inchiesta di Newsweek parlò di un’operazione per rimuovere un tumore già in stadio avanzato, avvenuta proprio ad aprile 2022. Da allora, la stessa dinamica si ripete senza sosta: giornali che riprendono illazioni, dichiarazioni di presunti esperti che diagnosticano a distanza, immagini usate come indizi di malattie inesistenti. L’obiettivo non è informare, ma alimentare un “frame”: il leader russo non sarebbe lucido, non avrebbe il pieno controllo delle sue decisioni e, quindi, la sua politica andrebbe ridimensionata come frutto di follia o patologia. È la logica della demonizzazione, la “character assassination”, che sostituisce l’analisi geopolitica con la psicopatologia spicciola. Con l’inizio del conflitto russo-ucraino, il meccanismo si è intensificato. Non solo cancro e Parkinson: Putin è stato definito “paranoico”, affetto da “narcisismo maligno”, persino vittima del Long Covid. La giornalista scientifica e Premio Pulitzer Laurie Garrett sostiene che Putin potrebbe essere «incapace di ragionare, forse per gli effetti del Long Covid». Secondo Garrett, il presidente russo mostrerebbe i sintomi della sindrome d’onnipotenza tipicamente associati alla perdita di contatto con la realtà e all’incapacità di soppesare i rischi e, per spiegare questo stato di follia, la giornalista ha tirato in ballo il cosiddetto “brain fog”  – una sorta di annebbiamento cerebrale associata agli effetti del Long Covid – che  potrebbe aver compromesso le sue funzioni cognitive. Il Council on Foreign Relations (CFR) ha parlato di un leader “spento” e “sfasato”, mentre altri analisti hanno scomodato la “teoria del pazzo” nelle relazioni internazionali per spiegare la sua strategia. Queste diagnosi a distanza non hanno alcun valore scientifico: si tratta di indiscrezioni e pettegolezzi che vengono ripresi senza alcun fondamento. Nessuno dei commentatori che si sono lanciati in simili affermazioni ha mai avuto accesso diretto a cartelle cliniche o a visite mediche ufficiali. Eppure, i media le riportano come se fossero dati di fatto, costruendo un’eco che dà l’impressione di veridicità.

È lo stesso schema con cui, negli anni, si sono attribuite malattie inesistenti ad altri leader “scomodi” per l’Occidente: da Fidel Castro a Hugo Chávez, fino a Yasser Arafat. Il filo rosso è evidente: non discutere la politica estera russa o le ragioni storiche del conflitto russo-ucraino, ma ridurre tutto a una questione personale, di un uomo isolato e malato che trama di conquistare l’Europa “fino al Portogallo”. Una strategia che sposta il discorso dal piano politico a quello clinico. Perché questa narrazione continua a essere rilanciata, nonostante le smentite e l’assenza di prove? Per due motivi principali. Da un lato, il “Putin malato” è una storia che vende: cattura l’attenzione del lettore, semplifica la complessità della geopolitica in un racconto quasi romanzesco. Dall’altro, rafforza la costruzione di un nemico delegittimato, instabile e, quindi, meno credibile agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Nel 2002, un articolo per Il Corriere della sera si domandava se la guerra scatenata contro l’Ucraina fosse «una mossa coerente di un leader razionale o l’azzardo di uno zar impazzito, offuscato dalla paranoia o dai farmaci necessari alla cura delle sue patologie?». In realtà, non possiamo conoscere con certezza le condizioni di salute del presidente russo, così come non possiamo sapere oggi quali saranno i suoi prossimi passi politici, ma ciò che è certo è che le speculazioni mediatiche hanno poco a che vedere con l’informazione e molto, semmai, con la propaganda. Ogni tremolio o smorfia diventa indizio, ogni apparizione pubblica occasione per stilare nuove diagnosi, in una sorta di reality show globale che poco ha a che fare con il giornalismo e molto con la costruzione di una narrazione funzionale agli interessi geopolitici occidentali.

Stellantis in quattro anni ha lasciato a casa 10.000 lavoratori in Italia

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Un taglio di quasi diecimila posti di lavoro in quattro anni, con un costo di oltre 777 milioni di euro per incentivare le uscite volontarie. Sono i numeri drammatici della “grande fuga” di Stellantis dall’Italia, ricostruiti dall’omonima indagine della Fiom-Cgil, in cui si fotografa il sostanziale disimpegno del gruppo dal Paese. I dipendenti sono infatti crollati dalle 37.288 unità nel 2020 alle 27.632 nel 2024, con un saldo negativo di 9.656 lavoratori. Una emorragia che si accompagna al crollo produttivo: nel 2024 sono state prodotte solo 289.154 auto e 190.784 veicoli commerciali, numeri lontanissimi dal milione di veicoli del 2004.

«I dati raccontano la fuga di Stellantis dal nostro Paese», ha commentato il segretario generale della Fiom, Michele De Palma, aggiungendo che «queste sono le cifre di un fallimento: un fallimento determinato dalle scelte fatte dalla proprietà e da Tavares». Il sindacato sottolinea come la maggior parte delle uscite sia stata gestita su base volontaria, con costi di ristrutturazioni pari a 777.276.000 euro. Tra lo scorso anno e il 2025 le uscite pagate hanno riguardato 6.052 dipendenti. La crisi occupazionale si riflette nell’utilizzo massiccio degli ammortizzatori sociali, diventati ormai «strumento di gestione ordinaria». Al primo settembre 2025, su 32.803 dipendenti, ben 20.233 – il 61,68% – erano interessati da cassa integrazione e contratti di solidarietà. Le percentuali superano il 90% all’interno degli stabilimenti di Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Atessa, Melfi e Termoli, il cuore produttivo del gruppo. L’impatto si estende alla filiera dei fornitori: circa 8.523 lavoratori della componentistica su 13.865 sono in ammortizzatori sociali.

Il crollo produttivo è impressionante: dagli 1,8 milioni di veicoli del 2004 (di cui 805mila automobili) si è passati alle 479.938 unità del 2024. Negli stabilimenti motori il crollo è di 534.700 unità nello stesso periodo. A Mirafiori il declino è emblematico: dalle 200mila vetture del 2004 alle 24.933 dell’anno scorso. La Fiom segnala che tutte le nuove produzioni mass market sono state delocalizzate: «Topolino in Marocco; Fiat 600 in Polonia; Alfa Junior in Polonia; Nuova Panda in Serbia; Nuova Lancia Y in Spagna». Il calo produttivo «non può essere solamente imputato al calo della domanda» perché «a prescindere dall’andamento delle vendite complessive del settore, Stellantis continua a perdere quote di mercato, sia in Italia che in Europa». Tra il 2022 e il 2024 la quota italiana è passata dal 35,23% al 29,13%, e il raffronto tra il primo semestre 2024 e lo stesso periodo del 2025 segna un’ulteriore flessione dal 32,1% al 29,2%.

Preoccupa il trend degli investimenti: il patrimonio netto è calato da 7,7 miliardi di euro nel 2020 a 6,5 miliardi nel 2024, nonostante la distribuzione di 2 miliardi di dividendi dall’utile 2023. Gli investimenti materiali sono scesi da 4,9 miliardi del 2021 a 4,1 miliardi nel 2024, con un taglio di 571 milioni alle attrezzature industriali e 297 milioni a impianti e macchinari. La spesa in ricerca e sviluppo è crollata da 991,5 milioni nel 2014 a 314,3 milioni nel 2024. «L’amministratore delegato Antonio Filosa ha preso in mano una situazione drammatica» riconosce De Palma, annunciando assemblee in tutti gli stabilimenti. La Fiom richiede «un piano industriale che deve prevedere nuovi modelli mass market», il rafforzamento di ricerca e sviluppo, il ripristino del progetto della gigafactory e nuove assunzioni. «Se continua così, rischiamo di chiudere la produzione di auto in Italia» avverte il sindacato, chiedendo al governo di prendere in mano il dossier automotive.

Nel frattempo, negli scorsi giorni Stellantis ha annunciato una serie di stop temporanei della produzione in sei stabilimenti strategici del continente. La decisione, motivata dalla necessità di adeguare la produzione a un mercato giudicato «difficile» e di gestire le scorte in un contesto di domanda stagnante, coinvolge impianti in Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia. L’obiettivo dichiarato è evitare «un’ammucchiata di auto nei parcheggi delle fabbriche o dei concessionari». Tali fermi rappresentano 62 giorni cumulativi di produzione in meno. Che il periodo per gli stabilimenti italiani non fosse dei migliori lo si era già capito alla fine di agosto, quando nello storico sito produttivo di Pomigliano era stato firmato un pre-accordo tra l’azienda e le sigle sindacali che ha esteso di un ulteriore anno, fino all’8 settembre 2026, la cassa integrazione in regime di solidarietà in deroga per 3.750 lavoratori. La misura, che prevede una riduzione media dell’orario di lavoro fino al 75%, arriva dopo il biennio concesso dalla cassa integrazione ordinaria, ormai esaurito.

Venezuela: Maduro dichiara lo stato di emergenza per la “crescente minaccia” USA

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Il governo venezuelano ha decretato lo stato di emergenza in tutto il Paese, evocando la minaccia di una «aggressione militare statunitense». Lo ha annunciato la vicepresidente Delcy Rodríguez, sottolineando che il decreto conferisce al presidente Nicolás Maduro «poteri speciali» per agire in materia di difesa e sicurezza di fronte a minacce esterne. Secondo fonti di Washington citate dal New York Times, sarebbero previsti, infatti, attacchi imminenti contro obiettivi venezuelani, con l’intento di rovesciare Maduro «in un modo o nell’altro». Il decreto, secondo le fonti, renderebbe possibile la mobilitazione delle forze armate su tutto il territorio e un controllo rafforzato sui servizi pubblici e sul comparto petrolifero, centrali per il sistema economico nazionale. Pur sancito per un periodo iniziale di 90 giorni, il provvedimento potrà essere rinnovato per altri 90. A Caracas è già in vigore dall’8 agosto uno stato di emergenza di natura economica, della durata di due mesi, per affrontare la crisi in cui il Paese si trova da tempo.

Dietro la misura proclamata dal governo venezuelano si staglia il quadro geopolitico oggi in piena tensione: dalla fine di agosto, gli Stati Uniti hanno accentuato la loro presenza militare nel Mar dei Caraibi, schierando navi e assetti aerei con la giustificazione della lotta al narcotraffico. Finora, questi interventi hanno provocato 17 vittime, tutte venezuelane. Per contrastare proprio il narcotraffico, in passato Washington ha utilizzato pattugliamenti della Guardia Costiera o missioni mirate, da settimane, invece, mette in campo risorse paragonabili a quelle di una campagna militare. È evidente che la finalità non si esaurisce nella lotta al crimine organizzato: la pressione è diretta contro Maduro e il suo governo, accusati di essere alla guida del cosiddetto Cártel de los Soles e di utilizzare il Paese come hub per i traffici illeciti. La domanda cruciale è se l’attuale mobilitazione preluda a un intervento militare o se si tratti solo di una dimostrazione di forza. Il Venezuela ha reagito inviando l’esercito in tutto il Paese per addestrare la milizia popolare venezuelana, che conta milioni di membri. Caracas denuncia che dietro tali operazioni si occultino reali obiettivi di pressione, «provocazioni illegittime» volte a frammentare la sovranità venezuelana.

Maduro ha parlato apertamente di un disegno di destabilizzazione, che ha già nel passato effettuato tentativi espliciti di “regime change”. La storia americana conosce precedenti di invasioni “mirate”, come quella di Panama del 1989, condotte con la giustificazione della lotta al narcotraffico e culminate proprio in un cambio di regime. La dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo venezuelano, in questo senso, va letto come difensivo, ma anche come un messaggio politico: la sovranità nazionale non è negoziabile, neppure di fronte alla superpotenza che proclama diritti sovranazionali sull’ordine atlantico. L’amministrazione americana, nel frattempo, continua a negoziare la fornitura di petrolio venezuelano, mentre intensifica la pressione militare e diplomatica. Tuttavia, se da un lato Maduro può presentare il provvedimento come un atto necessario contro la minaccia esterna, dall’altro non si può ignorare che tale stato di emergenza rafforzi il già consistente spazio di potere discrezionale che il governo esercita, con limitazioni alle libertà civili e alla trasparenza istituzionale. La storia recente del Venezuela offre molteplici esempi di eccezioni autorizzative che non sono state temporanee, ma si sono fossilizzate in pratiche autoritarie. Alla vigilia dell’ennesima crisi, il Venezuela certifica che la partita resta aperta: non solo tra Caracas e Washington, ma tra un Sud che reclama dignità e un Nord che pretende diritti di intervento globali, con armi o con ordinanze d’emergenza.

Il Comune di Milano svende San Siro: Milan e Inter potranno acquistarlo per pochi milioni

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Dopo una maratona consiliare di oltre undici ore, il Comune di Milano ha approvato la vendita dello stadio di San Siro al Milan e all’Inter per 197 milioni di euro. La decisione, arrivata alle 3.50 della notte tra lunedì 29 e martedì 30 settembre, è passata con 24 voti favorevoli e 20 contrari, dopo che i consiglieri di Forza Italia hanno lasciato l’aula, abbassando il quorum necessario e di fatto spianando la strada all’approvazione. L’operazione, che include lo stadio e le aree circostanti, consentirà alle due società di procedere con il piano di demolire gran parte dell’attuale Meazza e costruire un nuovo impianto più moderno al suo posto. I comitati, nel frattempo, sono in protesta, considerando l’operazione come una vera e propria «svendita».

Il percorso verso il voto finale è stato travagliato e ha rivelato profonde spaccature persino all’interno della maggioranza. La svolta decisiva è arrivata con l’annuncio di Forza Italia, che ha scelto di non partecipare al voto. «Noi non voteremo sì, perché questa delibera rimane piena di limiti. Ma non voteremo nemmeno contro, perché significherebbe condannare Milano e i milanesi», ha dichiarato Alessandro Sorte, coordinatore di Forza Italia in Lombardia. Una posizione confermata da Letizia Moratti, presidente della Consulta Nazionale del partito ed ex sindaco di Milano. Al contrario, il capogruppo della Lista Beppe Sala, Marco Fumagalli, si è unito ai sette consiglieri di maggioranza contrari alla vendita.

L’urgenza della decisione era dettata da una scadenza ineludibile: la proposta di Milan e Inter scadeva alle 23:59 del 30 settembre. Rispettare questa tempistica era cruciale per concludere la vendita effettiva entro il 10 novembre, data in cui scatterebbe un vincolo automatico della Soprintendenza sul secondo anello dello stadio, completato nel novembre 1955. Per i beni pubblici, il vincolo si applica automaticamente dopo 70 anni dalla costruzione, dunque, ove San Siro diventasse di proprietà privata prima del 10 novembre, esso non scatterà più in automatico, semplificando notevolmente le procedure per la futura demolizione. Il prezzo di vendita di 197 milioni di euro è stato definito sulla base della valutazione dell’area data dall’Agenzia delle Entrate, a cui si aggiunge un contributo-sconto promesso dal Comune per 22 milioni. Con la delibera approvata, i prossimi 40 giorni saranno cruciali per perfezionare l’operazione. Entro il 10 novembre dovrà avvenire il rogito per la cessione dell’intera area, dopo aver ottenuto il via libera delle banche.

Ora che il via libera politico c’è, si apre la fase operativa. I piani di Inter e Milan, delineati in un dossier di quasi trecento pagine, prevedono un investimento complessivo di circa 1,2 miliardi di euro. Di questi, 700 milioni sono destinati alla realizzazione del nuovo stadio, il cui progetto è affidato agli studi di architettura di rilevanza mondiale «Foster + Partners» e «Manica». L’obiettivo è costruire un moderno impianto da 71.500 posti nell’area degli attuali parcheggi, con l’inaugurazione prevista per il 2031. Parallelamente, il destino del vecchio Meazza è segnato. Secondo il programma, esso resterà in piedi per concerti e altre attività durante i lavori per il nuovo impianto. Tra il 2031 e il 2032, si punta a smantellarlo e demolirlo al 90%. Verrà preservato solo l’angolo Sud-Est, con una torre, parte della tribuna arancio e della Curva Sud, che potrebbe essere trasformata in un museo o in uffici. Al suo posto sorgeranno un centro commerciale, parcheggi, negozi, ristoranti e persino un hotel di lusso.

Nelle ultime ore, le società Inter e Milano hanno espresso «soddisfazione per l’approvazione da parte del Consiglio comunale della vendita di San Siro e dell’area circostante», descrivendola in una nota comune «un passo storico e decisivo per il futuro dei club e della città». I piani delle società sono già oggetto di forti polemiche e si preannunciano «tanti ricorsi» da parte di chi considera questa operazione uno svendita di un pezzo di storia di Milano, consegnato ai fondi Oaktree e Redbird, proprietari dei due club. La determinazione dei comitati cittadini e dei milanesi contrari alla svendita di San Siro non si è infatti affievolita, ma si è fatta più forte nel giorno decisivo del voto. Come emerge dalle proteste del Coordinamento tutela parco ovest, 200 persone si sono radunate nel verde del parco dei Capitani in via Tesi, sotto un chiaro grido di battaglia: «Il futuro della città non si svende».

Un antico teschio ritrovato in Cina sfida le teorie sull’evoluzione della specie umana

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Un cranio gravemente schiacciato, recuperato decenni fa sulle rive di un fiume nella Cina centrale e rimasto a lungo privo di una chiara classificazione, potrebbe rivoluzionare l’albero genealogico della nostra specie, in quanto una nuova ricostruzione digitale ha rivelato che l’antico fossile, risalente a circa un milione di anni fa, apparteneva a una linea evolutiva collegata al cosiddetto “Uomo Drago” e ai Denisoviani, misteriosi umani preistorici scoperti di recente. È quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale di ricercatori, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Attraverso particolari analisi avanzate, gli autori hanno ottenuto dati che suggeriscono che i nostri antenati si fossero già divisi in gruppi distinti molto prima di quanto ritenuto, posticipando di circa 400.000 anni la comparsa dell’Homo sapiens e ridisegnando la linea temporale delle origini umane. «Questo cambia molto il modo di pensare», ha spiegato Chris Stringer del Natural History Museum di Londra, aggiungendo che la ricerca mostra «una divisione evolutiva umana molto più antica e complessa di quanto si pensasse».

Gran parte delle conoscenze sull’evoluzione umana, spiegano gli esperti, proviene dai fossili cranici, spesso però incompleti o deformati. I paleontologi, quindi, ricostruiscono la posizione di questi reperti nell’albero genealogico tramite analisi morfologiche e comparazioni statistiche come l’albero filogenetico – uno schema che illustra i rapporti di parentela tra specie. Nel caso del cranio di Yunxian 2, il team ha utilizzato tecniche di tomografia computerizzata – cioè scansioni a raggi X in grado di produrre immagini tridimensionali – insieme a metodi di imaging ottico e modellazione virtuale e, grazie a questi strumenti, ha reso possibile correggere le distorsioni accumulate nel fossile durante i millenni e confrontarne la forma con oltre cento altri crani e mandibole. L’età del reperto, stimata tra 940.000 e 1,1 milioni di anni attraverso la datazione dei sedimenti e dei fossili animali circostanti, lo colloca in un periodo cruciale del Pleistocene medio, quando diverse forme di Homo convivevano e si diversificavano. Fino a poco tempo fa, i reperti cinesi di quell’epoca erano stati in parte attribuiti a Homo erectus – una specie considerata più primitiva – o a forme “arcaiche” di Homo sapiens, mentre il nuovo studio mostra invece che essi potrebbero appartenere a un ramo evolutivo distinto, quello dell’Homo longi, connesso ai Denisoviani e vicino alle origini della nostra specie.

Il cranio è stato ricostruito utilizzando tecniche avanzate di TAC, imaging ottico e virtuali. Credit: Jiannan Bai/Xijun Ni

Il fossile in questione, denominato Yunxian 2, fu scoperto insieme a un altro cranio simile alla fine degli anni Ottanta nell’area di Shiyan, nella provincia di Hubei. Entrambi risultavano deformati, ma il secondo, meglio conservato, è stato la base della nuova ricostruzione. Il lavoro ha permesso di evidenziare tratti in parte simili a Homo erectus, come la forma tozza della scatola cranica, ma anche caratteristiche più avanzate, tra cui zigomi piatti e poco sporgenti. Da qui la conclusione che si tratti di un antenato dell’Homo longi, noto come Uomo Drago, già collegato attraverso il DNA ai Denisoviani. Secondo i ricercatori, anche altri reperti difficili da collocare – come quelli recentemente proposti da un diverso gruppo di studio come nuova specie, l’Homo juluensis – potrebbero rientrare in questo ramo. L’analisi indica inoltre che Homo sapiens e Denisoviani hanno condiviso un antenato comune circa 1,32 milioni di anni fa, mentre i Neanderthal si sarebbero separati poco prima, attorno a 1,38 milioni di anni fa. D’altra parte però, alcuni studiosi come Ryan McRae dello Smithsonian di Washington, pur concordando sull’identificazione del fossile, hanno espresso cautela sull’interpretazione dell’albero filogenetico, invitando a non trarre conclusioni affrettate da dati ancora limitati. Tuttavia, per il primo autore Xiaobo Feng reperti di questa età restano «fondamentali per ricostruire il nostro albero genealogico» e, in attesa che il terzo cranio ritrovato a Yunxian venga preparato e analizzato, la nuova ricerca sottolinea quanto resti ancora da comprendere sulle origini umane e su un passato evolutivo più intricato di quanto immaginato.

Trump annuncia dazi del 100% su film prodotti all’estero e tariffe su mobili

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato nuovi dazi. I primi colpiranno i film prodotti all’estero, che verranno colpiti da una tariffa del 100%. Il presidente aveva preannunciato tale misura mesi fa; nell’annuncio, Trump si è scagliato contro il governatore della California, il democratico Gavin Newsom, attribuendo a lui il calo dell’industria cinematografica del Paese. Trump ha poi annunciato dazi aggiuntivi su tutti i Paesi che non producono mobili negli USA, senza tuttavia specificare cosa di preciso intenda fare. Tale mossa vuole salvaguardare il mercato del mobilio della North Carolina, che sta perdendo piede davanti alla crescita dei competitori cinesi.

Brescia: perquisizioni e daspo agli studenti che hanno partecipato allo sciopero per Gaza

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Nelle mattine di domenica 28 e lunedì 29 settembre, la Digos di Brescia ha effettuato perquisizioni domiciliari contro giovani studenti e attivisti che avevano partecipato allo sciopero per Gaza del 22 settembre. Agli studenti sono stati sequestrati indumenti e notificati “avvisi orali” del Questore, oltre a daspo urbani. I collettivi studenteschi e i centri sociali hanno denunciato ieri l’operato delle forze dell’ordine durante un’affollata conferenza stampa. Nel corso della protesta del 22 settembre, al quale avevano preso parte 20 mila persone circa, la polizia era intervenuta con cariche e lacrimogeni per bloccare il corteo, causando numerosi feriti, anche minorenni, per le manganellate.

Come denunciato in conferenza stampa, gli studenti che si trovano ora ai domiciliari non hanno il permesso di uscire nemmeno per recarsi a lezione a scuola. In un verbale della polizia recapitato ai comitati, gli agenti avrebbero dichiarato che l’intenzione della frangia del corteo che si è distaccata dal resto dei manifestanti fosse quella di «aggredire la polizia», oltre che di «andare alla stazione e devastare tutto». L’intervento, specifica il documento letto durante la conferenza stampa, riporta che una «carica di alleggerimento» si sarebbe resa necessaria dopo il lancio di pietre e bottiglie, che secondo i manifestanti non si sarebbe mai verificato. A smentire le dichiarazioni, dichiarano i collettivi, sarebbero gli stessi video realizzati durante gli scontri.

«Quando la parte più giovane del corteo ha tentato di arrivare alla stazione per bloccare i binari – riporta un comunicato di Collettivo Onda Studentesca – lo ha fatto con l’intento di dare un segnale forte: la solidarietà non può essere solo una parola, deve diventare azione concreta. Chi ha spinto verso la stazione erano giovani senza caschi e scudi ma con la rabbia e il coraggio di chi non vuole più stare a guardare. Davanti a loro la polizia, con la forza e la violenza che sa esercitare: colpi al volto, manganelli, lacrimogeni e intimidazioni. L’ennesimo uso sproporzionato, e lo sapevamo bene, della forza contro coloro che non volevano praticare violenza ma solo occupare la stazione».

Nell’ambito dello sciopero di lunedì 22 settembre scorso, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il genocidio a Gaza, in una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi anni in Italia, con numerose attività che hanno scioperato. In alcune città si sono verificati scontri, a seguito del tentativo dei manifestanti di bloccare il traffico automobilistico e dei treni. Violenze da parte della polizia sono state registrate in varie città, tra le quali Milano e Bologna, dove sono stati aperti gli idranti contro le persone sedute in strada.

Groenlandia: dove si giocano gli equilibri della geopolitica globale

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Situata all’estremità delle mappe geografiche eurocentriche, caratterizzata da un clima rigido che l’ha resa a lungo inospitale e impervia per la vita umana, la Groenlandia è tornata a fare capolino prepotentemente nelle chiacchiere politiche dei nostri tempi. Dal XX secolo ricopre un ruolo essenziale nelle mire geopolitiche delle principali potenze mondiali; avamposto essenziale tra le estremità settentrionali dei continenti europeo e americano, l’isola più grande del pianeta Terra risulta essere il perno dell’Artico e base fondamentale nelle relazioni che interessano l’Oceano Atlantico. 
Nel...

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Crolla scuola in Indonesia: 3 morti, decine intrappolati

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Una scuola islamica è crollata oggi nella città di Sidoarjo, in Giava Orientale, causando la morte di almeno tre studenti e intrappolando sotto le macerie altri 38 giovani, tra i 12 e i 17 anni. Secondo gli operatori di soccorso, si sarebbero udite “grida e pianti” da sotto le macerie, suggerendo la possibilità di sopravvissuti. Le operazioni sono tutt’ora in corso, con gli esperti che avvertono di procedere con cautela data l’instabilità dei resti dell’edificio.