Il primo ministro della Malesia ha annunciato l’invio di una delegazione per la pace in Birmania, dove dal 2021 è in corso una guerra civile tra la giunta golpista e gruppi ribelli. L’annuncio è arrivato a margine di un incontro con il presidente ad interim del Bangladesh, Muhammad Yunus, in occasione di una conferenza stampa congiunta. La delegazione sarà guidata dal ministro degli esteri della Malesia e includerà rappresentanti dello stesso Bangladesh, e di Indonesia, Filippine e Thailandia. Essa intende anche risolvere la crisi migratoria della popolazione Rohingya in fuga dalla guerra: a oggi il Bangladesh ospita oltre un milione di rifugiati Rohingya.
Trump sospende i dazi alla Cina per 90 giorni
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per sospendere l’entrata in vigore dei dazi del 145% alla Cina per altri 90 giorni, rinviandola al 10 novembre. «Tutti gli altri elementi dell’accordo rimarranno invariati», ha scritto Trump su Truth. Con questa proroga, Trump conferma i termini dell’accordo provvisorio siglato con la Cina a maggio, che prevede l’imposizione di dazi del 30% sui prodotti cinesi in entrata. Le trattative per un accordo definitivo dovrebbero continuare, ma risultano ancora in stallo.
Media Freedom Act: entra in vigore la legge europea che tutela (e controlla) il giornalismo
L’8 agosto 2025 è scoccata l’ora X: in tutti gli Stati membri dell’UE è entrato in vigore il nuovo regolamento sulla libertà dei media (European Media Freedom Act, EMFA), approvato dal Parlamento europeo nell’aprile 2024, con cui Bruxelles intende «garantire il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione» e «limitare le interferenze e le pressioni politiche ed economiche». Sulla carta, si tratta di un manifesto di princìpi condivisibili; nella realtà, ci troviamo dinanzi a un regolamento a tratti fumoso, dove diversi articoli della norma aprono le porte a possibili nuovi strumenti di centralizzazione normativa e controllo politico, aprendo la strada a nuove forme di censura e omologazione dell’informazione e riducendo, paradossalmente, proprio quelle libertà che l’EMFA promette di difendere.
Mentre i media mainstream mirano a esaltare i punti di forza del regolamento, i passaggi controversi che emergono dalla lettura della norma sono diversi, a partire dall’applicazione centralizzata del concetto di “libertà di stampa” e l’imposizione di “norme comuni” (art. 1), che potrebbero tradursi in un’omologazione delle prassi editoriali. La definizione di cosa siano i “servizi di media” e di chi rientra nella categoria di “fornitore” (art. 2 e 3) è ampia e potenzialmente estendibile anche soggetti che non si percepiscono come “media” in senso tradizionale, rischiando di far ricadere nel perimetro dell’EMFA anche siti indipendenti o blogger professionali.
Uno dei pilastri del regolamento è l’obbligo per tutte le testate di pubblicare in registri pubblici (art. 27-29) i dati sulla proprietà, sui finanziamenti e sulle entrate pubblicitarie, comprese quelle provenienti da governi stranieri. Da una parte, si tratta di tutelare il cittadino, permettendogli di “sapere chi c’è dietro” a un giornale o a un’emittente. Tuttavia la norma si preoccupa di tracciare eventuali finanziatori pubblici ma non di monitorare quelli privati, non aiutando a fare luce sugli interessi privati che possono orientare i media e danneggiare il pluralismo.
Uno dei punti più dibattuti in questi giorni, riguarda l’articolo 5 che prevede criteri uniformi per la nomina e la revoca dei vertici dei media di servizio pubblico, oltre a vincolare i finanziamenti alla stabilità e alla prevedibilità pluriennale. In teoria, un passo avanti per sottrarli all’influenza dei governi. In pratica, il nuovo quadro potrebbe diventare un cavallo di Troia: la Commissione europea e l’European Board for Media Services (art. 36-41) avranno il potere di monitorare e giudicare l’indipendenza delle governance nazionali. Chi stabilirà, però, che cosa sia un’informazione “equilibrata”? Chi non sposa le linee narrative dominanti, potrà essere accusato di “mancato pluralismo”? In questo modo, si rischia di trasformare un principio di autonomia in un meccanismo di condizionamento politico sovranazionale, in modo da contestare governi democraticamente eletti se la loro linea editoriale non coincide con quella considerata “pluralista” da Bruxelles.
Cuore pulsante dell’EMFA sarà, infatti, l’European Board for Media Services, organo comunitario incaricato di vigilare sull’applicazione della legge. Composto da rappresentanti delle autorità nazionali di regolamentazione, agirà in stretto raccordo con la Commissione europea. Il problema è la concentrazione del potere decisionale in un organismo sovranazionale: un unico centro avrà la possibilità di influire sulle linee editoriali e sulla sopravvivenza economica delle testate, fornendo “pareri non vincolanti” che, però, influenzeranno direttamente l’accesso ai fondi e le procedure sanzionatorie.
L’articolo 26, sotto la veste di uno strumento di tutela e trasparenza, concentra in un organo sovranazionale la capacità di “certificare” lo stato della libertà di stampa nei singoli Paesi, istituendo un meccanismo di monitoraggio permanente sulle condizioni della libertà e del pluralismo dei media. Senza garanzie di indipendenza reale e pluralità metodologica, il sistema rischia di trasformarsi da strumento di protezione in leva di condizionamento politico-mediatico, capace di colpire selettivamente governi e media non allineati alla narrativa dominante.
Il regolamento (art. 17-21) vieta arresti, perquisizioni, spyware e sorveglianza per costringere un giornalista a rivelare le proprie fonti. Tuttavia, introduce eccezioni per “motivi imperativi di interesse generale” e “sicurezza nazionale”. Questa clausola elastica, già vista in altre normative UE, minaccia di svuotare la protezione stessa: basterà invocare la “sicurezza nazionale” per autorizzare intercettazioni, monitoraggi mirati e l’uso di software intrusivi come Pegasus (art. 22-23). È proprio questa clausola, volutamente vaga, ad aver sollevato le critiche di decine di organizzazioni internazionali.
In Italia, l’entrata in vigore dell’EMFA riaccende il dibattito sulla governance della RAI, ancora lottizzata, esposta a procedure di infrazione per il mancato adeguamento alle regole di nomina trasparenti richieste dal regolamento europeo. Il governo Meloni è alle prese con due nodi sensibili da sciogliere: la riforma della RAI e il caso Paragon sul presunto uso di spyware nei confronti dei giornalisti. .
Il testo introduce anche un meccanismo per impedire che le piattaforme online “molto grandi” rimuovano arbitrariamente contenuti provenienti da media indipendenti (art. 16 e 30). Le piattaforme dovranno avvisare e dare 24 ore di tempo per rispondere prima della rimozione. Tuttavia, lo stesso regolamento stabilisce che le piattaforme distinguano tra “fonti indipendenti” e “non indipendenti”. Chi decide i criteri? Se l’autorità di riferimento è europea, il pericolo è che media critici verso le politiche UE vengano classificati come “non indipendenti” e penalizzati. In più, le decisioni algoritmiche restano in gran parte opache. Un sistema simile, se non gestito con estrema trasparenza, potrebbe legittimare una censura preventiva mascherata da protezione.
Il Media Freedom Act è strutturato in modo da presentare garanzie condivisibili e si presenta come una carta dei diritti per il giornalismo europeo, ma tra le pieghe di articoli e disposizioni si annidano strumenti che potrebbero essere usati per il fine opposto: centralizzare la gestione del pluralismo, definire dall’alto cosa sia una “informazione affidabile” e marginalizzare le voci critiche. Il rischio più concreto non è una censura diretta e brutale, ma un lento processo di condizionamento economico e normativo, che ridurrebbe il “vero” pluralismo al pluralismo “approvato” da Bruxelles. La sfida sarà evitare che una legge nata per proteggere la libertà di stampa diventi l’ennesima architettura di sorveglianza e di conformismo mediatico.
Trump passa il controllo della polizia di Washington alle forze federali
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per dichiarare lo stato di emergenza nella capitale Washington DC, e ha annunciato che dispiegherà 800 soldati della Guardia Nazionale per «contribuire a ristabilire la legge» nella capitale. La polizia locale, ha specificato Trump in conferenza stampa, sarà sotto il controllo delle forze federali. L’ordine si basa su una legge che permette al presidente degli USA di assegnare il comando della polizia locale alle forze federali per non oltre 30 giorni. Per motivare la sua scelta, Trump ha mostrato un grafico contenente dati sulla criminalità della città, sostenendo che sia più pericolosa delle altre capitali del mondo.
Uno studio prova il legame tra inquinamento atmosferico e aumento dei casi di demenza
Esiste un legame significativo tra l’aumento del rischio di demenza e l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico, in particolare a quello dovuto a tre specifici inquinanti: è quanto rivela un nuovo studio guidato dai ricercatori dell’Unità di Epidemiologia del Medical Research Council (MRC) dell’Università di Cambridge, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato su The Lancet Planetary Health. Secondo l’analisi, che ha riunito i dati di oltre 29 milioni di persone provenienti da decine di studi condotti in diversi continenti, l’incidenza di demenza risulta significativamente correlata a biossido di azoto (NO2), fuliggine e PM2.5, il quale da solo comporterebbe un aumento del 17% del rischio di sviluppare la malattia per ogni incremento di 10 microgrammi per metro cubo di tale sostanza. «Il nostro lavoro fornisce ulteriori prove a supporto dell’osservazione che l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico esterno è un fattore di rischio per l’insorgenza di demenza», commenta la coautrice Haneen Khreis, aggiungendo che interventi politici urgenti sarebbero necessari per ridurre l’inquinamento e proteggere la salute pubblica.
La demenza, inclusa la malattia di Alzheimer, colpisce oggi oltre 57 milioni di persone nel mondo e, secondo le proiezioni, sarebbe in un aumento fino a 152 milioni di casi entro il 2050. Questo incremento, spiegano gli esperti, rappresenta una sfida sanitaria e sociale di proporzioni enormi, con ripercussioni dirette su pazienti, famiglie e sistemi sanitari già sotto pressione. Sebbene alcuni studi recenti suggeriscano un calo della prevalenza nei Paesi occidentali, resta alta l’urgenza di individuare le principali cause, al fine di suggerire interventi politici mirati. In questo contesto, l’inquinamento atmosferico è emerso negli ultimi anni come possibile elemento chiave. Tuttavia, fino a oggi, le prove disponibili erano frammentarie, spesso discordanti, e non sufficienti per stabilire con certezza un nesso causale. Per questo motivo la nuova ricerca, attraverso una revisione sistematica e una meta-analisi della letteratura, si è prefissata l’obiettivo di superare questi limiti, fornendo un quadro più solido dell’associazione tra inquinamento e demenza.
In particolare, il team ha incluso 51 studi complessivi, 34 dei quali nella meta-analisi vera e propria, utilizzando dati provenienti in larga parte da Paesi ad alto reddito, con 15 studi dal Nord America, 10 dall’Europa, sette dall’Asia e due dall’Australia. L’analisi ha individuato un’associazione significativa tra la demenza e l’esposizione a tre inquinanti: il particolato fine PM2.5, il biossido di azoto (NO₂) e la fuliggine. Queste sostanze, prodotte da traffico veicolare, combustione di legna, attività industriali e centrali elettriche, sono note per penetrare in profondità nei polmoni e nel sistema circolatorio. Per il PM2.5, spiegano gli autori, ogni aumento di 10 μg/m³ è associato a un +17% di rischio relativo. Per il NO₂, il rischio sale del 3% ogni 10 μg/m³, mentre per la fuliggine, infine, il rischio cresce del 13% per ogni 1 μg per metro cubo. Affrontare l’inquinamento «può ridurre l’enorme carico di lavoro per pazienti, famiglie e operatori sanitari, alleggerendo al contempo la pressione sui sistemi sanitari sovraccarichi», secondo Khreis, la quale aggiunge che l’inquinamento può inoltre contribuire alla demenza innescando infiammazione cerebrale e stress ossidativo, meccanismi già noti anche nelle patologie cardiovascolari e polmonari. «Prevenire la demenza non è solo responsabilità dell’assistenza sanitaria», ma richiede anche azioni decise nella pianificazione urbana, nei trasporti e nella regolamentazione ambientale, sottolinea il coautore Christiaan Bredell, aggiungendo che le future ricerche dovrebbero garantire una maggiore equità e rappresentatività. «È probabile che siano necessari limiti più severi per diversi inquinanti», conclude Clare Rogowski, coautrice dello studio, «mirati ai principali responsabili, come i settori dei trasporti e dell’industria».
Palazzi al posto del bosco spontaneo: a Bologna è sotto attacco un altro polmone verde
Per il Comune è «uno spazio verde che promuove la mobilità dolce e sostenibile». Per molti cittadini è invece l’ennesimo polmone verde regalato alla speculazione edilizia. Nella zona nord-ovest di Bologna, tra la ferrovia e l’aeroporto, si estende un’area verde inaspettata: un bosco spontaneo cresciuto su una vecchia cava, chiusa e bonificata anni fa. Un ecosistema ormai maturo, popolato da acacie, ailanti, pioppi e querce. Un polmone verde che assorbe l’acqua, filtra l’aria, favorisce la biodiversità e mitiga l’effetto “isola di calore” in una zona dominata da asfalto e cemento: quella conosciuta come Bertalia-Lazzaretto. Ora il Comune ha deciso di abbattere una parte consistente di quel bosco per costruire una nuova zona residenziale: 159.000 metri quadrati complessivi, di cui 94.000 destinati all’edilizia privata.
Il progetto originale risale al 2007, è stato aggiornato nel 2017 — paradossalmente in parallelo con il piano urbanistico regionale sul “consumo di suolo zero”, e oggi è pronto a entrare nella sua fase operativa. «Ce ne siamo accorti poche settimane fa – racconta a L’Indipendente Licia Podda, biologa e membro del Comitato Bertalia-Lazzaretto – Organizzo spesso passeggiate nel bosco per esplorare il luogo e mappare la biodiversità. L’ultima volta, il 10 maggio, abbiamo trovato il passaggio che usiamo di solito per entrare chiuso con un cancello e un lucchetto».
Il comitato ha quindi scritto una lettera aperta al Comune: «Assistiamo attoniti, tra imbarazzo e stupore, all’ennesimo tentativo di greenwashing da parte della giunta, che cerca di vendersi come ecologica mentre una vasta zona di bosco urbano, con alberi ad alto fusto, è destinata a essere rasa al suolo per lasciare spazio a un progetto di lottizzazione che prevede edilizia privata, pubblica e cementificazione indiscriminata».

Quando si parla di greenwashing, ossia al tentativo di comunicare una grande attenzione all’ambiente mentre in realtà si agisce in tutt’altro senso, è inevitabile il riferimento agli ormai famigerati alberelli in vaso posizionati in centro città per contrastare le ondate di calore, portando — almeno in teoria — ombra e refrigerio. Piazzati lì come figurine verdi per le foto dei turisti, mentre nelle periferie meno visibili il Comune abbatte alberi per far posto a strade ed edifici. Il comitato, nato circa un anno fa, si è attivato per approfondire il progetto: «Nel gruppo ci sono anche geometri e ingegneri urbanisti – continua Podda – Abbiamo analizzato gli atti pubblici relativi all’intervento e costruito un plastico per visualizzare come cambierebbe l’area». Il colpo d’occhio fa pensare subito al ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano: «Là dove c’era l’erba ora c’è una città».
Il sindaco Matteo Lepore, informato dell’iniziativa, ha contestato l’accuratezza del plastico, affermando che «non riflette i dati reali del progetto» e ha invitato il comitato a un incontro chiarificatore previsto per settembre. Alla base delle preoccupazioni del comitato c’è l’impatto ambientale che la nuova colata di cemento potrebbe avere su tutta l’area: «Il progetto si fonda su dati raccolti nel 2007 – osserva Podda – ma da allora Bologna è cambiata profondamente: il clima si è fatto più instabile, l’urbanizzazione è aumentata e la consapevolezza ambientale è cresciuta. Negli ultimi anni abbiamo visto la città andare sott’acqua a causa delle piogge torrenziali. E sappiamo bene che la risposta non può essere coprire di cemento ogni spazio libero, ma piuttosto lasciare il suolo permeabile, in grado di assorbire l’acqua. Non si può affrontare il presente con strumenti del passato, come se fossimo ancora in un’altra epoca».

Il Comune, nel frattempo, difende il progetto e parla di «una nuova comunità residenziale ecosostenibile», come si legge nella sezione Piano per l’Abitare pubblicato sul portale istituzionale. A dicembre 2023 è stato bandito un concorso di progettazione per realizzare circa 236 alloggi, di cui 119 destinati a un nuovo studentato pubblico. L’intervento, una volta concluso, dovrebbe ospitare circa 700 persone, tra cui 180 studenti e studentesse. Il costo complessivo stimato è di 55 milioni di euro, interamente coperti da risorse comunali.

Anche la vicesindaca Emily Clancy ha difeso il progetto: «La superficie complessiva del piano è di 73 ettari – ha spiegato in Consiglio comunale – e di questi resteranno a verde oltre 30 ettari, vale a dire più del 40%. Inoltre, il Piano per l’Abitare porterà alla costruzione di alloggi a canone agevolato e residenze per studenti. Questa visione – ha aggiunto, facendo ricorso alle classiche parole chiave della retorica istituzionale – si traduce in un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi, rafforza la continuità ecologica fra i comparti, contribuisce alla costruzione di una rete verde interconnessa e integra in modo virtuoso il verde pubblico con gli spazi abitativi, favorendo un equilibrio tra natura e insediamento urbano». Resta da definire, al di là della retorica da costruttori-green di cui abbonda la progettistica comunale bolognese, in che senso eliminare quasi il 60% del verde in uno dei pochi polmoni della città possa essere definito «un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi».
«Noi non siamo contrari al progetto a prescindere – ha spiegato Licia Podda – ma vogliamo che venga fatta chiarezza su cosa si intenda per verde e su come si valuta il valore ecologico di un ecosistema esistente. Un bosco rinaturalizzato, cresciuto spontaneamente nel tempo, non può essere considerato equivalente a un prato piantumato o a una fila di alberelli decorativi. Serve trasparenza, aggiornamento dei dati ambientali e soprattutto un confronto reale con chi quel territorio lo vive ogni giorno». «Ci auguriamo che l’amministrazione sia capace di mediare tra queste istanze – ha commentato in aula il consigliere comunale Matteo Di Benedetto – ma, al netto di tutto quello che ci possiamo dire, il tema è chiaro: si parla sempre di contrastare le isole di calore e l’innalzamento delle temperature, ma poi si pongono in essere opere che vanno in senso diametralmente opposto».
Colombia, morto il senatore Uribe: gli avevano sparato a giugno
È morto dopo nove settimane in terapia intensiva il senatore colombiano Miguel Uribe Turbay, 39 anni, che lo scorso 7 giugno era stato raggiunto da colpi di pistola durante un evento elettorale nella capitale Bogotà. Membro del partito conservatore Centro Democratico, Uribe aveva annunciato la sua candidatura alle presidenziali del 2026. La polizia ha arrestato quattro persone coinvolte nell’omicidio, tra cui un minorenne di 14 anni che ha confessato di essere stato pagato per sparare. Le autorità ritengono che il mandante sia Elder José Arteaga Hernandez, noto nella criminalità colombiana come “El Costeño”, il quale è stato arrestato a inizio luglio.
Per tonare a vendere i chip in Cina, le aziende dovranno pagare il 15% agli USA
Nell’epoca del liberismo statunitense incarnato dalla presidenza di Donald Trump, il confine tra regolamentazione commerciale e imposizione fiscale si fa sempre più sottile. Questo è quanto emerge da un accordo raggiunto tra il Governo degli Stati Uniti e due colossi dell’industria dei semiconduttori, Nvidia e AMD: le due aziende potranno tornare a esportare in Cina microchip ad alte prestazioni destinati allo sviluppo di strumenti di intelligenza artificiale, ma a condizione di versare nelle casse federali il 15% di tutti i ricavi generati da tali vendite. Una trattenuta che, di fatto, opera come un’imposta diretta sulle esportazioni, pratica esplicitamente vietata dalla Costituzione USA.
La notizia è trapelata grazie al Washington Post, il quale ha attinto a fonti interne all’Amministrazione per ricostruire questo patto fiscalmente atipico che non ha mancato di sollevare controversie. La Costituzione degli Stati Uniti proibisce infatti di imporre tasse sulle esportazioni, una norma che garantisce – almeno formalmente – che il controllo governativo sulle licenze venga utilizzato esclusivamente come meccanismo di tutela della sicurezza nazionale, non come strumento di manipolazione del commercio internazionale.
Le restrizioni statunitensi sull’export di microchip verso la Cina affondano le radici nel 2022, quando l’amministrazione Biden decise di bloccare la vendita di determinate categorie di semiconduttori e tecnologie di produzione, temendo che potessero essere utilizzati per sviluppare sistemi di intelligenza artificiale militare o civile in grado di competere con le capacità statunitensi. Questa linea restrittiva è stata pienamente condivisa anche dall’attuale presidente Donald Trump, che ha mantenuto e in alcuni casi irrigidito queste limitazioni, con l’obiettivo dichiarato è impedire che le aziende americane forniscano al principale rivale geopolitico componenti chiave per lo sviluppo di AI avanzate.
Per aggirare i vincoli e continuare a operare sul mercato cinese, Nvidia aveva sviluppato un nuovo modello di chip, denominato H20, progettato per restare entro i limiti tecnici imposti dalle normative, mantenendo comunque un livello di prestazioni che fosse appetibile per i clienti asiatici. Nell’aprile 2025, Trump ha in ogni caso bloccato l’esportazione del prodotto, motivando la decisione con ragioni di sicurezza nazionale. Il CEO Jensen Huang ha parlato di un “danno enorme”: «abbiamo cancellato 5,5 miliardi di dollari di inventario […], abbiamo abbandonato 15 miliardi di vendite e circa 3 miliardi di dollari in tasse».
A inizio luglio, con l’avvicinarsi di un nuovo ciclo di negoziati commerciali tra Washington e Pechino e dopo colloqui diretti con i vertici delle aziende coinvolte, il clima è cambiato. Nvidia ha ricevuto un via libera preliminare a riprendere le vendite, seppur in attesa di definire condizioni precise. Questa apertura ha sollevato immediatamente le contestazioni di alcuni politici, democratici, ma anche repubblicani, che hanno accusato l’amministrazione di barattare la sicurezza nazionale in favore di interessi economici.
I dettagli tecnici su come procedere sono stati definiti lo scorso mercoledì, durante una visita di Jensen Huang alla Casa Bianca. In quell’occasione, il presidente Trump ha contattato direttamente il segretario al Commercio, Howard Lutnick, per autorizzare la concessione delle licenze di esportazione per i chip H20. Secondo il Washington Post, proprio in quel frangente è stata stabilita la condizione della trattenuta del 15% sui ricavi generati dalle vendite in Cina, formalizzata come parte integrante dell’accordo.
Fiamme sul Vesuvio, rogo avanza nella notte: 80 vigili del fuoco in azione
Sono in corso da oltre 48 ore le operazioni di spegnimento di un vasto incendio che ha colpito il Parco nazionale del Vesuvio, con un ampio dispositivo di soccorso. Attualmente, sono 80 i vigili del fuoco coinvolti, supportati da rinforzi arrivati da Emilia Romagna, Toscana, Marche, Salerno e Caserta. Nella notte, le fiamme hanno ripreso vigore , rischiando di arrivare fino alle abitazioni nella zona di Trecase e Torre del Greco. Quattro velivoli Canadair CL-415 stanno operando dall’alba. Inoltre, il Friuli Venezia Giulia ha inviato una colonna mobile di volontari e funzionari per supportare l’emergenza, con un impegno economico di 100mila euro.