giovedì 9 Ottobre 2025
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Gaza, ecco il piano Trump-Netanyahu: Hamas accetti o “finiremo il lavoro”

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Trump e Netanyahu hanno presentato il loro personale «piano per la pace» per Gaza. I punti chiave della proposta rimangono gli stessi avanzati nei mesi: cessate il fuoco e riapertura dei corridoi umanitari in cambio del rientro immediato di tutti gli ostaggi, della smilitarizzazione completa della Striscia e dell’istituzione di un corpo di monitoraggio esterno. Quest’ultimo verrebbe presieduto dallo stesso Trump con il supporto dell’ex premier britannico Tony Blair, e supervisionerebbe il processo di ricostruzione e disarmo; lascerebbe poi spazio a un «gruppo civile palestinese pacifico» mentre Israele manterrebbe il controllo della sicurezza. Un piano Gaza-centrico che non solo non affronta la questione della Cisgiordania, ma che prevede una Palestina svuotata di ogni reale forma di rappresentanza, soggetta a controllo esterno politico e militare; Hamas non ha ancora rilasciato dichiarazioni, ma Trump e Netanyahu hanno già minacciato il gruppo, affermando che se non dovesse accettarlo, Israele finirà il lavoro, «con le buone o con le cattive».

Il piano Trump-Netanyahu è stato presentato dai due vertici dei rispettivi Stati ieri, lunedì 29 settembre, in una conferenza stampa congiunta in seguito a cui non è stato lasciato spazio alle domande dei giornalisti. Parallelamente, l’account X (ex Twitter) della Casa Bianca ha pubblicato un piano diviso in 20 punti dettagliando meglio la proposta. Essa prevede la cessazione immediata delle ostilità e una prima fase della durata di 72 ore in cui Hamas e tutte le firme palestinesi dovrebbero consegnare tutti gli ostaggi ancora nelle loro mani, vivi e morti. Nel frattempo Israele cesserebbe le aggressioni e riaprirebbe i corridoi umanitari garantendo un flusso pari almeno a quello della tregua di gennaio: verrebbero riabilitate le infrastrutture idriche ed elettriche, riaperti ospedali e panifici e gli aiuti verrebbero distribuiti da terzi come le agenzie ONU e la Mezzaluna Rossa. In questa prima fase, l’esercito israeliano si ritirerebbe «moderatamente» entro un perimetro interno a Gaza, che rimarrebbe in piedi fino a data da destinarsi. Dopo la consegna degli ostaggi, Israele rilascerebbe 250 ergastolani e altri 1.700 «prigionieri» incarcerati dopo il 7 ottobre; a questi si aggiungerebbero i corpi di 15 gazawi per ogni ostaggio israeliano deceduto.

Superata questa prima fase, l’amministrazione di Gaza verrebbe affidata a una sorta di governo tecnico formato da esperti internazionali e palestinesi filtrati da Israele. Questo sarebbe sotto la supervisione di un “corpo internazionale per la pace” formato da tecnici, politici internazionali (tra cui Blair), e Stati arabi e islamici; il corpo di pace verrebbe guidato da Trump e avrebbe il compito di definire il quadro di gestione e di gestire i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza. Lo scopo ultimo sarebbe quello di smilitarizzare Gaza, disarmare Hamas, e garantire l’implementazione di alcuni dei piani proposti negli anni, tra cui il piano di riforme dell’Autorità Nazionale Palestinese avanzato da Trump nel 2020, il piano franco-saudita per la Palestina, e un non meglio specificato piano economico pensato dagli USA per attirare gli investimenti. In questa fase, sarebbe garantito il diritto al ritorno ai palestinesi, e i membri di Hamas che si impegnerebbero alla coesistenza riceverebbero un’amnistia. Mentre ricostruzione e disarmo procederebbero, Israele si ritirerebbe progressivamente dalla Striscia, impegnandosi a non annetterla.

A quel punto si entrerebbe nella terza fase, quello della consegna di Gaza a una amministrazione politica palestinese: se il piano della Casa Bianca fa esplicito riferimento a un’ANP riformata, Trump e Netanyahu, durante la conferenza, sono stati ben più vaghi, affermando che nessun gruppo palestinese, ANP compreso, governerebbe Gaza. In ogni caso, al termine del processo, Gaza sarebbe completamente smilitarizzata, e la gestione della sicurezza verrebbe affidata nelle mani dell’esercito israeliano, che nel frattempo istituirebbe una zona di controllo interna alla Strisca. Né dal piano della Casa Bianca, né dalla conferenza stampa risultano chiari i tempi entro cui tutto questo piano si svolgerebbe. Prima fase a parte, Trump non ha parlato di alcuna scadenza né fissato alcun cronoprogramma, e non ha menzionato quale dovrebbe essere nella sua ottica il destino della Cisgiordania. Trump ha detto che il piano ha ricevuto l’appoggio di diversi Stati, chiedendo ad Hamas di accettarlo. Il gruppo palestinese, dal canto suo, non ha ancora commentato la proposta; la Palestina che disegna, tuttavia, è smilitarizzata priva di rappresentanza politica e soggetta al controllo e alla gestione militare e amministrativa di terzi che verrebbero scelti da Israele.

Regionali: Marche alla destra, Val d’Aosta agli autonomisti

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Ieri sono terminati gli scrutini delle elezioni regionali nelle Marche e in Val d’Aosta. Nella regione del centro Italia, il candidato di destra e presidente uscente Francesco Acquaroli ha preso il 52,43%, staccando il rivale dell’opposizione Matteo Ricci di quasi 8 punti. In Val d’Aosta, invece, hanno trionfato gli autonomisti di Union Valdotaine, che hanno ottenuto il 31,97%; seguono gli Autonomisti di Centro con il 14,05%, Fratelli d’Italia con il 10,99%, Forza Italia con il 10,05%. Nella regione, il governatore non viene eletto direttamente dai cittadini, ma dai consiglieri regionali. Gli autonomisti dovranno dunque allearsi con qualcuno per scegliere il prossimo presidente regionale.

In Italia cresce l’autoproduzione di energia

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autoconsumo solare in italia

Nel 2024, quasi un terzo dell’energia solare prodotta in Italia è stata utilizzata direttamente dal produttore (abitazioni private o piccole aziende) che l’ha generata. L’autoconsumo fotovoltaico ha raggiunto quota 10.701 GWh, pari al 30,2% della produzione netta nazionale, con un aumento di oltre cinque punti percentuali rispetto al 2023. Lo rileva il rapporto annuale del Gestore dei Servizi Energetici (GSE), che analizza dati tecnici, distribuzione e utilizzo degli impianti in esercizio. 
Per autoconsumo si intende la parte di energia prodotta dai pannelli solari e impiegata subito sul posto...

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Perù: storica condanna per i tagliatori di legna che uccisero i leader indigeni Saweto

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In Perù, quattro tagliatori di legna che operavano illegalmente nella regione di Ucayali sono stati condannati a 28 anni e 3 mesi di carcere per l’assassinio di altrettanti leader indigeni locali, avvenuto alla fine dell’agosto 2014. Si tratta di una sentenza «storica», spiegano gli stessi avvocati, seppur giunta a undici anni di distanza dai fatti. L’America Latina, infatti, è il territorio dove si verifica la quasi totalità degli omicidi di leader o membri di comunità locali impegnati nella difesa dell’ambiente (sono oltre una ventina quelli attualmente irrisolti nel solo Perù), ma questi rimangono per lo più impuniti. Per questo motivo, la sentenza rappresenta un importante passo avanti nella lotta per la tutela della vita e dell’operato dei membri delle comunità locali, il cui ruolo nella difesa dell’ambiente locale è fondamentale.

L’omicidio di Edwin Chota, Jorge Ríos, Leoncio Quintísima e Francisco Pinedo, leader Ashéninka della comunità nativa Alto Tamaya-Saweto (nella regione di Ucayali), è avvenuto il 1° settembre 2014 lungo il confine tra Perù e Brasile, mentre i quattro erano in viaggio per incontrare altri leader nativi impegnati nella lotta per la difesa della terra. Proprio in quella zona, dal 2008, Chota e gli altri conducevano una attiva campagna contro il disboscamento illegale del territorio, ma ogni tentativo di denunciare il taglio illegale alle autorità è stato archiviato. Nessuno ha avuto loro notizie per una settimana, fino a quando, il 6 settembre dello stesso anno, sono stati ritrovati i resti dei loro corpi: dopo essere stati uccisi a colpi di arma da fuoco, i quattro leader nativi erano stati fatti a pezzi e bruciati.

La procura ha identificato in José Estrada e Hugo Flores i mandanti e nei fratelli Atachi gli esecutori materiali ed ha portato il risarcimento civile per le vedove a 100 mila soles a testa (pari a 28.500 dollari), per un totale di 114 mila dollari. Latam Maritza Quispe, avvocata costituzionalista dell’Istituto di Difesa Legale, ha dichiarato alla rivista ambientale Mongabay che si tratta di una «sentenza storica», in quanto per la prima volta la magistratura «riconosce il lavoro delle popolazioni indigene nella difesa dei diritti umani e del loro rapporto con la natura». Secondo un’altra avvocata, Rocío Trujillo Solís, il pronunciamento della procura «non solo riconosce il danno immateriale alle vedove e ai bambini, ma a tutta la comunità indigena Soweto» e che questo «genera un precedente per le altre cause di [omicidi di] difensori indigeni e un messaggio di resistenza e speranza contro la impunità»

Sono oltre una trentina, infatti, i casi ancora irrisolti di omicidio di leader nativi impegnati contro la devastazione ambientale nel solo Perù. Qui, come in altre parti dell’America Latina, le violenze sono portate a termine da soggetti che nutrono interessi per le risorse locali, che si tratti della criminalità organizzata, di persone pagate dalle multinazionali o di singoli attori. A complicare le indagini vi è il fatto che spesso i pubblici ministeri non dispongono delle risorse necessarie – in termini di fondi, ma anche di personale specializzato – per operare con le comunità locali. Dei 146 omicidi di questo genere avvenuti nel mondo lo scorso anno, 117 (l’82%) hanno avuto luogo nel solo Sud America, un trend che sostanzialmente conferma quello dell’anno precedente.

A Saweto, nonostante la comunità sia in possesso di un titolo di proprietà sul territorio, la maggior parte degli uomini è stata costretta ad allontanarsi dopo aver ricevuto minacce di morte dai tagliatori di legna illegali, che continuano a disboscare il territorio appropriandosi del legname da rivendere alle aziende. Non si tratta dell’unica attività vietata che devasta l’ambiente: nella zona sono presenti anche diversi cacciatori e pescatori che operano illegalmente in maniera analoga. Per arginare il problema nella regione di Ucayali, alla fine dello scorso agosto alcune organizzazioni native hanno presentato al ministero della Giustizia e dei Diritti Umani del Perù un piano di emergenza composto da 12 proposte concrete per proteggere i soggetti impegnati nella difesa della terra, cercando di colmare il divario tra gli impegni ufficiali assunti dal governo e la realtà sul territorio. Tra queste vi è, per esempio, l’approvazione di un Protocollo di intervento della polizia per la protezione dei difensori, in sospeso da anni, o l’installazione di centri sanitari nelle comunità maggiormente colpite dalla violenza, come di tracciare finalmente in maniera dettagliata sullo stato delle minacce contro chi protegge l’ambiente.

All’indomani della sentenza, il Difensore civico ha chiesto che siano velocizzate le procedure anche nei casi degli altri 23 leader indigeni uccisi negli ultimi anni, evitando ulteriori ritardi. Una strada per il momento tutta in salita, ma nella quale questa sentenza potrebbe segnare un punto di svolta.

Russia, ratificati protocolli con il Vietnam su petrolio e armi

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Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato oggi provvedimenti che ratificano due protocolli con il Vietnam. Il primo estende fino al 2050 l’accordo sulla cooperazione energetica tramite la joint venture Rusvietpetro, garantendo condizioni fiscali preferenziali per le attività di esplorazione e produzione di petrolio e gas. Il secondo riguarda il prestito statale concesso ad Hanoi nel 2011 per l’acquisto di armamenti russi, introducendo un meccanismo temporaneo di rimborso in rubli per il periodo 2024-2026. Secondo il vice ministro delle Finanze russo Vladimir Kolychev, il Vietnam ha già saldato due terzi del debito complessivo.

Electronic Arts vicina all’uscita da Wall Street per un maxi accordo da 55 miliardi

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L’industria videoludica da tempo muove ricavi superiori a quelli del cinema e della musica messi insieme, confermandosi come uno dei comparti più rilevanti dello spettacolo globale. In questo scenario, Electronic Arts (EA), colosso statunitense da decenni ai vertici del settore, ha annunciato un accordo epocale per trasformarsi in una società privata, abbandonando così i listini di Wall Street dopo oltre trent’anni di presenza in Borsa. L’operazione, stimata intorno ai 55 miliardi di dollari, coinvolge tra gli altri il fondo sovrano dell’Arabia Saudita e il genero del Presidente USA ed ex consigliere della Casa Bianca per il Medio Oriente, Jared Kushner.

Le trattative hanno coinvolto un consorzio guidato da Silver Lake – già presente nel settore tech grazie a investimenti in aziende quali Dell, Klarna, Twitter e Airbnb – affiancato dal Public Investment Fund (PIF), fondo saudita da anni impegnato a diversificare l’economia del Regno nell’ambito della strategia nazionale denominata Vision 2030, e da Affinity Partners, la società d’investimento fondata da Kushner con il sostegno di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. L’operazione è però caratterizzata da una struttura finanziaria complessa, in quanto assume la forma di un leveraged buyout (LBO), ossia è un’acquisizione sostenuta impiegando fondi presi a prestito, attraverso l’indebitamento. In altre parole, qualora l’accordo andasse in porto, 20 miliardi di dollari di oneri d’acquisto verranno caricati sulla stessa Electronic Arts, la quale dovrà poi ripagarli a JPMorgan attraverso ricavi futuri. Secondo i documenti, 18 milioni di dollari dovrebbero essere saldati in tempi contenuti, una prospettiva che suggerisce che l’azienda sarà presto protagonista di una campagna di tagli al personale. L’operazione rappresenterà uno dei più sostanziosi LBO della storia e viene etichettato come “il più grande investimento privato in contanti”.

Sin dalle prime indiscrezioni trapelate dal Wall Street Journal, il Mercato è andato in visibilio: il titolo EA ha registrato nell’arco di un weekend un rialzo superiore al 15%, segnale che gli investitori ritengono concreta la possibilità di un accordo e che la valutazione ipotizzata rappresenta una prospettiva favorevole rispetto agli attuali multipli. La società, che prima della notizia capitalizzava circa 42 miliardi di dollari, ha d’altronde dalla sua un portafoglio di franchise ben consolidati: The Sims, Battlefield, Dragon Age, Mass Effect, e soprattutto i titoli sportivi come EA Sports FC – noto fino a non molto tempo fa come FIFA – e Madden NFL. Proprio questi brand rappresentano da anni un motore di crescita, alimentato da servizi live, microtransazioni e contenuti aggiuntivi che vengono spesso considerati predatori, ma che sono anche estremamente proficui.

Negli ultimi anni il settore dei videogiochi ha conosciuto un forte processo di consolidamento. Nel 2023, Microsoft ha completato l’acquisizione di Activision Blizzard, un’operazione finita temporaneamente nel mirino dell’antitrust statunitense, mentre Sony continua a rafforzare l’ecosistema PlayStation attraverso acquisizioni mirate e il gigante cinese Tencent investe massicciamente in società occidentali per estendere la propria presenza oltre i confini nazionali. Anche nel caso di Electronic Arts non manca un aspetto geopolitico. Il fondo PIF ha acquisito partecipazioni in aziende come Nintendo, Capcom e Take-Two, con l’obiettivo di rendere l’Arabia Saudita un hub globale per l’intrattenimento e i contenuti digitali. Una strategia che si inserisce nel piano Vision 2030, volto a modernizzare e diversificare l’economia del Paese, ma che viene anche letta come una forma di sportwashing, volta a migliorare la reputazione di un regime accusato di gravi violazioni dei diritti umani e di limitazioni delle libertà civili.

La prospettiva della vendita di Electronic Arts ha sorpreso molti osservatori, tuttavia l’idea che la società sia pronta a lasciare Wall Street non ha stupito nessuno. Negli Stati Uniti sono sempre più pressanti le critiche al modello di governance finanziaria imposto dalla Borsa, in particolare per quanto riguarda la trasparenza e la pubblicazione dei risultati trimestrali, considerata un vincolo che spinge le aziende a perseguire obiettivi di breve periodo a scapito di strategie di lungo respiro. Lo stesso Presidente USA, Donald Trump, ha ventilato l’idea di ritoccare il modello consolidato per limitare la presentazione degli utili a sole due volte l’anno.

L’idea del ministro Urso: auto in crisi? Riconvertiamo aziende e lavoratori alle armi

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Dopo la Germania, anche l’Italia si prepara a convertire le fabbriche del settore automobilistico in industrie belliche. Ad annunciarlo è il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, in occasione di una visita in Veneto. In una tappa a Castelfranco, in provincia di Treviso, il ministro ha portato l’esempio di Berco, azienda metalmeccanica in crisi da tempo, che secondo Urso potrebbe andare incontro a una «diversificazione produttiva» puntando alla difesa con il sostegno del colosso italiano Leonardo. Come Berco molte altre, ha ribadito il ministro a Mestre: «In alcuni casi l’industria dell’automotive potrà produrre, diversificandosi, anche per l’industria della difesa perché sono in alcuni casi contigue». Le dichiarazioni di Urso fanno eco a un annuncio risalente allo scorso marzo, quando il ministro aveva aperto le porte a un eventuale piano per convertire le fabbriche del settore auto in industrie per la difesa.

Gli annunci di Urso sono arrivati in occasione di un viaggio del ministro in Veneto composto da più tappe. A Castelfranco, dove ha inaugurato una sede di Fratelli d’Italia, il ministro ha parlato di una possibile conversione di Berco, di cui è presente una fabbrica nel medesimo Comune. Berco produce componenti per automobili; l’azienda è in crisi da tempo e nel 2024 ha annunciato il licenziamento di 480 operai attivi nello stabilimento di Copparo, in provincia di Ferrara. Lo stesso ministero delle Imprese si è preso carico della crisi evitando i licenziamenti. Per quanto riguarda l’azienda «siamo in contatto con aziende importanti e significative come Leonardo e non solo, che possano rivolgersi a un comparto in crescita, come l’industria della difesa. Riconversione tanto più necessaria, alla luce degli ultimi avvenimenti, che ci fanno capire come purtroppo la guerra sia intorno all’Europa e come le minacce incombano nel nostro continente», ha detto il ministro.

Arrivato a Mestre per partecipare alla mostra “Identitalia – The Iconic Italian Brands”, Urso ha affermato che, in generale, le fabbriche del settore automotive si prestano bene alla conversione in industrie per le armi, che in questo momento risultano in forte crescita: «Ad esempio un chip si può fare per un’auto ma anche per un autoblindo», ha detto il ministro, facendo riferimento a possibili tecnologie a doppio uso civile e militare. «E ricordiamoci che Leonardo è impegnata in prima linea anche nella realizzazione di sommergibili», ha aggiunto. La possibilità di convertire sempre più fabbriche del settore automotive in siti di produzione per il settore bellico era stata preannunciata a marzo dallo stesso Urso. Tale scelta è arrivata anche in Germania, con il colosso bellico Rheinmetall che ha adocchiato lo stabilimento di Osnabrück, e con la Deutz AG di Colonia, azienda attiva nella produzione di motori e autocarri, che ha annunciato la propria intenzione di raddoppiare gli investimenti nel settore bellico. Il settore automobilistico, inoltre non è il solo a essere protagonista di possibili conversioni produttive. Durante il suo discorso a Mestre, Urso ha parlato anche di Superjet International, joint venture tra l’italiana Alenia Aermacchi e la russa Sukhoi Holding Company che produce aerei di linea. Anche in questo caso, i lavoratori dello stabilimento di Tessera, un totale di 150, «saranno riassorbiti nel perimetro di Leonardo», anche se non è chiaro dove e verso cosa verrebbero indirizzati.

Moldavia, elezioni: vince il partito della presidente con più del 50%

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Con oltre la metà delle preferenze, il Partito di Azione e Solidarietà della presidente della Moldavia, Maia Sandu, ha vinto le elezioni parlamentari del Paese. In cabina elettorale il PAS, di orientamento europeista, si è affermato con il 50,20% dei voti, seguito dal Blocco Elettorale Patriottico, una coalizione di partiti accusata di essere filorussa, che ha ottenuto il 24,18%. Con la votazione, tenutasi ieri, domenica 28 settembre, si chiude una turbolenta stagione elettorale per la Moldavia: la presidente ha accusato più volte la Russia di volere interferire nelle elezioni, e uno dei partiti di Blocco Patriottico è stato escluso a pochi giorni dall’avvio delle elezioni. La Russia ha sempre smentito le accuse.

Regno Unito: esplode la protesta contro l’introduzione dell’identità digitale

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Il 26 settembre scorso il Primo Ministro britannico Keir Starmer ha annunciato l’introduzione di un sistema di identità digitale obbligatorio per i lavoratori. La cosiddetta “Brit card” diventerà indispensabile per chiunque voglia dimostrare il proprio diritto al lavoro entro la fine della legislatura, prevista per il 2029. Una misura che Downing Street presenta come necessaria per rafforzare i controlli sull’immigrazione e per rendere “più equo” il sistema migratorio, ma che in poche ore ha scatenato un’ondata di proteste senza precedenti. L’esecutivo ha precisato che non sarà necessario portare con sé un documento fisico: l’ID sarà integrato in piattaforme digitali e potrà essere utilizzato anche per accedere a servizi pubblici come patente di guida, assistenza all’infanzia, welfare e dichiarazioni fiscali. Dettagli tecnici (biometria, governance dei dati) saranno definiti con consultazione pubblica e nuova legislazione. Londra ha già provato in passato ad andare in questa direzione: la Identity Cards Act 2006 del governo Blair avviò un registro nazionale, che fu abrogato nel 2010 con tutti i dati cancellati. La nuova mossa di Starmer riapre un dossier politicamente sensibile, promettendo che il nuovo sistema renderà più difficile l’impiego di lavoratori clandestini, ostacolando così l’immigrazione irregolare e riducendo le sacche di lavoro nero. L’ufficio del Primo Ministro parla di “modernizzazione” e di un “investimento nel futuro digitale del Regno Unito”, ma dietro la retorica governativa emergono le prime crepe: associazioni, giuristi e difensori dei diritti civili denunciano rischi concreti per la privacy, l’accessibilità e la libertà individuale.

Un sondaggio YouGov reso pubblico il giorno successivo l’annuncio mostra un Paese spaccato: il 45% degli intervistati si dichiara contrario, il 42% favorevole, mentre il 14% non si pronuncia. Il malcontento è esploso immediatamente online. Una petizione che definisce la misura «un passo avanti verso la sorveglianza di massa e il controllo digitale», ha superato in poche ore le 2,4 milioni di firme. La scadenza della petizione è fissata per il 9 gennaio 2026, e supera abbondantemente la soglia delle 100.000 firme che rende possibile un dibattito parlamentare. In diverse città si sono tenute manifestazioni spontanee, con cartelli che paragonano la Brit card a un lasciapassare orwelliano per sorvegliare la popolazione. Le critiche si concentrano soprattutto sulla possibilità che categorie fragili come anziani senza dimestichezza con le tecnologie, disoccupati o persone con redditi bassi vengano escluse da servizi fondamentali. A livello politico, la proposta ha ricompattato le opposizioni. Nigel Farage, leader del Reform Party, che i sondaggi danno oggi come prima forza politica, ha definito il progetto una “carta anti-britannica” destinata ad aumentare la burocrazia e il controllo statale senza incidere realmente sull’immigrazione. Dello stesso avviso i conservatori, guidati da Kemi Badenoch, che hanno ricordato la storica opposizione dei Tories alle carte di identità obbligatorie. Anche i liberaldemocratici si sono schierati contro, lanciando la campagna “No to Digital ID Cards” e denunciando un “ricatto digitale” che costringerebbe i cittadini a cedere dati personali per svolgere attività quotidiane. Non meno dura la voce di Jeremy Corbyn, ex leader laburista, oggi deputato indipendente e fondatore del nuovo partito Your Party. Corbyn ha parlato di un «affronto alle libertà civili», che rischia di complicare la vita ai più vulnerabili e di trasformare il rapporto tra cittadino e Stato in una forma di sorveglianza permanente. Per molti osservatori, la convergenza di critiche da destra e da sinistra indica che la battaglia sulla Brit card potrebbe diventare il vero banco di prova politico per il governo Starmer. Le resistenze sono particolarmente forti in Scozia e Irlanda del Nord: il First Minister scozzese John Swinney ha criticato duramente l’obbligatorietà della manovra, mentre a Belfast, Michelle O’Neill (Sinn Féin) ha definito la misura «ridicola e mal concepita», evocando anche un possibile contrasto con il Good Friday Agreement, uno dei più importanti sviluppi del processo di pace in Irlanda del Nord.

Oltre alla contrapposizione parlamentare, il dibattito sta assumendo un significato più profondo. Non è in discussione soltanto l’efficacia dello strumento nella lotta all’immigrazione illegale, ma l’idea stessa di cittadinanza in una società sempre più digitalizzata, in cui il Green Prass ha svolto, durante la pandemia, una funzione pilota di sperimentazione, offrendo l’impulso per accelerare il processo in corso. L’ID obbligatorio apre scenari che vanno oltre il confine britannico: in molti temono che Londra possa fare da apripista a un modello destinato a diffondersi in Europa. Proprio a Bruxelles, infatti, è in corso la sperimentazione del Digital Identity Wallet, il portafoglio elettronico che l’Unione europea vorrebbe introdurre per uniformare l’accesso ai servizi pubblici e privati degli Stati membri. Se a livello ufficiale l’UE presenta il progetto come uno strumento di semplificazione, utile per facilitare spostamenti, pagamenti e pratiche burocratiche, le critiche sollevate in Gran Bretagna ricalcano quelle già emerse in diversi Paesi europei: timori per la centralizzazione dei dati sensibili, possibilità di abusi da parte delle autorità e vulnerabilità informatiche che potrebbero trasformare l’identità digitale in una minaccia per la privacy. Nel Regno Unito l’assenza di un’alternativa cartacea acuisce il problema dell’inclusione digitale, in una nazione dove milioni di cittadini non dispongono di smartphone o competenze tecnologiche adeguate. La narrazione del governo Starmer, imperniata sulla lotta all’immigrazione e al lavoro nero, rischia dunque di mascherare un processo più ampio di controllo sociale: in gioco non vi è soltanto la gestione dei flussi migratori, ma la ridefinizione del rapporto tra libertà e sicurezza in un’epoca dominata dal digitale. Le piazze britanniche, animate da un dissenso trasversale e crescente, mostrano quanto profonda sia la frattura tra istituzioni e cittadini. Se la Brit card passerà o meno sarà deciso nei prossimi mesi, ma la battaglia politica e simbolica che ha innescato segna già un punto di svolta nel dibattito europeo sulle identità digitali.

La Commissione UE scopre i danni dell’austerità: chi è povero vive 7 anni in meno

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Chi vive in povertà nei Paesi membri dell’Unione Europea può arrivare a perdere fino a sette anni di vita rispetto a chi gode di condizioni economiche più favorevoli. È quanto emerge dall’analisi diffusa dalla Commissione europea in un rapporto in cui si evidenzia come le disuguaglianze sociali e sanitarie siano profondamente radicate e aggravate dalle politiche restrittive che hanno segnato l’ultimo decennio. Si tratta di una fotografia che smaschera una contraddizione fondamentale nel modello europeo: l’Unione che oggi denuncia le conseguenze dell’austerità è la stessa che per anni ha imposto quei vincoli che hanno compromesso diritti sociali, welfare e sanità pubblica. In una prospettiva che vorrebbe essere neutrale, l’istituzione europea afferma che «le misure di consolidamento fiscale hanno avuto un impatto negativo sulle condizioni sanitarie e sulle aspettative di vita», in particolare tra i più poveri, i più fragili, le fasce giovani e deboli. Dietro alla cifra dei cinque-sette anni di via in meno, emergono gli effetti cumulativi di tagli alla spesa sanitaria, restrizioni dei servizi sociali, compressione delle risorse per la prevenzione e una riduzione della capacità redistributiva dello Stato sociale.

L’analisi parte da un dato concreto: cure, ricoveri, farmaci e servizi sanitari rappresentano un valore che incide direttamente sul reddito reale delle famiglie. La Commissione ha, infatti, adottato un approccio innovativo per misurare l’effetto che il sistema sanitario pubblico esercita su disuguaglianza e povertà, introducendo le “Transferenze Sociali in Natura sanitarie” (health STiKs) come elemento di valutazione. Il rapporto espande lo strumento EUROMOD – finora usato per simulare imposte e trasferimenti monetari – includendo la valutazione del valore monetario dei benefici in natura (cure, prestazioni, farmaci) e integrandoli nel reddito disponibile delle famiglie. Calcolando questo “reddito in natura”, emerge che in quasi tutti gli Stati membri la sanità pubblica contribuisce a ridurre in maniera rilevante disuguaglianze e rischio di povertà, in molti casi con un effetto persino maggiore rispetto ai tradizionali trasferimenti monetari. Senza tale copertura, milioni di cittadini sarebbero costretti a sostenere privatamente spese ingenti per trattamenti essenziali, con conseguenze devastanti soprattutto per i redditi più bassi. Il rapporto mostra forti differenze tra i Paesi: dove i sistemi sanitari sono più universalistici e i costi diretti per i pazienti restano contenuti, la distribuzione è chiaramente progressiva. Al contrario, laddove i ticket e le spese private sono consistenti, le famiglie più povere finiscono per rinunciare più facilmente alle cure, accumulando bisogni non soddisfatti. Il fenomeno riguarda in particolare anziani, disoccupati e residenti nelle aree rurali, cioè le fasce già più vulnerabili. Un altro nodo cruciale riguarda la sostenibilità futura. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento della spesa sanitaria rischiano, secondo le simulazioni fino al 2070, di spostare l’onere finanziario sulle generazioni più giovani. In assenza di correttivi, questi ultimi dovranno farsi carico di una quota crescente del sistema, mentre la capacità redistributiva tenderà a ridursi. Gli esperti della Commissione indicano che un sistema basato maggiormente sulla fiscalità generale, con imposte più progressive, potrebbe migliorare l’equità rispetto a modelli fondati quasi esclusivamente sui contributi sociali. La conclusione è netta: la sanità pubblica è uno degli strumenti più efficaci per ridurre le disuguaglianze e garantire coesione sociale, ma laddove i sistemi sono stati indeboliti da anni di austerità e tagli, questo potenziale viene drasticamente ridimensionato, lasciando esposti proprio i cittadini più fragili.

La Commissione europea non scopre, però, qualcosa di nuovo: numerosi studi accademici, rapporti nazionali e analisi indipendenti avevano già segnalato il legame tra austerità e peggioramento della salute della popolazione. In Grecia, per esempio, i dodici anni sotto il controllo della Troika hanno lasciato strascichi che ancora oggi si manifestano nei servizi pubblici e nell’efficacia del sistema sanitario del Paese, malgrado l’uscita formale dal regime di sorveglianza finanziaria: i tagli agli ospedali, il depotenziamento delle cure primarie e la crisi occupazionale hanno amplificato le disuguaglianze sociali. In Italia la ricetta europea per il periodo post-pandemico non è cambiata: austerity e licenziamenti sono stati indicati come la risposta prioritaria, come se il welfare e la salute fossero una variabile elastica, sacrificabile sull’altare dell’equilibrio di bilancio. Bruxelles, d’altra parte, non si tira indietro quando può raccomandare i tagli fondati sulla compressione del deficit e del debito pubblico. Nel 2022, la Banca Centrale Europea, con il cosiddetto “nuovo scudo anti-spread”, ha riattivato modalità di intervento simili alla Troika, imponendo condizioni rigide ai Paesi in difficoltà. Il paradosso è lampante: chi oggi denuncia gli effetti delle politiche restrittive ne è stato al tempo stesso promotore attraverso i vincoli macroeconomici che ha subordinato ai bilanci nazionali. In ambito sanitario, gli effetti si misurano non solo in anni di vita persi, ma in maggiore mortalità evitabile, peggior gestione delle malattie croniche, rinunce alle cure e disagi diffusi. Non basta denunciare i tagli senza cambiare il vincolo strutturale che li impone, legando rigore finanziario e politiche sociali. Altrimenti il monito resterà amaro: l’Unione che oggi denuncia le vittime dell’austerità è la stessa che ha imposto quelle misure.