Un tribunale federale di Boston ha sospeso un’ordinanza del presidente Donald Trump che vietava all’università di Harvard di iscrivere studenti stranieri, confermando una linea già presa in maggio. Il tribunale ha motivato la sospensione in maniera ancora più articolata, vietando al governo di «attuare qualsiasi sospensione, ritiro, revoca, cessazione o altra alterazione» delle regole di Harvard senza rispettare le procedure previste dal Codice dei regolamenti federali. L’università di Harvard si sta scontrando da settimane con Trump, che accusa le università del Paese di non aver fatto abbastanza per contrastare episodi di «antisemitismo» nei campus nelle proteste studentesche contro i massacri a Gaza
Ruanda e Repubblica Democratica del Congo a un passo da uno storico accordo di pace
Washington spinge sull’acceleratore per raggiungere un accordo di pace nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Proprio mercoledì, nella capitale USA, RDC e Ruanda hanno firmato un accordo provvisorio volto a porre fine al conflitto nella parte orientale della RDC, come si legge in una dichiarazione congiunta dei due Paesi insieme al Dipartimento di Stato americano. La bozza di accordo contiene, secondo la dichiarazione, «disposizioni sul rispetto dell’integrità territoriale e sul divieto di ostilità; disimpegno, disarmo e integrazione condizionata di gruppi armati non statali», nonché l’istituzione di «un meccanismo congiunto di coordinamento della sicurezza», che faciliti il ritorno dei rifugiati e degli sfollati interni, garantisca l’accesso umanitario e preveda «un quadro di integrazione economica regionale».
La sicurezza nella regione, inoltre, secondo quanto pattuito tra Washington e Kinshasa già ad aprile, sarà affidata a personale statunitense. Se tutto dovesse procedere secondo i piani, la prossima settimana – il 27 giugno – è prevista la firma formale e l’avvio dell’accordo tra i due Paesi africani, alla presenza del Segretario di Stato americano Marco Rubio. Rimane comunque una forte disillusione riguardo alla concreta possibilità che l’accordo venga davvero firmato e messo in atto. Infatti, negli ultimi anni – da quando nel 2021 la milizia M23, appoggiata logisticamente e finanziariamente da Kigali, ha ricominciato la sua avanzata nelle ricche regioni orientali della RDC – sono stati firmati diversi accordi, ma nessuno è mai stato attuato.
La maggior parte delle volte, le precedenti intese sono naufragate per un motivo preciso: la mancata partecipazione ai colloqui dei rappresentanti della milizia M23. Anche in questo caso, nessun uomo del gruppo paramilitare era presente al tavolo delle trattative. Anzi, solo una settimana fa, il ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale ruandese, Olivier Nduhungirehe, aveva dichiarato chiaramente: «Nessun accordo di pace verrà firmato a Washington». Nel giro di cinque giorni, tuttavia, la situazione sembra essersi ribaltata, accendendo una flebile luce in fondo al tunnel. Ma a quale costo?
La pace ricercata dall’amministrazione Trump in RDC è, dall’altra parte, una dichiarazione di guerra commerciale alla Cina, per il controllo dei siti di estrazione di coltan, cobalto, litio, tantalio, rame e altri minerali strategici per la produzione di batterie elettriche. Le regioni orientali della RDC rappresentano le aree più ricche al mondo di questi materiali, e la Cina detiene, secondo Washington, l’80% delle riserve di cobalto del Paese africano. Le mire dell’amministrazione statunitense sono chiare: raggiungere la pace e assicurarsi accordi economici con entrambe le parti.
L’accordo di pace, infatti, è affiancato da intese bilaterali con Ruanda e RDC, in perfetta coerenza con la tanto sbandierata politica transazionale di Trump: non più soft power e aiuti dall’alto, ma relazioni fondate su accordi commerciali vantaggiosi. Se da una parte gli USA vogliono garantirsi accesso diretto alle risorse naturali per contrastare la supremazia cinese, dall’altra, con Kigali, Trump potrebbe negoziare un accordo sulle deportazioni dei migranti, sulla falsariga di quello tentato – e mai completato – dal Regno Unito. In sintesi: soldi e investimenti in cambio di pace e concessioni. Tuttavia, la popolazione da oltre trent’anni vive in una guerra infinita, fatta di sofferenze inimmaginabili. Mentre capi di Stato, ministri e analisti discutono del destino di milioni di persone, l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, ha dichiarato all’inizio della settimana che «la situazione in RDC sta diventando ancora più allarmante».
Un’indagine condotta dall’Ufficio per i Diritti Umani dell’ONU ha documentato violazioni gravi dei diritti umani e crimini di guerra nelle regioni orientali della RDC: arresti arbitrari, uccisioni extragiudiziali, stupri. Il rapporto evidenzia che tutti gli attori coinvolti – M23, esercito congolese, milizie locali – si sono macchiati di crimini. In un Paese dove 25 milioni di persone sono a rischio fame e quasi 8 milioni di sfollati interni vivono in condizioni disperate, una vera fine delle sofferenze non si è mai vista. Si sono viste, invece, manovre politiche finalizzate al controllo delle ricchezze del sottosuolo congolese, camuffate sotto la promessa di una pace che, per ora, resta solo sulla carta.
Prato, scandalo corruzione: lascia la sindaca Bugetti
La sindaca di Prato, Ilaria Bugetti, ha annunciato le sue dimissioni dopo lo scoppio dello scandalo che la vede indagata per corruzione. La decisione diventerà effettiva dopo la presentazione formale in Consiglio comunale. Secondo l’accusa, avrebbe ricevuto denaro e voti in cambio di favori a un imprenditore del settore tessile, che si sarebbe avvalso di un network massonico locale. Nella sua lettera di dimissioni, Bugetti ha dichiarato di lasciare per il «profondo rispetto istituzionale» nei confronti dell’amministrazione e della magistratura e per affrontare «con serenità» le «imminenti fasi giudiziarie», dicendosi «pienamente convinta» di «poter dimostrare e documentare la totale estraneità rispetto agli addebiti».
Romania: nominato un nuovo premier
Il neo-eletto presidente romeno Nicusor Dan ha nominato il leader del Partito Liberale, di centrodestra, Ilie Bolojan primo ministro della Romania. L’annuncio arriva in un periodo di stallo per il Paese, appena uscito dalle turbolenti elezioni presidenziali che hanno accentuato la divisione in Romania. Il governo di Bolojan, la cui composizione non è ancora stata annunciata, chiederà la fiducia la prossima settimana. Esso dovrebbe godere dell’appoggio di diverse forze politiche, che, secondo quanto comunicano i media, si sarebbero accordate di cambiare la guida del governo prima della fine della legislatura, ruotando di volta in volta i partiti al vertice.
Matariki: reportage dal Capodanno Maori in Nuova Zelanda
Monte Mauao, Nuova Zelanda – Prima dell’alba, il sentiero che sale il monte – luogo sacro per i Māori, il popolo originario della Nuova Zelanda – si riempie di torce, lanterne e telefoni. Una processione contemporanea, a metà tra una veglia spirituale e un’escursione domenicale. Mauao non nasce in mezzo ad altre montagne, ma svetta solitario in una penisola pianeggiante. Come un bernoccolo. Un promontorio improvviso, quasi fuori posto, che nonostante i soli 232 metri cattura lo sguardo e l’immaginazione.
Una leggenda tribale, difatti, narra che Mauao, un tempo, era una giovane collinetta innamorata di una montagna già promessa ad altri. Disperata, chiese ai patupaiarehe – spiriti soprannaturali delle colline – di portarla fino al mare per lasciarsi morire. Mentre la trasportavano, l’alba li colse: e poiché questi spiriti temono la luce del sole, la abbandonarono. Così la collina fu pietrificata per sempre nel punto in cui si trova oggi. È questa la storia che spiegherebbe la sua presenza isolata da altri rilievi e la celebrazione che si svolgerà a breve sulla sua cima.
Alle cinque e mezza del mattino, sui suoi versanti, le prime genti già arrancano e borbottano: chi per l’emozione, chi per il freddo dell’inverno australe, chi solo perché non ha dormito abbastanza. Alcuni sembrano cercare qualcosa, altri scattano selfie nel buio. È l’alba del nuovo anno Māori, ma a tratti sembra solo un raduno da weekend, con più giacche tecniche e torce frontali che consapevolezza del sacro.
Dove finisce la terra e comincia il mito
Il cielo, però, non sbaglia. Come ogni anno, a cavallo tra giugno e luglio, fa capolino Matariki, il gruppo stellare conosciuto come Pleiadi, che nel calendario lunare māori segna l’inizio di un nuovo ciclo. Quest’anno cade il 20 giugno, ma essendo legato all’osservazione astronomica, Matariki non ha una data fissa: la sua celebrazione varia di anno in anno, a seconda del momento esatto in cui le stelle tornano visibili all’alba. È il cielo, non l’orologio, a decidere quando è tempo di ricominciare.
Secondo la mitologia, Matariki è composta da sette o nove stelle, a seconda delle tradizioni tramandate dalle diverse tribù. Ognuna di esse custodisce un significato profondo, legato alla terra, all’acqua, al nutrimento, al ricordo degli antenati. La leggenda racconta di sorelle celesti che solcano il cielo insieme: nella versione più diffusa, Matariki è la madre, seguita dalle sue otto figlie, ognuna con il compito di vegliare sul mondo naturale e su quello spirituale. Si tratta di un gruppo di stelle noto anche come Pleiadi, visibile in tutto il mondo, situato nella spalla della costellazione del Toro. Una costellazione che in Europa passa quasi inosservata, ma che qui accende cerimonie, preghiere e nuove promesse.
Dal 2022, dopo anni di lotte e pressioni culturali, il governo neozelandese l’ha finalmente riconosciuta come festività nazionale. Ma molti ancora non ne comprendono davvero il senso. O peggio: non gli importa affatto. Presto lo capisco anch’io: tra il buio e il fiato corto della salita, qualcuno mi urta cercando di superarmi in fretta. Non c’è rispetto né scuse, solo il ritmo di chi vuole arrivare in cima prima degli altri, come se ci fosse un premio. Capisco che non tutti sono qui per lo stesso motivo. Per alcuni è Matariki, per altri è solo un’altra escursione a sfondo culturale.
Due 4×4 messe a disposizione dal Comune raggiungono la vetta, trasportando gli anziani delle comunità. Nessuna ostentazione. Solo un modo semplice e dignitoso per permettere anche a chi non ha più gambe forti di essere presente. Io sono in piedi poco distante, li osservo sedersi su sedie di plastica sistemate alla bell’e meglio. Parlano in inglese e commentano con sarcasmo l’affluenza: «Una volta, prima del Covid, non c’era tutta questa gente… ora sembra un concerto», dice uno. Ridono, ma non troppo. È chiaro che non tutto è gradito.
In cima ci attende l’Ātea-ā-Rangi, la pietra sacra che funziona come una bussola stellare, progettata secondo la tradizione navigazionale māori, usata per orientarsi grazie alla posizione delle stelle.
La cerimonia comincia. Si chiama Matariki Maumaharatanga, il rituale del ricordo. Jack Thatcher – navigatore, educatore, ostinato difensore delle tradizioni – prende la parola. Lo fa quasi esclusivamente in te reo Māori, la lingua polinesiana tradizionale di qui, oggi riconosciuta come una delle lingue ufficiali della Nuova Zelanda. Dopo decenni di repressione coloniale – in cui parlarla era vietato – te reo Māori è oggi oggetto di una forte rinascita culturale e identitaria. Ancora pochissimi neozelandesi oggi la sanno parlare; ecco che, soprattutto durante eventi come questo parlare Māori si trasforma in un atto di resistenza culturale. Chi non la parla, non può intendere. Chi capisce, si commuove.
Jack racconta, in una delle poche frasi tradotte, che quella pietra sacra non doveva neppure esserci. Il comune aveva dato un secco “no”. Allora lui l’ha messa lo stesso, ma ai piedi del Monte sacro. Poi il comune, forse attratto dall’idea di attrarre nuovi turisti, ha ceduto. Oggi quella pietra è al centro del cerchio, in cima a Mauao. Nessun simbolo più adatto.
Dopo alcuni canti e preghiere, uno ad uno, si fa la fila per sussurrare i nomi dei propri morti alla pietra di pounamu, una giada verde tipica della Nuova Zelanda. È un momento potente, eppure fragile. Intorno, qualcuno ride, qualcuno scrolla TikTok. Il sacro e il futile si sfiorano. Ma il cielo, testardo, continua a splendere.
Una festa, due mondi
All’alba, la festa scende a valle. Le strade si riempiono di eventi, bambini, camioncini di street food che vendono hāngī – il piatto tipico Māori cotto sotto terra fra le pietre roventi. Si celebra, si mangia, si chiacchiera. E si dimentica in fretta.
Un uomo di origine inglese, mi dice che non ha ben chiaro che cosa sia Matariki. «Non è la mia cultura», mi dice, sorseggiando caffè come fosse la cosa più naturale del mondo. Lo rispetto. Ma intanto mi domando cosa significhi colonizzare un Paese e ignorarne l’anima. Per molti Pākehā – i neozelandesi bianchi – Matariki è solo un altro giorno di vacanza. Un’occasione per uscire, bere qualcosa. Un tempo per non lavorare, non per ricordare. E così, la festa che dovrebbe unire, a volte rivela solo la distanza.
Un giovane Māori, invece, mi racconta del nonno che lo portava lontano dalle luci della città, sulle isole che affacciano la Baia del Plenty, dove il buio era ancora abbastanza profondo da svelare l’universo intero. Là, in silenzio, osservavano le stelle sorgere all’orizzonte, senza altro suono che quello del respiro. «All’epoca non c’erano turisti con fotocamere o telefoni a filmare tutto», dice con un sorriso tagliente, più rassegnato che nostalgico. Gli credo. Anch’io ho una reflex nello zaino pronta a scattare, ma scelgo di non sguainarla. È il motivo per il quale, a questo scritto, non seguirà alcuna fotografia. Certi riti vanno vissuti e rispettati, senza filtri, senza click.
Alla fine, resta la sensazione di aver sfiorato qualcosa che non ci appartiene del tutto. Un sapere antico che resiste, malgrado il folklore, l’ipocrisia istituzionale e le mode da cartolina. Le stelle, almeno loro, continuano a tornare. E noi, che ancora non sappiamo bene se ascoltarle o fotografarle, forse possiamo almeno imparare a fermarci. Matariki non chiede applausi. Chiede silenzio. Ma qui, anche quello ormai è diventato un lusso.
Ancora bombardamenti tra Israele e Iran
Siamo entrati nell’ottavo giorno consecutivo di bombardamenti tra Israele e Iran. Oggi Israele ha reiterato i bombardamenti sugli obiettivi nucleari iraniani, prendendo di mira la casa di uno scienziato della Repubblica Islamica a Teheran e la città di Ahwaz, situata a 70 chilometri da uno stabilimento; ancora ignoti danni e feriti. L’Iran, invece, ha lanciato un bombardamento sul porto di Haifa, Be’er Sheva, Tel Aviv e Gerusalemme, ferendo 17 persone. Intanto a Ginevra è iniziato il vertice fra diplomatici iraniani e occidentali, a cui partecipano il ministro degli Esteri iraniano e quelli di Regno Unito, Francia e Germania, nonché l’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE.
9 Paesi UE chiedono il boicottaggio delle colonie israeliane illegali: Italia muta
Nove Paesi membri dell’Unione Europea hanno chiesto alla Commissione UE di elaborare proposte legislative per interrompere il commercio con gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. Il documento, indirizzato all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Kaja Kallas, è stato firmato dai ministri degli Esteri di Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. L’iniziativa fa riferimento a un parere consultivo emesso nel luglio 2024 dalla Corte internazionale di giustizia, secondo cui l’occupazione israeliana e la costruzione di insediamenti nei territori palestinesi violano il diritto internazionale. Ancora una volta tra i firmatari non risulta l’Italia, che con il governo Meloni si conferma alleata di ferro di Israele in Europa.
La posizione dei nove Paesi riflette una crescente pressione affinché le politiche commerciali dell’UE siano coerenti con il diritto internazionale e i diritti umani. Nel testo della lettera, i nove ministri degli Esteri scrivono: «Non abbiamo visto alcuna proposta per avviare discussioni su come interrompere in modo efficace il commercio di beni e servizi con gli insediamenti illegali». Per questo, aggiungono, è necessario che «la Commissione europea sviluppi proposte di misure concrete per garantire il rispetto da parte dell’Unione degli obblighi individuati dalla Corte». Il ministro degli Esteri belga, Maxime Prévot, promotore dell’iniziativa, ha evidenziato come la Corte abbia indicato chiaramente che i Paesi debbano astenersi da qualsiasi attività economica che possa rafforzare l’illegalità della situazione nei territori occupati. Su X, Prévot ha dichiarato: «Il rispetto del diritto internazionale è una responsabilità condivisa. In un ordine internazionale basato su regole, la chiarezza giuridica deve guidare le scelte politiche. Un approccio europeo unito può contribuire a garantire che le nostre politiche riflettano i nostri valori».
Il tema sarà discusso lunedì prossimo al Consiglio Affari Esteri a Bruxelles, dove i ministri valuteranno anche la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele, avviata alla luce della crisi a Gaza. Secondo quanto dichiarato da un portavoce della Commissione durante un briefing, «la revisione è stata ed è ancora in corso» e sarà «il prossimo Consiglio la sede opportuna per discuterne». Attualmente, l’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele, con un volume di scambi pari a 42,6 miliardi di euro nel 2023. Tuttavia, non è chiaro quanta parte di questo commercio coinvolga beni e servizi provenienti dagli insediamenti. La proposta dei nove Stati punta dunque anche a fare chiarezza su questo aspetto e a impedire che i fondi europei sostengano indirettamente l’occupazione israeliana.
Il documento su cui si basa questa iniziativa è il parere espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), che nel luglio dello scorso anno ha stabilito che gli insediamenti israeliani in Palestina violano il diritto internazionale. Il parere della Corte, che non è vincolante – come invece lo sono le risoluzioni ONU al riguardo, che hanno già determinato che l’occupazione israeliana è illegale -, era giunto in seguito una richiesta avanzata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022, che aveva chiesto alla Corte di esprimersi in merito alle «conseguenze legali della continua violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione palestinese, dalla prolungata occupazione, insediamento e annessione dei Territori Palestinesi occupati dal 1967», inclusa Gerusalemme, e dell’adozione, da parte di Tel Aviv, di «leggi e misure discriminatorie» e in che modo tali pratiche «influiscono sullo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite».
Nonostante le crescenti denunce da parte della società civile e il crollo di consenso verso Israele in tutta Europa – con la popolazione italiana tra quelle in assoluto più critiche secondo un recente sondaggio YouGov – il governo italiano continua così a distinguersi per la propria incondizionata fedeltà allo Stato ebraico. Precedentemente, Roma si era opposta alla revisione del trattato di associazione UE-Israele, chiesta da dieci Paesi europei dopo mesi di appelli e alla luce delle gravi violazioni commesse da Israele a Gaza, e aveva rinnovato in automatico il memorandum militare con Tel Aviv, nonostante i rilievi di costituzionalità sollevati da numerosi giuristi. Questo scollamento tra istituzioni e opinione pubblica è sempre più marcato: mentre il Parlamento italiano boccia sistematicamente ogni iniziativa per il riconoscimento dello Stato di Palestina, un’ampia fetta della popolazione esprime invece totale disapprovazione per le azioni dello Stato Ebraico in Medio Oriente.
Regno Unito: attivisti danneggiano due aerei
Gli attivisti filo-palestinesi di Palestine Action hanno fatto irruzione in una base della Royal Air Force nell’Inghilterra centrale, danneggiando e imbrattando due aerei utilizzati per il rifornimento e il trasporto. La notizia arriva dalla stessa Palestine action che ha condiviso un video dell’azione sui propri canali social. Da quanto comunica il gruppo, due attivisti sono entrati nella base di Brize Norton, nell’Oxfordshire, imbrattando di vernice i motori degli aerei e danneggiandoli ulteriormente con dei piedi di porco. Qualche ora dopo, a Manchester, altri membri del gruppo hanno ricoperto di vernice le sedi dell’azienda tecnologica CDW e della compagnia assicurativa Allianz, che collaborano con l’azienda bellica israeliana Elbit.