martedì 1 Luglio 2025
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Ancora bombardamenti tra Israele e Iran

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Siamo entrati nell’ottavo giorno consecutivo di bombardamenti tra Israele e Iran. Oggi Israele ha reiterato i bombardamenti sugli obiettivi nucleari iraniani, prendendo di mira la casa di uno scienziato della Repubblica Islamica a Teheran e la città di Ahwaz, situata a 70 chilometri da uno stabilimento; ancora ignoti danni e feriti. L’Iran, invece, ha lanciato un bombardamento sul porto di Haifa, Be’er Sheva, Tel Aviv e Gerusalemme, ferendo 17 persone. Intanto a Ginevra è iniziato il vertice fra diplomatici iraniani e occidentali, a cui partecipano il ministro degli Esteri iraniano e quelli di Regno Unito, Francia e Germania, nonché l’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE.

Bologna, 10mila operai bloccano la Tangenziale: col dl-Sicurezza fioccano le denunce

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A Bologna diecimila operai sono scesi in piazza, facendo irruzione sulla Tangenziale. Il serpentone ha percorso un chilometro e mezzo prima di abbandonare l’autostrada e dirigersi al Parco Nord, per assistere al comizio congiunto dei sindacati confederali — CGIL, UIL e CISL — che nella giornata odierna hanno mobilitato i metalmeccanici per chiedere il rinnovo dei contratti nazionali, scaduti da oltre un anno. In una nota, la Questura di Bologna ha affermato che il corteo non ha seguito il percorso concordato, aggiungendo che “i dimostranti verranno denunciati penalmente, anche alla luce della recente normativa introdotta dal Decreto Sicurezza in materia di blocchi stradali”. Soltanto poche settimane fa i metalmeccanici erano scesi in piazza, insieme ad altri segmenti della società civile, per protestare contro l’approvazione della stretta repressiva voluta dal governo Meloni. Adesso rischiano fino a due anni di reclusione.

Questa mattina a Bologna, al presidio convocato dalle sigle confederali, si sono presentate 10mila tute blu. Il corteo partito dal Parco Nord ha percorso un tratto di via Stalingrado prima di imboccare la rampa della Tangenziale, all’ingresso 7. Gli operai hanno così invaso le corsie, bloccando il traffico per circa un’ora, prima di tornare al Parco Nord. La polizia ha scortato il serpentone senza cariche o respingimenti con l’uso della forza. Una scelta — scrive la Questura di Bologna — volta a “scongiurare il verificarsi di ulteriori situazioni di pericolo”. Da Piazza Galileo Galilei fanno sapere che i manifestanti saranno comunque denunciati per l’iniziativa sulla Tangenziale (azione che, secondo gli organizzatori, era stata invece preventivamente concordata con la Questura). Il nuovo decreto Sicurezza ha infatti reso il blocco stradale un reato e non più un illecito amministrativo. In caso di iniziativa individuale si rischia un mese di reclusione o una multa fino a 300 euro. Se il blocco è commesso invece da più persone — come avvenuto oggi a Bologna — la pena aumenta, arrivando fino a due anni di reclusione.

Lo sciopero nazionale in programma per oggi ha portato in strada decine di migliaia di persone in tutta Italia, tra manifestazioni, presidi e cortei. I sindacati di base — USB, Cobas e SGB — hanno indetto una mobilitazione generale di 24 ore, che ha colpito soprattutto il settore dei trasporti, tra ritardi e cancellazioni, con lo slogan: «Alzate i salari, abbassate le armi». Si sono registrati disagi in decine di città, tra cui Roma, dove un treno su quattro è stato cancellato. I centri dello sciopero indetto dai confederali, oltre a Bologna, sono stati Napoli e Mestre, che hanno ospitato i comizi dei leader sindacali e hanno visto scendere in piazza migliaia di metalmeccanici, uniti nella richiesta di aumenti salariali, riduzione dell’orario lavorativo e maggiore sicurezza.

9 Paesi UE chiedono il boicottaggio delle colonie israeliane illegali: Italia muta

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Nove Paesi membri dell’Unione Europea hanno chiesto alla Commissione UE di elaborare proposte legislative per interrompere il commercio con gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. Il documento, indirizzato all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Kaja Kallas, è stato firmato dai ministri degli Esteri di Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. L’iniziativa fa riferimento a un parere consultivo emesso nel luglio 2024 dalla Corte internazionale di giustizia, secondo cui l’occupazione israeliana e la costruzione di insediamenti nei territori palestinesi violano il diritto internazionale. Ancora una volta tra i firmatari non risulta l’Italia, che con il governo Meloni si conferma alleata di ferro di Israele in Europa.

La posizione dei nove Paesi riflette una crescente pressione affinché le politiche commerciali dell’UE siano coerenti con il diritto internazionale e i diritti umani. Nel testo della lettera, i nove ministri degli Esteri scrivono: «Non abbiamo visto alcuna proposta per avviare discussioni su come interrompere in modo efficace il commercio di beni e servizi con gli insediamenti illegali». Per questo, aggiungono, è necessario che «la Commissione europea sviluppi proposte di misure concrete per garantire il rispetto da parte dell’Unione degli obblighi individuati dalla Corte». Il ministro degli Esteri belga, Maxime Prévot, promotore dell’iniziativa, ha evidenziato come la Corte abbia indicato chiaramente che i Paesi debbano astenersi da qualsiasi attività economica che possa rafforzare l’illegalità della situazione nei territori occupati. Su X, Prévot ha dichiarato: «Il rispetto del diritto internazionale è una responsabilità condivisa. In un ordine internazionale basato su regole, la chiarezza giuridica deve guidare le scelte politiche. Un approccio europeo unito può contribuire a garantire che le nostre politiche riflettano i nostri valori».

Il tema sarà discusso lunedì prossimo al Consiglio Affari Esteri a Bruxelles, dove i ministri valuteranno anche la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele, avviata alla luce della crisi a Gaza. Secondo quanto dichiarato da un portavoce della Commissione durante un briefing, «la revisione è stata ed è ancora in corso» e sarà «il prossimo Consiglio la sede opportuna per discuterne». Attualmente, l’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele, con un volume di scambi pari a 42,6 miliardi di euro nel 2023. Tuttavia, non è chiaro quanta parte di questo commercio coinvolga beni e servizi provenienti dagli insediamenti. La proposta dei nove Stati punta dunque anche a fare chiarezza su questo aspetto e a impedire che i fondi europei sostengano indirettamente l’occupazione israeliana.

Il documento su cui si basa questa iniziativa è il parere espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), che nel luglio dello scorso anno ha stabilito che gli insediamenti israeliani in Palestina violano il diritto internazionale. Il parere della Corte, che non è vincolante – come invece lo sono le risoluzioni ONU al riguardo, che hanno già determinato che l’occupazione israeliana è illegale -, era giunto in seguito una richiesta avanzata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022, che aveva chiesto alla Corte di esprimersi in merito alle «conseguenze legali della continua violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione palestinese, dalla prolungata occupazione, insediamento e annessione dei Territori Palestinesi occupati dal 1967», inclusa Gerusalemme, e dell’adozione, da parte di Tel Aviv, di «leggi e misure discriminatorie» e in che modo tali pratiche «influiscono sullo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite».

Nonostante le crescenti denunce da parte della società civile e il crollo di consenso verso Israele in tutta Europa – con la popolazione italiana tra quelle in assoluto più critiche secondo un recente sondaggio YouGov – il governo italiano continua così a distinguersi per la propria incondizionata fedeltà allo Stato ebraico. Precedentemente, Roma si era opposta alla revisione del trattato di associazione UE-Israele, chiesta da dieci Paesi europei dopo mesi di appelli e alla luce delle gravi violazioni commesse da Israele a Gaza, e aveva rinnovato in automatico il memorandum militare con Tel Aviv, nonostante i rilievi di costituzionalità sollevati da numerosi giuristi. Questo scollamento tra istituzioni e opinione pubblica è sempre più marcato: mentre il Parlamento italiano boccia sistematicamente ogni iniziativa per il riconoscimento dello Stato di Palestina, un’ampia fetta della popolazione esprime invece totale disapprovazione per le azioni dello Stato Ebraico in Medio Oriente.

Regno Unito: attivisti danneggiano due aerei

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Gli attivisti filo-palestinesi di Palestine Action hanno fatto irruzione in una base della Royal Air Force nell’Inghilterra centrale, danneggiando e imbrattando due aerei utilizzati per il rifornimento e il trasporto. La notizia arriva dalla stessa Palestine action che ha condiviso un video dell’azione sui propri canali social. Da quanto comunica il gruppo, due attivisti sono entrati nella base di Brize Norton, nell’Oxfordshire, imbrattando di vernice i motori degli aerei e danneggiandoli ulteriormente con dei piedi di porco. Qualche ora dopo, a Manchester, altri membri del gruppo hanno ricoperto di vernice le sedi dell’azienda tecnologica CDW e della compagnia assicurativa Allianz, che collaborano con l’azienda bellica israeliana Elbit.

Contro la guerra e il riarmo: domani due grandi cortei a Roma

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È confermato che a Roma, domani (sabato 21/6), a partire dalle ore 14, si terranno ben due cortei contro guerre e riarmo: uno partirà da Porta San Paolo e l’altro da Piazza Vittorio, con punti di arrivo ravvicinatissimi – Piazza del Colosseo e Fori Imperiali.

Questa settimana sono infatti fallite le trattative per arrivare a una piattaforma condivisa e a un corteo unico, nonostante l’impegno dei due gruppi promotori a raggiungere un’intesa sulle rivendicazioni principali, in particolare su quanto queste dovessero essere “essenziali” o “particolareggiate”.

Così, da San Paolo si marcerà «contro il riarmo» – quello voluto dalla Commissione Europea, punto e basta. Anche chi parte da Piazza Vittorio dirà «NO» alla spesa di 800 miliardi per gli strumenti di morte voluta dalla baronessa von der Leyen, ma con l’aggiunta di altri due altolà: «NO» alla richiesta della NATO di spendere il 5% del PIL in armamenti e «NO» alla permanenza dell’Italia nella NATO – punto che i promotori del primo corteo, invece, considerano divisivo.

Da San Paolo si marcerà «contro il genocidio», senza ulteriori specificazioni, mentre da Piazza Vittorio i manifestanti chiederanno – oltre alla condanna del genocidio perpetrato da Israele a Gaza e in Cisgiordania – di rompere le relazioni diplomatiche e militari tra l’Italia e Israele, di sostenere la Resistenza palestinese e di promuovere la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per penalizzare Israele economicamente.

Da San Paolo si marcerà contro l’autoritarismo, con un ovvio riferimento al cosiddetto «decreto sicurezza», recentemente trasformato in legge. Idem da Piazza Vittorio, ma con l’aggiunta della richiesta di abrogare non solo quella legge, ma anche tutte le altre norme anti-protesta e antisindacali, volute dall’attuale governo e da quelli precedenti: norme definite «guerra sporca contro i movimenti sociali».

In pratica, i promotori del corteo da San Paolo hanno ricercato soprattutto una piattaforma inclusiva e quindi meno particolareggiata. Chi sono costoro? Dietro la sigla Stop Rearm Italia ci sono più di quattrocento associazioni e organizzazioni della società civile, come ARCI, Rete dei Numeri Pari e Rete No Bavaglio, con l’adesione esterna del M5S, di AVS e di una parte del PD.

Invece, tra i promotori del corteo che parte da Piazza Vittorio, riuniti dietro la sigla Disarmiamoli!, figurano diverse formazioni della “sinistra sinistra”, come Potere al Popolo, Unione Sindacale di Base, Patria Socialista, Rete dei Comunisti, Generazioni Future e ben tre associazioni di Palestinesi in Italia. Hanno preferito una piattaforma più specifica e politicamente più impegnativa.

«Infatti, essere generici fa perdere di vista le rivendicazioni che invece dobbiamo proclamare ad alta voce», dice Giorgio Cremaschi di Disarmiamoli!; «niente riarmo ma anche niente NATO, niente genocidio ma anche niente rapporti con Israele, basta con l’autoritarismo della legge sulla ‘‘Sicurezza’’ ma basta anche con le altre norme bavaglio!»

«Invece solo se ci muoviamo in modo convergente, in Italia e in Europa, possiamo farcela», ribatte Raffaela Bolini di Stop Rearm Italia; «solo insieme possiamo avere la forza che serve».

E per far capire quanto il riarmo sia inevitabilmente il preludio alla guerra, Bolini lancia la proposta di inscenare un die-in (la simulazione di una ecatombe) intorno al Colosseo: chiede ai manifestanti di portare un lenzuolo da stendere per terra e, a un segnale sonoro, di sdraiarvisi sopra, per rievocare i morti e la devastazione che le guerre causano tra tutti i contendenti.

Si prevede un’adesione massiccia ai due cortei che approderanno entrambi nel cuore della Roma antica. Infatti, Stop Rearm Italia e Disarmiamoli! hanno già annunciato decine di pullman in arrivo da tutta Italia – anzi, entrambe le formazioni hanno difficoltà a reperire abbastanza pullman, tante sono le richieste. «In fondo, l’esistenza di un doppio corteo può anche essere vista in positivo, come una bella incentivazione a partecipare, perché dà una possibilità di scelta alla gente,» dice Gianni Magini di Allerta Media, che seguirà in diretta l’evento. «Chi preferisce le rivendicazioni concrete di Disarmiamoli! può optare per Piazza Vittorio alle ore 14. Chi invece preferisce la piattaforma ‘‘inclusiva’’ di Stop Rearm Italia, può scegliere di partire da Porta San Paolo alla stessa ora.

Intanto, tutti quanti confluiranno, all’arrivo, nel medesimo cuore della Roma antica, un ravvicinamento che – ci auguriamo – possa proseguire nelle future iniziative dei due gruppi promotori.

Congo, crollo in una miniera di coltan: 12 morti

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Il crollo di una miniera di coltan nella provincia del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo orientale, ha provocato ieri la morte di almeno 12 persone. Lo hanno riferito oggi fonti della società civile, rendendo noto che decine di altre persone sono fuggite dalla miniera in seguito al crollo. Ancora non chiare le cause dell’incidente. Le piccole miniere artigianali attorno alla città di Rubaya producono circa un sesto della fornitura mondiale di coltan, un minerale metallico essenziale per la produzione di smartphone e altri dispositivi elettronici. I ribelli dell’M23 controllano la zona dalla metà del 2024.

Il Garante ha fatto richieste precise al governo per risolvere l’emergenza carceri

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I garanti dei detenuti hanno inoltrato diverse richieste al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per cambiare il modo in cui vengono trattati i carcerati e migliorarne le condizioni di detenzione. Le istanze sono sfociate dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, tenutasi a Roma nella giornata di mercoledì. Nello specifico, i garanti hanno chiesto che venga assicurato ai detenuti il diritto ad accedere ai colloqui intimi, che le celle vengano lasciate aperte durante il giorno, che venga garantita l’ora d’aria tutti i giorni evitando le ore di caldo cocente (tra le 13 e le 15) e, specialmente, l’indulto per 16mila persone attualmente ristrette in carcere per reati minori.

Attualmente i Garanti territoriali sono 93, nominati da Regioni, Province e Comuni. A guidare l’assemblea è stato il portavoce della Conferenza, il Garante campano Samuele Ciambriello, che ha introdotto i lavori dando la parola ai colleghi delle varie realtà locali. Al centro del confronto, le condizioni emergenziali degli istituti penitenziari e l’urgente necessità di provvedimenti strutturali e immediati. Un primo tema affrontato è stato quello dei colloqui intimi tra le persone detenute e i propri partner, previsti dalle recenti linee guida del Dap. Tuttavia, «ne è emerso un quadro desolante»: fatta eccezione per il carcere di Terni, da cui è scaturita la storica sentenza della Corte costituzionale n.10 del 26 gennaio 2024, nessun altro istituto ha garantito la possibilità di colloqui riservati. «Ci sono state quattro sentenze di magistrati di sorveglianza che hanno intimato di permettere subito incontri intimi», ha ricordato Ciambriello, ma in molti casi queste indicazioni sono rimaste lettera morta. I Garanti denunciano l’inutilità dell’attuale e complessa attività istruttoria prevista per autorizzare i colloqui, anche quando si tratta di partner storici. Per questo si preparano a chiedere una revisione delle linee guida del Dap, nella parte relativa a durata e modalità degli incontri affettivi. Il diritto alla vita affettiva, sostengono, è parte integrante del percorso rieducativo e il suo mancato riconoscimento contribuisce al degrado psicologico dei detenuti.

A preoccupare i Garanti è poi l’annosa questione dei suicidi in carcere, che nel solo 2024 hanno toccato numeri record. Con l’obiettivo di evitarne altri, i Garanti chiedono l’introduzione di una serie di misure: sospensione delle circolari che impongono la chiusura nelle celle per venti ore al giorno, apertura degli spazi detentivi durante il giorno e accesso all’aria anche dopo le 16, non solo dalle 13 alle 15, quando le temperature sono molto alte. Rispetto al tema del sovraffollamento, la Conferenza ha ribadito la necessità di una riduzione immediata della popolazione detenuta, stimata in almeno 16mila unità. «La via maestra resta quella di un provvedimento di clemenza che comprenda un indulto nella misura di due anni». Se l’indulto non fosse politicamente attuabile, i Garanti propongono una liberazione anticipata speciale.

La drammatica situazione nelle carceri italiane è stata delineata da un recente rapporto dell’associazione Antigone, che ha appurato come, a fronte di una capienza reale di 46.700 posti, al 30 aprile 2025 i detenuti sono 62.445, facendo registrare un tasso di sovraffollamento medio del 133%. Secondo il report, solo 36 istituti su 189 non sono sovraffollati, mentre in 58 il tasso supera il 150%. Il 2024 è stato l’anno peggiore di sempre per i suicidi in carcere, con 91 morti, mentre nei soli primi cinque mesi del 2025 se ne sono verificati 33. Anche le carceri minorili registrano criticità: 611 giovani detenuti, +54% in due anni. Il decreto Caivano ha favorito il trasferimento punitivo di neomaggiorenni negli istituti per adulti (189 casi nel 2024). Inoltre, Antigone ha denunciato gli effetti del decreto Sicurezza, che abolisce l’obbligo di rinviare la detenzione per madri con figli piccoli e introduce la possibilità di separarli.

Los Angeles, Corte d’Appello: Trump può schierare Guardia Nazionale

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La Corte d’Appello del Nono Circuito degli USA ha autorizzato Donald Trump a mantenere il controllo della Guardia Nazionale a Los Angeles, respingendo il ricorso del governatore Gavin Newsom. La decisione ribalta la precedente sentenza di un tribunale inferiore, legittimando l’intervento federale in occasione delle proteste contro le politiche migratorie, nonostante l’assenza di preavviso al governatore. I giudici hanno ritenuto «sufficienti» le prove fornite dall’amministrazione, citando i rischi per agenti e strutture federali. Newsom ha criticato il verdetto come un colpo alla sovranità statale, ma ha apprezzato il riconoscimento della necessità di controllo giudiziario sulle azioni presidenziali.

Come i media celebrano gli attacchi israeliani all’Iran come una lotta contro il “male”

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C’era una volta la fiaba dell’aggressore e dell’aggredito. C’era una volta il principio basilare del giornalismo: riportare i fatti, verificarli, contestualizzarli. Questo avveniva in illo tempore, prima che la deontologia si schiantasse contro il muro dell’ideologia. Oggi la stampa italiana ha archiviato anche l’ultimo brandello di decenza professionale, per trasformarsi in un megafono entusiasta della guerra preventiva di Israele contro l’Iran, avallando la retorica bellicista di Tel Aviv come se stesse raccontando la finale di Champions League.

Vediamo velocemente alcuni esempi:

  • Bombe democratiche. Israele attacca l’Iran. Guerra al male. Un avvertimento ai regimi in nome della democrazia (Il Giornale, 14 giugno 2025);
  • Guerra inevitabile: Israele si difende e fa il lavoro sporco anche per noi (Il Giornale, 15 giugno);
  • Liberaci dal male e Guerra Iran-Israele ‘durerà almeno due settimane’: Netanyahu stronca la spina dorsale del regime di Khamenei (Il Riformista, 14 giugno);
  • Uccidere Khamenei. Netanyahu: ‘Abbiamo il controllo dei cieli, senza l’ayatollah la guerra finisce’ (Repubblica, versione cartacea, 18 giugno 2025);
  • Finalmente! L’Iran delle belve sta per cadere! (Libero, versione cartacea, 18 giugno).

E si potrebbe continuare all’infinito. Basta una veloce carrellata per osservare come in questi giorni i quotidiani italiani abbiano archiviato ogni parvenza di obiettività e si siano accodati, come megafoni di guerra, alle voci politiche, abbracciando la causa dell’aggressore (Israele), per deprecare, se non addirittura plaudire, alla malasorte dell’aggredito (l’Iran).

Presentando le azioni militari “preventive” di Tel Aviv come una missione di liberazione morale e politica, i mezzi di (dis)informazione di massa giustificano il conflitto e auspicano apertamente l’intervento americano e il cambio di regime iraniano. La narrazione è ormai talmente smaccata da far impallidire perfino i manuali di propaganda bellica: Israele agisce “per difesa preventiva” contro un Iran demonizzato a uso e consumo di un pubblico infantilizzato, da anni nutrito a suon di slogan sulla fantomatica “minaccia nucleare iraniana” – una minaccia, per inciso, smentita persino dall’intelligence americana e dall’AIEA.

Ma la verifica delle fonti è roba da vecchi cronisti: oggi vige la cronaca a tifo sfrenato, che ribalta la realtà se questa osa non accordarsi ai desiderata di Tel Aviv e dei suoi menestrelli.

Pensiamo a la Repubblica: «Uccidere Khamenei». Titolo da prima pagina, degno di un manifesto bellico, non di un quotidiano che pretende ancora di essere autorevole. In un’Italia dove il giornalismo è ormai ancella della geopolitica occidentale, la testata sdogana l’idea dell’omicidio mirato di un Capo di Stato come se fosse il gol della vittoria ai supplementari.

Nel sottotitolo: «Abbiamo il controllo dei cieli, senza l’Ayatollah la guerra finisce» – parole di Netanyahu, riprese senza contraddittorio, senza contestualizzazione, senza il minimo sforzo di problematizzazione. Anzi, con una compiacenza che gronda ammirazione per la presunta onnipotenza israeliana.

La violenza verbale nel trattare il conflitto tra Israele e Iran si riverbera in quasi tutte le testate mainstream, come se fossero l’appendice di un giornale unico. Veniamo così al giornalismo da curva sud.

Libero, per esempio, usa un linguaggio emotivo e polarizzante, descrivendo l’Iran come un regime brutale (“belve”) e celebrando la sua presunta caduta come un risultato positivo delle azioni israeliane. Il quotidiano presenta il conflitto in maniera manichea, come una lotta tra il bene (Israele) e il male (Iran), finendo per esultare come un hooligan: finalmente, le “belve” iraniane stanno per essere annientate.

Niente analisi geopolitica, niente domande su cause, conseguenze, legittimità, diritto internazionale: solo giubilo tribale. Il messaggio è netto: Israele bombarda? Bene. Più bombe, più morti, più “liberazione”.

Lo stesso approccio viene usato a più riprese da il Riformista, che il 14 giugno 2025, nel pezzo Liberaci dal male, descrive gli attacchi israeliani come «attacchi chirurgici» contro il «regime sanguinario degli ayatollah, i lapidatori di donne col velo messo male». L’articolo sposa acriticamente la versione di Netanyahu e sottolinea che Israele starebbe agendo per il bene comune, liberando l’Iran da un regime oppressivo.

Non poteva mancare alla carrellata Il Foglio: La prima resa necessaria: gli utili idioti degli ayatollah(18 giugno), dove si invoca apertamente l’intervento dei bombardieri americani.

Dello stesso tono è Il Giornale che, in un’intervista di Stefano Zurlo (Guerra inevitabile. Israele si difende e fa il lavoro sporco anche per noi), presenta il giornalista Pigi Battista mentre difende le ragioni di Israele, usando il registro dell’empatia e del pietismo: «Teheran vuole l’atomica per distruggere l’entità sionista. Cosa dovrebbero fare gli ebrei, aspettare di essere sterminati?».E, intanto, a essere sterminati sono la logica e i civili iraniani. Il giorno prima è Alessandro Sallusti, sempre dalle colonne de Il Giornale, a parlare esplicitamente di «guerra al male» e di «bombe democratiche», celebrando la superiorità morale di Israele e i suoi attacchi come una lotta contro il “male” rappresentato dal regime iraniano. Le bombe diventano così “democratiche” e fungono da monito ai regimi autoritari. Orwell, scansati. Quella che una volta era chiamata “informazione” oggi assomiglia a un bollettino trionfalistico. Nessuna analisi sui motivi reali dell’attacco israeliano; nessuna discussione sulla legalità delle operazioni preventive; nessuna voce critica sul rischio che l’escalation degeneri in una guerra su larga scala in Medio Oriente. I giornali italiani sembrano funzionare come terminali secondari del portavoce IDF. L’Iran, che sta reagendo agli attacchi e non li ha avviati, viene ridotto a caricatura del Male Assoluto, pronto a essere sacrificato nel nome della “liberazione” occidentale.

La stampa, piegata e servile, recita il suo ruolo con zelo imbarazzante. Così l’Italia assiste, impotente e ormai assuefatta, allo smantellamento del giornalismo critico. La regola aurea è semplice: Israele ha sempre ragione. Chi osa dissentire viene tacciato di “antisemitismo”. E così, mentre i missili piovono su Teheran e il rischio di un conflitto mondiale si fa sempre più concreto, i nostri quotidiani sfornano titoli urlati, moralismi puerili e una totale, desolante assenza di pudore. Il quarto potere? Sepolto sotto le macerie dell’autocensura, della pavidità e della propaganda di guerra.

Depistaggi nel processo Cucchi: confermata la condanna per due carabinieri

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Si è risolto in due condanne e tre assoluzioni il processo della Corte d’Appello di Roma per il caso Cucchi, geometra romano morto a 31 anni, il 22 ottobre 2009, in seguito a un violento pestaggio mentre si trovava in custodia cautelare. Nell’ambito dell’indagine per depistaggio, i giudici hanno confermato la condanna a un anno e tre mesi per il colonnello dei carabinieri Lorenzo Sabatino e quella a due anni e mezzo per Luca De Cianni. Assolti invece Massimiliano Colombo Labriola e Tiziano Testarmata, i quali erano stati condannati in primo grado a un anno e nove mesi, mentre è stata abbassata a dieci mesi la pena a Francesco di Sano. Il tribunale ha inoltre riconosciuto la prescrizione per i reati contestati ad altri tre carabinieri.

La sentenza di secondo grado ha accolto in parte le richieste della procura generale. Nello specifico, i pm avevano sollecitato l’assoluzione di Sabatino, Francesco Di Sano e Tiziano Testarmata «perché il fatto non costituisce reato», la prescrizione per Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo e Luciano Soligo, e la conferma delle condanne per Massimiliano Colombo Labriola e De Cianni. Le accuse a vario titolo riguardano reati come falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. L’inchiesta ha portato alla luce un’azione sistematica finalizzata a ostacolare l’accertamento della verità e proteggere le responsabilità interne all’Arma. In primo grado, nel procedimento nato dall’inchiesta del pubblico ministero Giovanni Musarò, il 7 aprile 2022 erano stati condannati in primo grado tutti gli otto carabinieri imputati. «L’ampia istruttoria dibattimentale ha permesso di ricostruire i fatti contestati e di accertare un’attività di sviamento posta in essere nell’immediatezza della morte di Stefano Cucchi, volta, ad allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri per evitare le possibili ricadute sul vertice di comando del territorio capitolino», aveva messo nero su bianco il giudice monocratico Roberto Nespeca nelle motivazioni del verdetto.

La conferma delle condanne ha suscitato reazioni forti. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, ha espresso la propria soddisfazione per l’esito della sentenza. «Abbiamo lottato duramente per arrivare alla verità, contro tutto e tutti, eravamo ignari di tutto quello che avremmo dovuto affrontare. Era assolutamente inimmaginabile – ha scritto in un comunicato -. Quelli della scala gerarchica sono stati veramente bravi. Sono stati scoperti soltanto quasi dieci anni dopo mentre noi avevamo girato a vuoto nelle aule di giustizia rimediando sconfitte su sconfitte per almeno sei anni. Sono stati così bravi che, alla fine, molti di loro hanno rimediato la prescrizione e chi, improvvidamente, l’ha rinunciata, si è ritrovato oggi condannato». I legali di Riccardo Casamassima, l’appuntato dei carabinieri che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura dell’indagine, hanno commentato: «La conferma della sentenza di condanna di De Cianni ce la aspettavamo. La Corte di Appello ha ribadito una volta di più che Riccardo Casamassima è stato vittima di calunnia e di falso, così ulteriormente confermando, ma a questo punto non c’era alcun dubbio, che Casamassima, come la moglie Maria Rosati, sentito nel processo Cucchi bis disse nient’altro che la verità».

Stefano Cucchi fu fermato con in tasca 21 grammi di hashish il 15 ottobre 2009. Solo una settimana dopo, il 22 ottobre, il giovane morì all’ospedale Sandro Pertini, con il corpo martoriato da una violenta scarica di botte. In seguito ad anni di silenzi e depistaggi, si è potuto celebrare un processo che ha visto imputati i membri delle forze dell’ordine che si macchiarono del delitto. Nell’aprile del 2022 è stata pronunciata la condanna definitiva a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele d’Alessandro, mentre per i loro complici Roberto Mandolini e Francesco Tedesco è stato disposto un nuovo processo. Dopo essere stati condannati a 3 anni e 6 mesi e 2 anni e 4 mesi dalla Corte d’Assise d’appello di Roma nel luglio del 2022, poiché giudicati come colpevoli della falsificazione del verbale di arresto di Cucchi, nell’ottobre 2023 la Cassazione ha dichiarato per loro la prescrizione.