martedì 1 Luglio 2025
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Il Garante ha fatto richieste precise al governo per risolvere l’emergenza carceri

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I garanti dei detenuti hanno inoltrato diverse richieste al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per cambiare il modo in cui vengono trattati i carcerati e migliorarne le condizioni di detenzione. Le istanze sono sfociate dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, tenutasi a Roma nella giornata di mercoledì. Nello specifico, i garanti hanno chiesto che venga assicurato ai detenuti il diritto ad accedere ai colloqui intimi, che le celle vengano lasciate aperte durante il giorno, che venga garantita l’ora d’aria tutti i giorni evitando le ore di caldo cocente (tra le 13 e le 15) e, specialmente, l’indulto per 16mila persone attualmente ristrette in carcere per reati minori.

Attualmente i Garanti territoriali sono 93, nominati da Regioni, Province e Comuni. A guidare l’assemblea è stato il portavoce della Conferenza, il Garante campano Samuele Ciambriello, che ha introdotto i lavori dando la parola ai colleghi delle varie realtà locali. Al centro del confronto, le condizioni emergenziali degli istituti penitenziari e l’urgente necessità di provvedimenti strutturali e immediati. Un primo tema affrontato è stato quello dei colloqui intimi tra le persone detenute e i propri partner, previsti dalle recenti linee guida del Dap. Tuttavia, «ne è emerso un quadro desolante»: fatta eccezione per il carcere di Terni, da cui è scaturita la storica sentenza della Corte costituzionale n.10 del 26 gennaio 2024, nessun altro istituto ha garantito la possibilità di colloqui riservati. «Ci sono state quattro sentenze di magistrati di sorveglianza che hanno intimato di permettere subito incontri intimi», ha ricordato Ciambriello, ma in molti casi queste indicazioni sono rimaste lettera morta. I Garanti denunciano l’inutilità dell’attuale e complessa attività istruttoria prevista per autorizzare i colloqui, anche quando si tratta di partner storici. Per questo si preparano a chiedere una revisione delle linee guida del Dap, nella parte relativa a durata e modalità degli incontri affettivi. Il diritto alla vita affettiva, sostengono, è parte integrante del percorso rieducativo e il suo mancato riconoscimento contribuisce al degrado psicologico dei detenuti.

A preoccupare i Garanti è poi l’annosa questione dei suicidi in carcere, che nel solo 2024 hanno toccato numeri record. Con l’obiettivo di evitarne altri, i Garanti chiedono l’introduzione di una serie di misure: sospensione delle circolari che impongono la chiusura nelle celle per venti ore al giorno, apertura degli spazi detentivi durante il giorno e accesso all’aria anche dopo le 16, non solo dalle 13 alle 15, quando le temperature sono molto alte. Rispetto al tema del sovraffollamento, la Conferenza ha ribadito la necessità di una riduzione immediata della popolazione detenuta, stimata in almeno 16mila unità. «La via maestra resta quella di un provvedimento di clemenza che comprenda un indulto nella misura di due anni». Se l’indulto non fosse politicamente attuabile, i Garanti propongono una liberazione anticipata speciale.

La drammatica situazione nelle carceri italiane è stata delineata da un recente rapporto dell’associazione Antigone, che ha appurato come, a fronte di una capienza reale di 46.700 posti, al 30 aprile 2025 i detenuti sono 62.445, facendo registrare un tasso di sovraffollamento medio del 133%. Secondo il report, solo 36 istituti su 189 non sono sovraffollati, mentre in 58 il tasso supera il 150%. Il 2024 è stato l’anno peggiore di sempre per i suicidi in carcere, con 91 morti, mentre nei soli primi cinque mesi del 2025 se ne sono verificati 33. Anche le carceri minorili registrano criticità: 611 giovani detenuti, +54% in due anni. Il decreto Caivano ha favorito il trasferimento punitivo di neomaggiorenni negli istituti per adulti (189 casi nel 2024). Inoltre, Antigone ha denunciato gli effetti del decreto Sicurezza, che abolisce l’obbligo di rinviare la detenzione per madri con figli piccoli e introduce la possibilità di separarli.

Los Angeles, Corte d’Appello: Trump può schierare Guardia Nazionale

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La Corte d’Appello del Nono Circuito degli USA ha autorizzato Donald Trump a mantenere il controllo della Guardia Nazionale a Los Angeles, respingendo il ricorso del governatore Gavin Newsom. La decisione ribalta la precedente sentenza di un tribunale inferiore, legittimando l’intervento federale in occasione delle proteste contro le politiche migratorie, nonostante l’assenza di preavviso al governatore. I giudici hanno ritenuto «sufficienti» le prove fornite dall’amministrazione, citando i rischi per agenti e strutture federali. Newsom ha criticato il verdetto come un colpo alla sovranità statale, ma ha apprezzato il riconoscimento della necessità di controllo giudiziario sulle azioni presidenziali.

Come i media celebrano gli attacchi israeliani all’Iran come una lotta contro il “male”

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C’era una volta la fiaba dell’aggressore e dell’aggredito. C’era una volta il principio basilare del giornalismo: riportare i fatti, verificarli, contestualizzarli. Questo avveniva in illo tempore, prima che la deontologia si schiantasse contro il muro dell’ideologia. Oggi la stampa italiana ha archiviato anche l’ultimo brandello di decenza professionale, per trasformarsi in un megafono entusiasta della guerra preventiva di Israele contro l’Iran, avallando la retorica bellicista di Tel Aviv come se stesse raccontando la finale di Champions League.

Vediamo velocemente alcuni esempi:

  • Bombe democratiche. Israele attacca l’Iran. Guerra al male. Un avvertimento ai regimi in nome della democrazia (Il Giornale, 14 giugno 2025);
  • Guerra inevitabile: Israele si difende e fa il lavoro sporco anche per noi (Il Giornale, 15 giugno);
  • Liberaci dal male e Guerra Iran-Israele ‘durerà almeno due settimane’: Netanyahu stronca la spina dorsale del regime di Khamenei (Il Riformista, 14 giugno);
  • Uccidere Khamenei. Netanyahu: ‘Abbiamo il controllo dei cieli, senza l’ayatollah la guerra finisce’ (Repubblica, versione cartacea, 18 giugno 2025);
  • Finalmente! L’Iran delle belve sta per cadere! (Libero, versione cartacea, 18 giugno).

E si potrebbe continuare all’infinito. Basta una veloce carrellata per osservare come in questi giorni i quotidiani italiani abbiano archiviato ogni parvenza di obiettività e si siano accodati, come megafoni di guerra, alle voci politiche, abbracciando la causa dell’aggressore (Israele), per deprecare, se non addirittura plaudire, alla malasorte dell’aggredito (l’Iran).

Presentando le azioni militari “preventive” di Tel Aviv come una missione di liberazione morale e politica, i mezzi di (dis)informazione di massa giustificano il conflitto e auspicano apertamente l’intervento americano e il cambio di regime iraniano. La narrazione è ormai talmente smaccata da far impallidire perfino i manuali di propaganda bellica: Israele agisce “per difesa preventiva” contro un Iran demonizzato a uso e consumo di un pubblico infantilizzato, da anni nutrito a suon di slogan sulla fantomatica “minaccia nucleare iraniana” – una minaccia, per inciso, smentita persino dall’intelligence americana e dall’AIEA.

Ma la verifica delle fonti è roba da vecchi cronisti: oggi vige la cronaca a tifo sfrenato, che ribalta la realtà se questa osa non accordarsi ai desiderata di Tel Aviv e dei suoi menestrelli.

Pensiamo a la Repubblica: «Uccidere Khamenei». Titolo da prima pagina, degno di un manifesto bellico, non di un quotidiano che pretende ancora di essere autorevole. In un’Italia dove il giornalismo è ormai ancella della geopolitica occidentale, la testata sdogana l’idea dell’omicidio mirato di un Capo di Stato come se fosse il gol della vittoria ai supplementari.

Nel sottotitolo: «Abbiamo il controllo dei cieli, senza l’Ayatollah la guerra finisce» – parole di Netanyahu, riprese senza contraddittorio, senza contestualizzazione, senza il minimo sforzo di problematizzazione. Anzi, con una compiacenza che gronda ammirazione per la presunta onnipotenza israeliana.

La violenza verbale nel trattare il conflitto tra Israele e Iran si riverbera in quasi tutte le testate mainstream, come se fossero l’appendice di un giornale unico. Veniamo così al giornalismo da curva sud.

Libero, per esempio, usa un linguaggio emotivo e polarizzante, descrivendo l’Iran come un regime brutale (“belve”) e celebrando la sua presunta caduta come un risultato positivo delle azioni israeliane. Il quotidiano presenta il conflitto in maniera manichea, come una lotta tra il bene (Israele) e il male (Iran), finendo per esultare come un hooligan: finalmente, le “belve” iraniane stanno per essere annientate.

Niente analisi geopolitica, niente domande su cause, conseguenze, legittimità, diritto internazionale: solo giubilo tribale. Il messaggio è netto: Israele bombarda? Bene. Più bombe, più morti, più “liberazione”.

Lo stesso approccio viene usato a più riprese da il Riformista, che il 14 giugno 2025, nel pezzo Liberaci dal male, descrive gli attacchi israeliani come «attacchi chirurgici» contro il «regime sanguinario degli ayatollah, i lapidatori di donne col velo messo male». L’articolo sposa acriticamente la versione di Netanyahu e sottolinea che Israele starebbe agendo per il bene comune, liberando l’Iran da un regime oppressivo.

Non poteva mancare alla carrellata Il Foglio: La prima resa necessaria: gli utili idioti degli ayatollah(18 giugno), dove si invoca apertamente l’intervento dei bombardieri americani.

Dello stesso tono è Il Giornale che, in un’intervista di Stefano Zurlo (Guerra inevitabile. Israele si difende e fa il lavoro sporco anche per noi), presenta il giornalista Pigi Battista mentre difende le ragioni di Israele, usando il registro dell’empatia e del pietismo: «Teheran vuole l’atomica per distruggere l’entità sionista. Cosa dovrebbero fare gli ebrei, aspettare di essere sterminati?».E, intanto, a essere sterminati sono la logica e i civili iraniani. Il giorno prima è Alessandro Sallusti, sempre dalle colonne de Il Giornale, a parlare esplicitamente di «guerra al male» e di «bombe democratiche», celebrando la superiorità morale di Israele e i suoi attacchi come una lotta contro il “male” rappresentato dal regime iraniano. Le bombe diventano così “democratiche” e fungono da monito ai regimi autoritari. Orwell, scansati. Quella che una volta era chiamata “informazione” oggi assomiglia a un bollettino trionfalistico. Nessuna analisi sui motivi reali dell’attacco israeliano; nessuna discussione sulla legalità delle operazioni preventive; nessuna voce critica sul rischio che l’escalation degeneri in una guerra su larga scala in Medio Oriente. I giornali italiani sembrano funzionare come terminali secondari del portavoce IDF. L’Iran, che sta reagendo agli attacchi e non li ha avviati, viene ridotto a caricatura del Male Assoluto, pronto a essere sacrificato nel nome della “liberazione” occidentale.

La stampa, piegata e servile, recita il suo ruolo con zelo imbarazzante. Così l’Italia assiste, impotente e ormai assuefatta, allo smantellamento del giornalismo critico. La regola aurea è semplice: Israele ha sempre ragione. Chi osa dissentire viene tacciato di “antisemitismo”. E così, mentre i missili piovono su Teheran e il rischio di un conflitto mondiale si fa sempre più concreto, i nostri quotidiani sfornano titoli urlati, moralismi puerili e una totale, desolante assenza di pudore. Il quarto potere? Sepolto sotto le macerie dell’autocensura, della pavidità e della propaganda di guerra.

Depistaggi nel processo Cucchi: confermata la condanna per due carabinieri

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Si è risolto in due condanne e tre assoluzioni il processo della Corte d’Appello di Roma per il caso Cucchi, geometra romano morto a 31 anni, il 22 ottobre 2009, in seguito a un violento pestaggio mentre si trovava in custodia cautelare. Nell’ambito dell’indagine per depistaggio, i giudici hanno confermato la condanna a un anno e tre mesi per il colonnello dei carabinieri Lorenzo Sabatino e quella a due anni e mezzo per Luca De Cianni. Assolti invece Massimiliano Colombo Labriola e Tiziano Testarmata, i quali erano stati condannati in primo grado a un anno e nove mesi, mentre è stata abbassata a dieci mesi la pena a Francesco di Sano. Il tribunale ha inoltre riconosciuto la prescrizione per i reati contestati ad altri tre carabinieri.

La sentenza di secondo grado ha accolto in parte le richieste della procura generale. Nello specifico, i pm avevano sollecitato l’assoluzione di Sabatino, Francesco Di Sano e Tiziano Testarmata «perché il fatto non costituisce reato», la prescrizione per Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo e Luciano Soligo, e la conferma delle condanne per Massimiliano Colombo Labriola e De Cianni. Le accuse a vario titolo riguardano reati come falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. L’inchiesta ha portato alla luce un’azione sistematica finalizzata a ostacolare l’accertamento della verità e proteggere le responsabilità interne all’Arma. In primo grado, nel procedimento nato dall’inchiesta del pubblico ministero Giovanni Musarò, il 7 aprile 2022 erano stati condannati in primo grado tutti gli otto carabinieri imputati. «L’ampia istruttoria dibattimentale ha permesso di ricostruire i fatti contestati e di accertare un’attività di sviamento posta in essere nell’immediatezza della morte di Stefano Cucchi, volta, ad allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri per evitare le possibili ricadute sul vertice di comando del territorio capitolino», aveva messo nero su bianco il giudice monocratico Roberto Nespeca nelle motivazioni del verdetto.

La conferma delle condanne ha suscitato reazioni forti. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, ha espresso la propria soddisfazione per l’esito della sentenza. «Abbiamo lottato duramente per arrivare alla verità, contro tutto e tutti, eravamo ignari di tutto quello che avremmo dovuto affrontare. Era assolutamente inimmaginabile – ha scritto in un comunicato -. Quelli della scala gerarchica sono stati veramente bravi. Sono stati scoperti soltanto quasi dieci anni dopo mentre noi avevamo girato a vuoto nelle aule di giustizia rimediando sconfitte su sconfitte per almeno sei anni. Sono stati così bravi che, alla fine, molti di loro hanno rimediato la prescrizione e chi, improvvidamente, l’ha rinunciata, si è ritrovato oggi condannato». I legali di Riccardo Casamassima, l’appuntato dei carabinieri che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura dell’indagine, hanno commentato: «La conferma della sentenza di condanna di De Cianni ce la aspettavamo. La Corte di Appello ha ribadito una volta di più che Riccardo Casamassima è stato vittima di calunnia e di falso, così ulteriormente confermando, ma a questo punto non c’era alcun dubbio, che Casamassima, come la moglie Maria Rosati, sentito nel processo Cucchi bis disse nient’altro che la verità».

Stefano Cucchi fu fermato con in tasca 21 grammi di hashish il 15 ottobre 2009. Solo una settimana dopo, il 22 ottobre, il giovane morì all’ospedale Sandro Pertini, con il corpo martoriato da una violenta scarica di botte. In seguito ad anni di silenzi e depistaggi, si è potuto celebrare un processo che ha visto imputati i membri delle forze dell’ordine che si macchiarono del delitto. Nell’aprile del 2022 è stata pronunciata la condanna definitiva a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele d’Alessandro, mentre per i loro complici Roberto Mandolini e Francesco Tedesco è stato disposto un nuovo processo. Dopo essere stati condannati a 3 anni e 6 mesi e 2 anni e 4 mesi dalla Corte d’Assise d’appello di Roma nel luglio del 2022, poiché giudicati come colpevoli della falsificazione del verbale di arresto di Cucchi, nell’ottobre 2023 la Cassazione ha dichiarato per loro la prescrizione.

Messico, uragano Erick si abbatte sulla costa: 2 morti e molti danni

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L’uragano Erick ha colpito la costa pacifica meridionale del Messico come un ciclone di 3ª categoria. La zona colpita, tra Acapulco e Puerto Escondido, è poco popolata, ma si registrano due vittime: un bambino annegato a San Marcos e un uomo folgorato a San Pedro Pochutla. Le autorità hanno segnalato frane, interruzioni stradali, linee elettriche abbattute e allagamenti diffusi. Erick ha mostrato una rapida intensificazione, fenomeno sempre più frequente e difficile da prevedere, come già avvenuto con l’uragano Otis nel 2023. Le piogge, fino a 40 cm, hanno colpito soprattutto Oaxaca e Guerrero, aggravando il rischio di smottamenti e colate detritiche.

Le isole del pacifico daranno vita alla più grande riserva oceanica a guida indigena

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Gli Stati insulari del Pacifico Isole Solomon e Vanuatu hanno annunciato la creazione della Melanesian Ocean Reserve, la prima riserva oceanica transfrontaliera guidata da popolazioni indigene. Estesa su almeno 6 milioni di km², coinvolgerà anche Papua Nuova Guinea e Nuova Caledonia, nell'area del Pacifico sud-occidentale. L’obiettivo è proteggere le acque ancestrali da pesca illegale e sfruttamenti insostenibili, permettendo solo attività economiche compatibili con i valori indigeni. La Melanesia, una delle regioni in cui tradizionalmente viene divisa l'Oceania, ospita oggi il 75% delle speci...

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Tragedia del Mottarone, riformulati i capi d’imputazione

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Prima svolta nel nuovo processo per la tragedia del Mottarone, durante la prima udienza preliminare-bis al Tribunale di Verbania. I legali degli imputati hanno nuovamente contestato la formulazione dei capi d’imputazione. Il nuovo giudice, Gianni Macchioni, ha chiesto alla Procura di modificarli: il pubblico ministero ha accolto la richiesta, eliminando l’ipotesi dolosa legata alla caduta della cabina. Resta però l’accusa dolosa per l’attentato alla sicurezza dei trasporti nei 15 giorni precedenti l’incidente, quando le cabine 3 e 4 circolavano con i forchettoni inseriti, disattivando i freni d’emergenza. I parenti delle vittime hanno espresso delusione.

Rapporto ONU: la distruzione sistematica della cultura a Gaza è crimine di guerra

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La Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta (COI), istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha pubblicato un nuovo rapporto sui crimini israeliani in Palestina. Il documento analizza gli attacchi contro strutture educative, religiose e culturali a Gaza, nei Territori palestinesi occupati e in Israele, evidenziando il legame diretto tra queste aggressioni e la negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Esso, di preciso, si sofferma sui numeri della distruzione causata dallo Stato ebraico, confermando che a Gaza è in corso un genocidio mirato alla distruzione totale della popolazione araba e alla sua sopravvivenza nella Striscia. Nel frattempo, la Cisgiordania risulta blindata dall’esercito israeliano, mentre Gaza è stata completamente isolata.

Il rapporto della COI è stato pubblicato la scorsa settimana. Da quanto si legge nel documento, Israele ha bombardato 403 dei 546 edifici scolastici presenti a Gaza, lasciando 435.290 studenti senza accesso all’istruzione e 16.275 insegnanti senza lavoro. Come se non bastasse, il 62% delle scuole – spesso usate come rifugi dalla popolazione civile – è stato bombardato, causando centinaia di vittime. Anche l’istruzione universitaria è stata colpita duramente: oltre 57 sedi universitarie sono state completamente distrutte, tra bombardamenti e demolizioni mirate. Una devastazione che ha tolto il futuro a più di 87.000 giovani universitari. Secondo quanto riportato nel documento, circa un milione di persone ha cercato rifugio nelle strutture gestite dall’UNRWA all’interno della Striscia, molte delle quali erano scuole. Al 25 marzo 2025, si contavano 742 morti e 2.406 feriti all’interno di queste strutture considerate sicure. Il rapporto sottolinea che le Nazioni Unite avevano regolarmente segnalato e fornito le identificazioni di tali edifici alle parti in conflitto.

Il rapporto non si limita alla sola situazione di Gaza, ma analizza anche la realtà nei Territori occupati e in Israele, dove rileva azioni sistematiche volte a impedire l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. In Cisgiordania, le restrizioni imposte dalle autorità israeliane hanno colpito 806.000 studenti delle scuole primarie e secondarie, ostacolando gravemente l’accesso all’istruzione. Oltre 850 check-point militari rendono i movimenti interni quasi impossibili per i cittadini palestinesi. Queste limitazioni sono aumentate progressivamente fino alla scorsa settimana, quando – con l’inizio degli attacchi tra Iran e Israele – la Cisgiordania è stata posta sotto un lockdown totale applicato esclusivamente alla popolazione palestinese, mentre coloni e forze di occupazione continuano a muoversi liberamente.

A tutto ciò si aggiungono attacchi diretti alle strutture scolastiche, sia nell’ambito di operazioni militari – come quella lanciata dopo la breve tregua a Gaza a gennaio – sia da parte di coloni israeliani, il cui obiettivo è rendere la vita impossibile ai palestinesi per costringerli ad abbandonare le proprie terre. Secondo il rapporto, tra il 7 ottobre 2023 e il 25 marzo 2025, 141 scuole sono state attaccate e vandalizzate; 96 studenti e quattro membri del personale educativo sono stati uccisi; 611 studenti e 21 membri del personale educativo sono rimasti feriti; e 327 studenti e oltre 172 membri del personale educativo sono stati arrestati. A ciò si sommano le demolizioni autorizzate dallo Stato: il rapporto documenta 59 strutture scolastiche palestinesi soggette a ordini di chiusura o demolizione, con il risultato di privare dell’istruzione almeno 6.600 studenti e di lasciare senza lavoro 715 insegnanti.

Nemmeno all’interno dei confini di Israele, definito «l’unica democrazia del Medio Oriente», i palestinesi hanno diritto all’esistenza. Il rapporto riporta numerosi episodi di sospensioni e licenziamenti nei confronti di studenti e professori che hanno espresso solidarietà verso il popolo palestinese. Docenti arrestati con l’accusa di «incitamento al terrorismo», colpevoli solo di aver posto domande o espresso critiche alle operazioni dell’esercito israeliano. Il documento si sofferma infine sulla distruzione sistematica di siti archeologici e religiosi a Gaza e nei Territori occupati. Secondo l’UNESCO, almeno 75 siti storici e culturali sono stati gravemente danneggiati o completamente distrutti. Secondo la Banca Mondiale, a febbraio 2025 i danni al patrimonio culturale di Gaza ammontavano a oltre 120 milioni di dollari. Nel rapporto si denuncia anche il saccheggio e la profanazione di luoghi sacri da parte di coloni e forze israeliane. In alcuni casi, nella Striscia di Gaza, i soldati hanno persino utilizzato questi siti come sfondo per video macabri pubblicati sui social, trasformando luoghi di memoria in strumenti di propaganda.

Per la prima volta una missione satellitare ha prodotto un’eclissi solare artificiale

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Due satelliti che si muovono allineati nello spazio come se fossero uno solo, e il tutto senza alcun intervento da Terra: è il risultato pioneristico ottenuto dalla missione Proba-3 guidata dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che è riuscita per la prima volta a creare un’eclissi solare artificiale in orbita ottenendo immagini della corona solare con una precisione millimetrica. I due veicoli spaziali, Coronagraph e Occulter, sono riusciti a volare in formazione perfetta a 150 metri di distanza e, grazie a questo allineamento, un disco trasportato da Occulter ha proiettato un’ombra di appena otto centimetri su un sensibile strumento chiamato ASPIICS, permettendogli di osservare l’atmosfera esterna del Sole come durante un’eclissi solare totale naturale. «Le nostre immagini di eclissi artificiale sono paragonabili a quelle scattate durante un’eclissi naturale», ha commentato Andrei Zhukov dell’Osservatorio Reale del Belgio, aggiungendo che a differenza delle eclissi naturali che avvengono una volta ogni 16 mesi e durano pochi minuti, Proba-3 potrà crearne una ogni 19,6 ore e mantenerla fino a sei ore.

Il Proba-3 Occulter che eclissa il Sole per la navicella spaziale Coronagraph. Credit: ESA

Le eclissi solari totali sono eventi spettacolari, ma estremamente rari e di breve durata. Per questo motivo, da decenni gli scienziati cercano soluzioni artificiali per osservarle in condizioni più controllate. La corona solare, invisibile alla luce diretta, è l’area più esterna dell’atmosfera del Sole e raggiunge temperature oltre un milione di gradi Celsius, ben superiori ai circa 5.500 gradi della superficie solare. Studiare questa regione, spiegano gli esperti, è fondamentale per capire i meccanismi che generano vento solare ed espulsioni di massa coronale, fenomeni che possono creare aurore boreali ma anche disturbare gravemente comunicazioni e reti elettriche sulla Terra. I coronografi tradizionali – ovvero dispositivi che bloccano artificialmente la luce intensa proveniente dal disco solare, permettendo così di visualizzare ciò che lo circonda – restano limitati dalla dispersione luminosa dell’atmosfera, ma Proba-3 supera questo limite, in quanto agisce nello spazio, in assenza di atmosfera, e con una configurazione mai sperimentata in precedenza, realizzando un gigantesco coronografo in due parti separate. Il tutto grazie a sofisticate tecnologie di navigazione autonoma, testate per anni all’interno dei programmi tecnologici dell’ESA.

Corona solare osservata dall’ASPIICS di Proba-3. Credit: ESA

In particolare, il satellite Occulter, largo 1,4 metri, blocca la luce del Sole e proietta la sua ombra sull’obiettivo dell’altro satellite, Coronagraph, che contiene lo strumento denominato ASPIICS. L’osservazione della corona può così estendersi fino al bordo della superficie solare, un’impresa finora possibile solo durante le eclissi naturali. «Siamo stati in grado di catturare una protuberanza, una nube di plasma relativamente freddo vicino al Sole, in una delle prime immagini», ha raccontato Zhukov, aggiungendo che ogni immagine finale è costruita combinando tre esposizioni diverse, elaborate dal Centro Operativo Scientifico ASPIICS dell’Osservatorio Reale del Belgio. Durante ogni orbita, inoltre, i due satelliti si allineano vicino all’apogeo – il punto più lontano dalla Terra – per ridurre al minimo le interferenze gravitazionali e ottimizzare l’uso del propellente, garantendo una precisione «straordinaria che convalida i nostri anni di sviluppo tecnologico». Il tutto avviene in autonomia, senza controllo diretto da Terra, secondo lo spirito della missione: Proba significa infatti “Progetto per l’autonomia a bordo”. La tecnologia ha così superato i limiti imposti dalla geografia e dal calendario celeste: «Le eclissi naturali sono rare, scomode e brevi. Ora possiamo crearne una ogni 20 ore. E tutto questo, al primo tentativo», ha concluso Zhukov.

Il Brasile “ecologista” di Lula svende i giacimenti di petrolio: monta la protesta indigena

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Il Brasile del presidente Lula continua a spingere per la produzione di petrolio, davanti alle proteste crescenti della popolazione indigena e dei gruppi ambientalisti. il Paese ha infatti messo all’asta oltre 170 blocchi petroliferi offshore, molti dei quali situati in aree incontaminate, come per esempio alla foce del Rio della Amazzoni. Al termine dell’asta, tenutasi presso un hotel di lusso di Rio de Janeiro, l’agenzia petrolifera brasiliana ha osservato che i bonus di firma ammontavano a circa 180 milioni di dollari. Nel frattempo, fuori dall’albergo, i gruppi indigeni hanno organizzato una protesta per contestare l’asta e rivendicare il diritto a essere chiamati in causa nelle questioni che riguardano le aree di loro competenza. In generale, le associazioni ambientaliste e la popolazione indigena protestano da tempo contro le politiche di Lula, che sin dal suo insediamento si era posto l’obiettivo di tutelare l’Amazzonia. Ciononostante, il suo governo ha preso diverse decisioni giudicate controverse, rafforzando la produzione di petrolio del Paese e aprendo al disboscamento di ingenti aree dell’Amazzonia per costruire un’autostrada per Belém, sede della prossima Conferenza delle Parti sul Clima (COP30).

L’asta indetta dal Brasile si è tenuta a Rio de Janeiro martedì 17 giugno. Di preciso, l’Agenzia Nazionale del Petrolio ha messo all’asta 172 blocchi offshore di petrolio; di questi, 47 erano località vicino alla foce del Rio delle Amazzoni, e 2 siti nell’entroterra amazzonico vicino ai territori indigeni. L’Agenzia è riuscita a vendere un totale di 34 blocchi, di cui 19 alle multinazionali degli idrocarburi Chevron, ExxonMobil, Petrobras e CNPC. Un rappresentante dell’agenzia ha affermato che il premio più alto è stato assegnato a un blocco situato vicino alla foce del Rio delle Amazzoni, area giudicata particolarmente promettente dalle grandi multinazionali del petrolio. In una dichiarazione di apertura registrata all’inizio dell’evento, l’Agenzia nazionale per il petrolio ha affermato che le aste fanno parte della strategia di diversificazione energetica e allontanamento dal carbonio del Paese, e che prevedrebbero la sottoscrizione di contratti dotati di investimenti obbligatori in progetti di transizione energetica.

Fuori dall’albergo dove si svolgeva l’asta, gruppi indigeni e ambientalisti hanno inscenato una protesta per denunciare i rischi dell’allargamento della produzione petrolifera nell’area interessata. Proprio i primi stanno guidando la protesta in difesa del territorio amazzonico, rivendicando il proprio diritto a essere consultati quando il governo prende decisioni sull’area: «Siamo venuti a Rio per contestare l’asta», ha dichiarato un membro della tribù amazzonica dei Manoki presente alla manifestazione. «Avremmo voluto essere consultati e vedere studi su come le trivellazioni petrolifere avrebbero potuto avere ripercussioni su di noi. Nulla di tutto ciò è stato fatto». In una intervista all’agenzia di stampa Associated Press, invece, Nicole Oliveira, direttrice esecutiva dell’organizzazione no-profit ambientale Arayara, ha sottolineato che alcuni dei bacini interessati dalle vendite «non hanno ancora ricevuto la licenza ambientale», e ha annunciato l’intenzione di muovere causa contro l’asta. In generale, i manifestanti giudicano il governo Lula incoerente, perché da un lato si presenta come strenuo difensore dell’ambientalismo, e dall’altro spinge sempre di più ad aumentare la produzione di petrolio.

Sin dal suo insediamento nel 2023 Lula ha dichiarato che al centro della sua presidenza ci sarebbe stata proprio la tutela dell’Amazzonia. Lula aveva già portato avanti tale agenda negli anni in cui aveva governato il Brasile – dal 2003 al 2011 – in cui la deforestazione è diminuita da 27.700 chilometri quadrati all’anno a 4.500 chilometri quadrati all’anno. Una svolta resa possibile soprattutto dalla creazione di aree di conservazione e riserve indigene. Eppure, sono tante le scelte contrarie alle sue dichiarate intenzioni. Già durante la cerimonia di insediamento, infatti, il nuovo presidente si era detto favorevole alla costruzione di una grande autostrada in Amazzonia, presentandola come un capolavoro di «crescita e sviluppo». Il progetto era in cantiere da anni ed è stato lanciato da Bolsonaro, il predecessore di Lula: esso prevede il disboscamento di ettari di foresta per favorire la costruzione di un’autostrada a quattro corsie lunga 13,6 chilometri che porti alla città brasiliana di Belém, dove a novembre di quest’anno si terrà la COP30.