venerdì 22 Agosto 2025
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Azerbaigian e Armenia firmano negli USA uno storico accordo di pace

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Ieri sera, 8 agosto, l’Azerbaigian, l’Armenia e gli Stati Uniti hanno firmato un accordo storico a Washington, segnando un progresso nel processo di pace nel Caucaso meridionale. Il presidente azero Ilham Aliyev, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente statunitense Trump hanno partecipato a colloqui per risolvere il conflitto trentennale tra i due Paesi, culminato nel 2023 con l’esodo di 100mila armeni dal Nagorno-Karabakh. Trump ha convinto Pashinyan a permettere la creazione di un corridoio di 40 km, la “Trump Route for International Peace and Prosperity”, che collegherà l’Azerbaijan alla sua exclave di Nakhchivan. Non sono ancora noti i dettagli dell’accordo sui confini contesi.

Il 15 agosto ci sarà l’incontro tra Trump e Putin

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Il prossimo 15 agosto, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump incontrerà il presidente russo Vladimir Putin in Alaska per discutere la fine del conflitto russo-ucraino. L’annuncio è stato dato da Trump tramite il suo social media Truth Social, in cui ha parlato di un incontro «attesissimo». Le autorità russe hanno confermato la data e l’oggetto del meeting, sottolineando la logica della scelta dell’Alaska come sede, data la vicinanza geografica tra i due Paesi. Piccata la reazione ucraina, con il presidente Zelensky che ha dichiarato l’inutilità di ogni accordo senza la partecipazione di Kiev. Si tratta del primo incontro di vertice tra un presidente statunitense e Putin dal 24 febbraio 2022, giorno dello scoppio del conflitto.

Mettendo piede in Alaska, Putin fa ritorno negli Stati Uniti per la prima volta da 10 anni. L’ultimo suo viaggio in terra USA risale al 2015, quando era ancora presidente Barack Obama. All’agenzia Interfax, il consigliere di Putin Yuri Ushakov ha dichiarato che «Russia e Stati Uniti sono vicini di casa, Paesi confinanti, e sembra del tutto logico che la nostra delegazione attraversi lo Stretto di Bering e che un incontro così importante e atteso si tenga in Alaska, aggiungendo che «il Cremlino si aspetta che, dopo l’Alaska, il successivo incontro tra i presidenti russo e statunitense si svolga in territorio russo», facendo riferimento a un invito che è «già stato esteso». Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha messo in guardia contro qualunque «decisione presa senza la presenza dell’Ucraina», ribadendo che gli ucraini «non abbandoneranno la loro terra agli occupanti». «Qualsiasi decisione presa contro di noi, qualsiasi decisione presa senza l’Ucraina, sarebbe una decisione contro la pace» e «non potrebbe funzionare», ha avvertito sui propri account social. «Tutti abbiamo bisogno di una pace vera e autentica, una pace che la gente rispetti», ha concluso.

Oltre ad avere chiesto la sospensione degli aiuti occidentali all’Ucraina e la fine dei tentativi di Kiev di aderire alla NATO, Putin ha ripetutamente affermato che qualsiasi accordo dovrà contemplare la rinuncia da parte ucraina ad alcuni dei territori che la Russia ha conquistato dal 2014. Kiev e i suoi alleati europei si oppongono invece da tempo a qualsiasi accordo che preveda la cessione a Mosca di territori occupati, tra cui Crimea, Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhia. Nelle ultime ore si è appreso che funzionari americani, ucraini e di diversi Paesi europei si incontreranno questo fine settimana nel Regno Unito per cercare di raggiungere una posizione comune prima dell’incontro tra i presidenti americano e russo.

Grecia ancora alle prese coi roghi: un morto e diverse case distrutte

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Una persona è morta e numerose abitazioni sono state distrutte a causa di incendi boschivi che stanno interessando diverse zone della Grecia, tra cui la periferia meridionale di Atene e il Peloponneso, con particolare impatto su Archea Olympia. La vittima, un anziano di Keratea, è stato trovato senza vita nella sua abitazione. I recenti incendi, alimentati da forti venti e dalla stagione estiva, hanno costretto le autorità a emettere ordini di evacuazione in vari comuni dell’Attica orientale, tra cui Synterina, Dimolaki e Drosia. I vigili del fuoco stanno lottando per contenere le fiamme.

L’asse dei BRICS si rafforza per contrastare la guerra economica di Trump

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Dopo che il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato negli ultimi giorni l’imposizione di tariffe commerciali nei confronti di India e Brasile, i Paesi colpiti dai dazi si stanno muovendo per rafforzare le loro relazioni politiche e economico-commerciali in funzione anti-USA. Il risultato è un consolidamento dell’asse dei BRICS, l’organizzazione politico-commerciale nata in prospettiva antioccidentale, i cui membri fondatori (Brasile, India, Cina, Russia e Sudafrica) si trovano nel mirino dell’amministrazione statunitense guidata dal Tycoon. Non solo il primo ministro indiano Narendra Modi ha avuto ieri un colloquio telefonico con il presidente brasiliano Lula per rafforzare i legami commerciali tra le due nazioni, ma l’India ha anche annunciato un «partenariato strategico» con la Russia «per creare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile». Allo stesso tempo, Nuova Delhi sta lavorando per coinvolgere in questo processo anche la Cina: secondo quanto riferito dal media economico Bloomberg, infatti, Modi parteciperà a un vertice del gruppo di sicurezza regionale guidato da Pechino – l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai – e terrà un incontro bilaterale con il presidente Xi Jinping a margine. Sebbene il colloquio telefonico e il viaggio in Cina di Modi fossero già stati programmati assumono un significato diverso alla luce dell’uso politico delle tariffe commerciali attuato da Trump.

Durante la conversazione telefonica, Lula e Modi hanno discusso l’imposizione unilaterale di dazi contro le loro nazioni. Il presidente brasiliano ha osservato che «il Brasile e l’India sono, ad oggi, i due paesi più colpiti» dai dazi statunitensi. I due capi di Stato hanno, dunque, concordato di espandere l’accordo commerciale dell’India con il Mercosur, l’unione doganale sudamericana che comprende anche il Brasile, e hanno discusso circa i sistemi virtuali di pagamento delle loro nazioni, tra cui il brasiliano Pix, attualmente sotto indagine commerciale da parte degli Stati Uniti. «Ci impegniamo ad approfondire il nostro partenariato strategico, anche in settori quali commercio, energia, tecnologia, difesa, salute e altro ancora. Un partenariato solido e incentrato sulle persone tra le nazioni del Sud del mondo è vantaggioso per tutti», ha scritto Modi sul suo account X. Durante la chiamata è stata inoltre confermata la visita di Lula in India prevista per il prossimo anno, secondo la dichiarazione del Brasile. La reazione del primo ministro indiano è la conseguenza della più grave crisi nelle relazioni tra Stati Uniti e India da quando Trump è tornato al governo.

Ma le mosse di Nuova Delhi – duramente colpita dai dazi di Trump che dovrebbero entrare in vigore alla fine di agosto – non si sono limitate a un approfondimento della cooperazione con il Brasile, ma hanno coinvolto anche la Russia. Durante i colloqui bilaterali sulla sicurezza tenutisi giovedì a Mosca, infatti, i due Paesi hanno sottolineato il loro impegno per un «partenariato strategico». All’evento si sono incontrati il consigliere per la sicurezza nazionale indiano Ajit Doval e il segretario del Consiglio di sicurezza russo, Sergei Shoigu, sottolineando l’importanza delle relazioni tra i due Paesi. «Ci impegniamo a promuovere una cooperazione attiva per creare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile, garantire la supremazia del diritto internazionale e combattere insieme le sfide e le minacce moderne», ha dichiarato Shoigu a Doval in un commento televisivo. Da parte sua, secondo l’agenzia di stampa Interfax, Doval ha affermato che «Abbiamo ormai instaurato ottimi rapporti, a cui diamo molto valore, un partenariato strategico tra i nostri Paesi». Per quanto riguarda la Cina, invece, l’ambasciatore cinese in India, Xu Feihong, si è schierato esplicitamente dalla parte di Modi sulla questione delle tariffe commerciali che, secondo diversi osservatori, sono delle sanzioni mascherate. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, del resto, ha denunciato l’uso delle tariffe «come arma per sopprimere altri paesi».

India e Cina sono diventati i principali acquirenti di petrolio russo via mare da quando la Russia ha attaccato l’Ucraina nel 2022. Si tratta di uno dei motivi principali che ha indotto Donald Trump a imporre dazi complessivi del 50% all’India a partire dalla fine di agosto, applicando di fatto delle sanzioni secondarie mascherate. Lo stesso presidente statunitense non ha escluso di poter applicare le tariffe anche alla Cina. «Potrebbe succedere, non posso ancora dirvelo», ha detto Trump ai giornalisti, aggiungendo che «Lo abbiamo fatto con l’India. Probabilmente lo stiamo facendo con un paio di altri. Uno di questi potrebbe essere la Cina». Con queste dichiarazioni, il capo della Casa Bianca ha confermato che i dazi non sono una misura strettamente commerciale, bensì uno strumento politico per piegare le nazioni al volere di Washington. Di fatto, dunque, almeno da questo questo punto di vista, Trump sta continuando le politiche del suo predecessore Biden, che imponeva sanzioni a chiunque non si allineasse con la potenza a stelle e strisce contro Mosca. La stessa cosa è accaduta in Brasile, dove le tariffe doganali sono state imposte anche come ritorsione per il processo all’ex presidente Jair Bolsonaro, alleato politico di Trump.

Tuttavia, la tattica del tycoon di applicare tariffe al mondo per imporre le sue condizioni agli Stati e rallentare così il declino egemonico di Washington non sta facendo altro che consolidare e rafforzare i legami politici e commerciali del cosiddetto Sud globale, rappresentato dai BRICS, blocco che si è espanso rapidamente negli ultimi anni. Il risultato sembra un’accelerazione verso la formazione di nuovi equilibri politici e commerciali globali indipendenti dal polo occidentale.

 

Gaza, due attacchi israeliani su persone in cerca di cibo: almeno 7 morti

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Almeno sette palestinesi sono stati uccisi e 34 feriti in due attacchi dell’Esercito israeliano (Idf) consumatisi a Gaza stamane. Cinque civili sono morti e 33 sono stati feriti in un attacco a nord del campo di Nuseirat, mentre altri due palestinesi sono stati uccisi e uno ferito in un attacco a sud di Gaza City, vicino a un punto di distribuzione di aiuti umanitari. Le vittime stavano aspettando gli aiuti quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco su di loro. Le informazioni provengono da fonti mediche riportate da Al Jazeera.

Corte Penale: mandato di arresto per un cittadino libico

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La Corte Penale Internazionale ha dichiarato di aver emesso un mandato di arresto per Saif Suleiman Sneidel, accusandolo di crimini di guerra. Sneidel è ritenuto un membro del Gruppo 50, sottogruppo della Brigata Al-Saiqa. La Brigata Al-Saiqa fa parte dell’Esercito Nazionale Libico del generale Haftar, capo del governo orientale di Bengasi, che si contrappone al governo centrale di Tripoli. Sneidel di preciso è accusato di essere responsabile dei crimini di guerra di omicidio, tortura e oltraggi alla dignità personale, che avrebbe commesso tra il 2016 e il 2017.

Occupazione di Gaza: la complicità USA e l’inerzia globale davanti al piano di occupazione

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Nonostante il via libera del gabinetto israeliano per occupare interamente la Striscia di Gaza, le reazioni del mondo davanti all’ennesimo atto criminale di Israele seguono ancora lo stesso copione: voci grosse di condanna e preoccupazione si sono levate da tutto il globo, ma a prendere azioni concrete sono sempre le solite mosche bianche. I più arditi annunciano contromisure di facciata, come nel caso della Germania, che fermerà il commercio di armi che «potrebbero venire utilizzate nella Striscia di Gaza». Russia e Cina chiamano il cessate il fuoco, il Regno Unito «esorta» Israele a riconsiderare le sue decisioni, il mondo arabo ne critica la condotta mentre firma con esso accordi plurimiliardari, l’Italia non proferisce parola. Nessuno, insomma, è deciso a muovere un dito per fermare Israele. Gli USA sono a loro modo gli unici a dire le cose come stanno realmente: occupazione o non occupazione, Israele potrà sempre fare quello che vuole senza temere ripercussioni.

Il piano di invasione di Gaza è stato approvato all’alba di oggi, 8 agosto, e prevede un’occupazione della Striscia da attuare e, una volta realizzata, portare avanti fino a data da destinarsi. Sin dall’annuncio del piano rilasciato dai quotidiani israeliani, la notizia ha scatenato quella ormai rituale reazione di condanna generale, piena di parole e priva di concretezza. Dal Vecchio Continente, il Regno Unito, la Germania, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno chiesto a Israele di ritrattare; Francia e Italia non sembrano invece aver ancora rilasciato neanche una parola di condanna. Tra gli altri Paesi del G7, assenti anche le reazioni del Giappone e del Canada. Simili dichiarazioni sono arrivate invece da Norvegia, Belgio, Spagna, Turchia, Australia, Sudafrica e Brasile, così come dall’ONU. A stare sostanzialmente in silenzio, tuttavia, non è solo il blocco del G7: la Russia si limita a chiedere un cessate il fuoco, la Cina ha rilasciato un appello simile a quello dei Paesi europei, mentre il mondo arabo e islamico si divide tra chi, come gli Emirati, preferisce limitarsi a chiamare al rispetto della legge internazionale, e chi, come l’Egitto, usa parole forti di condanna, salvo poi stringere accordi con Israele.

Insomma, quasi tutto il mondo dice di essere contro l’occupazione di Gaza e denuncia i crimini israeliani in Palestina, ma nessuno, a eccezione di pochi Paesi con limitato potere contrattuale (come il Belize nell’America Centrale, la Bolivia, la Colombia e il Cile nell’America Meridionale o la Slovenia in Europa), è deciso a fare qualcosa per fermare Tel Aviv. Un motivo per cui il genocidio palestinese continua è proprio questo: da quando Trump è salito alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno aumentato ancora di più il proprio sostegno alle azioni dello Stato ebraico, mentre intanto i Paesi arabi e islamici e il resto delle potenze mondiali si limitano a rilasciare dichiarazioni o, nel migliore dei casi, prendono iniziative di facciata: il genocidio palestinese sta essendo trattato dalla maggior parte dei Paesi del mondo come una scomoda questione politica.

In questo, il caso dell’Egitto è esemplificativo: mentre condanna pubblicamente il «genocidio sistematico» del popolo palestinese, il presidente egiziano Al-Sisi ha infatti firmato un accordo dal valore di 35 miliardi di dollari per comprare gas da Israele, in un giacimento situato a 200 metri dalla costa di Gaza. Anche i vari annunci di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dei Paesi europei viaggiano nella stessa direzione, essendo stati rilasciati sulla base delle promesse del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, che nella sostanza ha affermato di essere pronto a istituire uno Stato privo di sovranità; gli annunci europei, inoltre, non sono stati accompagnati da misure concrete volte a garantire che lo Stato di Palestina non si limiti a essere riconosciuto, ma che esista davvero. La lista di cose che gli Stati potrebbero fare per esercitare una reale pressione su Tel Aviv è interminabile: ratificare un embargo totale di armi, sospendere i trattati commerciali, sanzionare lo Stato e le entità che collaborano con il genocidio. Eppure, nessuno sembra intenzionato a farle.

Pakistan: uccisi 33 membri di milizie afghane

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Le forze di sicurezza pakistane hanno annunciato di aver ucciso 33 membri di milizie afghane che stavano cercando di attraversare il confine. Gli scontri sono avvenuti questa notte e sono stati annunciati oggi, venerdì 8 agosto. Le forze armate hanno annunciato di aver intercettato i movimenti dei miliziani, riuscendo a uccidere l’intero gruppo e a recuperare armi, munizioni ed esplosivi. L’esercito pakistano descrive i miliziani come forze «sponsorizzate dall’India». Dall’India non sembra sia arrivata una risposta alle accuse; in generale, Islamabad e Nuova Delhi si accusano spesso a vicenda di sostenere i gruppi armati attivi nei reciproci Paesi, smentendo l’una l’accusa dell’altra.

La “camorrizzazione” della mafia romana: come i clan si spartiscono gli affari

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A Roma la criminalità organizzata continua a esercitare un'enorme influenza, con clan di diversa origine e tipologia che si ripartiscono gli affari e grossi pezzi di territorio in nome di una “pax mafiosa” che vedrebbe come garante indiscusso il boss di Camorra Michele Senese. È quanto emerge dall'audizione tenuta da Lamberto Giannini, prefetto della Capitale, nell'aula della Commissione Parlamentare Antimafia a Palazzo San Macuto, lo scorso mercoledì 6 agosto, nonché da indagini e processi che stanno focalizzando l'attenzione sui movimenti criminali su Roma. Un territorio molto attrattivo per...

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Germania: annunciata sospensione dell’invio delle armi a Israele

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Il governo tedesco ha annunciato oggi, venerdì 8 agosto, la sospensione dell’invio di armi a Israele che potrebbero essere utilizzate a Gaza, incluse attrezzature militari, citando il piano del governo israeliano di occupare militarmente Gaza City. Questa decisione segue misure simili adottate da altri Paesi europei, come Spagna, Regno Unito e Slovenia. La Germania, seconda esportatrice di armi verso Israele dopo gli Stati Uniti, ha storicamente mantenuto un forte sostegno a Tel Aviv, che è però diminuito negli ultimi mesi. La sospensione rappresenta una svolta significativa nella politica estera tedesca verso Israele.