martedì 1 Luglio 2025
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Rapporto ONU: la distruzione sistematica della cultura a Gaza è crimine di guerra

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La Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta (COI), istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha pubblicato un nuovo rapporto sui crimini israeliani in Palestina. Il documento analizza gli attacchi contro strutture educative, religiose e culturali a Gaza, nei Territori palestinesi occupati e in Israele, evidenziando il legame diretto tra queste aggressioni e la negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Esso, di preciso, si sofferma sui numeri della distruzione causata dallo Stato ebraico, confermando che a Gaza è in corso un genocidio mirato alla distruzione totale della popolazione araba e alla sua sopravvivenza nella Striscia. Nel frattempo, la Cisgiordania risulta blindata dall’esercito israeliano, mentre Gaza è stata completamente isolata.

Il rapporto della COI è stato pubblicato la scorsa settimana. Da quanto si legge nel documento, Israele ha bombardato 403 dei 546 edifici scolastici presenti a Gaza, lasciando 435.290 studenti senza accesso all’istruzione e 16.275 insegnanti senza lavoro. Come se non bastasse, il 62% delle scuole – spesso usate come rifugi dalla popolazione civile – è stato bombardato, causando centinaia di vittime. Anche l’istruzione universitaria è stata colpita duramente: oltre 57 sedi universitarie sono state completamente distrutte, tra bombardamenti e demolizioni mirate. Una devastazione che ha tolto il futuro a più di 87.000 giovani universitari. Secondo quanto riportato nel documento, circa un milione di persone ha cercato rifugio nelle strutture gestite dall’UNRWA all’interno della Striscia, molte delle quali erano scuole. Al 25 marzo 2025, si contavano 742 morti e 2.406 feriti all’interno di queste strutture considerate sicure. Il rapporto sottolinea che le Nazioni Unite avevano regolarmente segnalato e fornito le identificazioni di tali edifici alle parti in conflitto.

Il rapporto non si limita alla sola situazione di Gaza, ma analizza anche la realtà nei Territori occupati e in Israele, dove rileva azioni sistematiche volte a impedire l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. In Cisgiordania, le restrizioni imposte dalle autorità israeliane hanno colpito 806.000 studenti delle scuole primarie e secondarie, ostacolando gravemente l’accesso all’istruzione. Oltre 850 check-point militari rendono i movimenti interni quasi impossibili per i cittadini palestinesi. Queste limitazioni sono aumentate progressivamente fino alla scorsa settimana, quando – con l’inizio degli attacchi tra Iran e Israele – la Cisgiordania è stata posta sotto un lockdown totale applicato esclusivamente alla popolazione palestinese, mentre coloni e forze di occupazione continuano a muoversi liberamente.

A tutto ciò si aggiungono attacchi diretti alle strutture scolastiche, sia nell’ambito di operazioni militari – come quella lanciata dopo la breve tregua a Gaza a gennaio – sia da parte di coloni israeliani, il cui obiettivo è rendere la vita impossibile ai palestinesi per costringerli ad abbandonare le proprie terre. Secondo il rapporto, tra il 7 ottobre 2023 e il 25 marzo 2025, 141 scuole sono state attaccate e vandalizzate; 96 studenti e quattro membri del personale educativo sono stati uccisi; 611 studenti e 21 membri del personale educativo sono rimasti feriti; e 327 studenti e oltre 172 membri del personale educativo sono stati arrestati. A ciò si sommano le demolizioni autorizzate dallo Stato: il rapporto documenta 59 strutture scolastiche palestinesi soggette a ordini di chiusura o demolizione, con il risultato di privare dell’istruzione almeno 6.600 studenti e di lasciare senza lavoro 715 insegnanti.

Nemmeno all’interno dei confini di Israele, definito «l’unica democrazia del Medio Oriente», i palestinesi hanno diritto all’esistenza. Il rapporto riporta numerosi episodi di sospensioni e licenziamenti nei confronti di studenti e professori che hanno espresso solidarietà verso il popolo palestinese. Docenti arrestati con l’accusa di «incitamento al terrorismo», colpevoli solo di aver posto domande o espresso critiche alle operazioni dell’esercito israeliano. Il documento si sofferma infine sulla distruzione sistematica di siti archeologici e religiosi a Gaza e nei Territori occupati. Secondo l’UNESCO, almeno 75 siti storici e culturali sono stati gravemente danneggiati o completamente distrutti. Secondo la Banca Mondiale, a febbraio 2025 i danni al patrimonio culturale di Gaza ammontavano a oltre 120 milioni di dollari. Nel rapporto si denuncia anche il saccheggio e la profanazione di luoghi sacri da parte di coloni e forze israeliane. In alcuni casi, nella Striscia di Gaza, i soldati hanno persino utilizzato questi siti come sfondo per video macabri pubblicati sui social, trasformando luoghi di memoria in strumenti di propaganda.

Per la prima volta una missione satellitare ha prodotto un’eclissi solare artificiale

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Due satelliti che si muovono allineati nello spazio come se fossero uno solo, e il tutto senza alcun intervento da Terra: è il risultato pioneristico ottenuto dalla missione Proba-3 guidata dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che è riuscita per la prima volta a creare un’eclissi solare artificiale in orbita ottenendo immagini della corona solare con una precisione millimetrica. I due veicoli spaziali, Coronagraph e Occulter, sono riusciti a volare in formazione perfetta a 150 metri di distanza e, grazie a questo allineamento, un disco trasportato da Occulter ha proiettato un’ombra di appena otto centimetri su un sensibile strumento chiamato ASPIICS, permettendogli di osservare l’atmosfera esterna del Sole come durante un’eclissi solare totale naturale. «Le nostre immagini di eclissi artificiale sono paragonabili a quelle scattate durante un’eclissi naturale», ha commentato Andrei Zhukov dell’Osservatorio Reale del Belgio, aggiungendo che a differenza delle eclissi naturali che avvengono una volta ogni 16 mesi e durano pochi minuti, Proba-3 potrà crearne una ogni 19,6 ore e mantenerla fino a sei ore.

Il Proba-3 Occulter che eclissa il Sole per la navicella spaziale Coronagraph. Credit: ESA

Le eclissi solari totali sono eventi spettacolari, ma estremamente rari e di breve durata. Per questo motivo, da decenni gli scienziati cercano soluzioni artificiali per osservarle in condizioni più controllate. La corona solare, invisibile alla luce diretta, è l’area più esterna dell’atmosfera del Sole e raggiunge temperature oltre un milione di gradi Celsius, ben superiori ai circa 5.500 gradi della superficie solare. Studiare questa regione, spiegano gli esperti, è fondamentale per capire i meccanismi che generano vento solare ed espulsioni di massa coronale, fenomeni che possono creare aurore boreali ma anche disturbare gravemente comunicazioni e reti elettriche sulla Terra. I coronografi tradizionali – ovvero dispositivi che bloccano artificialmente la luce intensa proveniente dal disco solare, permettendo così di visualizzare ciò che lo circonda – restano limitati dalla dispersione luminosa dell’atmosfera, ma Proba-3 supera questo limite, in quanto agisce nello spazio, in assenza di atmosfera, e con una configurazione mai sperimentata in precedenza, realizzando un gigantesco coronografo in due parti separate. Il tutto grazie a sofisticate tecnologie di navigazione autonoma, testate per anni all’interno dei programmi tecnologici dell’ESA.

Corona solare osservata dall’ASPIICS di Proba-3. Credit: ESA

In particolare, il satellite Occulter, largo 1,4 metri, blocca la luce del Sole e proietta la sua ombra sull’obiettivo dell’altro satellite, Coronagraph, che contiene lo strumento denominato ASPIICS. L’osservazione della corona può così estendersi fino al bordo della superficie solare, un’impresa finora possibile solo durante le eclissi naturali. «Siamo stati in grado di catturare una protuberanza, una nube di plasma relativamente freddo vicino al Sole, in una delle prime immagini», ha raccontato Zhukov, aggiungendo che ogni immagine finale è costruita combinando tre esposizioni diverse, elaborate dal Centro Operativo Scientifico ASPIICS dell’Osservatorio Reale del Belgio. Durante ogni orbita, inoltre, i due satelliti si allineano vicino all’apogeo – il punto più lontano dalla Terra – per ridurre al minimo le interferenze gravitazionali e ottimizzare l’uso del propellente, garantendo una precisione «straordinaria che convalida i nostri anni di sviluppo tecnologico». Il tutto avviene in autonomia, senza controllo diretto da Terra, secondo lo spirito della missione: Proba significa infatti “Progetto per l’autonomia a bordo”. La tecnologia ha così superato i limiti imposti dalla geografia e dal calendario celeste: «Le eclissi naturali sono rare, scomode e brevi. Ora possiamo crearne una ogni 20 ore. E tutto questo, al primo tentativo», ha concluso Zhukov.

Il Brasile “ecologista” di Lula svende i giacimenti di petrolio: monta la protesta indigena

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Il Brasile del presidente Lula continua a spingere per la produzione di petrolio, davanti alle proteste crescenti della popolazione indigena e dei gruppi ambientalisti. il Paese ha infatti messo all’asta oltre 170 blocchi petroliferi offshore, molti dei quali situati in aree incontaminate, come per esempio alla foce del Rio della Amazzoni. Al termine dell’asta, tenutasi presso un hotel di lusso di Rio de Janeiro, l’agenzia petrolifera brasiliana ha osservato che i bonus di firma ammontavano a circa 180 milioni di dollari. Nel frattempo, fuori dall’albergo, i gruppi indigeni hanno organizzato una protesta per contestare l’asta e rivendicare il diritto a essere chiamati in causa nelle questioni che riguardano le aree di loro competenza. In generale, le associazioni ambientaliste e la popolazione indigena protestano da tempo contro le politiche di Lula, che sin dal suo insediamento si era posto l’obiettivo di tutelare l’Amazzonia. Ciononostante, il suo governo ha preso diverse decisioni giudicate controverse, rafforzando la produzione di petrolio del Paese e aprendo al disboscamento di ingenti aree dell’Amazzonia per costruire un’autostrada per Belém, sede della prossima Conferenza delle Parti sul Clima (COP30).

L’asta indetta dal Brasile si è tenuta a Rio de Janeiro martedì 17 giugno. Di preciso, l’Agenzia Nazionale del Petrolio ha messo all’asta 172 blocchi offshore di petrolio; di questi, 47 erano località vicino alla foce del Rio delle Amazzoni, e 2 siti nell’entroterra amazzonico vicino ai territori indigeni. L’Agenzia è riuscita a vendere un totale di 34 blocchi, di cui 19 alle multinazionali degli idrocarburi Chevron, ExxonMobil, Petrobras e CNPC. Un rappresentante dell’agenzia ha affermato che il premio più alto è stato assegnato a un blocco situato vicino alla foce del Rio delle Amazzoni, area giudicata particolarmente promettente dalle grandi multinazionali del petrolio. In una dichiarazione di apertura registrata all’inizio dell’evento, l’Agenzia nazionale per il petrolio ha affermato che le aste fanno parte della strategia di diversificazione energetica e allontanamento dal carbonio del Paese, e che prevedrebbero la sottoscrizione di contratti dotati di investimenti obbligatori in progetti di transizione energetica.

Fuori dall’albergo dove si svolgeva l’asta, gruppi indigeni e ambientalisti hanno inscenato una protesta per denunciare i rischi dell’allargamento della produzione petrolifera nell’area interessata. Proprio i primi stanno guidando la protesta in difesa del territorio amazzonico, rivendicando il proprio diritto a essere consultati quando il governo prende decisioni sull’area: «Siamo venuti a Rio per contestare l’asta», ha dichiarato un membro della tribù amazzonica dei Manoki presente alla manifestazione. «Avremmo voluto essere consultati e vedere studi su come le trivellazioni petrolifere avrebbero potuto avere ripercussioni su di noi. Nulla di tutto ciò è stato fatto». In una intervista all’agenzia di stampa Associated Press, invece, Nicole Oliveira, direttrice esecutiva dell’organizzazione no-profit ambientale Arayara, ha sottolineato che alcuni dei bacini interessati dalle vendite «non hanno ancora ricevuto la licenza ambientale», e ha annunciato l’intenzione di muovere causa contro l’asta. In generale, i manifestanti giudicano il governo Lula incoerente, perché da un lato si presenta come strenuo difensore dell’ambientalismo, e dall’altro spinge sempre di più ad aumentare la produzione di petrolio.

Sin dal suo insediamento nel 2023 Lula ha dichiarato che al centro della sua presidenza ci sarebbe stata proprio la tutela dell’Amazzonia. Lula aveva già portato avanti tale agenda negli anni in cui aveva governato il Brasile – dal 2003 al 2011 – in cui la deforestazione è diminuita da 27.700 chilometri quadrati all’anno a 4.500 chilometri quadrati all’anno. Una svolta resa possibile soprattutto dalla creazione di aree di conservazione e riserve indigene. Eppure, sono tante le scelte contrarie alle sue dichiarate intenzioni. Già durante la cerimonia di insediamento, infatti, il nuovo presidente si era detto favorevole alla costruzione di una grande autostrada in Amazzonia, presentandola come un capolavoro di «crescita e sviluppo». Il progetto era in cantiere da anni ed è stato lanciato da Bolsonaro, il predecessore di Lula: esso prevede il disboscamento di ettari di foresta per favorire la costruzione di un’autostrada a quattro corsie lunga 13,6 chilometri che porti alla città brasiliana di Belém, dove a novembre di quest’anno si terrà la COP30.

Finlandia: il Parlamento vota per uscire dal trattato antimine

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Il parlamento finlandese ha votato a favore del ritiro dalla Convenzione di Ottawa, che vieta l’uso delle mine antiuomo. La Finlandia si unisce così a Estonia, Lettonia, Lituania, e Polonia, che hanno annunciato di avere preso una analoga decisione. L’uscita dal trattato di Ottawa da parte della Finlandia era stata annunciata dall’esecutivo del Paese lo scorso aprile. La Finlandia ha motivato la propria scelta sostenendo di volere fare fronte alla «minaccia» rappresentata dalla Russia.

7 azioni che tutti possono fare per aiutare Gaza

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Davanti alle immagini desolanti della popolazione di Gaza costretta alla fame dallo Stato di Israele, davanti ai bombardamenti che hanno ucciso più di 50 mila persone, tra cui 20.000 bambini, niente sembra fermare l’impunità di cui gode il governo israeliano. Seguendo quanto accade dal flusso degli smartphone, il rischio di far vincere sconforto e inerzia è concreto, ma sarebbe un errore. Molti ci scrivono quotidianamente per chiedere cosa si può fare concretamente per provare a incidere: per aiutare concretamente la gente di Gaza; per spingere i governi che fiancheggiano il genocidio israeliano a cambiare le proprie politiche; per colpire le aziende che non agiscono in modo responsabile e finanziano l’occupazione. La buona notizia è che è possibile farlo, che decine di migliaia di persone nel mondo lo stanno già facendo e che – come vedremo – stanno già cambiando molte cose. Per questo abbiamo preparato un breve vademecum, compilato con l’aiuto di attivisti e organizzazioni che si occupano dei diritti dei palestinesi, completo di sette azioni che tutti quanti possono facilmente mettere in atto per aiutare la Palestina (e sanzionare Israele e chi la fiancheggia) in modo concreto.

1. Spesa critica e boicottaggio

Manifestazione davanti a un supermercato Carrefour per il boicottaggio in solidarietà con la Palestina

Il potere dei cittadini passa anche dall’essere consumatori, ed esserlo in modo critico è fondamentale. Il boicottaggio è una forma di protesta estremamente efficace, perché può essere portata avanti da tutti (ognuno di noi è un consumatore) e perché colpisce le aziende dove sono più vulnerabili: nel profitto. Il consumo critico e il boicottaggio sono armi non violente che funzionano. La prova è data dal fatto che Israele le teme al punto da aver inserito l’organizzazione BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che mobilita le campagne di boicottaggio contro l’occupazione della Palestina, nella lista delle “organizzazioni terroristiche”.

Su internet girano molte liste dei prodotti da boicottare, ma è essenziale, per avere efficacia, che le campagne di boicottaggio siano strategiche e con obiettivi chiari. Per questo la lista di marchi e aziende da evitare proposta da BDS è circoscritta, in modo da avere un reale impatto. Non sono troppi i marchi da tenere a mente quando si fanno acquisti, e basta un minimo di attenzione per seguirla.

Ad esempio: quando si fa la spesa è importante evitare i supermercati della catena francese Carrefour, azienda che sostiene l’approvvigionamento dei militari israeliani e trae profitto dall’occupazione illegale (il boicottaggio l’ha colpita al punto che ha dovuto chiudere i battenti in diversi Paesi). Mentre tra i prodotti da evitare figurano quelli del marchio Danone, della Nestlé e di Coca-Cola.

Anche le catene di fast food McDonald’s, Burger King e Starbucks collaborano attivamente nel rifornimento dell’esercito israeliano, e sono incluse nella lista.

Quando acquistate un computer, una stampante o altri dispositivi tecnologici, è importante evitare i prodotti a marchio HP, multinazionale statunitense che fornisce a Israele le tecnologie biometriche utilizzate per sorvegliare i palestinesi. Sotto boicottaggio c’è anche la Siemens, azienda attiva nella proliferazione delle colonie israeliane in territorio palestinese attraverso la costruzione del progetto dell’Interconnettore EuroAsia. Mentre, a testimoniare che il boicottaggio funziona, c’è il caso della multinazionale Intel, che, dopo essere stata al centro della campagna BDS, è corsa ai ripari sospendendo un investimento da 25 miliardi di dollari in Israele, ma rimane ancora tra i marchi da evitare fino a quando non cesserà anche le altre collaborazioni in atto.

Tra le piattaforme video è sotto boicottaggio Disney+. Mentre tra i prodotti sportivi figura Reebok. Non c’è più Puma, che proprio a causa della campagna BDS ha rinunciato al contratto che aveva siglato per divenire sponsor tecnico della Federazione Calcio israeliana.

Se dovete affittare, vendere o acquistare casa, va evitato di affidarsi all’agenzia immobiliare Remax, che trae profitti dalla compravendita di case costruite nelle colonie israeliane, sulle terre rubate ai palestinesi.

La lista completa dei marchi interessati dal boicottaggio si trova sul sito della campagna BDS e anche su L’Indipendente. In aggiunta è possibile utilizzare applicazioni per lo smartphone come Boycat o No Thanks che identificano i marchi corresponsabili del genocidio in corso.

2. Scegliere coscientemente la propria banca

Oltre alla spesa consapevole, è bene prestare attenzione anche agli istituti bancari ai quali affidiamo i nostri soldi; molte delle banche più note collaborano attivamente con gli interessi israeliani e, più in generale, con il mercato delle armi. Intesa Sanpaolo, Unicredit, BPER, Allianz, BNP Paribas, Crédit Agricole sono i principali istituti bancari che non presentano sufficienti regole etiche. Affidare i propri risparmi a istituti bancari alieni da finanziamenti ad aziende produttrici di armi o banche attive in campagne per la Palestina può fare la differenza. Banca Etica è l’unico istituto bancario in Italia che esclude qualsiasi finanziamento all’industria delle armi, mentre Cassa Centrale Banca, Banco BPM e Cassa Depositi e Prestiti propendono a ridurre il supporto diretto al settore militare e ad adottare una maggiore trasparenza operativa. Maggiori informazioni sulle banche da evitare e da scegliere sono presenti in questo articolo.

3. Azioni di diffusione e mail bombing

Affinché le campagne di boicottaggio producano effetto, può essere importante anche fare un passo ulteriore: non solo astenersi dall’acquisto dei prodotti indicati, ma anche comunicare le ragioni della scelta. Se avete in corso un abbonamento a Disney+ e intendete disdirlo, ad esempio, spiegate via mail che la vostra rinuncia è dettata dalla vostra adesione alla campagna di boicottaggio. Per le aziende, avere la consapevolezza che il motivo per il quale stanno perdendo profitti è la loro complicità con Israele è essenziale per indurle a cambiare atteggiamento.

Inoltre, può essere importante aderire alle campagne di pressione che vengono organizzate, sotto forma di mail bombing, petizioni e altre azioni comunicative.

L’Indipendente ha messo in atto la campagna “Netanyahu criminale di guerra”, attraverso la quale è possibile scaricare un kit dell’attivista dove si trovano file da stampare e far girare. Inoltre, si può trovare un messaggio di testo da diffondere via mail a tutte le principali redazioni giornalistiche italiane e far sentire la propria voce. Inondare le caselle mail delle varie istituzioni mediatiche e politiche può essere un’ulteriore maniera per alzare la voce.

4. Informare e condividere

Apprendere e diffondere notizie corrette è essenziale per diffondere un’informazione veritiera su quanto sta accadendo. Sappiamo che la grande maggioranza della stampa non fa un lavoro corretto quando parla di Palestina. Per questo, anche per quanto riguarda le fonti d’informazione, è importante scegliere bene e attuare un boicottaggio selettivo.

Non sta a noi dirvi quali testate seguire o meno. Ma possiamo suggerirvi qualche buona pagina in lingua italiana (ottimo il lavoro del centro di documentazione Invicta Palestina e dell’agenzia di stampa InfoPal), nonché qualche pagina social come Eye On Palestine.

Se invece volete conoscere a fondo la storia della Questione Palestinese e comprenderla per bene, potete leggere e consigliare i libri di Ilan Pappè, Francesca Albanese, Edward Said e Arturo Marzano. Oppure il libro curato direttamente dalla redazione de L’Indipendente: Palestina Papers.

5. Entrare in azione

Azione del gruppo Palestine Action contro una sede scozzese dell’azienda di armi italiana Leonardo SPA(foto di Palestine Action)

In tutto il mondo sono attivi gruppi che, in forme più o meno radicali, cercano di fare atti concreti per aiutare Gaza e per colpire gli interessi israeliani e delle aziende che cooperano attivamente al genocidio. Dai gruppi BDS, attivi anche in molte città italiane, ai tanti comitati e gruppi locali che in ogni città praticano azioni concrete per sensibilizzare l’opinione pubblica o sanzionare le aziende complici, fino ai sindacati di base che cercano di fermare, nei porti di tutta Europa, merci e armamenti destinati a Tel Aviv. Unirsi ai gruppi locali che cercano di attuare strategicamente campagne per sanzionare e colpire l’apartheid israeliana è importante. In alternativa, molte di queste esperienze hanno attive raccolte di fondi che vengono usati per organizzare azioni o sostenere le spese legali degli attivisti colpiti dalla repressione: anche un aiuto monetario rappresenta un’azione concreta per aiutare indirettamente il successo di queste iniziative.

6. Manifestare

Scendere in piazza e far sentire la propria voce resta un’azione importante, quantomeno per far vedere che tantissimi cittadini non intendono assistere senza far nulla e obbligare i media a parlare di Palestina. Da mesi, le manifestazioni sono tante e ripetute su tutto il territorio italiano, incluse le città più piccole. Spesso le manifestazioni sono coordinate e supportate dall’Associazione dei Palestinesi in Italia (API) e da Giovani Palestinesi Italia (GPI). Seguirle su internet o sui social vi terrà informati.

7. Aiutare raccolte fondi e campagne di solidarietà

Ultimo, ma non per importanza: aiutare, ognuno secondo le proprie possibilità, le organizzazioni che agiscono concretamente per assistere i palestinesi con delle donazioni. Le possibilità sono tante; noi, in questa breve guida, ne citiamo alcune, scelte per il fatto di essere direttamente presenti a Gaza, sufficientemente trasparenti e degne di fiducia.

Tra queste vi sono gli Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, associazione che lavora attivamente in Palestina specializzandosi sull’infanzia e la maternità, e contribuisce al sostegno delle bambine e dei bambini palestinesi; SOS Gaza e 100×100 Gaza, promossa dall’ONG Associazione di Cooperazione e Solidarietà e Gaza Freestyle; EmergenzaGaza, rete italo-gazawi che conduce progetti umanitari nella Striscia di Gaza; eSims for Gaza, promossa da Connecting Humanity, un’iniziativa finalizzata a garantire accesso a Internet alla popolazione di Gaza, costretta a frequenti blackout di rete generati dalle milizie israeliane.

La nostra azione per Gaza

Anche noi de L’Indipendente abbiamo scelto di fare la nostra parte, nella convinzione che lo scopo del giornalismo non sia solo raccontare, ma agire concretamente per migliorare le cose. Per questo, destineremo tutto l’incasso dei nuovi abbonamenti al nostro giornale sottoscritti dal 16 al 22 giugno 2025 direttamente alla Al Awda Health and Community Association (AWDA), organizzazione non governativa di medici palestinesi che gestisce l’Ospedale Al-Awda di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, e l’ospedale da campo Al-Awda Field Hospital 1 a Gaza City. Abbonarvi in questi giorni è quindi un modo concreto per aiutare direttamente i medici palestinesi che ogni giorno operano per salvare vite a Gaza e, insieme, per garantirvi un’informazione imparziale e senza padroni, non solo sulla Palestina. Tutti i dettagli dell’iniziativa (improntati alla massima trasparenza) sono disponibili a questo link, mentre per aderire si può cliccare sulla finestra interattiva sottostante.

Gaza, altri 15 palestinesi uccisi vicino a centro aiuti

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Il fuoco dell’esercito israeliano ha ucciso 15 persone che si erano radunate nei pressi di un sito di distribuzione di aiuti umanitari, nel centro di Gaza. Lo ha reso noto l’agenzia di difesa civile dell’enclave, affermando che altre tre persone sono state uccise dai bombardamenti vicino a Gaza City, nel nord del territorio palestinese. Al momento non sono trapelate dichiarazioni da parte delle Forze di Difesa Israeliane. Secondo l’Ufficio stampa del governo di Gaza, dalla fine del mese di maggio almeno 400 persone sono rimaste uccise e quasi 2.000 ferite negli attacchi ai centri di distribuzione.

Migrante inseguito da agenti e lasciato privo di sensi nel CPR: per la questura è “caduto”

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Il Centro di Permanenza e Rimpatrio di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), già più volte finito sotto la lente dei media e di organizzazioni internazionali per le violenze messe in atto sui migranti, sarebbe stato teatro di una nuova aggressione ai danni di un trattenuto. A seguito di una delle numerose rivolte, motivate dalle degradanti condizioni di detenzione al suo interno, un migrante disarmato e senza vestiti è infatti stato rincorso da numerosi poliziotti in tenuta antisommossa, che lo avrebbero violentemente picchiato. Il filmato che testimonia gli effetti del presunto pestaggio sul migrante, realizzato da un altro trattenuto, è stato diffuso dalla rete Mai più lager – No ai CPR, che sottolinea come non si tratti di un episodio isolato, ma di un caso particolarmente violento di quella che è «ordinaria violenza quotidiana» all’interno dei Centri.

Il cuore della denuncia è rappresentato da due video, risalenti allo scorso 5 giugno, filtrati dall’interno del CPR di Gradisca d’Isonzo che mostrano, in sequenza, un migrante in biancheria intima inseguito da agenti in tenuta antisommossa, strattonato e trascinato di peso in una stanza buia, e poco dopo disteso a terra, con il volto e il capo coperti di sangue. Nel primo filmato si distinguono chiaramente le grida – «No, no!» – mentre il fuggitivo è accerchiato; nel secondo, si vede il migrante steso a terra con la faccia insanguinata. Il silenzio è rotto dalla voce di un altro migrante, che riprendendo il volto dell’uomo aggredito dice «è tutto sangue». Il pavimento è sporco e in parte bagnato, gli ambienti cupi; nessun soccorso medico arriva sul luogo. Nell’inquadratura si intravede poi una persona che, quasi meccanicamente, gli solleva la testa. A commentare i filmati è la rete No CPR: «Riceviamo segnalazioni simili almeno una volta la settimana», denunciano gli attivisti, che hanno verificato l’autenticità dei video.

Nonostante tutto, la Questura di Gorizia nega tutto. In una nota scrive che la sera del 5 giugno sarebbe scoppiata una protesta con incendi appiccati nella cosiddetta “zona blu” e le forze dell’ordine sarebbero intervenute per ripristinare l’ordine e proteggere il personale dell’ente gestore. Il video in cui si vede l’uomo trascinato in una stanza, sostiene la Questura, sarebbe documentazione dell’accompagnamento nella sua camera, mentre la ferita sarebbe da addebitare a una «caduta accidentale» del migrante, «secondo quanto da lui riferito e registrato agli atti». Quest’ultimo, continua la Questura, sarebbe già stato «protagonista di episodi con dinamiche compatibili con atti autolesionistici a fini strumentali». Una ricostruzione che appare assai inconciliabile con quanto mostrato nei due filmati, oltre che in un’immagine che mostra la schiena del trattenuto piena di lividi. E peraltro non supportata, momento, da elementi concreti che la corroborino. A reagire contro la nota della polizia sono gli stessi membri della rete No CPR: «La questura diffonde una nota per contestare che si sia trattato di un pestaggio e affermare che è stato solo autolesionismo… non manca di minacciare iniziative contro chi ha parlato di pestaggio: una replica che tradisce profonda difficoltà ed imbarazzo davanti ad un’evidenza inequivocabile della violenza quotidiana dei CPR, che ogni tanto riesce ad emergere».

Le tensioni esplodono in un contesto già segnato da protesta continua: cibo scarso e di pessima qualità, acqua razionata a non più di due bottiglie da mezzo litro al giorno, totale assenza di prodotti per l’igiene, locali degradati. A queste carenze si aggiunge una sospetta epidemia di scabbia: molti trattenuti mostrano pustole pruriginose e macchie cutanee. «Ho avuto modo di esaminarne personalmente alcune e da infettivologo posso dire che c’è il forte rischio che si tratti di scabbia», conferma il dottor Nicola Cocco della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni. In molti casi, l’unico rimedio somministrato è stato «un semplice antistaminico», del tutto inefficace contro il parassita. Il CPR, gestito dalla cooperativa Ekene – nata da Edeco, coinvolta in diverse inchieste – è stato più volte al centro di scandali per maltrattamenti, appalti e decessi sospetti. Nonostante questo, continua ad aggiudicarsi la gestione di centri in tutta Italia.

Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) – organo del Consiglio d’Europa – ha denunciato negli scorsi mesi gravi violazioni dei diritti umani nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio italiani, tra cui anche quello di Gradisca d’Isonzo: maltrattamenti fisici, somministrazione nascosta di psicofarmaci, assenza di assistenza sanitaria e condizioni igieniche vergognose. Lo stesso sistema di supervisione delle forze dell’ordine, riporta il CPT, dovrebbe essere rivisto. Nei CPR vengono infatti inviati a rotazione gruppi antisommossa e d’intervento, mentre sarebbero necessarie figure professionali appositamente preparate e in grado di riconoscere i sintomi di possibili reazioni da stress. Ai migranti non vengono nemmeno garantiti diritti basilari come l’accesso a un avvocato, le informazioni sui propri diritti e la notifica del loro trattenimento a terzi. In un tale contesto di estrema criticità, spesso le società non rispettano i capitolati d’appalto e gestiscono le strutture in modo non trasparente, mentre sono numerose le indagini penali aperte contro i gestori dei centri.

Acciaio, Nippon Steel acquisisce US Steel

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L’azienda giapponese attiva nel settore siderurgico Nippon Steel ha terminato l’acquisizione dell’omologa statunitense U.S. Steel finalizzando quella che hanno definito «partnership storica». L’accordo, dal valore di 15 miliardi di dollari, prevede l’introduzione di una clausola che permette al governo statunitense di avere voce in capitolo sulle decisioni dell’azienda. Washington in particolare avrà un posto nella governance aziendale e potrà esercitare diritto di veto nelle questioni di interesse nazionale. L’acquisizione da parte di Nippon Steel dell’azienda con sede a Pittsburgh arriva dopo 18 mesi di trattative, in cui il governo statunitense si è opposto alla vendita proprio per il timore di perdere il controllo di un’azienda strategica.

Meta riduce la supervisione umana, l’IA giudicherà i rischi per la privacy

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Stando a quanto riportato da documenti interni trapelati alla stampa, Meta avrebbe deciso di ridimensionare gli attuali meccanismi di supervisione progettati per garantire che le modifiche ai propri portali social non comportino rischi eccessivi per la società e per la privacy degli utenti. La Big Tech starebbe infatti valutando la sostituzione dei revisori umani con un sistema automatizzato che rischia, però, di trasformarsi in una forma di autocertificazione, privilegiando l’efficienza e la rapidità a scapito della sicurezza.

Questa evoluzione gestionale è stata inizialmente evidenziata dalla testata The Information, cui ha fatto seguito un’inchiesta di NPR, testata che è entrata in possesso di documenti chiaramente non destinati alla divulgazione pubblica. Secondo quanto emerge dai carteggi, Meta vorrebbe delegare una parte significativa delle verifiche sulle nuove funzionalità a dei modelli di intelligenza artificiale. L’attuale processo, svolto da esseri umani, prevede un confronto interno volto a individuare e prevenire eventuali criticità. Il nuovo approccio mira ad automatizzare circa il 90% delle valutazioni, riducendo in maniera sensibile il numero di dipendenti, i quali avranno più che altro il compito di supervisionare i casi giudicati troppo complessi per la sola IA.

Il cambiamento rappresenterebbe la realizzazione del sogno di molti ingegneri informatici dell’impresa, soggetti che vengono valutati soprattutto in base alla velocità e all’efficienza con cui sviluppano e rilasciano nuove funzionalità per piattaforme come Facebook, WhatsApp e Instagram. Il modello oggi vigente richiede tempo, rallentando non poco la pubblicazione delle innovazioni progettate. Ridurre il coinvolgimento umano consentirebbe un’accelerazione significativa dei cicli di sviluppo e una maggiore reattività nei cambiamenti ai servizi. 

Il timore principale è, tuttavia, che Meta stia abbracciando nuovamente la celebre massima aziendale del “move fast and break things”, privilegiando la rapidità e l’espansione rispetto alla tutela degli utenti. Una strategia che potrebbe rivelarsi rischiosa, soprattutto considerando che l’IA si potrebbe trovare a giudicare situazioni delicate legate alla disinformazione, alla diffusione di contenuti violenti o ai pericoli per i minori.

Meta, del resto, non ha mai mostrato un forte entusiasmo per questo genere di sistemi di supervisione. Il meccanismo che l’azienda si appresta a stravolgere è stato originalmente imposto nel 2012 dalla Federal Trade Commission (FTC), l’ente statunitense per la tutela dei consumatori. Dopo un anno di indagini, l’Agenzia fu in grado di evidenziare che l’allora Facebook fosse probabilmente solita condividere con terze parti una quantità di dati personali che gli utenti non avevano autorizzato a rendere pubblici: il sistema di vigilanza  fu parte integrante di un accordo extragiudiziale stipulato per far cadere le accuse.

Tuttavia, quella soluzione non si è mai distinta per efficacia né per un reale intento protettivo. Già nel 2013, appena un anno dopo l’accordo con la FTC, Facebook dette vita a politiche di raccolta dati che, nel 2018, sono finite al centro dello scandalo Cambridge Analytica. Un caso che ha mostrato quanto il social potesse rappresentare una minaccia concreta alla privacy e al benessere collettivo. Nel 2019, dopo una lunga ed estenuante indagine, la FTC ha inflitto a Meta una multa record da 5 miliardi di dollari per violazioni in materia di privacy e protezione dei dati, imponendo nuove restrizioni e l’adozione di un robusto programma interno di responsabilizzazione, con obblighi che hanno coinvolto anche i vertici aziendali e il consiglio di amministrazione.

L’adozione massiva dell’automazione nei controlli rischia quindi di configurarsi come un espediente per svuotare di significato obblighi normativi che, pur non essendo formalmente revocabili, possono essere indeboliti fino a diventare inefficaci. Una strategia che, tra l’altro, potrebbe acuire le tensioni con l’Unione Europea. Non è affatto scontato, infatti, che un sistema basato su IA sia in grado di rispettare i requisiti previsti dal Digital Services Act, pacchetto di leggi che impone standard rigorosi di trasparenza e due diligence per le piattaforme digitali. Il problema è che, al momento, non esistono indicazioni chiare su come un sistema così profondamente affidato a un’IA possa adempiere a tali obblighi.

L’AIEA sbugiarda i leader UE: “nessuna prova che l’Iran stia fabbricando armi nucleari”

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Dopo una settimana di speculazioni, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica smentisce quanto dichiarato da tutti i leader del blocco Occidentale: l’Iran non sta sviluppando nessuna arma nucleare. A dirlo è stato il direttore dell’AIEA Rafael Mariano Grossi, in occasione di un’intervista all’emittente statunitense CNN: «Ciò che abbiamo riportato è che non avevamo alcuna prova di uno sforzo sistematico per passare a un’arma nucleare». La smentita arriva dopo giorni di bombardamenti israeliani sui siti nucleari iraniani giustificati sulla base di un rapporto dello stesso Grossi, distorto dalla maggior parte dei politici del mondo. Non c’è insomma nessuna «minaccia reale», come definita da Giorgia Meloni: «Per avere un’arma nucleare», infatti, «bisogna metallizzare l’uranio, avere nutrienti, detonatori; bisogna avere materiali da inserire nella testata per farla esplodere. Per non parlare del fatto che potresti volerla testare», ha specificato Grossi; tutte cose, come provato svariate volte da diversi rapporti, che l’Iran non sta facendo.

Nelle ultime settimane, i leader di tutto il mondo stanno utilizzando il rapporto dell’AIEA per giustificare le aggressioni israeliane all’Iran e descriverle come attacchi preventivi. La premier italiana Giorgia Meloni ha parlato di una «minaccia reale», di fronte alla quale «Israele ha diritto di difendersi»; la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha rimarcato «la forte preoccupazione» dell’UE sui programmi nucleari e missilistici balistici dell’Iran, sottoscritta anche dal presidente francese Macron; il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha affermato che Israele sta facendo «il lavoro sporco» per conto nostro, e intimato l’Iran a «fare un passo indietro» suggerendo velatamente un possibile coinvolgimento europeo nel conflitto. Israele, dopo tutto, ha giustificato le proprie aggressioni proprio facendo appello alla presunta intenzione di costruire armi nucleari dell’Iran. L’intervista a Rafael Grossi sbugiarda tutte queste dichiarazioni, mostrando il chiaro intento retorico dei leader occidentali. Grossi taglia la questione alla radice: «C’è questa competizione su chi ha torto o ragione riguardo al tempo necessario all’Iran per costruire un’arma nucleare», ha detto. «Sono speculazioni». «Se ci fosse stata qualche attività clandestina, nascosta o lontana dai nostri ispettori, avremmo potuto saperlo»; eppure, non ci sono prove.

Le parole di Grossi confermano quanto già noto da tempo: non c’è alcuna prova che Teheran si stia dotando di armi nucleari. A gennaio, in occasione della conferenza di sicurezza Cipher Brief, il direttore della CIA William Burns ha affermato che malgrado l’Iran stia aumentando la propria produzione di uranio arricchitonon starebbe producendo alcuna arma nucleare, ipotesi che ha poi ribadito all’emittente statunitense NPR. A marzo, la direttrice dell’intelligence statunitense Tulsi Gabbard ha sottoscritto quanto detto da Burns in occasione di una seduta davanti al Senato. L’Iran, inoltre, è uno dei Paesi firmatari del trattato di non proliferazione nucleare, carta che, di contro, Israele non ha mai ratificato. È a tal proposito noto che lo Stato ebraico sia dotato di armi nucleari sebbene il governo israeliano non abbia mai confermato ufficialmente di possedere un arsenale nucleare.