venerdì 22 Agosto 2025
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Il Mali piega le multinazionali dell’oro al suo nuovo codice minerario

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Alcuni grandi produttori di oro, tra cui la multinazionale quotata a Londra Endeavour Mining, hanno recentemente aderito al nuovo codice minerario del Mali, approvato dalla Nazione africana nel 2023 con lo scopo di sviluppare maggiormente l’economia del Paese. L’obiettivo del nuovo regolamento è convogliare maggiormente i guadagni provenienti dall’estrazione mineraria nelle casse dello Stato, riducendo allo stesso tempo le concessioni a favore delle grandi aziende straniere. Il Mali, tra i principali produttori di oro in Africa, ottiene così un risultato in netta contrapposizione con i dogmi liberisti e neocoloniali: imponendo alle multinazionali di unirsi allo Stato in società che ne controllino l’operato e a condividere effettivamente i profitti affinché le ricchezze del sottosuolo arricchiscano anche il Paese e non solo pochi azionisti. Una strada che si sta aprendo sempre più in Africa, a partire dalla regione più povera del Sahel, dove sempre più governi stanno tracciando nuove rotte per liberarsi dalle storiche catene imposte da poteri economici e politici di stampo coloniale

L’accordo con le società minerarie è stato annunciato alla televisione di Stato a fine luglio dal ministro delle Finanze Alousseni Sanou e dal ministro delle Miniere. Nello specifico, il memorandum d’intesa è stato siglato con Somika SA, di proprietà all’80% di Endeavour e al 20% dello Stato maliano, Faboula Gold e Bagama Mining, ma i termini dell’accordo non sono stati resti noti.

Le tre società rappresentano solo una parte della produzione aurifera del Mali. Faboula e Bagama hanno avviato la produzione nel 2021 con 500 chilogrammi ciascuna, ma tutte e tre sono rimaste per lo più inattive dopo l’entrata in vigore del codice minerario. Il direttore di Somika, Abdoul Aziz, ha reso noto che la costruzione di una nuova miniera della società «inizierà sei mesi dopo la firma dell’accordo e la produzione inizierà 18 mesi dopo», mentre il ministro delle Finanze maliano ha spiegato che «Somika ha un contratto di 10 anni e un fatturato annuo di 135 miliardi di franchi CFA (238,9 milioni di dollari). Bagama e Faboula hanno entrambe un contratto di cinque anni e un fatturato di 50 miliardi e 75 miliardi di franchi CFA», aggiungendo che ciascuna azienda creerà 2000 posti di lavoro.

Il nuovo regolamento sulla produzione, l’estrazione e la vendita di oro, opposto ai principi neoliberisti che limitano il ruolo dello Stato per favorire i privati, si inserisce in un contesto più ampio di decolonizzazione e sovranità che negli ultimi anni ha coinvolto la maggior parte degli Stati del Sahel. In questo quadro di rapidi cambiamenti, le società straniere iniziano a piegarsi alle nuove politiche socialiste e antimperialiste dei Paesi africani. Nello specifico, il nuovo codice adottato a partire da agosto 2023 consente al governo di acquisire una quota del 10% nei progetti minerari e di rilevare un ulteriore 20% entro i primi due anni di produzione commerciale. Inoltre, un’ulteriore quota del 5% potrebbe essere ceduta alla popolazione locale, portando la partecipazione statale e privata del Mali nei nuovi progetti al 35%, rispetto all’attuale 20%. Ma il regolamento ha anche abolito le tante esenzioni fiscali di cui godevano le compagnie minerarie straniere.

Secondo il ministro dell’Economia Alousseni Sanou e il ministro delle Miniere Amadou Keita, il nuovo regolamento garantirebbe ulteriori 500 miliardi di franchi CFA (803 milioni di dollari) all’anno per lo Stato e aumenterebbe il contributo del settore minerario all’economia fino al 20% del prodotto interno lordo, rispetto all’attuale 9%. Il governo maliano aveva annunciato la revisione del codice minerario dopo che un rapporto interno aveva mostrato come il Paese non ricevesse una giusta quota di profitti dall’attività mineraria. Ora, invece, il governo del Paese africano avrà la possibilità di sfruttare le competenze tecniche delle multinazionali per sviluppare il settore, trattenendo però buona parte dei profitti internamente e sviluppando così l’economia locale.

Il Mali, che è uno dei principali produttori d’oro dell’Africa, aveva cominciato a muoversi in questo senso già lo scorso gennaio, quando il governo aveva bloccato l’attività della canadese Barrick Gold, la seconda azienda mineraria più importante al mondo, nel sito di Loulo-Gounkoto, sostenendo che non rispettasse i termini di un contratto che prevedeva una redistribuzione più equa delle ricchezze estratte dalla cava per tutte le parti coinvolte. Tra i termini previsti, vi era proprio un aumento della quota statale dei benefici economici generati dal complesso minerario, secondo quanto previsto dal nuovo codice. Ma il Mali non è certo l’unico Stato del Sahel che si sta muovendo in questa direzione: recentemente, infatti, anche il Burkina Faso ha annunciato la nazionalizzazione delle miniere e ha avviato un processo più ampio di nazionalizzazione delle risorse naturali. Similmente, anche il Ghana ha cacciato le aziende straniere dal suo mercato dell’oro, ordinando di cessare la compravendita e l’esportazione del metallo prezioso e revocando le licenze di esportazione in vigore.

In generale, diversi Stati del Sahel sono accomunati dal medesimo sentimento antimperialista che negli ultimi anni ha portato all’attuazione di diversi colpi di stato nella regione per rovesciare i governi filoccidentali e sostituirli con giunte militari sovraniste e nazionaliste. In seguito ai golpe, in diversi Stati africani sono state cacciate le truppe europee, soprattutto quelle francesi, presenti sul territorio e si è dato avvio al processo di nazionalizzazione delle risorse naturali in una prospettiva chiaramente antiliberista. Protagoniste di questi sviluppi in direzione anticolonialista sono soprattutto Mali, Niger e Burkina Faso che hanno dato vita nel 2024 all’Alleanza degli Stati del Sahel, con l’intenzione di portare avanti un’agenda di decolonizzazione e di indipendenza rispetto alle influenze occidentali. Un obiettivo che queste nazioni stanno realmente perseguendo e di cui il nuovo codice minerario del Mali costituisce un esempio concreto.

USA, Ius soli: giudice federale blocca ordine esecutivo di Trump

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Una giudice federale del Maryland, Deborah Boardman, ha bloccato il decreto di Donald Trump che negava la cittadinanza ai bambini nati da genitori presenti illegalmente o temporaneamente negli USA. È la quarta decisione che annulla il tentativo di Trump di modificare lo Ius soli. L’ingiunzione preliminare di Boardman blocca l’ordine esecutivo a livello nazionale, ma la Corte Suprema ha annullato le sentenze inferiori, sottolineando che i tribunali federali non hanno l’autorità per emettere ingiunzioni a livello nazionale. La Corte non si è però espressa sul merito dello Ius soli, lasciando ai giudici distrettuali il compito di valutare i singoli casi.

Sono stati sviluppati i primi robot con metabolismo meccanico

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Non più solo intelligenti: ora sembra che i robot possano anche “crescere”, adattarsi e persino “guarire”. È quanto emerge da un nuovo studio condotto dai ricercatori della Columbia University, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science Advances. Utilizzando una barra magnetica ispirata ai giochi di costruzione che può autoassemblarsi in strutture complesse e potenziarsi da sola, gli autori hanno annunciato lo sviluppo dei primi robot capaci di trasformarsi fisicamente, grazie a un processo definito “metabolismo meccanico” o “metabolismo robot”. Il tutto, inoltre, grazie al fatto che i coautori hanno dimostrato to come sia possibile costruire macchine in grado di assorbire e riutilizzare parti provenienti dall’ambiente o da altri robot per migliorare le proprie prestazioni. «La vera autonomia significa che i robot non devono solo pensare con la propria testa, ma anche sostenersi fisicamente», spiega il coautore Philippe Martin Wyder, aggiungendo che questa capacità potrebbe aprire la strada a ecologie robotiche autonome, pronte ad affrontare ambienti ostili senza intervento umano.

Fino a oggi, spiegano gli esperti, i robot hanno compiuto enormi progressi nelle loro “menti”, grazie a intelligenza artificiale e apprendimento automatico. D’altra parte, però, i loro corpi sono rimasti sostanzialmente rigidi, inerti e totalmente dipendenti dagli esseri umani per ogni riparazione, aggiornamento o adattamento. A differenza degli organismi biologici, infatti, i robot tradizionali non possono evolversi fisicamente e, se si rompe un pezzo occorre l’intervento umano, mentre se serve una modifica bisogna sostituire persino intere componenti in fabbrica. Per superare questo limite, quindi, i ricercatori del laboratorio Creative Machines della Columbia University hanno cercato ispirazione dalla natura, dove ogni essere vivente cresce, si adatta e si ripara usando moduli biologici fondamentali. Il risultato, spiegano, è un nuovo paradigma chiamato “Robot Metabolism”, in cui ogni robot è pensato come un sistema modulare capace di integrare elementi esterni come fossero amminoacidi biologici. «Alla fine, dovremo far sì che i robot facciano lo stesso: imparare a utilizzare e riutilizzare parti di altri robot», sottolinea Hod Lipson, direttore del laboratorio e coautore dello studio

In particolare, la dimostrazione pratica di questo concetto è avvenuta con il Truss Link, ovvero un elemento semplice ma straordinariamente versatile: si tratta di una barra dotata di connettori magnetici flessibili, capaci di espandersi, contrarsi e agganciarsi tra loro in molteplici configurazioni. I ricercatori hanno mostrato come questi moduli possano autoassemblarsi in forme bidimensionali e successivamente trasformarsi in robot tridimensionali. Ma non solo: una volta formate, le strutture robotiche possono evolversi, modificando la propria architettura per adattarsi all’ambiente. In un caso descritto nello studio, per esempio, un robot a forma di tetraedro ha sviluppato un ulteriore collegamento, simile a un bastone da passeggio, che gli ha permesso di scendere da un pendio con una velocità aumentata del 66,5%. Questo, secondo Wyder, dimostrerebbe che il metabolismo robotico «fornisce un’interfaccia digitale con il mondo fisico e consente all’IA di progredire non solo cognitivamente, ma anche fisicamente, creando una dimensione di autonomia completamente nuova». Le applicazioni future, concludono gli autori, potrebbero riguardare ambiti estremi, come l’esplorazione spaziale o il recupero in scenari di disastro, dove i robot devono operare senza manutenzione umana: «Alla fine non possiamo contare sugli esseri umani per prenderci cura dei robot. Devono imparare a prendersi cura di se stessi», conclude Hod Lipson.

Il Gabinetto di guerra israeliano ha approvato il piano d’occupazione di Gaza

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Secretary of State Antony J. Blinken meets with Israel's War Cabinet in Tel Aviv, Israel, January 9, 2024. (Official State Department photo by Chuck Kennedy)

All’alba di oggi, 8 agosto, al termine di una riunione durata circa dieci ore, il Gabinetto di guerra israeliano – ossia il vertice di governo ristretto che prende le decisioni militari – ha approvato la proposta del primo ministro Benjamin Netanyahu per invadere ed occupare militarmente Gaza. Il piano approvato prevede cinque punti: “il disarmo di Hamas; il ritorno di tutti gli ostaggi vivi o deceduti; la smilitarizzazione della Striscia di Gaza; il controllo di sicurezza israeliano nelle Striscia; l”istituzione di un’amministrazione civile alternativa che non sia né Hamas né l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Il comunicato evita accuratamente di pronunciare la parola occupazione, ma la sostanza non cambia. Secondo quanto riferito dal media israeliano Harretz, il piano prevede l’occupazione militare del 25% del territorio di Gaza che ancora l’esercito israeliano non controlla, e che è proprio la parte in cui si trovano rifugiati gli oltre due milioni di palestinesi, in costante fuga dai crimini di guerra israeliani che hanno già ucciso oltre 60.000 persone. Entro la data rituale del 7 ottobre il piano israeliano prevede di aver sfollato la capitale della Striscia, Gaza City, all’interno della quale vivono circa 800.000 persone, e poi di occuparla per «eliminare tutti i membri di Hamas rimanenti». Secondo quanto precisato da Netanyahu sarà direttamente l’esercito israeliano ad occuparsi della gestione «umanitaria», distribuendo «assistenza alla popolazione civile al di fuori delle zone di combattimento». Significa evidentemente che non sarà consentito di operare né all’ONU, né alla Croce Rossa Internazionale, né ad alcuna organizzazione umanitaria.

Secondo quanto riferito da diversi media israeliani la riunione del Gabinetto di guerra è stata contraddistinta da aspre discussioni, specie a seguito delle rimostranze emerse da parte dei vertici dell’esercito israeliano, in parte contrari all’idea di invadere e occupare militarmente Gaza. Nelle strade di Tel Aviv durante la notte ci sono state anche le proteste di parte dell’opposizione e dei parenti degli ostaggi. Tuttavia la decisione è stata presa a maggioranza, sancendo la decisione israeliana di violare in maniera definitiva il diritto internazionale, dopo aver umiliato per ventidue mesi quello di guerra e quello umanitario al punto da doversi difendere presso la Corte di Giustizia Internazionale dall’accusa di genocidio e da avere il proprio primo ministro e due ministri colpiti da un mandato di arresto internazionale da parte della Corte Penale dell’Aja per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Con la decisione del Gabinetto di guerra Israele ha deciso di farsi beffe contemporaneamente di decine di risoluzione dell’ONU (a cominciare dalla numero 181, che nel 1948 assegnò la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est allo Stato di Palestina) e occupare militarmente una terra straniera con il pretesto dalla lotta al terrorismo.

Francia, domato il più grande incendio degli ultimi decenni

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Dopo aver bruciato più di 160 chilometri quadrati nel sud del Paese e aver causato una vittima e 13 feriti, il più grande incendio boschivo in Francia degli ultimi decenni è stato finalmente domato. Lo hanno riferito le autorità francesi. Il rogo è divampato martedì e ha devastato la regione dell’Aude, diffondendosi rapidamente a causa del clima caldo e secco. Le temperature più fresche durante la notte e i venti più calmi ne hanno rallentato l’avanzata e hanno permesso ai vigili del fuoco di procedere. L’incendio ha interessato 15 comuni della regione montuosa delle Corbières, distruggendo o danneggiando almeno 36 abitazioni. 

In pochi anni l’Etiopia ha piantato 40 miliardi di nuovi alberi

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In sei anni, l’Etiopia ha piantato oltre 40 miliardi di alberi, segnando una delle campagne di riforestazione e contrasto alla desertificazione più imponenti del mondo. Il traguardo è parte della Green Legacy Initiative, lanciata nel 2019 dal primo ministro Abiy Ahmed con l’ambizioso obiettivo di raggiungere 50 miliardi di alberi messi a dimora entro il 2026. In queste settimane, il governo etiope ha in particolare avanzato l'ambiziosa sfida di piantare 700 milioni di alberi in un solo giorno. La campagna, annunciata a fine luglio, fa parte del piano per il 2025, che punta a mettere a dimora 7...

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Solo 22 Paesi stanno perseguendo gli impegni climatici stabiliti alla COP28

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A quasi due anni dall’intesa raggiunta alla Conferenza delle Parti di Dubai (COP28), in cui oltre 130 Paesi si impegnarono a triplicare la capacità mondiale di energie rinnovabili entro il 2030, gran parte dei governi non ha ancora tradotto quella promessa in azioni concrete. Secondo un rapporto del gruppo di esperti climatici Ember, in particolare, solo 22 Stati – in prevalenza membri dell’Unione Europea – hanno innalzato i propri obiettivi nazionali sulle rinnovabili dal ventottesimo vertice sul clima. Il risultato è un incremento globale delle ambizioni di appena il 2% rispetto a quanto dichiarato allora: sufficiente, forse, a raddoppiare la capacità rispetto ai livelli del 2022 (7,4 terawatt previsti), ma ben lontano dagli 11 terawatt che vennero fissati come traguardo da raggiungere.

Oltre agli Stati Membri dell’UE, solo sette Paesi hanno aggiornato i propri piani, ma tra questi, Messico e Indonesia li hanno addirittura modificati al ribasso. Colossi come Stati Uniti, Cina e Russia – responsabili insieme di quasi metà delle emissioni globali – non hanno compiuto passi avanti. Washington e Mosca non dispongono nemmeno di obiettivi per il 2030, mentre Pechino potrebbe definire la sua strategia nel prossimo piano quinquennale. L’India, pur non modificando i propri target, punta già a 500 gigawatt di rinnovabili entro il 2030, in linea con il traguardo globale. Il Vietnam, invece, è il Paese che ha mostrato la maggiore ambizione dopo la COP28, promettendo +86 gigawatt entro la fine del decennio. Per arrivare a dei sistemi elettrici quasi a zero emissioni, Australia e Brasile hanno annunciato aumenti rispettivamente di 18 e 15 gigawatt, mentre il Regno Unito ha rivisto al rialzo i propri piani (+7 gigawatt), così come la Corea del Sud che prevede una crescita di 9 gigawatt. Senza un’accelerazione immediata, avvertono gli analisti, la dipendenza dal fossile resterà però elevata. L’Italia dal canto suo ha conseguito appena il 22% dell’obiettivo 2030 fissato nel Decreto Aree Idonee, mancando all’appello 62 gigawatt che a questo punto andrebbero aggiunti in sei anni, quindi una decina di gigawatt in media ogni dodici mesi. L’Italia, assente alla votazione finale della COP28, si era distinta per un atteggiamento allineato alle posizioni più conservatrici di Dubai. Pur proponendosi come primo donatore, con 100 milioni di dollari, al fondo “Loss and damage” per i Paesi più vulnerabili, Roma non ha chiarito la provenienza dei fondi, legandoli genericamente al “Piano Mattei”, strategia che punta a fare dell’Italia un hub europeo del gas.

Nel complesso, comunque, già l’esito della COP28, nonostante fu il primo accordo a porsi l’obiettivo della “transizione dai combustibili fossili”, con l’obiettivo dell”azzeramento delle emissioni entro il 2050, non lasciava presagire un cambio di passo deciso. Il tanto celebrato “storico” accordo sulla transizione dai combustibili fossili, il “Global Stocktake”, risultava infatti privo di impegni vincolanti, scadenze chiare o un vero “phase out” (eliminazione graduale), sostituito dal più vago e accomodante verso i grandi produttori di petrolio e gas termine di “transitioning away” (transizione). Le pressioni dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, e l’attenzione per tecnologie controverse come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, utili più a prolungare la vita delle fonti fossili che a ridurne l’uso, avevano già ridimensionato le aspettative. A distanza di quasi due anni, il quadro tracciato dal rapporto Ember conferma queste preoccupazioni: la maggior parte dei governi non ha alzato l’asticella delle rinnovabili, e alcuni l’hanno persino abbassata, mentre le potenze responsabili di gran parte delle emissioni continuano a rimandare. In un contesto in cui persino i vertici sul clima diventano vetrine per nuovi accordi fossili – come quelli stretti dall’emiratina ADNOC , il cui CEO guidava i negoziati, con 15 Paesi inclusa l’italiana ENI – e in cui interessi economici e geopolitici prevalgono sull’urgenza ecologica, il rischio è che la promessa di triplicare le rinnovabili entro il 2030 resti un impegno di facciata, incapace di tenere viva la speranza di contrastare veramente la crisi ecologica in corso.

Belgio, tribunale vieta transito di materiale militare verso Israele

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Il Tribunale di Bruxelles ha ordinato al governo fiammingo di bloccare un container di equipaggiamento militare nel porto di Anversa e di vietare qualsiasi futuro transito di armi verso Israele. È stata anche imposta una multa di 50.000 euro per ogni spedizione. A  giugno, quattro associazioni, tra cui Vredesactie, avevano evidenziato che le regioni belghe sono responsabili del controllo del transito delle armi e dei loro componenti. Nonostante il divieto di esportazione verso Israele dal 2009, l’udienza ha rivelato che il governo fiammingo controllava le armi solo su richiesta delle compagnie di trasporto.

Geoingegneria di nascosto: un’inchiesta rivela test segreti per “non spaventare” il pubblico

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Nel 2022, un gruppo di scienziati californiani aveva tentato di condurre un esperimento sul clima, poi interrotto dopo appena venti minuti dalle autorità locali che non ne erano state informate. Sembrava un episodio isolato, poco più che una prova tecnica, ma un’inchiesta rivela ora che quel piccolo esperimento sembrava essere solo l’inizio di una pratica, in quanto nei documenti interni e dai messaggi tra i ricercatori emergerebbe un secondo test mai annunciato pubblicamente e molto più ampio, comprendente un’area paragonabile alla superficie di Porto Rico. Il tutto, secondo oltre 400 documenti interni ottenuti tramite una richiesta di accesso agli archivi all’Università di Washington, con la scelta consapevole di non parlarne affatto e agire nell’ombra per non «spaventare il pubblico». I funzionari dell’Università, intervistati dalla stampa, non hanno risposto nel merito, preferendo sottolineare lo scopo tecnico dell’iniziativa e l’importanza del dimostrare che gli strumenti per creare nuvole possono funzionare in condizioni reali.

La geoingegneria solare è una frontiera controversa della scienza climatica. Si basa su un’idea semplice e radicale: raffreddare il pianeta riflettendo una parte della luce solare prima che raggiunga la superficie terrestre. Tra le tecniche più studiate c’è il rilascio controllato di aerosol nell’atmosfera, capace — in teoria — di abbassare la temperatura globale, un po’ come avviene dopo grandi eruzioni vulcaniche. Ma la sua applicazione è tutto fuorché semplice e, secondo diversi critici, gli effetti collaterali potrebbero includere cambiamenti nelle piogge, impatti climatici disomogenei su scala regionale e problemi in caso di interruzione improvvisa del processo. Anche per questi motivi, la comunità scientifica ha più volte chiesto massima trasparenza, supervisione pubblica e dibattito democratico prima di procedere con qualsiasi sperimentazione, in quanto è opinione largamente condivisa che nulla vada fatto senza un consenso informato dell’opinione pubblica. Ed è proprio su questo punto che la vicenda californiana sembra diventare tutt’altro che rassicurante.

In particolare, secondo i documenti ottenuti in esclusiva dal media statunitense Politico, il primo test di aerosol fu condotto nel luglio 2022 nei pressi della USS Hornet, ad Alameda. Un pallone contenente particelle riflettenti fu lanciato in atmosfera, ma l’operazione fu interrotta poco dopo — appena venti minuti — dalle autorità locali, per mancanza di permessi adeguati. Fino a quel momento, il progetto era stato descritto dai ricercatori come un semplice esperimento dimostrativo, ma l’inchiesta ha portato alla luce uno scenario molto diverso: nelle e-mail private e nei piani di lavoro si parla apertamente di un secondo esperimento, di scala molto più ampia, che non solo non è mai stato annunciato pubblicamente, ma che sembrava essere stato deliberatamente omesso nelle comunicazioni ufficiali. «Non vogliamo spaventare il pubblico», scrive un membro del team in una delle conversazioni interne, mentre un altro suggerisce di non parlare del secondo esperimento fino a quando il primo non fosse stato completato «senza incidenti». Dai documenti si legge che il progetto prevedeva la nebulizzazione di acqua salata su un’area oceanica di 3.900 miglia quadrate, con l’obiettivo di attenuare i raggi solari. Inoltre, secondo l’inchiesta emerge che il test sarebbe stato condizionato al successo del primo – anch’esso mai discusso con le comunità locali e con le autorità – e che il team sperava di ottenere sostegno e risorse governative, come l’accesso a navi ed aerei, per portare avanti la fase successiva. Di fronte alle domande dei giornalisti sul secondo esperimento, l’Università di Washington avrebbe sorvolato la portata del progetto e il suo possibile impatto sui modelli climatici, spiegando che l’obiettivo era soltanto verificare se la tecnologia per generare nuvole fosse operativa in condizioni reali. Nessuna volontà di agire nell’ombra, hanno assicurato, nonostante i documenti interni sembrino raccontare tutta un’altra storia.

Il governo impugna la legge siciliana che vuole medici che garantiscano il diritto all’aborto

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Il governo ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale la legge siciliana che obbligava gli ospedali pubblici ad assumere medici non obiettori di coscienza per garantire il diritto all’aborto ai propri pazienti. La legge era stata approvata lo scorso giugno, e imponeva agli ospedali di indire concorsi per assumere medici non obiettori nonché di provvedere alla loro sostituzione nel caso in cui avessero deciso di diventare tali in un secondo momento. Secondo l’esecutivo, la norma violerebbe la competenza statale in materia di ordinamento civile, nonché «i principi di uguaglianza, di diritto di obiezione di coscienza, di parità di accesso agli uffici pubblici e in tema di pubblico concorso».

L’annuncio di impugnazione della legge siciliana da parte del governo è arrivato il 4 agosto. La legge siciliana prevede che i reparti di ostetricia e ginecologia degli ospedali della regione si dotino di aree dedicate alla pratica, laddove non siano già presenti; entro metà settembre, l’assessore regionale per la salute dovrebbe fornire indicazioni sul funzionamento e l’organizzazione di tali aree. La norma stabilisce infine che esse siano sempre dotate di personale non obiettore di coscienza, e che vengano istituiti concorsi appositi per la loro assunzione. Il governo ha contestato alla norma la violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che stabilisce che lo Stato ha “legislazione esclusiva” in materia di “ordinamento civile”; contestati anche gli articoli 2, 3, 19, 21, 51, primo comma, e 97 della Costituzione. Secondo il governo, insomma, la legge siciliana minerebbe: “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; il principio di uguaglianza; il diritto di professare la propria fede religiosa; la libertà di opinione, e precisamente la libertà di esercitare il diritto di obiezione; la libertà di accesso agli uffici pubblici. Violerebbe, infine, il funzionamento dei concorsi pubblici. Secondo il governo, insomma, la legge fornirebbe una via di accesso privilegiato ai medici non obiettori.

Il diritto all’aborto in Italia è stato introdotto dalla legge 194 del 1978. Sebbene esso sia garantito, in Italia i medici obiettori di coscienza sono la maggioranza, e le strutture che offrono il servizio sono poche. I dati a disposizione sul tema sono ridotti: l’ultima relazione sull’attuazione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) è stata pubblicata a fine 2023 con i dati definitivi del 2021. Essa riferisce che in quell’anno, in Italia, 335 sedi ospedaliere su 562 dotate di un reparto di ostetricia (o ginecologia) garantivano l’accesso all’aborto, pari al 59,6% del totale; sempre su scala nazionale, la relazione illustra inoltre che il numero di obiettori è pari al 63,4% dei ginecologi, al 40,5% degli anestetisti e al 32,8% del personale non medico. In Sicilia l’accesso al servizio è molto più complicato: dei 56 ospedali dotati di un reparto di ostetricia o ginecologia, solo la metà garantisce l’IVG. Il tasso di obiettori, invece, risulta essere dell’85% tra i ginecologi, del 69,8% tra gli anestetisti e del 71,5% tra il personale non medico.