Con l’inizio di novembre, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha inaugurato l’“elenco degli influencer rilevanti”, un registro che impone nuovi obblighi per i creatori di contenuti più seguiti in Italia. Non un albo professionale, bensì di un intervento amministrativo volto a mettere ordine in una categoria lavorativa ancora non recepita in tutte le sue complessità. L’iniziativa prende le mosse dalla Delibera 197/25/CONS, pubblicata il 5 agosto 2025, la quale ha definito un codice di condotta destinato agli influencer con almeno 500.000 follower o un milione di visualizzazioni medie mensili su di una singola piattaforma. La misura è stata spesso descritta come una forma di “albo”, ma è in realtà lontana dalle logiche che regolano professioni come quella di medici, avvocati o giornalisti: l’elenco non è gestito da un ordine, non richiede competenze specifiche, né prevede esami di ingresso. L’unico “adempimento” previsto consiste in un’autosegnalazione tramite il modulo telematico lanciato lo scorso 6 novembre.
L’iscrizione, dunque, non limita l’attività di chi desidera intraprendere la carriera dell’influencer — obiettivo che sarebbe, di fatto, impraticabile —, ma mira a stabilire principi generali: correttezza dell’informazione, divieto di incitamento alla violenza, trasparenza nei contenuti commerciali, segnalazione esplicita della presenza di filtri o modifiche sostanziali alle immagini pubblicate. L’idea di fondo è che le figure seguite da centinaia di migliaia di persone, spesso più influenti dei protagonisti della stampa e dei mezzibusti televisivi, debbano rispondere pubblicamente delle proprie dichiarazioni e rispettare standard comunicativi analoghi a quelli dei media tradizionali, evitando pubblicità occulte e pratiche commerciali torbide.
Coloro che rientrano nei parametri fissati dalla Delibera dovrà comunicare all’AGCOM i propri dati anagrafici, il nom de plume, i link alle piattaforme social, le metriche aggiornate delle stesse e i recapiti dei referenti ufficiali, così da consentire un contatto diretto in caso di necessità. L’Autorità, dal canto suo, pubblicherà ogni sei mesi un elenco aggiornato degli influencer “rilevanti”, includendo anche soggetti che non hanno provveduto a compilare il web form, i quali potranno però chiedere entro 15 giorni rettifiche o contestare la loro inclusione nella lista. Il provvedimento prevede sanzioni fino a 600.000 euro per le violazioni più gravi — in particolare quelle dannose per i minori o che incitano all’odio — anche se, nella maggior parte dei casi, le multe difficilmente supereranno i 250.000 euro, soglia prevista per la mancanza di trasparenza nei contenuti commerciali. L’AGCOM potrà inoltre sospendere i canali dei soggetti iscritti per un periodo massimo di sei mesi.
Nel complesso, l’iniziativa rappresenta un primo passo verso la normalizzazione di una categoria che, pur avendo conquistato un peso sociale crescente, continua a muoversi in un contesto normativo frammentario e incerto. Quanto al timore di derive censorie, va sottolineato che solo una minoranza di creator italiani raggiunge le soglie previste — si parla di circa duemila soggetti — e che la definizione di “influencer” adottata dall’Autorità riguarda esclusivamente chi utilizza i social media per finalità commerciali. Un dettaglio non irrilevante, che lascia un’ampia zona grigia nella classificazione di personaggi pubblici attivi online e dell’intera classe politica e dirigenziale.
SINJIL, PALESTINA OCCUPATA – «Questa terra l’ho ereditata da mio nonno,» dice Souad, lo sguardo triste, ma non rassegnato mentre osserva la collina piena di ulivi davanti a noi. «Sono 45 anni che la lavoro, fino ad oggi. Non era così prima. Erano pietre, rocce… ho speso molti soldi per questa terra. Per questo la vedi così.» Scuote la testa. «Questo è il primo anno che non posso raccogliere. I militari l’hanno dichiarata zona militare chiusa, e hai visto cosa è successo.» Souad è di Sinjil, un paesino palestinese a 15 km da Ramallah. Qui è nato circa 65 anni fa; i campi, gli uliveti, sono da sempre stati parte della sua vita, così come lo sono per decine di migliaia di famiglie palestinesi in Cisgiordania occupata. L’olio è l’oro verde della terra per i palestinesi, una risorsa economica ancora più importante dal 7ottobre 2023 a causa dell’aumento dei prezzi in Cisgiordania e della difficoltà economiche che toccano molte famiglie, rimaste senza lavoro.
La stagione delle olive sta volgendo al termine e quest’anno si sta caratterizzando come uno dei più violenti per i raccoglitori palestinesi. Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti (la Wall and Settlement Resistance Commission), l’esercito israeliano e i coloni hanno compiuto un totale di 259 attacchi contro i raccoglitori di olive dall’inizio della stagione, ossia dai primi di ottobre fino al 28 del mese. Limitazioni di movimento per gli agricoltori, minacce, aggressioni fisiche, furti di olive, incendi e distruzione di alberi; tutte modalità che vengono utilizzate da anni per allontanare i palestinesi dalla propria terra, impedirgli la raccolta e lasciare i coloni prendersi sempre più terre.
Ad accompagnare Souad c’erano una decina di palestinesi e una ventina di attivisti internazionali venuti da tutto il mondo proprio a sostenere le comunità della Cisgiordania in questo delicato momento dell’anno. Appena arrivati, abbiamo trovato il cancello – uno dei 916 cancelli e barriere di metallo installate dagli israeliani in questi ultimi anni per aprire e chiudere a piacimento le strade e i villaggi palestinesi – di Sinjil chiuso. L’ordine che rendeva la zona una “closed military zone” l’abbiamo ricevuto mentre già camminavamo per gli uliveti. Questi ordini militari sono una delle forme per impedire la raccolta agli agricoltori: la forza occupante dichiara temporaneamente la zona “chiusa” ai civili, tendenzialmente proprio i giorni in cui la famiglia si appresta a raccogliere. È così che il 16 ottobre hanno arrestato 32 attivisti internazionali, la maggior parte israeliani, mentre partecipavano alla raccolta delle olive in uno dei villaggi che più subiscono la violenza dei coloni, Burin. Gli internazionali, che sostenevano la UAWC (Union of Agricultural Work Committees), una organizzazione palestinese senza scopo di lucro che si occupa di sviluppo agricolo – etichettata da Israele come organizzazione terroristica nel 2021 – dopo 72 ore di detenzione sono stati espulsi dal territorio. E alle famiglie palestinesi è stata impedita la raccolta.
Sinjil, Cisgiordania occupata
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Foto di Moira Amargi
Foto di Moira Amargi
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La famiglia di Souad e gli attivisti, rastrelli in pugno, iniziano a tirare già le olive dai rami: non passa nemmeno mezz’ora che si presentano tre coloni a disturbare gli agricoltori, telefoni in mano filmando ogni volto. A qualche centinaio di metri, una colona israeliana pascola delle pecore.
Quasi immediatamente si presentano due militari, mitra in pugno e volto semi-coperto. Intimano di fermare il lavoro e andare via, quella è una zona militare chiusa e non sono autorizzati a raccogliere. Dietro, i coloni attendono le contrattazioni, le discussioni, e infine la raccolta dei materiali e l’abbandono del campo.
L’esercito israeliano e i coloni fanno parte dello stesso disegno di colonizzazione della Cisgiordania: la violenza dei secondi è spinta e sostenuta da buona parte della classe politica israeliana, che non solo ha regalato decine di migliaia di M-16 ai circa 700mila coloni illegali che abitano in almeno 270 colonie e avamposti, ma ne ha di fatto assicurato l’impunità davanti alla legge per eventuali crimini contro i palestinesi. Spesso si trovano coloni armati di bastoni, pietre, ma anche armi, minacciare o aggredire palestinesi con dietro i militari israeliani che osservano la scena senza intervenire se non per arrestare qualche palestinese. O per lanciare gas lacrimogeni e bombe stordenti per mandare via tutti.
Sinjil, Ciscgiordania Occupata
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Foto di Moira Amargi
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Beita, una storia di resistenza
Beita è un paesino di 12mila abitanti a pochi chilometri da Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata. Circondato da tre colonie e outpost, è un territorio in resistenza dall’inizio dell’occupazione sionista. La proteste si sono intensificate quando nel 2021 la popolazione del paese ha scoperto che il monte Sabih, accanto al villaggio, sarebbe diventato una nuova colonia. Settlers israeliani in pochi giorni iniziarono a portare caravan e a occupare la terra, costruendo l’avamposto di Evyatar. I cittadini di Beita risposero con una forte resistenza, durata senza interruzioni per tre mesi, nel tentativo – poi riuscito – di mandare via i nuovi coloni. Ma la zona rimase occupata dagli israeliani, che proposero di farne una base militare, e da anni tutti i venerdì dopo la preghiera gli abitanti si muovono in protesta per la cittadina. Di fatto i coloni tornarono e nel 2024, sfruttando l’ondata di occupazioni illegali post 7 ottobre, il governo ha comunque legalizzato l’outpost, dichiarando Evyatar una nuova colonia ufficiale, rubando 66 dunams di terra dai villaggi di Beita e Qabalans. È in una delle proteste del venerdì contro la nuova colonia che l’anno scorso, il 6 settembre 2024 Ayşenur Eygi è stata uccisa con un proiettile da un cecchino israeliano. L’attivista turco-americana era membro di ISM, il movimento di solidarietà internazionale che da anni sta accanto ai palestinesi in Cisgiordania. Ayşenur è così diventata la 18esima vittima uccisa dai soldati di Tel Aviv dal 2020 a Beita.
Foto di Moira Amargi
Anche qui la raccolta delle olive sta diventando ogni anno più complicata: sembra un film già visto, ma che si ripete a velocità e intensità ogni volta più forte. Coloni armati, incendi, furti e violenze di vario tipo contro la popolazione palestinese del villaggio, mentre sempre più terreni vengono raggiunti da ordini di chiusura militare e agli agricoltori viene impedita la raccolta.
Il 1° novembre una cinquantina di persone tra attivisti internazionali e palestinesi, si sono recati negli uliveti tra Beita e Osarin per raccogliere le olive. Nel gruppo erano presenti anche vari membri della Mezzaluna rossa, il pronto intervento nel caso ci fossero persone ferite. La normalità a Beita: ogni manifestazione finiva con qualche ferito, che fosse per proiettili, gas lacrimogeni, o altro. Un film già visto.
Foto di Moira Amargi
Nemmeno si era iniziato a raccogliere che tre macchine di militari e Border Police arrivano verso il gruppo e si avvicinano, armi in pugno. Ci riprendono coi telefonini, iniziano a chiedere documenti a vari attivisti e ai giornalisti palestinesi. Non vogliono che si raccolga in una certa zona, il perché, è oscuro. Di fatto ci circondano, e ci seguono per ore. «La resistenza è anche questo» dice Kamal (nome di fantasia), abitante di Beita e membro della Mezzaluna rossa. «Stare qui, su questa terra, bere un caffè e fumare una sigaretta è una forma di resistenza». Sorride, mentre seduto a terra fuma una Capital e guarda i militari intorno a noi. «Hanno ucciso e ferito molte persone qui. Ma continuiamo a resistere. Non andremo via da questa terra.» Però, aggiunge, la situazione peggiora. Il pezzo di terra che i militari non ci lasciano raggiungere era sempre stato lavorato gli anni precedenti. «E’ la prima volta che non possiamo raccogliere lì» dice, indicando gli alberi poco lontano, oltre i militari.
Lungo la strada, a poche decine di metri da dove eravamo, una macchina giace carbonizzata. È ciò che resta di uno dei più recenti attacchi dei coloni, una ventina di giorni prima, quando in 70 hanno aggredito i palestinesi impegnati nella raccolta. Almeno 7 i feriti, tre le macchine in fiamme. I soldati israeliani, presenti sulla scena, hanno lasciato fare, impegnandosi solo a lanciare bombe stordenti e lacrimogeni contro i palestinesi che già provavano a sottrarsi alla violenza dei coloni. Gli attacchi si sono ripetuti in tutto il territorio della Cisgiordania, soprattutto nelle zone di Ramallah e Nablus, ma anche nel governatorato di Hebron, Jenin e Betlemme.
L’auto carbonizzata, testimone dei recenti attacchi dei coloni. Foto di Moira Amargi
Mentre stavamo andando via, ci siamo fermati a mangiare al bordo della strada che riporta al paese di Osarin. Erano appena arrivati i falafel quando è scattato l’allarme: i coloni stanno scendendo dal settlement per attaccarci. Immediatamente si inizia la ritirata e il gruppo comincia a correre sopra la collina verso il villaggio. Appena in tempo. A poche decine di metri, spuntano una quindicina di coloni mascherati, bastoni in mano, alcuni lanciano pietre, ma siamo già lontani e sopra di loro, in posizione favorevole. Vari giovani palestinesi si tengono pronti a ricacciarli indietro, pietre in mano e una frombola, la memoria ancora vivida dell’ultimo sanguinoso attacco subito. I settlers rimangono lontani e poi si allontanano verso la colonia. Da non si sa bene dove vengono sparati due lacrimogeni contro di noi; nulla invece cerca di dissuadere i coloni dall’aggredirci.
La violenza dei coloni
Dal 7 ottobre 2023, i coloni hanno compiuto un totale di 7.154 attacchi contro cittadini palestinesi e le loro proprietà, causando la morte di 33 palestinesi in Cisgiordania. 14 solo dall’inizio dell’anno. Sommati alle morti causate dai militari di Tel Aviv, secondo l’agenzia di stampa Anadolu Ajansi in poco più di due anni sono stati uccisi 1.066 palestinesi in Cisgiordania, e oltre 10.300 i feriti. Mentre le aggressioni contro i palestinesi, le loro proprietà e le loro terre -agite da militari e coloni – supera le 38mila unità.
Sgomberi, demolizioni, arresti arbitrari e raid sono all’ordine del giorno. Almeno 33 le comunità beduine sgomberate con la forza.
Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti, gli attacchi dell’occupazione israeliana e dei coloni hanno anche sradicato, distrutto o danneggiato un totale di 48.728 alberi, tra cui 37.237 ulivi.
Foto di Moira Amargi
Una violenza che sembra aumentare ogni anno, in perfetta linea con i progetto di occupazione e annessione territoriale sempre più esplicito di Tel Aviv. Mentre i coloni provano a scacciare con la violenza le comunità palestinesi e occupano nuove terre, il governo israeliano continua con la legalizzazione degli avamposti e la “statalizzazione” di ettari di terreni intorno alle colonie esistenti, la distruzione di proprietà palestinesi, gli arresti e l’occupazione di interi campi profughi nel nord del paese.
Il 19 ottobre, una quarantina di coloni ha aggredito un numeroso gruppo di palestinesi e internazionali impegnato nella raccolta delle ulive a Turmus Ayya, nei pressi di Nablus, dando fuoco a due macchine e ferendo almeno tre persone.
Due attivisti internazionali, Omar e Robin, erano parte de gruppo che è stato aggredito. «Domenica 19 ottobre siamo arrivati nell’uliveto, di proprietà di diverse famiglie palestinesi di Turmus Ayya. Questa comunità è a rischio a causa di una colonia che ormai già da tempo è sorta al limite della città, sopra una collina, e di nuovi insediamenti molto più recenti, di meno di un anno. A causa di questi ultimi il numero di aggressioni verso i palestinesi che si recano a fare attività nei loro uliveti da generazioni è estremamente a rischio. I coloni infatti spesso attaccano in massa, come questa volta,» racconta Omar, attivista italiano di ISM (International Solidarity Movement) a L’Indipendente.
«Due giorni prima c’era stato un attacco minore dei settlers durante la raccolta delle olive. Ma quel giorno fu ancora più violento,» continua Robin, anche lui attivista – svedese – parte di ISM.
«Non abbiamo fatto in tempo a raccogliere nemmeno un oliva. Di fatto appena siamo arrivati è iniziata l’aggressione; tutti hanno cominciato a scappare, ma c’era una donna che era rimasta indietro e non era riuscita a salire sulle macchine in partenza. I settlers l’hanno a raggiunta e uno ha iniziato a colpirla con un bastone in testa. La donna è caduta a terra, priva di sensi, ma il colono continuava a bastonarla brutalmente. Ci siamo messi in mezzo, cercando di attirare l’attenzione dei coloni su di noi; ha funzionato.» Nel video si vede uno dei due internazionali venire colpito ripetutamente da tre coloni. È Omar, che si era anche lui messo di traverso dopo che Robin era caduto a terra, colpito da pietre e bastonate.
La donna, sopra i cinquant’anni, è stata poi trasportata in ospedale con una emorragia cerebrale. Le hanno messo 25 punti.
Foto di Moira Amargi
«Questa donna è stata attaccata solo per essere una donna palestinese, e la sua unica colpa è di essere stata con la sua famiglia, a raccogliere le olive sulla sua terra. E per questo, è quasi morta.» continua Robin. L’attivista ha avuto una frattura al braccio destro, ferite in testa, sulle mani e sulle gambe. «Ma la violenza usata contro di noi non è equiparabile rispetto alla violenza agita contro i palestinesi, come verso quella donna». Robin è la terza volta che viene in Palestina; secondo la sua esperienza, ogni volta la violenza agita dagli israeliani di cui è testimone non fa che aumentare.
«Nel momento in cui i coloni israeliani se ne sono andati, è comparsa una camionetta militare della polizia di frontiera, la border police. In questi giorni di attivismo ho potuto notare come soldati, polizia di frontiera e coloni siano coordinati. Quindi come nel momento in cui i soldati non ci sono i coloni iniziano ad aggredire, e invece quando arrivano i militari – che sia la border police o i soldati dell’esercito- sono loro a cercare di allontanare i palestinesi dai campi, tramite la minaccia di arresti, lacrimogeni e bombe stordenti. In entrambi i casi le azioni che intraprendono sono tutte mirate verso l’intimidazione e l’aggressione alle comunità palestinesi,» conclude Omar.
Anche lui ha subito varie contusioni, e una ferita in testa. Ma non ha smesso di raccogliere insieme alle famiglie che chiedono una presenza internazionale nella speranza che la violenza dei coloni e dei militari si abbassi. «Dobbiamo stare al fianco dei palestinesi. Qui, come nei nostri paesi. Lottare l’occupazione. Stare al loro fianco, nella resistenza quotidiana», conclude Robin. «Finché la Palestina non sarà libera».
Thailandia e Cambogia si sono accusate vicendevolmente di avere aperto il fuoco lungo il confine. Gli scontri sono avvenuti in un territorio conteso, e hanno portato all’uccisione di un soldato cambogiano e al ferimento di altri tre militari. I combattimenti arrivano in un momento di tensione tra i due Paesi: la Thailandia ha recentemente sospeso l’entrata in vigore della tregua firmata con la mediazione di Trump dopo gli scontri dello scorso luglio, in cui i due Paesi si sono cambiati attacchi aerei. Bangkok ha chiesto le scuse di Phnom Penh dopo che un soldato è rimasto gravemente ferito a causa dell’esplosione di un mina.
Ursula von der Leyen ha avviato l’istituzione di un nuovo organismo di intelligence sotto il controllo diretto della Commissione. L’obiettivo è quello di unificare le informazioni provenienti dalle diverse intelligence nazionali per migliorarne l’utilizzo e avere maggiori dati a disposizione. L’unità verrà costituita all’interno del segretariato generale della Commissione e prevede di assumere funzionari provenienti da tutta la comunità di spionaggio dell’UE così da raccogliere informazioni per scopi comuni, come riferito dal Financial Times (FT). Tuttavia, secondo alcune fonti, con ogni probabilità il piano sarà osteggiato dai governi nazionali, considerato che la condivisione di informazioni di intelligence è un argomento estremamente sensibile e che non è prevista un’agenzia di spionaggio sovranazionale. Il portavoce della Commissione europea, Balazs Ujvari, ha spiegato che «si sta valutando la creazione di una cellula dedicata all’interno del Segretariato Generale», che «integrerà il lavoro della Direzione per la sicurezza della Commissione e collaborerà strettamente con i rispettivi servizi del Servizio europeo per l’azione esterna».
La mossa si inserisce in un contesto di progressivo accentramento di potere nelle mani della Commissione e in particolare di Ursula von der Leyen. Il Centro di situazione e di intelligence dell’Unione europea (l’INTCEN), infatti, esiste già all’interno del Servizio di azione esterna (SEAE), guidato dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri, l’estone Kaja Kallas. Per questo l’iniziativa sarebbe osteggiata dagli stessi funzionari del SEAE, secondo il FT. Da quando la Kallas ha preso la direzione del SEAE, la presidente della Commissione, von der Leyen, avrebbe eroso progressivamente diverse competenze dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri, cominciando con la nomina di un commissario per la Difesa all’interno del suo collegio e proseguendo con la creazione di una Direzione generale per il Mediterraneo che spazia fino al Golfo persico.
La procedura per la creazione di un’unità di intelligence guidata direttamente dalla Commissione è direttamente collegata al contesto geopolitico in cui si trova l’UE, che si sente minacciata dalla Russia e dalle presunte operazioni di guerra ibrida di Russia e Bielorussia, da un lato, e dal possibile disimpegno americano dal continente europeo per quanto riguarda la Difesa. Inoltre, secondo fonti ben informate, da tempo circolano dubbi sull’efficacia dell’INTCEN. Una fonte ha affermato che «I servizi di spionaggio degli Stati membri dell’UE sanno molto. Anche la Commissione ne sa molto. Abbiamo bisogno di un modo migliore per mettere insieme tutto questo ed essere efficaci e utili ai partner. Nell’intelligence, bisogna dare qualcosa per ottenere qualcosa».
L’iniziativa non sarebbe ancora stata comunicata formalmente a tutti i 27 Stati membri che, come anticipato, potrebbero non gradire la condivisione delle informazioni di spionaggio nazionali: Stati come la Francia, ad esempio, sono sempre stati reticenti nel condividere informazioni sensibili, mentre governi non completamente allineati alle politiche comunitarie come l’Ungheria potrebbero ulteriormente complicare la realizzazione della nuova unità controllata da von der Leyen.
Sebbene l’idea sia in fase di sviluppo e non sia ancora stata fissata una tempistica specifica per la concretizzazione dell’organismo, il piano svela la tendenza ad accentrare sempre di più il potere nelle mani dell’esecutivo comunitario e, in particolare, di Ursula von der Leyen, proprio ora che l’UE ha deciso di riarmarsi e di investire cifre ingenti nella Difesa. Il repentino mutamento negli equilibri geopolitici, il disaccoppiamento politico e militare voluto dagli Stati Uniti e la presunta minaccia russa hanno contribuito a una verticalizzazione del potere a scapito delle sovranità nazionali e, con ogni probabilità, della stessa sicurezza degli europei. Il riarmo e l’accentramento delle attività di intelligence per la guerra ibrida, infatti, non possono che portare a un inasprimento delle tensioni politiche e militari con Mosca.
In molti Paesi sviluppati le persone consumano in media quantità scarse o modeste di frutta e verdura, ma gli studi indicano che un’alimentazione ricca di questi alimenti può ridurre il rischio di gravi patologie, fra cui tumore al colon, cardiopatie, ictus. Per questo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di consumare ogni giorno almeno 400g di frutta e verdura suddivise in cinque porzioni da 80g, facendo attenzione ad alternarle. Assumere solamente frutta non comporta infatti gli stessi benefici di salute, ma potrebbe anzi causare squilibri e predisporre a malattie metaboliche quali quelle del fegato (dovute all’eccesso di fruttosio) o al diabete. Al contrario, le verdure apportano meno zuccheri della frutta e sono al contempo più ricche di vitamine e sali minerali.
Quali frutti e verdure vanno bene?
Nelle 5 porzioni al giorno possono rientrare quasi tutti i tipi di frutta e verdura (fresche, cotte o surgelate) tranne gli amidacei – patate, patata dolce e castagne. Questi ultimi devono infatti rientrare in un computo a parte, che riguarda i carboidrati complessivi da assumere quotidianamente sulla base del proprio fabbisogno individuale e dello stile di vita (attivo o sedentario).I legumi possono rappresentare una delle cinque porzioni ma non di più, in quanto contengono anch’essi un discreto quantitativo di carboidrati a base di amido (piselli, ceci, fagioli, lupini). Si possono includere anche succhi e frullati, ma gli esperti consigliano di prepararli con un mix di frutta e verdura, non soltanto di frutta, e di limitarli a causa dell’elevato contenuto di zuccheri. Importante anche tenere a mente che assumere 100g di frutta fresca apportano molti meno zuccheri di una quantità equivalente di succo, nel quale vi è inoltre completa assenza di fibre. Nelle cinque porzioni possiamo anche includere la frutta secca, tenendo a mente che la varietà aiuta e facilita nel risultato e nella buona pratica dietetica.
Varietà e arcobaleno di cibi
I vari colori di frutta e verdura indicano la presenza di differenti sostanze chimiche, molte delle quali sono antiossidanti che proteggono dalle malattie. Consumare una varietà di frutta e verdure garantisce quindi l’apporto di sostanze nutritive essenziali fra cui vitamine, minerali e antiossidanti di diverso tipo e diversa funzionalità per l’organismo. Vediamo nel dettaglio a quali sostanze si associano i vari colori, con un occhio di riguardo a quelli che sono i cibi di stagione in questo periodo in Italia.
Viola e blu scuro. Questi colori sono dovuti a sostanze antiossidanti chiamate antociani. Dal punto di vista alimentare diverse sono le fonti di antociani, come i frutti di bosco, melanzane, uva rossa, radicchio, cavolo viola – con questi ultimi due che sono ora cibi di stagione. Gli antociani hanno effetto antiossidante, antinfiammatorio e antinvecchiamento a beneficio delle cellule del nostro organismo. In particolare, gioverebbero alla salute di vene e capillari, facilitando la microcircolazione e la salute dei vasi sanguigni e aiutando a prevenire vene varicose, cellulite, ipertensione, arteriosclerosi.
Interno di una melagrana
Rosso e amaranto. I cibi di questo colore contengono una sostanza antiossidante chiamata licopene che riduce il rischio di alcuni tumori. Particolarmente abbondante nel pomodoro e nei suoi derivati, è presente anche nell’anguria, pompelmo rosa, frutti rossi come la melagrana, mele rosse, cipolla rossa. Studi scientifici riportano la sua efficacia protettiva contro la degenerazione maculare, l’asma, l’aterosclerosi, l’ipertrofia prostatica, le malattie cardiache, la cataratta, i tumori di cervice uterina, colon retto, cervello, polmone, ovaio, reni, la gengivite, le ulcere da Helicobacter pylori, la pressione alta, l’infertilità maschile, la menopausa, la mucosite orale, il dolore pelvico, le ustioni solari e altri problemi. Inoltre, un’altra sostanza contenuta nel succo di melagrana, l’acido ellagico, possiede il più alto valore antiossidante contro i radicali liberi fra tutta la frutta e la verdura. E’ un frutto di stagione adesso, in Novembre, per cui è bene approfittarne per consumarlo sia nella versione in succo che in quella in grani. Il melograno è anche uno dei pochi frutti non trasformati dall’industria ed è biologico per natura, cresce sulle piante senza trattamenti chimici.
Verde. il colore verde è dovuto alla clorofilla, ma molti frutti e verdure di questo colore contengono sostanze antiossidanti portentose contro i tumori, come ad esempio la luteina e la zeaxantina contenute nei broccoli e in tutti i tipi di cavoli. Queste 2 sostanze sono particolarmente benefiche per la salute degli occhi. I cibi di colore verde sono generalmente anche ricchi di vitamina C ed E, betacarotene, acido folico, ferro, potassio, magnesio e calcio: tutti nutrienti fondamentali per la salute del nostro corpo, da quella del sistema nervoso a quella dell’apparato digerente, senza dimenticare il sistema immunitario e cardiovascolare. Cibi di stagione rappresentanti di questa categoria sono spinaci, bietole, cicoria, lattuga, finocchi, porri, broccoli e cavolo verza.
Giallo e arancione. Frutta e verdura di questo colore sono ricche di betacarotene. Carote, pompelmo, mais, zucca, peperoni, arance, limone, banane, albicocche sono tutti alimenti ricchi di questa sostanza. Il betacarotene è molto importante per il nostro organismo essendo anzitutto un ottimo antiossidante, capace di contrastare l’eccesso di radicali liberi, precursore di vitamina A, ha influssi benefici sulla vista e sulla pelle e permette alle ossa di crescere in modo omogeneo. Per questo una giusta assunzione di betacarotene è consigliabile soprattutto per i bambini e giovani nell’età della crescita. Cibi di stagione: cachi, zucca.
Frutti portentosi: il cachi
Il cachi è noto in Italia come un frutto dell’autunno, ma è interessante sapere che si tratta di un alimento antico usato nella medicina tradizionale cinese per oltre 2000 anni. La Medicina moderna ora ne ha studiato le proprietà. Questo frutto straordinario è ricco di sostanze antitumorali come proantocianidine, acido gallico, miricetina e catechine. Ma la sua vera arma segreta potrebbero essere i suoi livelli alle stelle del carotenoide betacriptoxantina: ha livelli 9 volte più alti del succo d’arancia appena spremuto. Quindi, considerate tutti di mangiare più cachi questo Autunno! E’ possibile essiccare i frutti con un essiccatore e quindi conservarli per lunghi periodi dell’anno. In Cina infatti si utilizzano anche i cachi essiccati, tutto l’anno. In Cina inoltre è d’uso preparare il tè con le foglie della pianta di cachi, che sono ricchissime appunto di flavonoidi antiossidanti che hanno mostrato negli studi scientifici una forte azione anti-cancro contro diversi tipi di tumori.
+102% in media a settimana per un appartamento da quattro persone in una delle zone centrali di Milano. +153% ad Assago, dove si trovano gli impianti sportivi. Sono i dati dell’incredibile aumento del prezzo degli affitti brevi a Milano durante il periodo delle Olimpiadi invernali. I Giochi inizieranno tra tre mesi – la cerimonia di apertura è prevista per il 6 febbraio – ma già è partita l’ennesima corsa all’oro immobiliare, in una città dove il diritto all’abitare sembra ormai un ricordo lontano.
Secondo l’analisi di Abitare Co., società specializzata nell’intermediazione immobiliare, i prezzi degli affitti brevi per un appartamento da massimo quattro persone nelle aree centrali e nei quartieri olimpici aumenteranno in media del più del doppio rispetto a una settimana senza eventi. Siamo ancora lontani dagli aumenti vertiginosi che si registrano durante la settimana della moda, quando un affitto più anche quadruplicare, ma il dato è in ogni caso significativo.
Nel Centro Storico, l’area più cara, si toccano i 2.800 euro a settimana (contro i 1.700 euro del resto dell’anno), mentre a Brera si sale a 2.500 euro (+67%) e a Porta Nuova a 2.200 euro (+83%). CityLife (1.900 euro, +73%) e Porta Romana (1.950 euro, +63%) seguono da vicino, confermando la tendenza: chi vuole restare a Milano durante le Olimpiadi dovrà pagare cifre fuori portata per la maggior parte dei residenti.
Le impennate più forti si registrano nelle aree che ospiteranno le gare e gli impianti principali. Ad Assago, sede della Milano Ice Skating Arena, il prezzo medio settimanale balza del +153%, arrivando a 1.900 euro. A Santa Giulia, dove sorgerà la Milano Santa Giulia Ice Hockey Arena, gli affitti crescono del +147%, toccando i 2.100 euro a settimana. A San Siro, che ospiterà la cerimonia di apertura, il prezzo medio è di 2.200 euro (+144%), mentre a Rho, sede del Milano Ice Park, si arriva a 1.500 euro a settimana (+130%). Nel complesso, le aree olimpiche registrano un incremento medio del +144%, con canoni che passano da 788 euro a 1.925 euro a settimana. Numeri che fotografano un mercato in cui la logica dell’evento straordinario diventa la giustificazione per un’escalation di prezzi senza limiti né regole.
Ma la corsa dei prezzi non riguarda solo gli affitti brevi. Secondo gli ultimi dati del portale Immobiliare.it, a settembre 2025 il costo medio di un affitto a lungo termine a Milano ha superato i 24 euro al metro quadrato, con punte di 35-40 euro nelle zone più centrali e richieste come Brera, Porta Nuova e CityLife. In media, un bilocale di 60 metri quadrati costa oltre 1.400 euro al mese, ma nei quartieri centrali si arriva facilmente a 2.000 euro. Nel 2018 la media era di 17 euro al metro quadrato: in sette anni l’aumento è stato di oltre il 40%, mentre i salari reali, nello stesso periodo, sono rimasti pressoché fermi.
Eppure, anche questi numeri ufficiali non riescono a restituire fino in fondo la realtà di un mercato ormai completamente sfuggito al controllo. Le statistiche, infatti, si basano sugli annunci pubblicati e non tengono conto del numero crescente di abitazioni ritirate dal mercato tradizionale per essere destinate agli affitti brevi o turistici.
Il risultato è che l’offerta di case in affitto a lungo termine continua a ridursi, rendendo la ricerca di un appartamento stabile un’impresa quasi impossibile. Negli ultimi due anni, secondo diverse agenzie immobiliari, gli annunci di locazioni residenziali a Milano sarebbero diminuiti di oltre il 20%.
Il quadro si aggrava se si considerano i costi delle stanze singole, sempre più spesso l’unica opzione accessibile per studenti e lavoratori. Secondo gli ultimi rilievi, una stanza a Milano costa in media oltre 730 euro al mese, con picchi che superano gli 850 euro nelle zone centrali o vicine alle università. Nel 2019, la stessa stanza costava circa 500 euro.
La trasformazione del capoluogo lombardo in una città sempre più orientata al turismo, agli investitori e agli affitti brevi sta così spingendo fuori i residenti e i lavoratori, in particolare i giovani, gli studenti e le famiglie a reddito medio. Nei quartieri un tempo popolari – come Porta Venezia, Isola o Lambrate – gli affitti a lungo termine sono ormai un miraggio, e la quota di abitazioni dedicate ad Airbnb o piattaforme simili ha superato in alcuni casi il 25%. Una città che produce ricchezza, ma dove vivere è diventato un lusso, e dove la casa – più che un diritto – si è trasformata in un bene speculativo, oggetto di rendita e non più di vita quotidiana.
A fare da sfondo a questa corsa al mattone c’è la recente inchiesta sull’urbanistica milanese, che ha scoperchiato una rete di rapporti opachi tra costruttori, intermediari e funzionari pubblici. L’indagine – avviata dalla Procura questa estate – ipotizza pressioni e agevolazioni nella gestione di alcune aree di trasformazione urbana, tra cui proprio quelle destinate a ospitare infrastrutture olimpiche e nuovi complessi residenziali di lusso. Un sistema che, secondo gli inquirenti, avrebbe favorito la logica del profitto a breve termine a scapito dell’interesse pubblico e della pianificazione sostenibile. Mentre il Comune tenta di correre ai ripari con un nuovo regolamento per gli affitti brevi – ancora fermo in Consiglio – e mentre il governo discute di una nuova legge per rendere più facili gli sfratti, gli operatori immobiliari fanno affari d’oro. L’Olimpiade diventa così l’occasione perfetta per rilanciare l’ennesima stagione di rendite e speculazioni, in una città dove l’abitare, invece di restare un diritto, diventa sempre più una competizione.
Il presidente Gustavo Petro ha ordinato alle forze di sicurezza colombiane di interrompere lo scambio di informazioni con le agenzie statunitensi fino a quando Washington non fermerà le operazioni militari contro imbarcazioni sospette di traffico di droga nei Caraibi. “La lotta alla droga deve essere subordinata ai diritti umani della popolazione caraibica”, ha scritto Petro su X, evidenziando che le recenti azioni statunitensi, tra cui raid marittimi, hanno generato morti e messo in discussione la cooperazione storica tra i due Paesi.
Era già tutto pronto: i mafiosi per sistemare il capo della polizia, i soldati e i paracadutisti per tenere buona la gente, con le buone o con le meno buone, i carabinieri per i politici ed eventuali giornalisti renitenti e perfino i forestali, che hanno dato il nome – o meglio, il nomignolo – a questo colpo di Stato. Proprio loro sarebbero dovuti arrivare con le camionette in colonna in via Teulada, a Roma, per tappare la bocca alla RAI. L’invincibile armata dell’autoritarismo era stata messa in piedi meticolosamente, con grande rigore e precisione: tutto si sarebbe dovuto svolgere in 12 ore,...
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La situazione per l’Ucraina si fa sempre più difficile nelle regioni del Donetsk e di Zaporizhzhia, dove gli attacchi russi stanno aumentando di intensità, costringendo gli ucraini alla ritirata in vari punti. In particolare, l’esercito russo è riuscito a entrare nella città di Pokrovsk, secondo gli ucraini grazie alla fitta nebbia calata sulla città e i suoi dintorni, mentre nell’oblast di Zaporizhzhia l’esercito di Kiev è stato costretto alla ritirata in cinque insediamenti. I guai per Zelensky non finiscono però qui: oltre alle perdite sul campo, il suo governo è stato travolto da un grande scandalo per corruzione, che ha visto l’arresto di cinque persone tra dirigenti e persone d’affari e che vede coinvolti anche ministri e persone molto vicine al presidente.
Il comandante capo delle forze ucraine, Oleksandr Syrskyi, ha riferito che i russi si trovano in condizione «dominante», ammettendo che la situazione è «notevolmente peggiorata nelle direzioni di Oleksandrivsky e Gulyaipol», dove i russi, in vantaggio tanto numerico quanto di mezzi, hanno preso possesso di tre insediamenti. Combattimenti si sono svolti anche a Rivnopillia e Yablukove, dove «il fuoco incrociato dell’aggressore ha causato perdite significative». Il fronte più difficile rimane quello di Pokrovsk, dove, secondo quanto riferito dall’esercito ucraino, la vittoria del nemico è stata favorita dalle «condizioni meteo avverse» (ovvero da una fitta nebbia), che avrebbe favorito l’ingresso di trecento soldati russi. Secondo l’esercito russo, inoltre, la situazione per gli ucraini sarebbe difficile anche nella città di Kupyansk (regione di Kharkiv), la cui parte orientale sarebbe stata «completamente liberata». «Il nemico non tenta in alcun modo di sfondare le unità circondate», riporta il ministero russo, che riferisce anche della distruzione di vari depositi di munizioni e di materiali.
Oltre alle perdite sul campo, Zelensky si trova anche a dover fare i conti con lo scandalo che ha travolto il suo governo – in particolare, il ministero dell’Energia. L’anticorruzione ha infatti reso noto di aver arrestato cinque persone, tra le quali un uomo d’affari, un ex consigliere del ministro dell’Energia e un dirigente della società nazionale per l’energia atomica Energoatom. Le persone coinvolte avrebbero intascato tangenti dal valore complessivo di circa 100 milioni di dollari, dirottando i fondi che sarebbero serviti a tutelare i civili dai blackout del Paese dovuti anche agli attacchi contro le infrastrutture energetiche condotte dall’esercito russo. Nell’indagine risulterebbero coinvolti anche il ministro della Giustizia ed ex ministro dell’Energia, Herman Galushchenko, e l’imprenditore Timur Mindich, ex socio di Zelensky nella società di produzione televisiva Kvartal 95. Secondo quanto riferito dai media, nelle scorse ore Mindich sarebbe fuggito in Israele, prima che l’Anticorruzione bussasse alla sua porta, facendo perdere le proprie tracce.
Nel corso dell’incontro di ieri con il Governo sulla vertenza Ex Ilva, i sindacati hanno deciso di interrompere il tavolo di trattativa, accusando l’esecutivo di proporre soluzioni «inaccettabili» che scaricherebbero il costo sui lavoratori. Il Governo, attraverso una nota di Palazzo Chigi, ha espresso rammarico per la rottura e ha ribadito la disponibilità al dialogo. Nel frattempo, il ministro Adolfo Urso ha anticipato che la cassa integrazione per i lavoratori dello stabilimento potrebbe salire a circa 5.700 unità entro dicembre. Attualmente, secondo quanto riferiscono i sindacati, l’organico effettivo dello stabilimento Taranto è di 7.938 unità, di cui 5.371 operai, 1.704 quadri, 863 equiparati.
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