Nel cuore del West Coast National Park, a circa 90 km a nord della capitale sudafricana, una fototrappola ha registrato un’immagine che non si vedeva da quasi due secoli: un leopardo in libertà. L’avvistamento è avvenuto nella zona costiera compresa tra Città del Capo e il fiume Berg e rappresenta il primo ritorno documentato della specie in quest’area da 170 anni. Un evento raro, non programmato, che racconta molto di come sta cambiando il rapporto tra uomo e ambiente.
Il leopardo africano (Panthera pardus) non è classificato come specie in via di estinzione, ma è considerato “vulnerabile” da...
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C’è un’isola del Mediterraneo che sta venendo trasformata in una piattaforma energetica funzionale ai bisogni del continente. Questa terra è la Sardegna, luogo in cui la cosiddetta transizione energetica mostra tutte le sue contraddizioni, tanto da essere motivo di forti contrasti con la popolazione locale che – è il caso di affermarlo subito – sa sulla propria pelle quanto sia necessario abbandonare le fonti di combustibile fossile, ma contesta allo stesso tempo il modo, giudicato coloniale, con cui l’isola sta diventando l’hub italiano delle rinnovabili. Le criticità che riguardano le rinnovabili toccano svariate questioni e ci restituiscono un quadro complesso che coinvolge tanto aspetti tecnici quanto motivi identitari.
Secondo i dati del 2023 di Terna – società responsabile della gestione della rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica – il totale netto di energia elettrica prodotta in Sardegna è stato pari a 11.901,3 GWh (la maggior parte di quest’energia è legata alle fonti fossili) per un fabbisogno regionale di 7636,9 GWh. Il 29% dell’energia prodotta è stato esportato verso la Penisola e, in piccola misura, verso l’estero. Sempre secondo i dati Terna, all’inizio del 2023 in Sardegna erano installati impianti eolici e fotovoltaici per una capacità complessiva lorda pari a 2,24 GW, numero che rischia di crescere a dismisura. In Sardegna, infatti, le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna al 30 settembre 2025 sono 678, pari a 49,15 GW di potenza, suddivisi in 443 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare, 234 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra e in mare e una richiesta di impianti di produzione energetica da fonte idroelettrica. In questo scenario, laddove tutte le istanze diventassero realtà, la produzione sarda di energia rinnovabile supererebbe i 90.000 GWh, cioè undici volte i consumi elettrici annui dell’isola.
Come si gestisce tutta questa energia?
Turbine eoliche vicino a Portoscuso (SU)
Questa overdose di energia porrebbe non pochi problemi poiché non potrebbe essere consumata sull’isola, non potrebbe essere conservata – a oggi gli impianti di conservazione approvati sono pochi e di potenza estremamente ridotta – e non potrebbe essere trasportata verso la Penisola se non in piccola parte, dato che, anche quando entrerà in funzione il terzo cavidotto, la potenza complessiva trasportabile sarà di circa 2000 MW. Tutta quest’energia dovrà però essere pagata dal gestore della rete indipendentemente dal suo utilizzo. Come ha spiegato a L’Indipendente Antonio Muscas, ingegnere meccanico sardo, in presenza di un eccesso di offerta, Terna ha la possibilità di bloccare temporaneamente gli impianti di energia rinnovabile. L’eventuale stop non compromette il guadagno delle società energetiche a cui viene pagata l’energia che avrebbero prodotto se non fosse stato imposto il blocco.
Come abbiamo accennato, parte dell’energia sarda viene esportata tramite dei cavidotti. A oggi sono in funzione il SA.PE.I., un cavo che collega la Sardegna alla Penisola italiana, e il SA.CO.I., il collegamento tra Sardegna, Corsica e Penisola. Accanto a queste infrastrutture, è in costruzione il contestato Tyrrhenian Link, un doppio collegamento sottomarino tra Sicilia, Sardegna e Penisola che richiede un investimento di 3,7 miliardi di euro. La futura stazione di conversione del Tyrrhenian Link sorgerà nel comune di Selargius della città metropolitana di Cagliari: in quest’area, da febbraio 2024, Terna ha espiantato almeno 230 piante di ulivi che, a detta della società, sono stati reimpiantati mantenendone l’orientamento e l’esposizione. Prendendo come possibile lo spostamento di centinaia di ulivi senza provocare alcuna modifica e alcun trauma alle piante, è lecito domandarsi come mai Terna abbia optato per occupare aree di campagna anche attraverso espropri coatti piuttosto di preferire le vicine aree industriali. A sud-ovest di Selargius, si trova il comune di Sarroch, la cui zona industriale è occupata dalla Saras S.p.A., una delle più grandi raffinerie petrolifere d’Europa. Parte delle aree occupate dalla raffineria poteva essere destinata alla stazione di conversione del nuovo cavidotto, ma, come ricorda Muscas, l’esproprio di terre agricole ha un costo molto inferiore rispetto al prelievo di spazi industriali.
È utile qui spendere qualche parola sul gruppo Saras che, attraverso la Sardeolica s.r.l., gestisce l’impianto eolico sito nel comune di Ulassai. La scelta di occuparsi tanto di petrolio quanto di eolico potrebbe essere spiegata dai crediti di carbonio, ossia certificati negoziabili che rappresentano il diritto di emettere una tonnellata di anidride carbonica o la quantità equivalente di un diverso gas serra. Le aziende che non riescono a ridurre o eliminare le proprie emissioni di CO2 possono acquisire questi titoli – cioè i crediti di carbonio – da enti esterni certificati per finanziare, per esempio, progetti di produzione di energia pulita. Del gruppo Saras è anche la raffineria Sarlux che si trova al centro di un’inchiesta sulle emissioni con ipotesi di reato di disastro ambientale. Secondo la Procura di Cagliari le torce della raffineria, che si sarebbero dovute attivare solo in situazioni di emergenza, sarebbero rimaste in funzione quotidianamente dal 2019 al 2024, diffondendo nell’area polveri sottili e benzene oltre i limiti di legge.
Impianti eolici fronte chiesa
A breve distanza dalla Basilica di Saccargia, emblema dell’architettura romanica, si trova ilparco eolico Nulvi Ploaghe
Dove debbano sorgere gli impianti di energia rinnovabile è una delle questioni più dibattute. Come ci spiega Lisa Ferreli, caporedattrice di Sardegna Che Cambia, la percezione della popolazione locale è che il territorio sardo venga considerato alla mercé dello Stato e dunque sfruttato per fini turistici, energetici, militari. Adottando quello che viene definito un “punto di vista italiano”, la transizione energetica è un obiettivo da raggiungere anche a costo di industrializzare e antropizzare zone rurali. Ferreli ricorda che in Sardegna sono numerose le aree industriali dismesse dove eventuali impianti non impatterebbero sul paesaggio già deteriorato. Una di queste è la penisola “delta” del poligono permanente di Capo Teulada. Si tratta di un promontorio di circa 2,78 km2 dove, fin dagli anni ’50, gli eserciti della NATO si esercitavano con i loro sistemi di arma e sperimentavano missili di ogni tipo, compromettendo tutte le forme di vita presenti nella zona. È possibile immaginare che l’idea di bonificare e utilizzare la penisola delta al fine di ospitare delle pale eoliche non incontrerebbe la contrarietà dei sardi, ma ciò risulta impossibile poiché le aree e i beni del demanio militare o a qualunque titolo in uso al Ministero della Difesa non sono considerati idonei per gli impianti eolici, così come per quelli fotovoltaici, di piccola, media e grande taglia.
Sorte diversa è invece quella della Basilica di Saccargia (provincia di Sassari). A breve distanza da questo monumento, emblema dell’architettura romanica, si trova il parco eolico Nulvi Ploaghe, il cui ampiamento (27 nuove torri eoliche alte fino a 180 metri con potenza complessiva 121,5 MW) è stato autorizzato. Sebbene il progetto fosse stato bocciato dal Ministero della Cultura per la vicinanza a siti di epoca nuragica e alla Basilica di Saccargia, è stato poi approvato dal Ministero della Transizione Energetica e dal governo Draghi e confermato dal Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso della Regione. Se fino a pochi anni fa il parere del Ministero della Cultura era vincolante, oggi l’ultima parola rispetto alla valutazione d’impatto ambientale spetta al governo, che può scegliere di ignorare i pareri negativi e approvare la costruzione di impianti. È la stessa Ferreli a individuare quest’episodio come un simbolo di una speculazione che ignora le peculiarità dei luoghi.
L’impatto sull’archeologia
La Sardegna è disseminata di testimonianze del patrimonio culturale nuragico e prenuragico. In questo caso nell’immagine possiamo osservare il complesso archeologico nuragico di Su Nuraxi di Barumini. La fortezza risalente all’età del bronzo è patrimonio mondiale dell’UNESCO
Il territorio sardo ha un’altissima percentuale di siti archeologici, tanto che non è esagerato affermare che l’isola è disseminata di testimonianze del patrimonio culturale nuragico e prenuragico. A oggi non esiste un elenco ufficiale dei siti archeologici sardi per diversi motivi: difficoltà di censimento dovuto al loro elevatissimo numero, siti che si trovano in luoghi di difficile accessibilità, scarso interesse da parte dello Stato a finanziare gli scavi archeologici sull’isola (anche per non alimentare il sentimento di nazionalismo sardo che potrebbe essere ravvivato da una maggiore conoscenza della civiltà nuragica che si è sviluppata nel corso dell’Età del bronzo e del ferro, ma che non è possibile inserire nella periodizzazione storica italiana per le sue peculiarità uniche nel suo genere). Il fatto di non avere una lista completa delle aree archeologiche fa sì che eventuali impianti eolici vengano approvati in zone di interesse culturale. Inoltre, sebbene per legge gli impianti eolici debbano distare almeno 3 km dai siti archeologici, l’area di “cuscinetto” non è sempre rispettata. Sara Corona, archeologa e divulgatrice culturale sarda, ci ha spiegato che molti progetti vengono presentati con delle valutazioni di impatto ambientale che non tengono conto del rischio archeologico. Un disinteresse da parte delle imprese che testimonia la loro fretta nell’aggiudicarsi sempre più terre. Corona fa riflettere anche su un altro aspetto poco affrontato: il cambiamento del rapporto visivo determinato dagli impianti eolici. Gli aerogeneratori di ultima generazione raggiungono i 200 metri di altezza, dimensione che potrebbe modificare in modo significativo la percezione dell’ambiente circostante riflettendosi anche sull’archeologia locale. La vicinanza di gigantesche pale altera il rapporto dei siti archeologici con il territorio poiché viene cambiata la scala di riferimento.
La concentrazione di siti archeologici restituisce agli isolani la consapevolezza di vivere in un territorio antico, sensazione che, per Corona, si sovrappone all’idea di abitare un territorio rurale che rischia di essere sempre più alterato dall’industrializzazione. Puntando l’attenzione verso i progetti di grandi parchi eolici, non è sbagliato affermare che la loro presenza abbia un forte impatto sul rapporto delle persone con la terra. Rispetto a questa questione, Corona ha effettuato una ricerca nel territorio di Villanovaforru (provincia del Sud Sardegna) dove gli abitanti, minacciati dagli espropri, si sono sentiti privati del diritto di decidere la destinazione d’uso delle terre, con la conseguente interruzione di attività rurali di lunga tradizione. In quell’occasione, oltre alla perdita dell’autodeterminazione della comunità, è stato osservato un ulteriore problema: l’inquinamento acustico. In alcune zone di campagna del territorio comunale il rumore delle pale di un piccolo impianto eolico si sente sia a casa sia nei campi, condizione che fa vivere in modo differente lo stare all’aria aperta e il coltivare la terra a causa del fastidio provocato dal continuo ronzio causato dalle pale in movimento.
Opzione off-shore
Esempio di impianto eolico off-shore
In Sardegna, la soprintendenza speciale per il PNRR ha registrato «una complessiva azione per la realizzazione di nuovi impianti da fonte rinnovabile […] tanto da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica oltre il fabbisogno regionale previsto». Sembrerebbe dunque che l’esubero di progetti di energia rinnovabile sia oramai sotto gli occhi di tutti, eppure nulla sta cambiando. Se da una parte le aziende energetiche continuano a presentare istanze di connessione a Terna in modo da almeno accaparrarsi le terre – anche nel tentativo di bloccare l’avanzata della concorrenza –, dall’altra stanno aumentando i progetti di eolico off-shore come quello che vorrebbero costruire davanti alla costa sud occidentale della Sardegna. La centrale, che prevede l’installazione di 42 turbine galleggianti con un’altezza massima di quasi 350 metri sul livello dell’acqua, è già stata sottoposta al parere, per ora secretato, del Ministero dell’Ambiente e ora attende quello del Ministero della Cultura. Ciò che preoccupa maggiormente, oltre alla visibilità dalle coste dell’isola di San Pietro, è l’impatto sull’ambiente e sulla fauna. L’impianto interferirebbe con le rotte migratorie dell’avifauna selvatica (in particolare con il Falco della Regina che nidifica sull’isola di San Pietro) e con la fauna marina, specialmente con il tonno rosso, la cui pesca rappresenta un elemento importante per l’economia locale. Oltre al rischio di perdita di biodiversità, bisogna tenere conto della possibile interruzione dei sistemi di comunicazione e navigazione nei mammiferi marini dovuta all’inquinamento acustico.
Colonialismo ecologico
Vista la corsa ai progetti di energia rinnovabile, Sara Corona non ha difficoltà ad affermare che in Sardegna si sta assistendo a un vero e proprio fenomeno di land grabbing ai danni delle comunità rurali. Le zone di campagna non solo vedono un continuo abbandono della terra soprattutto da parte dei giovani, ma sono invase da progetti che fanno leva su questo spopolamento. Non è un caso che i luoghi prescelti dalle aziende per la costruzione degli impianti siano aree periferiche nella convinzione che in questi posti sia minore l’opposizione della comunità locale. In Sardegna le realtà contrarie al pullulare di progetti di energia rinnovabile sono invece numerosissime perché è sentimento comune che quello che sta avvenendo sia una nuova forma di colonialismo estrattivo da parte dello Stato italiano. Come abbiamo visto, l’energia prodotta in Sardegna è già in esubero e le infrastrutture hanno una capacità di trasporto molto limitata, ma questo scenario non limita le aziende, forti del fatto che verrebbero pagate anche laddove la produzione di energia dovesse essere interrotta. Una delle maggiori critiche avanzate verso questo passaggio alle risorse rinnovabili è che sta avvenendo seguendo gli stessi dettami della produzione di energia tradizionale: sebbene le risorse utilizzate siano infinite – nel caso dell’eolico il vento –, la terra che dovrebbe ospitare gli impianti non lo è. La popolazione sarda non è contraria alla transizione, ma si batte contro l’assoluta esclusione delle comunità dalla decisione di cosa fare sulle proprie terre e di cosa fare dei propri territori.
A Belém, in Brasile, è scoppiato un vasto incendio nei padiglioni che ospitano la conferenza dell’ONU sul clima. L’incendio è esploso nella zona B, di fronte al padiglione Italia e vicino agli ingressi. Sul posto si sono rapidamente dirette le squadre di soccorso e i partecipanti sono stati fatti evacuare nella cosiddetta “green zone”, dall’altra parte del complesso. Non sono stati segnalati feriti; ignote le cause dell’incendio.
“Produttività”, “riduzione della burocrazia”, “efficacia”, “mercato interno”: con queste parole chiave la Commissione europea ha presentato il Digital Omnibus, una proposta volta a semplificare il quadro normativo sull’intelligenza artificiale per favorire l’imprenditorialità. Una rivoluzione che poggia le sue fondamenta su possibili emendamenti che andrebbero a intervenire anche sul nascente AI Act e sulle norme europee in materia di protezione dei dati, dal GDPR all’e-Privacy Directive. Se da un lato il progetto è accolto con entusiasmo da ambienti industriali e istituzionali, dall’altro sus...
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Un gruppo di militanti del gruppo islamista Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), affiliato ad al Qaeda, ha lanciato un attacco contro un villaggio nel Niger occidentale, uccidendo almeno 10 soldati. L’attacco ha colpito il villaggio di Garbougna, nella regione di Tillaberi, vicino al confine con Mali e Burkina Faso, e secondo altre fonti avrebbe fatto altre 10 vittime. La regione è da tempo al centro di scontri tra le forze dei tre Paesi e gruppi militanti islamisti. In Mali, JNIM tiene sotto assedio la capitale Bamako, che sta vivendo una crisi nell’approvvigionamento del carburante.
Nonostante il cessate il fuoco, Israele continua a commettere violazioni della tregua in Palestina lanciando attacchi su tutta la Striscia. Ieri, 19 novembre, l’aviazione dello Stato ebraico ha scagliato attacchi aerei su diverse aree dell’enclave, concentrandosi su Khan Younis e Gaza City. L’esercito ha ripreso le aggressioni stamattina, lanciando offensive sia a Khan Younis che nel nord della Striscia di Gaza. In totale, da ieri, Israele ha ucciso almeno 38 persone. Nel frattempo, i carri armati israeliani hanno avanzato di circa 300 metri nell’area orientale di Gaza City, spostando il confine della cosiddetta “linea gialla”, entro cui i soldati israeliani dovrebbero rimanere stazionati. Quelle di ieri e oggi sono solo le ultime di una lunga lista di violazioni degli accordi che lo Stato ebraico ha commesso nell’ultimo mese di tregua; le aggressioni a Gaza vanno avanti in parallelo ad analoghe offensive in Cisgiordania, dove sia i coloni che l’esercito continuano a lanciare attacchi nei confronti dei civili palestinesi.
I bombardamenti di ieri sono cominciati a partire dal pomeriggio. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sostengono di avere subito un attacco nell’area di Khan Younis, e affermano di avere lanciato attacchi «di ritorsione» in risposta alla presunta aggressione subita; i bombardamenti hanno colpito anche altre aree della Striscia, tra cui Gaza City, e in generale le aggressioni sono andate avanti anche stamattina. Gli attacchi di ieri si sono concentrati sulle aree orientali di Khan Younis e sul quartiere Zeitoun di Gaza City; colpiti anche il campo di Nuseirat, nel Governatorato di Deir al Balah, e la stessa città di Deir al Balah. Secondo fonti ospedaliere locali e il ministero della Sanità di Gaza, in seguito agli attacchi di ieri sono state uccise 33 persone, e altre 88 sono rimaste ferite.
Oggi, invece, Israele ha lanciato una offensiva aerea a Rafah, scagliato colpi di mortaio e impiegato droni ad Abasan al-Kabira, nel Governatorato di Khan Younis, e attaccato anche a Bani Suheila, sempre a Khan Younis. Segnalate aggressioni anche a Zeitoun e Shuja’iyya, altro quartiere di Gaza City, e attacchi nel nord, in aree non identificate. Negli attacchi di oggi, Israele ha ucciso almeno 5 persone. Inoltre, sempre a Shuja’iyya, l’esercito ha spostato di 300 metri il confine della linea gialla, mobilitando fisicamente truppe, carri armati, e simboli e segnali che rendono identificabile la linea di demarcazione ai residenti. La linea gialla è stata istituita con la tregua dell’11 ottobre e designa il limite entro cui i soldati israeliani devono stazionare, e che non devono oltrepassare. In totale, a Gaza, dall’inizio della tregua, Israele ha ucciso almeno 312 persone commettendo centinaia di violazioni. Il numero di morti dirette dal 7 ottobre, invece, è di almeno 69.546 persone.
Mentre continua le violazioni a Gaza, Israele non arresta neanche le proprie operazioni in Cisgiordania. Nel Governatorato di Hebron le forze israeliane stanno conducendo una campagna di arresti di massa da due giorni. In totale, l’esercito israeliano ha arrestato 56 persone, la maggior parte nella città di Beit Ummar, a nord di Hebron; le persone arrestate stanno venendo radunate in uno stadio. Nella stessa Beit Ummar, le forze israeliane hanno trattenuto e interrogato altre 150 persone, imposto restrizioni ai movimenti e dispiegato cecchini sui tetti. Nel Governatorato di Nablus, Israele ha condotto un raid usando armi da fuoco, e ferendo 4 persone; i raid sono iniziati nella notte e i soldati israeliani hanno fatto irruzione nei negozi commerciali vicino all’Ospedale Nazionale nel centro di Nablus. Intanto, i giornali israeliani riportano che il COGAT, l’ente del Ministero della Difesa israeliano che sovrintende agli affari civili nei territori palestinesi occupati, ha disposto il sequestro di oltre 160 ettari di terreni palestinesi. Nei governatorati di Qalqilya e di Tulkarem, invece, sono state arrestate 6 persone. A Gerusalemme, infine, i coloni hanno preso a sassate un’automobile con a bordo due bambine di un anno e quattro anni, e dato fuoco ad altre due auto.
Proprio mentre alla COP30 si discute di clima, ambiente e anche di terre indigene, domenica 18 novembre un gruppo formato da circa 20 persone ha assaltato un villaggio di una comunità indigena Guarani Kaiowá, nel sud del Brasile, aprendo il fuoco contro gli abitanti e incendiando le loro case. Quattro persone sono rimaste ferite e una uccisa: si tratta di Vicente Fernandes Vilhalva, attivista indigeno e leader della propria comunità. La denuncia arriva dalla comunità indigena, che riferisce come Vilhalva sia stato giustiziato sul posto con un colpo di pistola alla testa, ed è stata amplificata da Survival International. I Guarani Kaiowá sono solamente una delle molte comunità indigene nello Stato brasiliano di Mato Grosso do Sul che ormai decenni fa furono sfrattate con violenza dalle loro terre. Da allora, quasi tutta la loro terra è stata occupata da agroindustrie e allevamenti di bestiame. Alla loro resistenza e ai tentativi di rivendicare la propria terra sono seguiti attacchi violenti e mortali come quello di domenica.
I pistoleiros (come vengono comunemente chiamati gli uomini armati in lingua brasiliana) non si sono limitati a sparare, ma hanno anche incendiato le capanne e distrutto i beni della comunità, in un chiaro tentativo di sfratto violento. Un leader della comunità, parlando a Repórter Brasil in forma anonima per motivi di sicurezza, ha descritto l’attacco: «Eravamo circondati. Noi non abbiamo armi, non abbiamo possibilità di difenderci. Ci siamo ritirati e ci siamo recati al villaggio, ma hanno continuato a sparare. Hanno bruciato tutto nell’area che stiamo rivendicando».
I Guarani Kaiowá, che storicamente abitano un vasto territorio tra il Brasile e il Paraguay, sono uno dei popoli indigeni più perseguitati al mondo. La loro lotta è incentrata sulla rivendicazione e la rioccupazione delle loro terre ancestrali, note come tekohá, confiscate nel tempo per far spazio ad allevamenti di bestiame e piantagioni intensive di canna da zucchero e soia. L’attacco a Pyelito Kue non è un evento isolato, ma l’ennesima manifestazione violenza. Queste comunità indigene, costrette a vivere in piccoli accampamenti ai margini delle autostrade o a cercare di recuperare le loro terre tradizionali, sono esposte quotidianamente alla violenza di accaparratori di terra e fazendeiros (grandi proprietari terrieri).
L’assalto è avvenuto nel pieno della COP30, offrendo un macabro contrappeso alle promesse di protezione ambientale e dei diritti indigeni fatte dal governo brasiliano. Nonostante le promesse ambientaliste del Presidente Luiz Inácio Lula da Silva, così come quelle sul riconoscimento dei territori indigeni, la devastazione ambientale avanza e la violenza in Mato Grosso do Sul evidenzia il divario tra le intenzioni politiche espresse a livello nazionale e internazionale e l’effettiva applicazione delle leggi sul campo. Survival International, organizzazione che da decenni difende i diritti dei popoli indigeni, ha duramente condannato l’omicidio di Vicente Fernandes Vilhalva. «L’omicidio di Vicente Fernandes Vilhalva dimostra ancora una volta l’incapacità dello Stato brasiliano di proteggere i diritti dei popoli indigeni e, in particolare, i diritti territoriali dei Guarani Kaiowá».
Molti leader indigeni presenti alla COP30, pur partecipando ai dibattiti e alle manifestazioni, hanno espresso frustrazione per l’ipocrisia dei negoziati. Un gruppo di manifestanti indigeni, al grido di «La nostra terra non è in vendita», è arrivato ad assaltare la sede del vertice per far sentire la propria voce, mai realmente ascoltata dagli eredi storici di coloro che si presero il continente. La loro presenza a Belém serve a ricordare che la protezione dell’Amazzonia, così come di altri luoghi, dipende direttamente dal rispetto dei diritti territoriali delle popolazioni che vi abitano e che ne sono custodi da millenni.
L’omicidio di Vicente Fernandes Vilhalva non è solo una tragedia umana; è un campanello d’allarme che squarcia il velo della diplomazia climatica. Esso simboleggia il costo umano della deforestazione e dell’espansione dell’agrobusiness e riafferma una verità scomoda: non può esserci giustizia climatica senza giustizia territoriale e sociale, tanto per i popoli indigeni quanto in generale. Non si può pensare di risolvere i problemi creati dal sistema senza cambiare il sistema stesso.
Nonostante la proliferazione di decreti sicurezza e l’inasprimento punitivo degli ultimi anni, la microcriminalità in Italia continua a crescere. I dati ufficiali del Viminale riferiti al 2024 mostrano infatti un aumento dell’1,7% delle denunce rispetto all’anno precedente, con 2,38 milioni di reati registrati. Mentre reati come contrabbando e truffe informatiche si riducono, i furti, le rapine e le violenze sessuali segnano incrementi preoccupanti. Particolarmente allarmante è il coinvolgimento dei minori, cresciuto del 16% in un solo anno. Tale scenario si sviluppa in un contesto normativo che, da decenni, moltiplica le fattispecie di reato e le misure repressive, dimostrando l’inadeguatezza di un approccio puramente punitivo di fronte a fenomeni sociali complessi.
Le statistiche della banca interforze del Dipartimento di Pubblica Sicurezza rivelano che i furti rappresentano il 44% del totale dei reati, con un aumento del 3% rispetto al 2023. Particolarmente significativi gli incrementi dei furti in abitazione (+4,9%), delle rapine (+1,8%) e delle violenze sessuali, drammaticamente cresciute del 7,5%. Le città metropolitane fanno da catalizzatori dei fenomeni criminali: Milano, Firenze e Roma da sole raccolgono il 23,5% dei reati rilevati. Il dato più eloquente riguarda i minori: ogni quattro arresti per rapina, uno coinvolge un ragazzo sotto i 18 anni, con un aumento del 30% delle segnalazioni rispetto al 2019. Queste statistiche sembrano scontare il fallimento di un approccio che privilegia la risposta repressiva rispetto alla ricetta della prevenzione. La deriva degli ultimi anni è piuttosto evidente, avendo prodotto un impianto normativo sempre più volto a criminalizzare la povertà, gli emarginati, il disagio sociale e le opposizioni politiche, rimanendo invece sfacciatamente garantista verso le istituzioni e gli organi statali autorizzati a utilizzare la forza per reprimere il dissenso. Il paradosso emerge chiaramente dal confronto tra l’evoluzione normativa e i dati sulla criminalità. Mentre si moltiplicano le fattispecie di reato e si inaspriscono le pene, la microcriminalità invece di diminuire aumenta.
Negli ultimi 20 anni si sono accumulate norme come il dl Pisanu (2005), la riformulazione dell’art. 270 c.p. e i cosiddetti «decreti sicurezza» Salvini (dl n. 113/2018 e dl n. 53/2019) che hanno inasprito pene e ampliato strumenti repressivi, perseguendo dissenso e immigrazione con lo stesso registro securitario. Il DASPO, nato per i tifosi violenti, è stato declinato in molte varianti — «DASPO di gruppo», «DASPO urbano» e ora anche un «DASPO ferroviario» — trasformando strumenti specialistici in misure di controllo sociale più vaste. Il governo Meloni ha rincarato la dose: la retorica della “tolleranza zero” ha portato all’introduzione di nuove fattispecie di reato come l’«invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica» (art. 633bis c.p.) nel “Decreto Rave”, che prevede la reclusione da 3 a 6 anni per l’organizzazione di raduni non autorizzati. Particolarmente emblematico è l’approccio verso i minori. Il cosiddetto “decreto Caivano” (l.n. 159/23) ha notevolmente ampliato le misure repressive, estendendo l’impiego del DASPO ai maggiori di 14 anni e potenziando la facoltà di arresto in flagranza.
A giugno è stato poi approvato il nuovo Decreto Sicurezza, con l’effettiva l’introduzione di 14 nuovi reati, tra i quali quello di «occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui», di blocco stradale e di rivolta nelle carceri e nei CPR (considerata reato anche in caso di protesta pacifica). Sono state inoltre inasprite le sanzioni per altri 9 reati già esistenti. Ma non è finita qui. Negli ultimi giorni, la lega ha rilanciato l’offensiva sulla «sicurezza totale» con un nuovo pacchetto di quattordici proposte presentato alla Camera. Tra le misure più discusse, spicca l’introduzione di una cauzione preventiva per gli organizzatori di manifestazioni, uno strumento che punisce indirettamente il diritto di protesta. Il pacchetto tocca anche immigrazione, con restrizioni ai ricongiungimenti familiari e il permesso di soggiorno a punti, e ordine pubblico, con inasprimenti penali e procedure accelerate per gli sgomberi, estese a tutti gli immobili, non solo alle prime case.
A questa intensa spinta repressiva, tuttavia, negli ultimi anni non è stata abbinata una maggiore capacità preventiva, mancando investimenti strutturali su politiche sociali, educative e di integrazione giovanile. Mancano, inoltre, norme sulla trasparenza e controlli rigorosi sull’uso della forza da parte delle forze dell’ordine (l’Italia è ad esempio ancora fra i pochi Paesi senza numeri identificativi sui caschi). Il risultato è paradossale: normative sempre più dure che colpiscono spesso i sintomi – occupazioni abusive, proteste, microcriminalità di strada – senza curare le cause profonde come povertà, esclusione e deficit di servizi sul territorio.
Un tribunale spagnolo ha condannato Meta, l’azienda di Mark Zuckerberg proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, a pagare 542 milioni di euro per concorrenza sleale. La somma dovrà venire versata a 89 media del Paese; con tale decisione, il tribunale dà ragione all’Associazione dei mezzi di informazione spagnola, che accusava Meta di avere ottenuto vantaggio nel mercato violando le norme sull’uso dei dati personali. Meta di preciso ha violato il Regolamento europeo sulla protezione dei dati, in vigore dal 2018, non chiedendo ai propri utenti l’autorizzazione a utilizzare i propri dati per campagne pubblicitarie personalizzate.
Una sentenza del Tribunale di Bergamo segna una svolta storica nella tutela dei lavoratori che denunciano irregolarità. Per la prima volta in Italia, un giudice ha infatti applicato pienamente le tutele previste per i cosiddetti “whistleblower”, dichiarando la nullità degli atti ritorsivi subiti da un’agente di polizia locale che aveva segnalato gravi illeciti nell’ente in cui lavorava. La donna, dopo aver denunciato anomalie nell’erogazione di buoni pasto, indennità di turno e permessi studio, oltre a irregolarità nella gestione di fondi pubblici, fu sottoposta a un vero e proprio sistema di persecuzioni e demansionamento per tre anni. Tale verdetto, sfociato anche attraverso il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova, rappresenta un punto di riferimento fondamentale per la protezione di chi ha il coraggio di denunciare gli illeciti.
La vicenda ha origine quando l’agente, già eletta RSU, segnalò all’ANAC e alla Guardia di Finanza una serie di irregolarità concernenti «l’erogazione dei buoni pasto, delle indennità di turno e dei permessi studio a chi non ne aveva diritto» e altre anomalie nella gestione dei fondi. In seguito a queste denunce, la donna fu sottoposta a quello che il Tribunale ha definito un ambiente di lavoro «nocivo e stressogeno». Il Comandante avviò «due procedimenti disciplinari infondati», le revocò l’arma di servizio, la assegnò all’ufficio notifiche dove svolgeva mansioni inferiori come «archiviazione, scannerizzazione, fotocopiatura e sostituzione dei rotolini delle stampanti portatili», attribuendole una valutazione professionale negativa. Inoltre, dalle testimonianze è stato possibile attestare come lo stesso Comandante la denigrasse in continuazione, proferendo frasi come «è una testa di cazzo», «ha un carattere di merda», e che fu attuato un progressivo isolamento della donna da parte dei colleghi.
Il Tribunale ha applicato per la prima volta in modo efficace il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001, affermando che «quando intervengano atti pregiudizievoli in stretta contiguità temporale con la segnalazione, è l’amministrazione a dover dimostrare che siano determinati da ragioni estranee alla denuncia dell’illecito». I giudici hanno dunque dichiarato la nullità delle misure ritorsive, constatando che la convenuta «non ha dimostrato in modo efficace che esse erano, di contro, esclusivamente motivate da ragioni del tutto estranee alle segnalazioni».
Il Tribunale ha riconosciuto il danno morale in via presuntiva, osservando che «tre anni di umiliazioni, isolamento e ostilità non possono che tradursi in una sofferenza intensa» e che tale pregiudizio può essere accertato attraverso presunzioni semplici, richiamando le «massime di comune esperienza». La giudice ha quindi condannato l’ente al pagamento di 25mila euro a titolo di risarcimento del danno morale, liquidato in via equitativa, «cifra che tiene conto sia del demansionamento subito dal 14.9.2020 al 6.10.2022, quantificato in una somma pari a circa il 20% della retribuzione mensile percepita (cfr. cedolini in atti), sia delle ulteriori sofferenze morali conseguenti alle condotte vessatorie subite per circa 3 anni».
Tuttavia, il limite di questo verdetto storico è rappresentato proprio dalla quantificazione del risarcimento: l’importo di 25.000 euro appare infatti sproporzionatamente basso rispetto alla gravità delle condotte accertate e alla durata delle persecuzioni subite dalla lavoratrice. Come evidenziato nella dottrina, questa moderazione risarcitoria rischia di non esercitare un reale effetto di deterrenza e si pone in contrasto con la Direttiva UE 2019/1937, che assegna esplicitamente alla tutela dei whistleblower una funzione dissuasiva.
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