Centinaia di attivisti hanno remato in kayak occupando la rotta di navigazione del porto di Newcastle, in Australia, costringendo le autorità portuali a sospendere le attività. Il porto di Newcastle è uno dei maggiori porti del Paese per esportazione di carbone; gli attivisti, afferenti al gruppo per il clima Rising Tide, hanno manifestato anche nella giornata di ieri, sabato 29 novembre, quando hanno impedito a una nave di attraccare. Dopo le manifestazioni di ieri e oggi, riporta il gruppo, sarebbero stati arrestati più di 100 manifestanti. Le autorità portuali hanno comunicato che le attività riprenderanno a partire da domani.
Netanyahu chiede la grazia al presidente israeliano
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ufficialmente chiesto la grazia al presidente del Paese Isaac Herzog. Netanyahu è imputato per frode e corruzione ed è al centro di un processo iniziato nel 2020, ma rinviato per anni. L’impianto accusatorio si basa su tre distinti filoni di indagine, secondo cui Netanyahu avrebbe concesso favori personali a diversi imprenditori in cambio di regali e articoli propagandistici a suo favore. La richiesta di grazia è sostenuta anche da Donald Trump: qualche settimana fa, il presidente degli Stati Uniti ha infatti chiesto pubblicamente a Herzog di graziare Netanyahu.
Brasile, Lula messo in minoranza: il Parlamento approva la legge per aumentare la deforestazione
È passata poco più di una settimana dalla chiusura della Conferenza dell’ONU sull’ambiente, in Brasile, ma lo stesso Paese ospitante non ha voluto attendere per smantellare il proprio sistema di tutele dell’ambiente e delle popolazioni indigene. I legislatori brasiliani hanno infatti approvato il progetto di legge 2.159/2021, respingendo i veti che il presidente Lula era riuscito a trovare in aula; la proposta, soprannominata “Legge della Devastazione”, cancella le tutele per alcuni dei territori indigeni e riduce drasticamente i vincoli ambientali sui progetti ingegneristici e dell’industria agricola, permettendo di aggirare analisi e controlli attraverso una semplice autocertificazione. A rimanere fuori da tale misura sono solo i progetti ad alto rischio ambientale, che tuttavia potrebbero venire approvati direttamente dal governo, se considerati politicamente rilevanti. La legge è stata duramente contestata da specialisti e organizzazioni per l’ambiente, e ora dovrà passare dal presidente Lula, che nonostante il diritto di veto potrebbe non riuscire a impedirne l’approvazione definitiva.
Il progetto di legge 2.159/2021 è stato approvato lo scorso giovedì 27 novembre, a meno di una settimana dalla chiusura della COP30. La proposta intende semplificare le autorizzazioni ambientali riducendo la burocrazia e il monitoraggio statale. Essa prevede l’istituzione delle cosiddette “LAC” (Licenze ambientali di Adesione e Impegno) per tutti i progetti imprenditoriali a medio impatto ambientale. Le LAC – in forma diversa già previste per i progetti a basso impatto ambientale – introducono un sistema di auto-autorizzazione che aggira le valutazioni tecniche: in sostanza, per superare i vincoli ambientali, le verifiche e le analisi, basterà un’autocertificazione in cui il costruttore dichiari che il proprio progetto non mina alla conservazione dell’ambiente. Tra le attività interessate dalla misura vi sarebbero per esempio i lavori di bonifica di base, la manutenzione di strade e porti e la distribuzione di energia a bassa tensione. Oltre alle LAC, la legge introduce le LAE (Licenze Ambientali Speciali): esse consentono al governo federale di accelerare il rilascio delle licenze per progetti considerati strategici, aggirando i vincoli ambientali a prescindere dai loro livelli di rischio.
La legge, inoltre, introduce diverse deroghe per le attività agricole e agro-industriali: essa cancella i vincoli ambientali rivolti ai proprietari terrieri iscritti al Catasto Ambientale Rurale, così come alle attività di coltivazione di interesse agricolo, all’allevamento estensivo e semi-intensivo, all’allevamento intensivo su piccola scala e a parte della ricerca agricola. Parallelamente, la proposta indebolisce il ruolo di monitoraggio e analisi dell’Istituto Nazionale del Patrimonio Storico e Artistico e delle varie agenzie ambientali brasiliane come il Consiglio Nazionale per l’Ambiente e l’Istituto Chico Mendes per la Conservazione della Biodiversità, aprendo la porta ad attività economiche nelle aree sottoposte a tutela ambientale. A venire potenzialmente sottoposte ad attività economiche non sono solo le aree tutelate, ma anche quelle indigene. La legge, infatti, elimina la protezione dei territori indigeni e quilombola ancora in fase di demarcazione.
La proposta era stata approvata dal Senato lo scorso maggio, ma il presidente Lula era riuscito a trovare circa 60 veti alla Camera per fermarne l’approvazione; con la ratifica anche dall’aula bassa, ora tocca a lui decidere se porre il veto o firmarla definitivamente. In ogni caso, un eventuale fermo di Lula potrebbe venire superato dai legislatori con una votazione a maggioranza assoluta. La legge è stata contestata da diverse figure tanto della politica quanto della società civile. A maggio, il WWF ha rilasciato un comunicato in cui la definisce «la più grande battuta d’arresto nella legislazione ambientale brasiliana degli ultimi 40 anni»; anche Oxfam ha manifestato «grave preoccupazione» per la sua formulazione, e diversi esperti e analisti ambientali la hanno definita «incostituzionale», perché andrebbe contro il dovere dello Stato di garantire ai propri cittadini la vita in un ambiente sano, e contro gli obblighi di monitoraggio e tutela del patrimonio ambientale.
Golpe in Guinea-Bissau: l’Unione Africana sospende il Paese
Dopo il colpo di Stato militare, l’Unione Africana ha deciso di sospendere la Guinea-Bissau, dalla «partecipazione a tutte le attività dell’Unione, dei suoi organi e delle sue istituzioni», fino al ripristino dell’ordine costituzionale nel Paese. L’Unione, inoltre, ha affermato che non «tollererà» cambi alla Costituzione. I militari hanno effettuato il golpe lo scorso 26 novembre, affermando di avere agito contro «un piano in corso» per destabilizzare il Paese, che vedeva il coinvolgimento della politica e di un «grande signore della droga». Hanno chiuso i confini e interrotto il processo elettorale, che si sarebbe concluso ieri; il presidente deposto si trova ora in nella Repubblica Democratica del Congo.
Giornata per la Palestina, migliaia in piazza tra Roma e Milano
In occasione della Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese decine di migliaia di persone sono scese in strada tra Roma e Milano. Nel capoluogo lombardo, ad aprire il corteo è stato lo striscione: “Libertà per Shahin, la solidarietà alla Palestina non si processa”, in riferimento all’imam Mohamed Shahin colpito da un decreto di espulsione per il suo attivismo a favore della Palestina. A Roma vengono invece invocate le sanzioni e l’embargo nei confronti di Israele.
Venezuela, Trump soffia sul fuoco e dichiara “chiuso” lo spazio aereo del Paese
«A tutte le linee aeree, i piloti, i trafficanti di droga e i trafficanti di esseri umani, per favore si prega di considerare che lo spazio aereo sopra e intorno il Venezuela chiuso nella sua interezza. Grazie per la vostra attenzione»: così recita il post che il presidente Trump ha pubblicato poche ore fa sul proprio social Truth. Le dichiarazioni del presidente USA sembrano voler innalzare di proposito la tensione tra i due Paesi, che negli scorsi giorni non ha fatto che crescere. In qualità di presidente di un altro Paese, infatti, Trump non può prendere decisioni in merito allo spazio aereo venezuelano. I voli nel Paese avevano già iniziato a ridursi negli scorsi giorni: diverse compagnie avevano infatti sospeso i propri servizi verso Caracas dopo che Washington aveva messo in guardia i civili circa l’aumento dell’attività militare nella zona e i rischi conseguenti. Al momento, non risulta che l’amministrazione di Maduro abbia risposto alle dichiarazioni del presidente USA.
Negli ultimi giorni, gli Stati Uniti hanno aumentato la propria presenza militare nella zona, con il dispiegamento di due bombardieri nel Mar Caraibico insieme a due tanker partiti dalla Florida. La scorsa settimana, l’amministrazione Trump ha anche accusato il presidente venezuelano Nicolas Maduro di essere a capo del cosiddetto Cartel de los Soles, organizzazione che gli USA definiscono terroristica e che sarebbe legata al narcotraffico. Il Segretario di Stato Marco Rubio si è spinto fino a dichiarare su X che il cartello sarebbe responsabile di «atti terroristici», anche se molti analisti arrivano perfino a negare la sua esistenza. Con questa mossa, tuttavia, gli Stati Uniti, che negli ultimi mesi hanno affondato oltre venti imbarcazioni venezuelane e ucciso più di 80 persone con l’accusa che fossero in qualche modo coinvolte nel narcotraffico, possono ampliare il loro raggio d’attacco nella zona. Secondo quanto riferito dal Washington Post, sarebbe stato proprio il segretario alla Difesa, Peter Hegseth, a dare il comando diretto di uccidere tutte le persone a bordo durante il primo attacco condotto dagli USA nel Mar dei Caraibi, lo scorso settembre.
Secondo il New York Times, i due presidenti avrebbero avuto negli scorsi giorni un colloquio telefonico: al centro del colloquio vi sarebbe stata la possibilità di un incontro tra i due, ma non si sarebbe giunti a stabilirne la data nè tantomeno le modalità. La possibilità di un colloquio tra le due parti era stata paventata anche da Axios, che smentiva che un intervento militare diretto in Venezuela da parte di Washington fosse imminente. Secondo quanto riferito da Reuters, che cita fonti governative, le dichiarazioni odierne del presidente sarebbero giunte inaspettate e nè la Casa Bianca nè il Pentagono avrebbero risposto alle richieste di commento.
Le nuove linee guida dei pediatri: niente telefonino fino ai 13 anni e social dai 18
Niente smartphone personale prima dei 13 anni, accesso ai social da rinviare il più possibile, idealmente fino ai 18 anni, incentivare attività all’aperto, sport, lettura e gioco creativo. Sono le linee guida aggiornate sull’uso dei dispositivi digitali indicate dalla Società Italiana di Pediatria. Le raccomandazioni fotografano un’emergenza silenziosa legata all’iperconnessione digitale: l’eccesso di stimoli rapidi altera l’equilibrio dell’attenzione e indebolisce le competenze relazionali, con un aumento di ansia, isolamento e dipendenze digitali tra i bambini e adolescenti.
Numerosi studi internazionali confermano i rischi dell’esposizione precoce agli schermi: l’OMS raccomanda zero schermo sotto i 2 anni e massimo un’ora tra i 2 e i 4. Uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics mostra che l’uso dei device già a un anno è associato a ritardi nello sviluppo comunicativo e cognitivo. Metanalisi recenti evidenziano legami tra tempo di schermo, disturbi del sonno, obesità infantile, calo dell’attenzione e fragilità emotiva. Altri studi collegano l’uso intensivo del digitale a dipendenze, ansia e minore competenza sociale. Tutte le evidenze puntano nella stessa direzione: posticipare l’accesso ai dispositivi tecnologici è una misura protettiva per la salute dei minori. Dello stesso parere Rino Agostiniani, presidente della Società Italiana di Pediatria (SIP), che alza l’asticella contro l’uso precoce del digitale: «Ogni anno in più senza smartphone è un investimento nella salute del bambino».
La nuova revisione della letteratura internazionale condotta dalla SIP, che ha analizzato migliaia di studi, evidenzia come l’anticipo dell’esposizione agli schermi incida su linguaggio, attenzione, sonno e regolazione emotiva. Il quadro clinico che emerge è trasversale. In età pediatrica, «il cervello continua a formarsi e a riorganizzarsi per tutta l’infanzia e l’adolescenza», precisa Agostiniani. «Una stimolazione digitale precoce e prolungata può alterare attenzione, apprendimento e regolazione emotiva». Trenta minuti in più al giorno sotto i due anni aumentano sensibilmente il rischio di ritardo del linguaggio; ogni ora aggiuntiva sottrae minuti preziosi al riposo nei bambini in età prescolare; oltre determinate soglie si osservano associazioni con ipertensione e sovrappeso già tra i più piccoli. Secondo alcuni studi, sotto i 13 anni, anche un’esposizione superiore a un’ora al giorno può essere un fattore di rischio, mentre oltre due ore al giorno di schermo aumentano del 67% il rischio di obesità negli adolescenti. Il tempo digitale cresce mentre arretrano movimento, gioco libero, socialità reale, con effetti che si stratificano nel tempo. Negli adolescenti si osserva un aumento di ansia, isolamento e bassa autostima, legati anche alla comparazione costante e al timore di esclusione. E poi l’impatto sul sonno: l’89% degli adolescenti dorme con il cellulare in camera, favorendo deprivazione cronica di sonno. Crescono anche i casi di affaticamento visivo e miopia precoce; il rischio di dipendenze digitali, inclusi gaming e uso problematico dello smartphone, coinvolge una quota non marginale di giovani con alterazioni neurobiologiche simili ad altre dipendenze. Preoccupano inoltre cyberbullismo, esposizione a violenza e pornografia precoce, con ricadute su aggressività, disagio emotivo e comportamenti a rischio.
La pandemia ha accelerato questa deriva, raddoppiando le ore quotidiane davanti agli schermi e rendendo indispensabile un aggiornamento delle indicazioni pediatriche. Le nuove linee guida tracciano così un percorso prudenziale: rinviare l’introduzione del telefono, evitare l’accesso non supervisionato a Internet prima dei 13 anni, posticipare i social anche se consentiti per legge fino all’età adulta, spegnere i dispositivi durante i pasti e prima di dormire, promuovere attività all’aperto e lettura. Il cervello in formazione necessita di tempi lunghi, ripetizione, silenzio e noia. La sfida, ribadiscono i pediatri, non è abolire né demonizzare la tecnologia, ma ricollocarla nel tempo giusto, restituendo ai bambini spazi di esperienza reale e relazioni autentiche. Famiglia, scuola e istituzioni sono chiamate a un’alleanza educativa capace di porre limiti chiari e consapevoli, per preservare lo sviluppo e il futuro dei bambini.
Eurallumina, operai sospendono la protesta a 40 metri d’altezza
Dopo quasi due settimane di protesta, i 4 operai Eurallumina sono scesi dal silo di Portovesme (Sulcis Iglesiente), a 40 metri d’altezza. La decisione è stata presa dall’assemblea di lavoratori e sindacati dopo la visita della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone. Da Roma sarebbero arrivate infatti delle rassicurazioni in vista del tavolo convocato per il 10 dicembre. I lavoratori Eurallumina chiedono lo sblocco dei fondi necessari alla ripartenza della fabbrica di Portovesme dopo sedici anni di fermo.
Il CEO di Spotify investe in armi: 650 musicisti dei Paesi Baschi ritirano la loro musica
Una sollevazione corale sta scuotendo il panorama musicale basco, dove più di 650 artisti, riuniti sotto il nome di Musikariak Palestinarekin (Musicisti con la Palestina), hanno deciso di rimuovere i propri brani dalla piattaforma Spotify. La scelta coinvolge 162 gruppi e nomi di primo piano, tra i quali Fermin Muguruza, La Furia e Jon Maia, e costituisce una reazione diretta agli ingenti investimenti nel settore bellico da parte del fondatore e principale azionista della piattaforma, Daniel Ek. L’atto è scaturito in particolare dall’indignazione per i quasi 700 milioni di euro da questi destinati a Helsing Defense, azienda che sviluppa droni militari dotati di intelligenza artificiale.
L’iniziativa, presentata pubblicamente alla libreria Katakrak di Pamplona, affonda le sue radici nella situazione in Palestina. I portavoce del collettivo hanno ricordato che «sono trascorsi più di due anni da quando lo Stato sionista di Israele ha intensificato violentemente l’occupazione del popolo palestinese». Un processo che, come hanno anche sottolineato, è stato normalizzato dai media «come rumore di fondo», pur essendo «niente meno che un genocidio». In questo contesto, la notizia dell’investimento di Ek, resa pubblica lo scorso giugno, è stata, hanno spiegato, «la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Sentito da L’Indipendente, un portavoce di Spotify ha dichiarato che Helsing, l’azienda in questione, viene utilizzata e distribuita nei paesi europei a scopo di «deterrenza e difesa contro l’aggressione russa in Ucraina», citando una dichiarazione della stessa Helsing. Inoltre, hanno tracciato una linea di separazione, affermando che Spotify e Helsing sono due società separate e di essere «certi» di «non essere coinvolti a Gaza».
Tuttavia, per i musicisti di Musikariak Palestinarekin, questa distinzione è ininfluente. Il collettivo, nato all’inizio di agosto da un nucleo iniziale di pochi gruppi, si è progressivamente ampliato fino a coinvolgere centinaia di aderenti. Pur riconoscendo che le piattaforme di streaming «non sono generalmente strumenti creati per favorire i musicisti», il loro obiettivo va oltre la semplice protesta economica. «Sapendo che per Spotify noi non siamo nulla, vogliamo promuovere la stessa premessa nella direzione opposta: che Spotify non è niente per noi», hanno spiegato in occasione dell’evento in cui hanno raccontato della scelta di eliminare dalla piattaforma il loro catalogo, aggiungendo che il loro gesto è finalizzato a costruire un network ancora più ampio di protesta e a dare un senso collettivo al boicottaggio, trasformandolo in un potente strumento politico.
Consapevoli della natura simbolica della propria azione e delle differenze materiali che caratterizzano il settore musicale di Euskal Herria, i musicisti insistono sul fatto che Musikariak Palestinarekin «non è nato per parlare da un punto di vista morale né per puntare il dito contro i colleghi». L’invito, invece, è aperto a tutti: «Non siamo ancora così numerosi come vorremmo; abbiamo molti strati da superare. Invitiamo chiunque voglia unirsi a noi a farlo: le porte sono spalancate».
Rettifica: in una precedente versione, l’articolo era titolato “Spotify investe in armi: 650 musicisti dei Paesi Baschi ritirano la loro musica”. La formulazione corretta è che tali investimenti riguardano Daniel Ek, fondatore e CEO della piattaforma, e non direttamente l’azienda Spotify.
Indonesia e Sri Lanka, peggiora bilancio alluvioni: oltre 300 morti
Aumenta drammaticamente ora dopo ora il bilancio delle alluvioni che hanno colpito Sri Lanka e Indonesia. Fino ad ora sono state accertate almeno trecento vittime, un numero destinato a salire secondo il Centro di gestione delle catastrofi. Le forti piogge hanno distrutto migliaia di abitazioni e costretto quasi 44 mila persone a trovare riparo nei centri di assistenza statali. In Indonesia i soccorsi procedono con difficoltà: strade e ponti danneggiati, comunicazioni interrotte e mancanza di mezzi pesanti ostacolano l’intervento nelle aree più colpite. Nella provincia di Sumatra il bilancio è arrivato a 248 morti e oltre 500 feriti, mentre migliaia di famiglie risultano sfollate.







