venerdì 21 Novembre 2025
Home Blog Pagina 16

La Germania vuole l’esercito più forte d’Europa: «Il nostro stile di vita è in pericolo»

4

«Vogliamo rendere la Bundeswehr l’esercito convenzionale più forte dell’Unione Europea, come si addice a un Paese della nostra dimensione e responsabilità». Con queste parole, il cancelliere Friedrich Merz ha sancito la svolta militare della Germania, che punta a dotarsi della forza armata più potente del continente per affrontare quella che definisce «una nuova era di minacce». A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino archivia i tabù del passato e prepara un riarmo senza precedenti volto a riaffermare la centralità strategica tedesca, mentre il ministro della Difesa Boris Pistorius avverte che «non è allarmismo dire che il nostro stile di vita è in pericolo».

Nei “Piano Operativo Germania”, la Bundeswehr punta a crescere fino a 460.000 unità entro il 2029, con 80.000 soldati attivi e circa 120.000 riservisti, per garantire una forza mobilitabile in tempi rapidi. A questo si aggiunge un massiccio programma di investimenti in armamenti, logistica e tecnologia, pensato per riportare l’esercito tedesco al vertice europeo per capacità operative. «Non è un piano di guerra, ma piuttosto un piano di prevenzione della guerra», ha spiegato il Tenente Generale Alexander Sollfrank, capo del Comando Operativo delle forze armate. Il progetto si inserisce nella cornice della “Zeitenwende” (letteralmente “svolta epocale”, termine usato per la prima volta in senso politico dal cancelliere tedesco Olaf Scholz il 27 febbraio 2022), che indica il cambio di rotta della Germania dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dichiarato Merz nel suo discorso al Bundestag, «La nostra libertà, la nostra pace e la nostra sicurezza sono seriamente in pericolo» e «oggi non basta più reagire alle crisi: serve essere pronti a prevenirle». Sul piano strategico, Berlino è destinata a diventare il fulcro operativo della NATO in Europa e il principale garante della sicurezza europea. In questa direzione vanno i nuovi programmi di spesa che, grazie al fondo straordinario da 100 miliardi di euro istituito dopo il 2022, permetteranno l’acquisto di mezzi blindati, sistemi di difesa aerea, missili a lungo raggio e nuovi aerei da combattimento.

Secondo documenti governativi visionati da Politico, Berlino prepara un’espansione militare da 377 miliardi di euro, la più imponente dal 1945. Il piano prevede 561 sistemi antiaerei Skyranger 30, 14 batterie IRIS-T SLM, 396 missili SLM, 300 IRIS-T LFK e 400 missili da crociera Tomahawk Block Vb, oltre a 3 lanciatori mobili Typhon. Dal 2026, la Germania ospiterà anche i missili ipersonici Dark Eagle, capaci di colpire la Russia centrale in 7 minuti: il simbolo di una deterrenza sempre più autonoma dagli Stati Uniti. Il nuovo “Force Model” dell’Alleanza prevede la possibilità di mobilitare fino a 800.000 uomini in 180 giorni in caso di emergenza, e la Germania dovrà sostenere una quota significativa di questo contingente. Pistorius ha sottolineato che «la Russia si sta preparando per un’altra guerra» e che l’Europa deve farsi trovare pronta. A rincarare la dose Sollfranck, che si è detto convinto che il conflitto con la Russia sia inevitabile e che, pertanto, «un attacco su larga scala alla NATO potrebbe diventare possibile, e presto». La Bundeswehr ha già avviato una riforma interna che punta a rendere più efficienti i comandi e a migliorare la logistica, da tempo considerata un punto debole. Tuttavia, restano ostacoli strutturali: carenza di reclute, infrastrutture obsolete e una catena di approvvigionamento ancora troppo lenta.

Il nuovo protagonismo militare tedesco evoca il riarmo degli anni Trenta che preparò la Wehrmacht all’Operazione Barbarossa, ma non lascia indifferente l’Europa. In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto, durante una puntata della trasmissione 5 minuti, in onda su RAI 1, ha indicato Berlino come esempio da seguire, chiedendo una riforma profonda delle forze armate e un incremento di almeno 30.000 unità, richiamando esplicitamente i numeri tedeschi. Roma, come Berlino, tenta di ridefinire la propria strategia tra le pressioni della NATO e i limiti di bilancio. Mentre in Europa cresce la corsa agli armamenti, la Germania guida una stagione che, abbandonata la prudenza del dopoguerra, riporta al centro la logica della potenza. Nel solco della storia tedesca, risuona l’ammonimento di Marx ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Allora, nel 1941, l’invasione dell’URSS decretò la rovina della Germania; oggi, un riarmo giustificato da una minaccia costruita a tavolino rischia di spingere ancora una volta il Vecchio Continente sull’orlo del baratro.

Infezioni e carcasse nell’allevamento del gruppo Veronesi: l’impero dei marchi Aia e Negroni

1

Un’inchiesta fotografica e video-documentale dell’organizzazione ambientalista GreenPeace ha messo a nudo condizioni drammatiche nell’allevamento di suini La Pellegrina, a Roncoferraro (Mantova), di proprietà del Gruppo Veronesi, detentore di noti marchi come AIA, Negroni e Wudy. Le immagini mostrano, tra le altre cose, carcasse di suini abbandonate e infestazioni di ratti a contatto diretto con gli animali, ferite non trattate e ambienti angusti privi di luce naturale. Quanto emerge solleva interrogativi sanitari, di benessere animale e di rischio ambientale per aree protette nelle vicinanze: per questo, GreenPeace ha presentato un esposto alle autorità e ribadito il sostegno alla proposta di legge che vorrebbe andare «oltre gli allevamenti intensivi».

Le fotografie e i filmati documentano una convivenza pericolosa tra suini e roditori all’interno di box di gestazione e di pre-maternità, dove i ratti scorrazzano liberamente. In più punti si vedono carcasse di suinetti «morse o mangiate dai ratti» e animali morti lasciati a terra per oltre 24 ore. Come spiegato nel comunicato diramato dall’organizzazione, la presenza massiccia di roditori è più che un problema di scarsa igiene: aumenta il rischio di trasmissione di patologie (salmonellosi, leptospirosi, toxoplasmosi), la contaminazione dei mangimi e dei macchinari e può portare all’ingestione di carcasse avvelenate a causa dell’uso di rodenticidi. I problemi non si confinano all’interno dei capannoni. Riprese aeree rivelano una perdita di liquami dal sistema di smaltimento, con feci e urine riversate sul terreno aziendale. Questo comporta un concreto rischio di inquinamento per i terreni e le falde acquifere, in un’area particolarmente sensibile a pochi chilometri da ben cinque aree tutelate, tra cui la Zona Protetta di Vallazza.

Le condizioni fisiche dei maiali risultano gravi in diversi casi. Le scrofe presentano lacerazioni compatibili con gli spazi ristretti delle gabbie di maternità, e in alcune immagini si notano prolassi uterini non trattati, condizione che, se non curata, può provocare emorragie interne e la morte. Si documentano inoltre mutilazioni alle code dei suinetti, pratica usata negli allevamenti intensivi per prevenire il morso reciproco ma che indica al contempo livelli elevati di stress e sovraffollamento. Dalle riprese emergono anche segnali di gestione farmacologica frequente: bottiglie e confezioni di ossitocina per facilitare il parto e di anti-infiammatori come il ketoprofene. Pur non essendo farmaci vietati, la loro abbondante presenza è un indizio di malattie ricorrenti e di pratiche di controllo della produzione che puntano più alla produttività che alla cura. Si vedono, inoltre, guanti in lattice abbandonati in box maternità e carenze nelle pratiche di biosicurezza.

Questa denuncia non è inquadrata da GreenPeace come un caso isolato, bensì come sintomo di un sistema intensivo basato sull’iper-produzione che favorisce grandi aziende, marginalizza le piccole imprese e impone costi ambientali e sanitari alla collettività. L’organizzazione, insieme a una coalizione di associazioni, propone la legge “Oltre gli allevamenti intensivi” come strada per ridurre il numero di animali allevati, bloccare l’espansione degli impianti intensivi e avviare una transizione verso modelli a minor impatto. GreenPeace chiede al governo una moratoria immediata sui progetti di nuova costruzione o ampliamento di allevamenti intensivi e lo stop ai finanziamenti pubblici agli allevamenti intensivi; inoltre, si richiede l’adozione di politiche che valorizzino diete prevalentemente a base vegetale e misure efficaci per la tutela delle risorse idriche, nonché di evitare le importazioni di materie prime come la soia utilizzata come mangime e di imprimere un miglioramento all’attuale proposta di certificazione volontaria dei prodotti di origine animale.

Portogallo, centomila in piazza contro la riforma liberista del lavoro

0

Nel finesettimana, decine di migliaia di persone sono scese in piazza in Portogallo, per protestare contro la nuova riforma del lavoro. Secondo gli organizzatori, almeno centomila persone si sarebbero ritrovate per opporsi a misure che, riporta il CGTP (il più grande sindacato portoghese), indeboliranno i diritti dei lavoratori attraverso iniziative quali l’abbassamento dei salari, una maggiore deregolamentazione degli orari di lavoro e procedure di licenziamento più semplici, compreso per quello senza giusta causa. La riforma prevede inoltre un allentamento delle restrizioni all’esternalizzazione e consentirebbe alle aziende di disporre legalmente di un certo numero di straordinari non pagati.

Sarebbero oltre un centinaio, riferisce Tiago Oliveira (segretatio generale del CGPT), gli aspetti della legislazione sul lavoro che il governo vorrebbe rivedere. Tra questi, in particolare, vi sono l’allungamento degli orari di lavoro e l’aumento del banco ore individuale, senza conseguente aumento degli stipendi (che si traducono, sostanzialmente, in straordinari non pagati per un massimo di 150 ore all’anno); maggiori possibilità per i datori di lavoro di assumere a tempo determinato, aumentando così la precarietà; facilitazione dei licenziamenti, incluso quello senza giusta causa; attacchi alla contrattazione collettiva, che facilitano «il ricatto padronale»; limitazione del diritto allo sciopero; limitazione di ingressi e contatti dei sindacati con i lavoratori nei luoghi di lavoro. Sono previste anche limitazioni per quanto riguarda congedi parentali, permessi per l’allattamento e lutto gestazionale. La stessa ministra del Lavoro, Maria do Rosário Palma Ramalho, nella conferenza stampa che annunciava la riforma, ha dichiarato che questa fosse necessaria per «rendere più flessibili» i regimi lavorativi e «aumentare la competitività dell’economia e delle imprese».

Per questo motivo, decine di migliaia di persone sono scese per le strade delle due maggiori città del Portogallo, Lisbona (la capitale) e Porto, e mostrare al governo la netta opposizione alle nuove misure. Dal palco di Lisbona, Tiago Oliveira, segretario generale del CGPT, ha definito senza mezzi termini la riforma del governo di Luís Montenegro come «uno dei più grandi attacchi mai sferrati ai lavoratori» ed accusato l’esecutivo di stare mettendo in atto «tutti i meccanismi affinchè il padronato possa avanzare ancora di più nello sfruttamento dei lavoratori». Oliveira ha anche accusato il governo di «attaccare e indebolire la lotta e l’organizzazione dei lavoratori», attraverso una maggiore individualizzazione dei rapporti di lavoro, attacchi alla capacità di organizzazione, deregolamentazione e precarietà.

La riforma andrebbe a colpire i cinque milioni di lavoratori del Portogallo, dei quali 1,4 milioni hanno già contratti di lavoro precari (il 54% dei giovani). «La redistribuzione della ricchezza è profondamente ingiusta nel nostro Paese», sostiene Oliveira, dal momento che «2 milioni di persone vivono in condizioni di povertà e una ogni dieci si trova in questa situazione anche se ha un lavoro», in un Paese dove il salario minimo è di 870 euro. In un simile contesto, il governo si sta muovendo nella direzione dello smantellamento del sistema di istruzione e salute pubblica, mentre si punta a ridurre il personale anche nei tribunali e nelle pubbliche amministrazioni, «non per una questione di soldi, ma di scelte politiche».

Secondo la Confederazione Intersindacale Galiziana (CIG), la riforma voluta dal governo è «ingiustificata, ingiusta e indesiderabile», in quanto non risolve nessuno dei problemi esistenti ma va piuttosto a rendere il rapporto tra lavoratore e dipendente ancora più squilibrato e iniquo. «Nessuna delle misure è neutra: tutte spostano l’equilibrio dalla parte di chi ha già più potere».

Unesco: primo sì a cucina italiana patrimonio dell’umanità

0

L’UNESCO ha espresso parere tecnico favorevole all’iscrizione della cucina italiana tra i patrimoni culturali immateriali dell’umanità. Il risultato è arrivato in vista della decisione finale che sarà presa dal Comitato intergovernativo a New Delhi dall’8 al 13 dicembre. Se confermata, sarà la prima cucina al mondo a ottenere questo riconoscimento nel suo complesso. Tra le decisioni pubblicate oggi dall’Organizzazione delle Nazioni Unite ci sono anche quelle relative allo Yodel svizzero, al Son cubano, agli Origami giapponesi, al vino passito cipriota, alla passione di Cristo in Messico. 

Shock economy a Gaza: le imprese italiane in fila per la ricostruzione

0

Nonostante il cessate il fuoco, proseguono le stragi di palestinesi da parte dell’esercito israeliano a Gaza, ma questo non ha impedito alle grandi imprese di tutto il mondo – comprese quelle italiane – di cominciare a guardare con interesse alla fase della ricostruzione fiutando la possibilità di fare affari d’oro grazie ai finanziamenti internazionali. È quella che in senso lato si può definire shock economy, la tendenza ad approfittare di crisi di qualsiasi tipo per mettere in atto azioni di speculazione economico-finanziaria che vanno soprattutto a beneficio di una élite economica. Tra le principali imprese italiane, quelle che punterebbero a partecipare al business della ricostruzione compaiono Webuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire. Secondo la rivista Fortune Italia, «Le aziende europee avranno una corsia privilegiata nelle gare per la ricostruzione».

La Banca Mondiale ha stimato in oltre 80 miliardi di dollari la cifra per smaltire le macerie e ricostruire Gaza e, insieme alle Nazioni Unite, ha già pubblicato diversi bandi per finanziare la ristrutturazione del territorio martoriato dalla guerra, tra cui il “Procurement Plan 2025-2027” con sovvenzioni iniziali per il progetto di riedificazione. L’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS), invece, ha indetto un bando per apparecchiature mediche destinate agli ospedali palestinesi, la maggior parte dei quali sono interamente da ricostruire. La Banca Mondiale ha conferito a Gaza lo status di “special conflict-affected“, facilitando così l’accesso delle aziende ai bandi. Degli ottanta miliardi almeno venti andranno spesi nei primi tre anni e questo ha già attirato l’attenzione di grandi gruppi industriali, tra cui quelli europei e italiani.

La ricostruzione di Gaza si preannuncia come un compito estremamente difficile: il livello di distruzione, infatti, richiede la rimozione di ben 61 milioni di tonnellate di rovine. Almeno 436.000 abitazioni sono state distrutte o parzialmente danneggiate, secondo le stime di sei mesi fa contenute nel rapporto redatto dall’Ufficio per gli Affari Umanitari dell’Onu. Tra le rovine ci sono poi parti in amianto, metalli pesanti e ordigni inesplosi che necessitano di un «trattamento speciale», senza considerare il fatto che le macerie “restituiranno” almeno diecimila cadaveri. Secondo le Nazioni Unite per ristrutturare l’enclave potrebbero volerci circa vent’anni.

In questo quadro, gli ottanta miliardi di dollari stimati per ristrutturare Gaza serviranno per realizzare tre livelli di intervento tra loro interdipendenti: messa in sicurezza e rimozione delle macerie; ripristino funzionale delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria); ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo livello, non è possibile avviare gli altri due e senza il secondo, il terzo non è sostenibile nel tempo. A tal fine, si prevede che la cifra complessiva sarà stanziata in fasi e strumenti diversi: la prima fase prevede le donazioni per stabilizzazione, macerie e servizi essenziali, la seconda richiede un’unione tra donatori, banche multilaterali e garanzie per lavori su reti idriche, elettriche e trasporti. La terza fase infine apre a partenariati pubblico-privato (PPP) riguardanti edilizia sociale, energia distribuita e gestione dei rifiuti. Ed è qui che subentra l’interesse delle grandi imprese e che si svolgeranno le partite per i grandi appalti.

Tra le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione figurano grandi gruppi internazionali, tra cui anche diverse imprese italiane: oltre alle già citate WeBuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire compaiono anche Cementir, Gavio e ENI. Il grosso degli appalti potrebbe andare a WeBuild con il supporto di Cassa Depositi e Prestiti, mentre Gavio si occuperebbe delle infrastrutture stradali. Si fanno anche i nomi di Italferr per le ferrovie e Anas per l’asfalto. Ma la protagonista principale, secondo Piazza Affari, sarà Cementir dei Caltagirone grazie alla sua importante capacità produttiva in Turchia. Secondo Banca Akros, Cementir «potrebbe beneficiare della fine dei conflitti in Ucraina, Siria e nella Striscia di Gaza» grazie alla forte presenza in Turchia che la colloca nella posizione ideale per servire i cantieri dell’area. Dopo l’annuncio del presidente statunitense Trump sull’accordo per Gaza e la ricostruzione, le azioni Cementir hanno guadagnato il 16%, mentre da inizio anno la crescita arriva al 52%. Sono salite del 2% anche le altre due possibili beneficiarie della ricostruzione a Gaza: Buzzi e WeBuild. In questo panorama, anche la Commissione europea ha valutato un investimento triennale fino a 1,6 miliardi di euro (2025-2027).

Dopo aver contribuito alla distruzione di Gaza mediante il totale silenzio sulla condotta di Israele o addirittura inviando armi, ora i governi di buona parte del mondo cercano il loro spazio privilegiato negli affari della ricostruzione della Striscia con promesse allettanti per i grandi colossi industriali. Non c’è però solo l’aspetto economico, ma anche quello geopolitico: finanziare la ricostruzione di Gaza significa esercitare influenza sul territorio, rafforzando la propria presenza strategia nell’area del Mediterraneo. Profitti per le imprese secondo la dottrina della shock economy e geo-strategia per i governi appaiono le chiavi di volta che guidano le azioni degli attori internazionali nella ricostruzione di Gaza. Nel frattempo, il cessate il fuoco appare sempre più fragile e la popolazione civile è ancora sotto il fuoco dell’esercito israeliano che, a quanto pare, non ha ancora terminato la missione della distruzione dell’enclave palestinese.

Senato USA approva accordo bipartisan, stop allo shutdown

0

Al Senato americano è stato siglato un accordo bipartisan che pone fine allo shutdown del governo federale, estendendo il finanziamento fino al 30 gennaio. Bufera sugli otto senatori del partito Democratico che hanno rotto la linea del gruppo e votato a favore dell’intesa. L’accordo prevede anche la riassunzione dei dipendenti federali licenziati durante la chiusura. Continuano i negoziati per le misure più controverse, tra cui la riforma sanitaria. Ora il disegno di legge passerà all’esame della Camera. Questo dovrebbe permettere il ritorno alla normalità del traffico aereo che rischiava una paralisi totale nelle prossime ore. 

Nel mondo il 92% della popolazione ha ormai accesso sufficiente all’elettricità

1
670791409

Dal 1998, da quando sono disponibili i primi dati a livello mondiale, al 2023, l'accesso all'elettricità è cresciuto nel mondo. Ourworldindata ha elaborato, sulla base dei dati forniti dalla Banca Mondiale, un indicatore per misurare il fenomeno. È risultato che la percentuale di popolazione che usufruisce di una fonte elettrica capace di coprire bisogni basilari sia passata dal 73% del 1998 al 92% del 2023. A trainare la crescita sono le regioni del Sud globale, come l'Africa Subsahariana e l'Asia meridionale. L'accesso all'elettricità ha un'importante ricaduta sulle condizioni di vita delle ...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

Repubblica Democratica del Congo: nuovi combattimenti nel sud Kivu

0

Nella Repubblica Democratica del Congo sono scoppiati nuovi scontri. I combattimenti stanno interessando gli altopiani di Fizi e Mwenga, nella provincia orientale del Sud Kivu. A scontrarsi sono il gruppo ribelle Twirwaneho, vicino all’M23, e l’esercito regolare, supportato dal Burundi. Secondo le fonti locali, almeno dieci persone sarebbero state uccise nei combattimenti, e i ribelli avrebbero conquistato diversi villaggi. Gli scontri arrivano dopo un mese di relativa calma nel Paese, raggiunta dopo i negoziati di pace tra i ribelli dell’M23 e le autorità centrali.

Migranti, affonda una nave in Malesia: 300 dispersi

0

Le autorità marittime della Malesia hanno dichiarato di stare effettuando una operazione di soccorso per cercare circa 300 persone migranti disperse nei pressi dell’arcipelago di Langkawi, vicino al confine con la Thailandia. Il gruppo di migranti era partito da Buthidaung, in Birmania: le persone erano dirette in Malesia, e sono inizialmente salite a bordo di una grande imbarcazione; mentre si avvicinavano al confine, è stato loro ordinato di trasferirsi su tre imbarcazioni più piccole per eludere le autorità. C’è tuttavia stato un incidente, e ora risultano disperse. Finora, le autorità della Malesia hanno trovato dieci sopravvissuti e un corpo.

COP30: tra lobbisti e proteste indigene in Brasile si apre il vertice sul clima

1

È tutto pronto per l’inizio della COP30, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2025. Gli incontri inizieranno domani, lunedì 10 novembre, a Belém, città portuale brasiliana situata sul limitare dell’Amazzonia, e termineranno il 21 novembre. Il vertice di quest’anno sarà particolarmente delicato: tra le varie cose, in ballo ci sono i tagli delle emissioni previsti per l’accordo di Parigi, i finanziamenti ai cosiddetti “Paesi meno sviluppati”, gli aiuti alle popolazioni indigene e il tentativo di istituire un fondo per la preservazione delle foreste. Agli incontri, tuttavia, mancheranno i leader di diversi Paesi importanti – primi fra tutti gli Stati Uniti – mentre i capi indigeni e i rappresentanti Paesi meno sviluppati faticano addirittura a trovare alloggio in città. Di contro, è prevista la presenza di lobbisti per le grandi multinazionali del fossile, storicamente più rappresentate delle popolazioni indigene.

Gli incontri di domani proveranno a fare passi avanti per il raggiungimento degli obiettivi delineati dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dall’accordo di Parigi. La UNFCCC prevede di raggiungere «la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da impedire pericolose interferenze antropiche con il sistema climatico», e di farlo «entro un lasso di tempo sufficiente a consentire agli ecosistemi di adattarsi»; l’accordo di Parigi, invece, punta a limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C. Durante gli incontri si discuterà dei nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il 2035; un altro dei progetti chiave promossi dalla guida brasiliana è il Tropical Forest Forever Facility, un fondo da 125 miliardi di dollari destinato alla preservazione delle foreste.

Agli incontri parteciperanno circa 50.000 persone. Ci saranno delegati da almeno 162 Paesi, rappresentanti indigeni, membri della società civile e lobbisti dei gruppi di idrocarburi; gli eventuali accordi raggiunti dai Paesi avrebbero valore vincolante. I problemi di rappresentatività si sono fatti sentire sin dall’organizzazione del vertice: Belém non ha infatti la capacità ricettiva per ospitare tutte le persone che avrebbero dovuto partecipare agli incontri. Prima della COP, la città contava circa 18.000 posti letto, e sin da gennaio, il governo brasiliano ha stanziato decine di milioni di euro per cercare di aumentare l’offerta entro l’inizio del vertice. A oggi, Belém offre circa 53.000 alloggi di cui 14.547 in alberghi, 6.000 nelle crociere, 10.004 affitti tramite agenzie immobiliari e 22.452 Airbnb. Secondo quanto comunica il quotidiano francese Le Monde, all’inizio della scorsa settimana 49 Paesi che intendevano partecipare all’evento non erano ancora riusciti a trovare un alloggio; il ministro per l’Ambiente della Lettonia ha detto all’agenzia di stampa Reuters di avere chiesto di potere partecipare ai tavoli tramite collegamento a distanza, perché i costi per gli alloggi erano troppo alti.

A risentire del problema dei costi e del numero degli alloggi sono stati propri i Paesi meno sviluppati, quelli dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari, e i gruppi indigeni. Alcuni rappresentanti di questi ultimi hanno lanciato la Flotilla4Change, una iniziativa per attraversare l’Atlantico a bordo di imbarcazioni a vela; a partecipare sono circa 3.000 persone tra attivisti, scienziati dell’ambiente e, appunto, membri delle comunità indigene. Parallelamente, decine di imbarcazioni si sono mosse da diverse località dell’Amazzonia, delle Ande, e di altri Paesi sudamericani come l’Ecuador. Lo scopo delle missioni è quello di mettere in risalto gli effetti della deforestazione e della carbonizzazione sulle comunità.

Chi invece non sembra avere avuto alcun problema con gli alloggi sono i lobbisti che lavorano per i gruppi di idrocarburi. Non è ancora noto quanti rappresentanti parteciperanno agli incontri di quest’anno, ma una recente analisi di Kick Big Polluters Out (KBPO), una coalizione di 450 organizzazioni per l’ambiente, ha svelato i numeri degli anni precedenti. Negli ultimi quattro anni, tra il 2021 e il 2024, oltre 5.300 lobbisti hanno avuto accesso ai vertici ONU: alla COP26 erano presenti 503 lobbisti; alla COP27 ce n’erano 636; alla COP28 2.546; e alla COP29 1.773. L’anno scorso i lobbisti erano il 70% in più rispetto al numero totale dei rappresentanti delle Nazioni più vulnerabili al clima, e circa 10 volte il numero di delegati delle comunità indigene. I 5.300 lobbisti che hanno preso parte agli ultimi quattro incontri per l’ambiente hanno lavorato per 859 organizzazioni, tra cui 180 compagnie petrolifere di gas e carbone; la metà esatta di queste ultime rappresentano il 57% di tutto il petrolio e il gas prodotti lo scorso anno.

L’attività lobbistica ha avuto un ruolo negli accordi al ribasso siglati l’anno scorso, in cui risultava centrale il programma di finanziamento dei Paesi meno sviluppati. Quest’anno, il contesto in cui inizia la COP30 non sembra promettere risultati tanto diversi: gli Stati Uniti non saranno presenti, e c’è chi ipotizza che Trump – da fuori – possa fare come già fatto per l’accordo sulle emissioni marittime, ossia esercitare pressione politica sui Paesi per spingerli a bocciare gli accordi troppo svantaggiosi per l’industria fossile. I ministri dell’Ambiente dell’UE hanno recentemente raggiunto un accordo sul taglio delle emissioni, che tuttavia risulta più elastico di quanto originariamente previsto, e lo stesso Brasile ha recentemente autorizzato nuove perforazioni petrolifere in due bacini dell’Amazzonia.