Papa Leone incontrerà domani in Vaticano il presidente israeliano Isaac Herzog. Pronto dunque il riallineamento della Chiesa Cattolica verso lo Stato ebraico, dopo gli ultimi anni del Pontificato di Bergoglio segnati da una forte critica verso i crimini israeliani in Palestina. Dal 7 ottobre 2023 fino alla sua morte, infatti, Papa Francesco non aveva mai incontrato i leader di Tel Aviv, ospitando invece il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen. L’incontro tra Leone e Herzog verterà su diverse questioni, come la liberazione degli ostaggi israeliani, la lotta all’antisemitismo e la protezione delle comunità cristiane in Medio Oriente, le stesse che Israele attacca nella Striscia di Gaza da due anni a questa parte. L’annuncio dell’incontro arriva a poche ore dal proclama del ministro israeliano Ben Gvir, secondo cui «gli europei proveranno il terrorismo in prima persona».
L’incontro tra Herzog e il Papa si terrà domani, giovedì 4 settembre, alle ore 10, presso il Palazzo Apostolico. Lanciata la notizia dell’incontro, l’ufficio del presidente Herzog ha rilasciato una nota in cui afferma che l’incontro sarebbe stato organizzato su richiesta del Papa; il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni, tuttavia, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha specificato che «è prassi della Santa Sede acconsentire a richieste di udienza rivolte al Pontefice da parte di capi di Stato e di governo, non è prassi rivolgere loro inviti». Secondo i quotidiani israeliani, Herzog pianificava di visitare il Vaticano mesi fa, quando Papa Francesco era gravemente malato; l’incontro di domani, specificano, sarebbe stato organizzato dopo l’insediamento di Leone XIV.
Sin dal suo insediamento, Papa Leone ha ricollocato la Chiesa su una traiettoria più moderata nella sua denuncia dei massacri a Gaza. Il pontefice ha raramente mosso critiche dirette nei confronti della condotta israeliana, e si è spesso limitato a lanciare generici appelli per la pace. Comportamento opposto a quello del suo predecessore, Francesco, che dal 7 ottobre 2023 si è sempre tenuto in contatto con la parrocchia di Gaza e non ha mai ricevuto leader israeliani in Vaticano, criticandoli apertamente. In generale, negli ultimi due anni, i rapporti tra Israele e la chiesa cattolica sono peggiorati notevolmente. In tal senso, ricevere Herzog mentre il Paese di cui è presidente è accusato per genocidio risulta fortemente simbolico. Il presidente, come il primo ministro Netanyahu, su cui pende un mandato di arresto internazionale con l’accusa di aver commesso crimini di guerra, è uno dei più fervidi sostenitori di posizioni razziste nei confronti dei palestinesi, come dimostrato all’indomani del 7 ottobre, quando definì «l’intera nazione responsabile» degli atti di quello che Israele definisce «terrorismo», sostenendo che a Gaza «non ci sono civili innocenti».
Una nave militare degli Stati Uniti ha sparato contro una nave partita dal Venezuela, accusandola di trasportare droga. Nell’attacco, specifica il presidente Trump, sono state uccise 11 persone. L’esercito statunitense, ha detto Trump, ha identificato l’equipaggio della nave colpita come membri della gang venezuelana Tren de Aragua, che gli Stati Uniti hanno definito un gruppo terroristico a febbraio e sostengono essere controllata dal presidente venezuelano Maduro. Non sono state rilasciate ulteriori informazioni sull’attacco o sul carico trasportato.
Nel corso di un incontro con il primo ministro slovacco Robert Fico, svoltosi a Pechino, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca non si è mai opposta a una eventuale adesione dell’Ucraina all’Unione Europea e che ritiene possibile trovare un accordo sulla sicurezza per entrambe i Paesi. Tuttavia, ha ribadito che l’eventuale ingresso dell’Ucraina nella NATO è «un’altra questione». Il presidente ha poi definito «assordità» l’ipotesi, avanzata da alcuni leader UE, secondo la quale la Russia avrebbe piani di aggressione contro l’Europa. Le radici del conflitto attuale, ha riferito Putin, sono da ricercare nella necessità della Russia di reagire a quello che ha definito un tentativo dell’Occidente e della NATO di assorbire l’intero spazio post-sovietico, con le conseguenti implicazioni di sicurezza per Mosca. Putin si è inoltre detto soddisfatto del fatto che l’amministrazione Trump sia disposta a dialogare con Mosca.
Il conflitto in Ucraina, ha dichiarato Putin, non è scoppiato «a causa del nostro comportamento aggressivo», ma per via «dell’incoraggiamento da parte dell’Occidente al colpo di Stato in Ucraina». Nonostante nel 2014 i funzionari di Francia, Germania e Polonia avessero «firmato come garanti di un accordo tra le autorità di opposizione in Ucraina», pochi giorni dopo «è stato compiuto un colpo di Stato» e i tre Paesi in questione, anzichè intervenire per «per riportare il processo politico in Ucraina nel quadro costituzionale», hanno «sostenuto coloro che hanno organizzato il colpo di Stato». «È così che è iniziato questo conflitto», ha dichiarato Putin, aggiungendo che, successivamente, la situazione è «giunta al culmine» in Crimea e in Donbass. L’aggressione, ha dichiarato il presidente, non è avvenuta per un comportamento aggressivo della Russia, ma «dell’altra parte»: in sostanza, «noi non abbiamo altri obiettivi se non proteggere i nostri interessi». In questo contesto, «la NATO viene usata come strumento per conquistare tutto lo spazio post-sovietico», fattore al quale «dovevamo reagire». Per quanto riguarda le ipotesi, avanzate più volte in sede UE, di un piano russo per aggredire l’Europa, si tratta di «una totale assurdità senza fondamento». I «tentativi incessanti di alimentare l’isteria su una presunta intenzione della Russia di attaccare l’Europa» sono atti di «provocazione o totale incompetenza», dal momento che «qualsiasi persona ragionevole capisce perfettamente che la Russia non ha mai avuto, non ha e non avrà mai alcun desiderio di attaccare nessuno». Quest’ipotesi è stata suggerita in maniera più o meno esplicita, oltre che dall’Ucraina, anche personalità quali l’alta rappresentante europea per gli Affari Esteri Kaja Kallas e il segretario della NATO Mark Rutte.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, «non abbiamo mai sollevato obiezioni». L’ingresso nella NATO, invece, «è una questione diversa, poichè riguarda la sicurezza della Federazione Russa» nel lungo termine. Un’eventualità di questo tipo, ha chiarito Putin, è «inaccettabile». Sebbene spetti all’Ucraina garantire la propria sicurezza, questa «non può avvenire a scapito della sicurezza di altri Paesi», come affermato anche in numerosi documenti fondamentali «relativi alla sicurezza in Europa». Facendo riferimento ai colloqui avvenuti a ferragosto con il presidente americano Donald Trump ad Anchorage, in Alaska, Putin ha dichiarato che «esistono opzioni per garantire la sicurezza dell’Ucraina nel caso in cui il conflitto dovesse terminare» e sulle quali «penso che potremo raggiungere un consenso».
Alle parole di Putin hanno fatto eco le dichiarazioni del ministro degli Affari Esteri russo Lavrov. Nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano indonesiano Kompas, Lavrov ha dichiarato che la risoluzione pacifica del conflitto rimane «una priorità» per Mosca. Dopo i primi colloqui di pace del 2022, falliti dopo che «il regime di Kiev, seguendo i consigli dei suoi manipolatori occidentali, ha abbandonato il trattato di pace scegliendo invece di continuare la guerra», questi sono ripresi nella primavera di quest’anno e «sono stati compiuti progressi su questioni umanitarie». A questi sono seguiti i colloqui con l’amministrazione Trump, con il colloquio in Alaska che è stato «molto proficuo».
Per decenni quella del Páramo dello stratovulcano Antisana, a sud-est della capitale Quito, è stata considerata e trattata come un’area da sfruttare: pascoli intensivi, incendi, terreni compattati dal passaggio continuo di mandrie. Oggi, lo stesso paesaggio mostra segni evidenti di rigenerazione. A partire dal 2010, il Governo locale e l’azienda idrica della capitale hanno iniziato un processo graduale ma determinato di ripristino ambientale, acquistando terreni da allevatori e rimuovendo gli animali non autoctoni. Azioni che in poco tempo hanno permesso all’ecosistema e ai suoi abitanti di ri...
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Le ultime navi della Global Sumud Flotilla sono pronte per unirsi al convoglio partito il 31 agosto in direzione di Gaza, con lo scopo di portare aiuti umanitari nella Striscia. Cinquanta imbarcazioni, settecento attivisti in viaggio, e trecento tonnellate di aiutiumanitari raccolte in cinque giorni nella sola città di Genova: è questo l’ingente movimento che proverà ancora una volta a rompere l’assedio israeliano a Gaza. L’iniziativa costituisce il più grande sforzo umanitario di sempre per raggiungere la Palestina via mare, per arrivare là dove i governi non vogliono arrivare. Israele, dal canto suo, ha già preparato un piano per bloccare il convoglio e impedirgli di raggiungere la Striscia, affermando senza mezzi termini che gli attivisti a bordo delle navi verranno trattati come «terroristi». Abbiamo parlato della missione con Maria Elena Delia, portavoce del movimento in Italia.
Come è nata l’iniziativa della Global Sumud Flotillla? Quali sono gli scopi e il messaggio politico che c’è dietro?
L’iniziativa della Global Sumud Flotilla è nata al ritorno della Global March to Gaza, a metà giugno, quando migliaia di persone provenienti da tutto il mondo hanno cercato di marciare pacificamente verso il valico di Rafah, dove fino a qualche mese fa entravano gli aiuti umanitari. Tornati dall’Egitto, ci siamo resi conto che un risultato l’avevamo ottenuto: si era creato nuovamente un enorme e coeso movimento internazionale, che oggi si chiama Global Movement to Gaza. Visto che non siamo riusciti ad aprire un corridoio umanitario via terra, abbiamo pensato di riaprirlo via mare, come dal 2008 prova a fare la Freedom Flotilla Coalition. La differenza con le precedenti missioni della Freedom Flotilla è la dimensione: se prima a provare ad arrivare a Gaza erano una o due barche, in questo caso le barche saranno quasi 50 con a bordo tra le 600 e 700 persone. Il numero di partecipanti dà l’idea del messaggio politico che vogliamo lanciare a quei governi e quelle istituzioni che stanno in silenzio da quasi due anni: i cittadini non sono più disposti a non fare niente, anche a costo di intraprendere in prima persona una missione pericolosa. L’obiettivo è semplice: dire no al genocidio, rompere il blocco di Gaza, e chiedere a gran voce la riapertura dei corridoi umanitari istituzionali.
I detrattori dell’iniziativa sostengono che la missione sarebbe velleitaria, che non servirebbe a niente. C’è anche chi l’ha criticata per la scarsa presenza di palestinesi a bordo, come a ipotizzare che non vi sia il consenso palestinese. Come rispondete alle critiche?
In verità uno dei fautori dell’iniziativa è palestinese; e in barca di palestinesi ce ne sono diversi. Poi è ovvio, è una iniziativa che parte da un movimento che raduna persone di tutto il mondo: europei, nordafricani, persone del Sudest asiatico, del Sud America… ci sono rappresentanti da più di 44 Paesi del mondo. È poi vero che è una iniziativa che non parte dalla Palestina, ma quali sono le iniziative umanitarie di questi detrattori che lo fanno? Se invece vogliamo andare a ragionare sull’efficacia, posso dire che è dal 1948 che per la Palestina va sempre peggio: evidentemente anche tutte le altre modalità di intervento non sono riuscite a ottenere qualcosa. Le barche della Freedom Flotilla provano a fare quello che stiamo facendo noi dal 2008; in quell’agosto si riuscì a rompere l’assedio di Gaza. Se dobbiamo stare a dire che tanto non serve a niente, allora rimaniamo davanti alla televisione a non fare nulla.
A proposito del messaggio politico di cui parlavamo prima: come rappresentanza italiana avete avuto un confronto con il governo italiano o con il ministero degli Esteri?
No, nessuno si è fatto sentire; mi preme ricordare che noi stiamo per compiere una iniziativa del tutto legale, perché le acque in cui navigheremo sono internazionali. Non c’è alcun bisogno di contattare il governo. Certo, ci aspettavamo che dopo le dichiarazioni del ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Ben Gvir, che ha detto che gli attivisti a bordo delle navi saranno trattati alla stregua di terroristi, ci arrivasse una chiamata di sostegno da parte del nostro governo, ma non è ancora arrivata. Naturalmente speriamo che nel momento in cui dei cittadini italiani si dovessero trovare nella piena legittimità delle loro azioni a essere sequestrati e incarcerati, il nostro esecutivo, che ha il dovere di proteggerci e di tutelarci, si muova per farlo.
E come movimento globale? Quei leader internazionali che sono generalmente percepiti come sostenitori della causa hanno mostrato apertura per fornire una qualche forma di supporto?
La maggior parte dei Governi ha taciuto, come a fornire un lasciapassare a Israele per agire indisturbata. Però c’è chi ha sostenuto la lotta dal basso pubblicamente. Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha dichiarato che la Spagna farà di tutto per proteggere e tutelare i suoi cittadini a bordo delle imbarcazioni. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro ha inviato un messaggio di solidarietà, così come il governo malese, da sempre al fianco della questione palestinese. Non si tratta di aiuti “concreti” come potrebbe essere un finanziamento, ma sono dichiarazioni politiche forti, specialmente di fronte a quanto detto da Ben Gvir. Anche perché una volta che sono state rilasciate pubblicamente, si è tenuti a onorarle.
Riguardo alle dichiarazioni di Ben Gvir: se doveste venire intercettati, come vi comportereste?
Io stessa in questo momento sto svolgendo un training obbligatorio di comportamento non violento assieme agli attivisti che partiranno dalla Sicilia. Noi siamo nel giusto, siamo nella legalità. Insomma, non faremmo niente. Non forzeremmo nulla, ma ci fermeremmo e ci limiteremmo ad alzare le mani; e se ci dovessero chiedere di tornare indietro ci rifiuteremmo, perché Israele non ha la potestà di imporre le proprie decisioni in acque internazionali. Dopodiché, sono i nostri governi a dovere intervenire e a dovere dire che noi abbiamo tutto il diritto di andare avanti, perché altrimenti si crea un precedente pericoloso: il problema non siamo noi, il problema è che nel momento in cui si concede a uno Stato di contravvenire a una regola che tutti gli altri Paesi devono rispettare, si crea una iniquità, uno squilibrio. Oggi tocca ai palestinesi, domani chissà a chi.
C’è qualcosa che volete comunicare a tutti coloro che vi hanno sostenuto e che rimarranno a terra?
L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che, al di là di ogni retorica, l’ondata di solidarietà che abbiamo riscontrato ci ha davvero sconvolto positivamente. E come facciamo ogni volta che possiamo, chiediamo a tutte e a tutti di sostenerci nel momento in cui le comunicazioni dovessero saltare o se dovesse succedere qualcosa a queste barche. Non per noi, ma per il fatto che siamo strumenti al servizio dei palestinesi: scendete in piazza, chiedete a chi di dovere di intervenire quando noi non potremo farlo perché ci avranno bloccato le comunicazioni. Tutti insieme, forse, ce la possiamo fare.
Un giudice federale statunitense ha bloccato il dispiegamento della guardia nazionale nello Stato della California, sospendendolo fino al 12 settembre. L’iniziativa era stata promossa dall’amministrazione Trump lo scorso giugno, ed era già stata contestata dai tribunali californiani. Con essa, Trump aveva ordinato a 4.000 soldati della guardia nazionale e a 700 membri della marina statunitense di recarsi a Los Angeles con lo scopo dichiarato di combattere la criminalità e contrastare l’immigrazione.
Una siccità durata 13 anni, accompagnata da altre otto più brevi ma comunque devastanti, avrebbe contribuito significativamente al crollo della civiltà Maya classica: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale guidato dall’Università di Cambridge, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Science Advances. Analizzando gli isotopi di ossigeno presenti negli strati di una stalagmite in una grotta dello Yucatán, i ricercatori sono riusciti a ricostruire con precisione il livello delle piogge tra l’871 e il 1021 d.C., durante il cosiddetto “Classico Terminale”. Proprio in quegli anni, spiegano, le grandi città in pietra calcarea furono progressivamente abbandonate e le dinastie al potere si estinsero: «Sono state formulate diverse teorie sulle cause del collasso, come guerre, cambiamenti commerciali o siccità», spiega l’autore principale Daniel H. James, aggiungendo che i nuovi dati climatici offrono finalmente un quadro più chiaro: le siccità stagionali ricostruite coincidono proprio con l’interruzione della costruzione di monumenti e con un profondo declino socio-politico.
La civiltà Maya si sviluppò in un ambiente difficile e fortemente dipendente dall’acqua piovana. Le città, spiegano gli esperti, erano prive di grandi fiumi e si basavano su complessi sistemi di raccolta, come cisterne e bacini artificiali. Già dagli anni ’90 gli archeologi avevano iniziato a confrontare le iscrizioni sulle stele — grandi monumenti in pietra che riportavano date e eventi — con i dati climatici ricavati dai sedimenti dei laghi, scoprendo che i periodi di crisi coincidevano con fasi di siccità. Tuttavia, queste analisi erano limitate, in quanto i sedimenti non permettevano di distinguere con precisione le stagioni umide da quelle secche. Le stalagmiti, invece, offrirebbero una sorta di “archivio naturale” annuale, dove ogni strato conserva l’impronta chimica della quantità di pioggia caduta. Attraverso la misura degli isotopi di ossigeno — cioè atomi con differente peso che variano in base all’acqua disponibile — risulta quindi possibile ricostruire la durata e l’intensità delle siccità, e quindi collegarle direttamente al successo o al fallimento dei raccolti di mais, alimento principale dei Maya.
In particolare, secondo i dati estratti dalla stalagmite denominata Tzab06-1, tra l’871 e il 1021 d.C. si verificarono otto periodi di siccità durante la stagione delle piogge, ciascuno della durata di almeno tre anni. Il più lungo, tra il 929 e il 942, si protrasse per tredici anni consecutivi. Anche le più avanzate tecniche di gestione delle acque adottate dai Maya non avrebbero potuto fronteggiare un evento così estremo, spiegano gli scienziati, aggiungendo che ci furono conseguenze drammatiche sia per la produzione agricola sia per la stabilità politica. Non sorprende, quindi, che in coincidenza con queste fasi di crisi le iscrizioni sui monumenti di siti come Chichén Itzá si siano interrotte bruscamente: «È probabile che in quei momenti i Maya avessero questioni più urgenti di cui occuparsi rispetto alla costruzione di stele», osserva James, riferendosi alla necessità di garantire la sopravvivenza delle coltivazioni. La ricerca, inoltre, dimostrerebbe che i dati climatici contenuti nelle stalagmiti non solo coincidono con le evidenze archeologiche, ma offrono anche una cronologia dettagliata delle interazioni fra clima e società. Come sottolineano gli autori, queste impronte naturali potrebbero in futuro rivelare non solo la frequenza delle siccità, ma anche la portata delle tempeste tropicali, arricchendo ulteriormente la nostra comprensione di un collasso che continua ad affascinare studiosi e storici da secoli.
Oltre mille ebrei ungheresi hanno una lanciato una lettera aperta per denunciare il massacro di Israele in Palestina. La lettera è stata inizialmente firmata da 300 persone, per poi venire pubblicata e resa aperta a tutti. Essa intende colmare il vuoto nel dibattito pubblico ungherese, e fornire una posizione diversa da quella sostenuta dal presidente Orbán, fortemente schierato dalla parte di Israele. In Ungheria, «le manifestazioni vengono vietate, le opinioni delle organizzazioni internazionali ignorate, la stampa indipendente attaccata», si legge nella lettera. In questo contesto, continua, le voci critiche nei confronti dello Stato ebraico vengono silenziate e tacciate di antisemitismo. «Non si può continuare così». L’iniziativa ungherese si colloca all’interno di una sempre più vasta presa di coscienza da parte delle comunità ebraiche del mondo, che intendono criticare le aggressioni israeliane in Palestina e mostrare solidarietà alla popolazione araba.
La lettera degli ebrei ungheresi prova a proporre un’alternativa alle posizioni espresse dalle autorità del Paese e dai rappresentanti della comunità ebraica ungheresi. Nei suoi contenuti esprime solidarietà nei confronti di tutte le persone coinvolte nel conflitto in Palestina e critica i massacri condotti dall’esercito israeliano e le posizioni espresse dall’attuale esecutivo, prendendovi le distanze. L’Ungheria, si legge nella lettera, vieta manifestazioni per la pace, ignora i rapporti delle organizzazioni umanitarie, attacca chi racconta i massacri israeliani in Palestina, ed è solidamente schierata a favore di Netanyahu. Il Paese, ricorda la lettera, si è ritirato dalla Corte Penale Internazionale per permettere al premier israeliano di entrare nel Paese, ed è privo di piattaforme impegnate a creare un dibattito reale sulla questione palestinese. «Inoltre, negli ultimi mesi, hanno attivamente rifiutato gli inviti di personalità ebraiche che non rappresentano la posizione del governo estremista israeliano».
I firmatari intendono cambiare la narrazione dominante all’interno del Paese e mostrare solidarietà alla popolazione palestinese. «Criticare le azioni del governo israeliano in un dato momento non equivale ad antisemitismo, ma è un valore e un interesse democratico». Paradossalmente, si legge, è proprio questa sovrapposizione tra le critiche a Israele e l’odio verso gli ebrei che «contribuisce alla crescita dell’antisemitismo». Il contenuto della lettera cerca di porsi in una posizione mediana ed evita di usare parole come “genocidio” e “apartheid”. Una delle promotrici ha spiegato che la scelta di non usare tali termini è voluta, proprio perché l’iniziativa è stata pensata per aprire le porte a una posizione diversa da quella che sembra l’unica presente nel Paese. Malgrado i toni edulcorati della lettera, i suoi firmatari hanno scatenato un’ondata di sdegno in tutti i principali canali mediatici del Paese e sono stati attaccati e definiti “sostenitori di Hamas”. «La tempesta di critiche che abbiamo scatenato dimostra che c’era davvero bisogno di questa voce, che fino ad ora non c’era stata, almeno pubblicamente», ha affermato l’attivista.
L’iniziativa degli ebrei ungheresi è una delle tante che interessa le varie comunità ebraiche del mondo, che negli ultimi mesi stanno prendendo sempre più piede. In Israele, Standing Together, movimento di base che riunisce nella lotta contro l’occupazione militare dei territori palestinesi e la discriminazione razziale le comunità araba e ebrea, ha organizzato diverse marce per la pace; dopo le critiche a Francesca Albanese, diversi gruppi ebraici hanno sottoscritto una dichiarazione condivisa in cui prendono una posizione netta a difesa dell’esperta, contestando l’uso strumentale delle critiche per “antisemitismo” che le vengono rivolte. All’interno della società israeliana ci sono inoltre politici che parlano apertamente di genocidio, come Ofer Cassif, da tempo attivo per i diritti del popolo palestinese, che è stato silenziato più volte per avere criticato i massacri israeliani in Palestina.
L’episodio del presunto incidente dell’aereo di Ursula von der Leyen, che avrebbe perso il segnale GPS durante l’avvicinamento a Plovdiv, in Bulgaria, è diventato in poche ore un caso mediatico internazionale. La Bulgarian Air Traffic Services Authority ha confermato l’incidente in una dichiarazione al Financial Times, sottolineando che dal febbraio 2022 si è registrato un aumento significativo di episodi di jamming e spoofing GPS, tecniche che disturbano o bloccano i segnali satellitari. La cronaca di un’anomalia tecnica si è trasformata, nei titoli di giornali e agenzie, in una sentenza geopolitica che non lasciava spazio al dubbio: dietro c’è la mano di Mosca. I media italiani e internazionali hanno rilanciato con toni drammatici la notizia dell’“attacco elettronico” russo contro il volo che trasportava Ursula von der Leyen in Bulgaria parlando apertamente di una “guerra ibrida” di Mosca.
Senza attendere verifiche tecniche né rapporti ufficiali, testate come AP, Reuters, Guardian, The Timese Al Jazeera hanno pubblicato articoli che attribuivano la responsabilità alle “interferenze russe”, spesso senza nemmeno usare i condizionali d’obbligo, dando per scontata la matrice moscovita. La stessa linea è stata replicata a cascata da gran parte della stampa occidentale. Anche in Italia, il tam-tam è stato immediato: titoli e sottotitoli parlavano di “attacco deliberato”, “jamming russo”, “provocazione”. Ansa ha titolato “I russi mandano in tilt il Gps del volo di von der Leyen, Mosca: ‘Noi non c’entriamo’”, senza usare condizionali, limitandosi a inserire la smentita del Cremlino. Dogmatico Avvenire: “Attacco informatico russo all’aereo di Von der Leyen, Mosca nega”. Corriere della Sera, il Giornale e Repubblica hanno pubblicato titoli che attribuivano senz’altro la responsabilità a Mosca: “Interferenze Gps dei russi, l’aereo di von der Leyen costretto ad atterrare con le mappe cartacee in Bulgaria”; “Interferenze Gps dei russi, l’aereo di von der Leyen costretto ad atterrare. Il capo dell’esercito tedesco: ‘Colpito anche io’” e “In tilt il volo di von der Leyen. “Un atto di cyberguerra”, a Bruxelles i sospetti su Mosca”, mentre La Stampa ha cavalcato l’onda parlando di “Attacchi elettronici, cresce l’allarme anche in Italia”. Il Sole 24 ore evoca l'”ombra della Russia” e dà per scontato che fantomatici hacker abbiano manomesso il GPS dell’aereo. Nessun segno grafico che suggerisca cautela, nessuna formula dubitativa, nessuna distanza dalle accuse formulate dalle autorità bulgare. Il meccanismo è sempre lo stesso: partire da un sospetto formulato dalle autorità bulgare e trasformarlo in verità assodata, senza fornire alcuna evidenza tecnica.
Eppure, i fatti raccontano un’altra storia. Non esistono rapporti tecnici ufficiali che attestino l’avvenuto disturbo. Non sono state diffuse informazioni sulle frequenze colpite, sulla durata del presunto blackout né sulla tipologia di jammer utilizzato. Non c’è stata alcuna inchiesta internazionale indipendente che abbia confermato le accuse di Sofia. Il velivolo, peraltro, ha continuato a trasmettere regolarmente fino all’atterraggio, senza alcuna deviazione significativa né procedure d’emergenza. Ma nei titoli a nove colonne, la narrazione si è cristallizzata immediatamente: la Russia è colpevole, punto. A gettare ulteriore luce (e scompiglio) è intervenuto un attore insospettabile: Flightradar24. Il servizio che monitora i voli civili e militari in tempo reale ha ricordato che il transponder dell’aereo ha segnalato un valore NIC buono, ovvero una qualità costante del segnale GPS, dal decollo fino all’atterraggio. Sul proprio account ufficiale X, ha precisato: “Alcuni rapporti affermano che l’aereo è stato in un circuito di attesa per 1 ora. Questo è ciò che possiamo dedurre dai nostri dati. Il volo era programmato per durare 1 ora e 48 minuti. Ha impiegato 1 ora e 57 minuti. Il transponder dell’aereo ha segnalato una buona qualità del segnale GPS dal decollo all’atterraggio”. E ancora: “Il segnale del transponder trasmesso dall’aereo contiene un valore NIC. Il valore NIC codifica la qualità e la coerenza dei dati di navigazione ricevuti dall’aereo. Flightradar24 utilizza questi valori NIC per creare la mappa delle interferenze GPS su https://flightradar24.com/data/gps-jamming Il volo con Ursula von der Leyen a bordo ha trasmesso un buon valore NIC dal decollo all’atterraggio”. In altre parole, non c’è traccia di un’interruzione tale da compromettere la navigazione. Un’informazione cruciale, che smentisce la ricostruzione della Commissione europea e del Financial Times secondo cui l’aereo avrebbe atteso più di un’ora per atterrare, completamente ignorata da gran parte dei media che avevano già confezionato la narrativa dell’attacco russo.
Post pubblicato dall’account ufficiale di Flightradar24 su X
Il punto non è negare l’esistenza del jamming. È noto che la Russia, come altri Paesi, abbia già utilizzato tecniche di disturbo in teatri come il Baltico, la Siria e l’Ucraina. In quei casi, le interferenze sono state documentate da analisi tecniche indipendenti, con dati chiari e verificabili. Nel caso del volo di von der Leyen, invece, non c’è nulla di tutto questo. Solo dichiarazioni, sospetti e titoli trasformati in granitiche certezze. Questo episodio è l’ennesima conferma di come la stampa mainstream operi: un evento incerto diventa immediatamente il tassello di un mosaico geopolitico preconfezionato. Non si tratta di fare l’avvocato del diavolo della Russia, ma di rilevare come i princìpi del giornalismo – verifica delle fonti, uso del condizionale, distinzione tra fatti e interpretazioni – vengano spesso sacrificati in nome della propaganda. Mentre i cittadini si ritrovano bombardati da titoli allarmistici, i dati tecnici restano nell’ombra e il dubbio, elemento fondante del pensiero critico, viene sostituito da una convinzione costruita ad arte: il colpevole è sempre lo stesso, Mosca.
Il documento denominato Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust (GREAT Trust), propone la completa trasformazione della Striscia di Gaza in un hub turistico e tecnologico di lusso. Il piano è stato elaborato da alcuni degli stessi israeliani che hanno creato e avviato la controversa Gaza Humanitarian Foundation(GHF), sostenuta da Stati Uniti e Israele, mentre la pianificazione finanziaria è stata curata da un gruppo che all’epoca lavorava per il Boston Consulting Group. L’immaginario proposto dal documento è quello di una Gaza proiettata verso un futuro scintillante, con skyline ispirati a Dubai, distretti digitali hi-tech, centri congressuali, parchi urbani e resort balneari destinati a un turismo globale. La devastazione attuale viene cancellata e sostituita con una vetrina di modernità e investimenti. In realtà, leggendo con attenzione le 38 pagine del documento, si scopre che la sua premessa fondamentale è il trasferimento “volontario” di circa due milioni di palestinesi presentata come scelta opzionale, ma che nei fatti equivale a una deportazione soft, resa possibile dall’uso di incentivi economici in un contesto di devastazione totale. Il progetto GREAT Trust è un’operazione di ingegneria demografica travestita da ricostruzione. La sua logica non è quella della rinascita, ma della sostituzione: i palestinesi vengono spinti a lasciare la loro terra sotto la pressione di incentivi che mascherano un contesto coercitivo, mentre Gaza viene ridisegnata come parco giochi per investitori, startup e turisti.
La “Trump Gaza Riviera”
Il presidente Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un incontro alla Casa Bianca. Luglio 2025
Non è chiaro se la proposta dettagliata e completa del GREAT Trust sia ciò che l’amministrazione Trump ha in mente, ma stando a fonti interpellate dal Washington Post, che ha reso pubblico il piano, alcuni elementi importanti della pianificazione sarebbero stati specificamente progettati per realizzare la visione del presidente americano di una “Riviera del Medio Oriente”. Dopo la promessa della Casa Bianca di possedere e “riqualificare” Gaza, spingendosi oltre il linguaggio diplomatico e rivendicando un ruolo diretto di appropriazione e trasformazione del territorio, il 26 febbraio, Trump pubblicò sul suo social Truth un video generato dall’intelligenza artificiale che divenne virale: in quella clip, battezzata “Trump Gaza”, appariva una versione surreale della Striscia completamente reinventata come resort di lusso sul modello di Dubai. Le immagini mostravano Trump e Netanyahu rilassati in costume da bagno, una statua dorata del presidente stagliata sul lungomare, Elon Musk che ballava mentre dal cielo piovevano banconote, e figure grottesche di uomini barbuti che danzavano in abiti da spiaggia. Quella rappresentazione, concepita inizialmente come satira, finì per assumere il valore di manifesto politico e fornì di fatto una cornice visiva e narrativa al progetto. Da quel momento, un gruppo di imprenditori israeliani cominciò a lavorare per tradurre la suggestione in un piano concreto. A guidare l’iniziativa furono Michael Eisenberg, imprenditore israelo-americano noto nel settore del venture capital, e Liran Tancman, ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, i quali mobilitarono reti economiche e politiche per dare sostanza alla “Riviera di Gaza”. Entro la primavera, la gestione passò anche a un team del Boston Consulting Group con sede a Washington, che nel frattempo era stato incaricato dal principale appaltatore statunitense di predisporre il programma umanitario per la distribuzione alimentare sotto l’egida della Gaza Humanitarian Foundation (GHF). A quel punto, il BCG cominciò a lavorare a modelli finanziari dettagliati e a scenari urbanistici, formalizzando la proposta sotto il nome di GREAT Trust e trasformando l’utopia mediatica di un video virale in un progetto economico-politico dal respiro internazionale.
Le proposte nel dettaglio
Il piano prospettato per il GREAT Trust sembra realizzare sulla carta la visione futuristica di Trump. Il documento immagina che Gaza, una volta disarmata e privata di Hamas, passi inizialmente sotto la custodia bilaterale di Stati Uniti e Israele, per poi evolvere verso una forma di amministrazione fiduciaria multilaterale. L’architettura finanziaria si basa su un investimento pubblico compreso tra 70 e 100 miliardi di dollari, finalizzato ad attirare ulteriori 35-65 miliardi di capitale privato. L’obiettivo dichiarato è la creazione di resort di lusso sul modello di Dubai, smart city integrate con sistemi digitali avanzati, distretti industriali ad alta tecnologia e infrastrutture idriche e logistiche estese fino al Sinai. Il tutto viene presentato come parte integrante della cornice regionale degli Accordi di Abramo e del corridoio economico IMEC, volto a ridisegnare le connessioni tra Mediterraneo e Golfo. A chi possiede un terreno, il trust offrirebbe un token digitalein cambio del diritto di riqualificare la propria proprietà, da utilizzare per finanziare una nuova vita altrove o eventualmente riscattabile per un appartamento in una delle sei-otto nuove “smart-cities, basate sull’intelligenza artificiale”, che saranno costruite sulle macerie di Gaza. Ogni palestinese che scegliesse di andarsene riceverebbe un pagamento in contanti di 5.000 dollari e sussidi per coprire quattro anni di affitto altrove, oltre a un anno di cibo.
Dal punto di vista operativo, il piano prevede un meccanismo di land trust basato sulla tokenizzazione immobiliare: i proprietari palestinesi dovrebbero trasferire i diritti sulle loro terre ricevendo in cambio token digitali, che costituirebbero una sorta di indennizzo investibile e, teoricamente, utilizzabile per accedere alle nuove proprietà nella futura Gaza “ricostruita”. Il documento calcola che in dieci anni l’economia locale potrebbe crescere di undici volte rispetto ai livelli del 2022, con un prodotto interno lordo che passerebbe da 2,7 miliardi a oltre 30 miliardi di dollari, la creazione di un milione di posti di lavoro diretti e indiretti, la costruzione di 13.000 nuovi posti letto ospedalieri e un tasso di scolarizzazione infantile superiore all’85%. Si parla di un valore complessivo della nuova Gaza di oltre 300 miliardi di dollari e di ritorni economici stimati in 385 miliardi per gli investitori, a fronte dei 100 miliardi inizialmente immessi. Il documento non dimentica i vantaggi geopolitici: consolidare la posizione degli Stati Uniti nel Mediterraneo orientale, rafforzare l’architettura abramitica e garantire accesso privilegiato alle immense risorse di terre rare del Golfo, stimate in 1,3 trilioni di dollari.
La finta volontarietà del trasferimento
L’ex Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, Bill Clinton e l’ex Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo, il 13 settembre 1993.
Il Washington Post evidenzia che “i promotori del trust sostengono che, in base alla dottrina consuetudinaria del diritto internazionale dell’uti possidetis juris e ai limiti all’autonomia palestinese previsti dagli accordi di Oslo del 1993, Israele ha il controllo amministrativo sui territori occupati e il potere di cederli”. Il documento non fa alcun riferimento a un’eventuale istituzione di uno Stato palestinese, ma parla della posizione di Gaza “al crocevia” di quella che diventerà una regione “filoamericana”, che darà agli Stati Uniti accesso alle risorse energetiche e ai minerali essenziali. Israele manterrebbe “i diritti generali per soddisfare le proprie esigenze di sicurezza” durante il primo anno del piano, mentre quasi tutta la sicurezza interna sarebbe assicurata da non meglio specificati “TCN” (cittadini di Paesi terzi) e da contractor militari privati occidentali. Il loro ruolo si ridurrebbe gradualmente nell’arco di un decennio, con l’avvento di una “polizia locale” addestrata. L’allontanamento dei palestinesi da Gaza – attraverso la persuasione, la compensazione o la forza – è stato oggetto di dibattito nella politica israeliana fin da quando Gaza fu strappata al controllo egiziano e occupata da Israele nella guerra del 1967. Uno degli aspetti più controversi del piano riguarda, infatti, la cosiddetta “volontarietà” del trasferimento tramite incentivi. Parlare di scelta libera in un contesto di distruzione generalizzata, fame e assenza di prospettive equivale a una distorsione semantica: quando l’unica alternativa al trasferimento è sopravvivere tra macerie e carestia, l’opzione diventa un obbligo mascherato. Non a caso, la stessa Corte Penale Internazionale ha stabilito che in un ambiente coattivo il consenso è giuridicamente nullo.
Pulizia etnica mascherata
Il piano GREAT Trust, pur presentandosi come progetto di sviluppo e di ricostruzione, rientra perfettamente nella definizione di “pulizia etnica mascherata”. La promessa di resort e startup non cancella la realtà di una spoliazione pianificata. Non è necessario l’uso di violenza diretta per configurare tale reato: basta un dispositivo sistematico che modifichi deliberatamente la composizione demografica di un territorio. Qui l’obiettivo è chiaro: svuotare Gaza della sua popolazione originaria, ricollocandola altrove con il pretesto della “volontarietà” e sostituendola con una nuova realtà urbana e turistica destinata a investitori, turisti e aziende internazionali. Dal punto di vista giuridico, il trasferimento di massa della popolazione occupata costituisce un crimine di guerra secondo l’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra e un crimine contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.
L’aspetto “criminale” del GREAT Trust non è solo un giudizio morale o politico, ma prettamente giuridico. Il progetto contrasta con i princìpi inderogabili del diritto internazionale, a partire dal divieto di acquisizione territoriale e dal diritto dei popoli all’autodeterminazione sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. La struttura di governance prevista, una custodia esterna di lungo periodo senza alcun riconoscimento della sovranità palestinese, è una forma aggiornata di amministrazione coloniale. La trasformazione dei diritti fondamentali in strumenti finanziari, attraverso il meccanismo della tokenizzazione immobiliare, rivela una mercificazione radicale del legame con la terra, che viene svuotato di significato storico e politico per essere ridotto a un asset speculativo e potrebbe rappresentare, inoltre, un pericoloso precedente replicabile su larga scala. In questo quadro, il piano non è solo illegittimo, ma configurabile come crimine internazionale, sia per i trasferimenti forzati, sia per l’imposizione di una governance esterna su un territorio occupato.
Intanto, mentre infuria la polemica per il piano per il futuro di Gaza, la più grande associazione accademica al mondo di studiosi del genocidio ha approvato una risoluzione in cui si afferma che sono stati soddisfatti i criteri legali per stabilire che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza. Lo ha dichiarato la presidente dell’International Association of Genocide Scholars (Iags) Mary O’Brien, docente di diritto internazionale alla University of Western Australia. L’86% di coloro che hanno votato tra i 500 membri dello IAGS ha appoggiato la risoluzione, che dichiara che «le politiche e le azioni di Israele a Gaza» soddisfano la definizione legale stabilita nell’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948.
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