Almeno dodici persone sono rimaste uccise e 27 ferite oggi, 11 novembre, in un attentato suicida davanti a un tribunale di Islamabad, capitale del Pakistan. L’attacco, non ancora rivendicato, è avvenuto vicino a un’auto della polizia. Il ministro dell’interno Mohsin Naqvi ha dichiarato che l’attentatore si è fatto esplodere e che sono in corso le indagini per identificarlo. L’episodio segue un attacco nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan, che Islamabad accusa di essere «direttamente coinvolto». L’attentato riaccende la tensione tra Pakistan, Afghanistan e India, già protagonisti di recenti scontri armati.
Guerre, caro energia e fine degli aiuti: fallimenti delle imprese italiane +61% in tre anni
Il tessuto produttivo italiano mostra segni di sofferenza sempre più evidenti, con un’impennata delle procedure concorsuali che non accenna ad arrestarsi. Nel primo semestre del 2025 le crisi d’impresa sono aumentate del 29% rispetto allo stesso periodo del 2024, passando da 5.505 a 7.116 casi. Tale incremento è solo l’ultimo capitolo di una crescita ininterrotta da quattro anni: se si proiettano i dati del primo semestre sull’intero 2025, si stima un totale di 14.232 procedure, con un aumento del 61% rispetto alle 8.828 del 2022. Alla base dello slittamento ci sono instabilità geopolitiche, i costi energetici elevati e il peso fiscale, fattori che hanno eroso la tenuta soprattutto delle realtà più piccole.
A fotografare questo quadro è il nuovo report dell’Osservatorio crisi d’impresa di Unioncamere, basato sui dati Infocamere. Le carte raccontano che, in termini assoluti, la procedura più diffusa resta la liquidazione giudiziale, la nuova denominazione per i fallimenti. Nel primo semestre del 2025 essa ha contato 5.286 avvii, pari al 74% del totale delle procedure e con un incremento del 25% sul medesimo periodo del 2024. Su base di proiezione annua, le liquidazioni sono aumentate del 53% dal 2022 al 2025, passando da 6.888 a 10.572. È un fenomeno che travolge soprattutto le micro-imprese: nel primo semestre 2025, il 61% delle aziende in liquidazione aveva un fatturato fino a un milione di euro e l’80% non superava i cinque dipendenti. Il rapporto conferma che si tratta di imprese più fragili e meno strutturate, attestando l’esistenza di un nesso diretto fra solidità e dimensione aziendale. «La ripresa delle procedure concorsuali – dice Andrea Prete, presidente di Unioncamere – mostra chiaramente che sono finiti gli effetti benefici degli interventi messi in campo a sostegno delle imprese durante la pandemia, per il caro energia e le crisi internazionali». Prete sottolinea anche come le imprese, «soprattutto quelle di piccole dimensioni, non riescano a percepire per tempo l’insorgere dei segnali di crisi».
I settori più colpiti sono il commercio e le costruzioni. Il 23,2% delle liquidazioni giudiziali interessa il commercio all’ingrosso e al dettaglio, il 22,2% l’edilizia e un ulteriore 16,3% le attività manifatturiere. Sono comparti tradizionalmente sensibili ai cicli economici e all’erosione del potere d’acquisto delle famiglie. Accanto al dato allarmante delle chiusure definitive, crescono gli strumenti di prevenzione e risanamento. La composizione negoziata, introdotta nel 2021 per far emergere precocemente le difficoltà, è in forte espansione: +75% nel primo semestre 2025. È diventata l’iter preferito dalle aziende che tentano la via del recupero, superando per numero di accessi il concordato preventivo. Negli anni, le imprese che vi fanno ricorso sono diventate progressivamente più grandi: il fatturato medio è passato da 4 milioni del 2021 a 11 milioni nel primo semestre 2025, con un numero medio di addetti salito da 26 a 38. Il lieve aumento del concordato preventivo (+4,3%) dopo anni di calo potrebbe segnare un’inversione di tendenza, mentre rimane stabile il ricorso all’accordo di ristrutturazione dei debiti. Un segnale positivo arriva dal concordato semplificato, definito dal report come una procedura «chiesta dalle aziende più sottodimensionate».
Lo scenario che emerge dalle statistiche è quello di un sistema produttivo sotto stress, dove la fine degli ammortizzatori pandemici e il protrarsi di instabilità geopolitica e costi energetici elevati stanno mettendo in ginocchio soprattutto le realtà più piccole. Se da un lato cresce la consapevolezza del valore degli strumenti extragiudiziali, dall’altro permangono fragilità strutturali e ritardi nell’adozione di assetti gestionali adeguati.
Il 90% dei petti di pollo Conad, Coop ed Esselunga presenta segni di crescita accelerata
Un’indagine condotta dall’organizzazione Essere Animali rivela un dato allarmante: oltre il 90% dei petti di pollo venduti a marchio Conad, Coop ed Esselunga presenta i segni di una miopatia muscolare nota come “white striping”. Questo fenomeno, visibile sotto forma di striature bianche di grasso e tessuto fibroso che solcano la carne, è la diretta conseguenza dell’utilizzo di razze selezionate geneticamente per una crescita iper-accelerata. L’analisi, svolta su 619 confezioni acquistate in 48 punti vendita di dieci città italiane, dipinge un quadro preoccupante sia per il benessere animale che per la qualità del prodotto finale che finisce nel piatto dei consumatori. Non si tratta peraltro di una sorpresa: già lo scorso anno, un’importante indagine di Essere Animali aveva denunciato la presenza di “white striping” nel 90% dei petti di pollo di 38 negozi del circuito Lidl.
Il «white striping» descritto nel report non è un semplice difetto estetico, ma il segno evidente di uno squilibrio fisiologico che colpisce i polli, soprattutto quelli delle razze a rapido accrescimento come le Ross, oggi predominanti negli allevamenti intensivi. I loro muscoli pettorali, spinti a svilupparsi in tempi brevissimi, superano infatti la capacità dell’apparato circolatorio di irrorarli di sangue e ossigeno. La conseguenza è il danneggiamento delle fibre muscolari, le quali vengono sostituite da grasso e collagene. Questa alterazione ha un impatto nutrizionale significativo: «il contenuto lipidico può aumentare fino al 224%, quello del collagene crescere del 10%, mentre il contenuto proteico può risultare ridotto del 9%», si legge all’interno del rapporto.
I dati raccolti da Essere Animali – Fondazione da sempre impegnata nella battaglia contro la pratica degli allevamenti intensivi – sono inequivocabili. Il fenomeno è stato riscontrato nel 92,04% dei prodotti a marchio CONAD, nel 90,64% di quelli Coop e addirittura nel 96,40% dei campioni Esselunga. Non si tratta di casi lievi: più della metà delle confezioni analizzate di Conad (52,43%) ed Esselunga (50,93%) presentava livelli «gravi» della malattia (punteggi 2 e 3 su una scala di 3). I prodotti Coop, che a prima vista sembrerebbero avere un’incidenza e una gravità minori, nascondono in realtà una criticità ulteriore. Oltre la metà delle loro confezioni, infatti, ha una superficie traslucida o etichette voluminose che ostacolano l’ispezione visiva. Limitando l’analisi alle sole confezioni non traslucide, la percentuale di «white striping» schizza al 96,10%, con la più alta incidenza di forme gravi (55,41%) tra tutte le insegne esaminate. Una scelta di confezionamento che, secondo l’associazione, «solleva interrogativi sulla trasparenza nei confronti dei consumatori».
Questo scenario, spiega Essere Animali, è la diretta conseguenza di un sistema produttivo che privilegia l’efficienza e il basso costo. In Italia, oltre 500 milioni di polli, più del 90% del totale, sono allevati in sistemi intensivi. Rispetto a cinquant’anni fa, essi raggiungono il peso di macellazione a un ritmo quattro volte più veloce (appena 35-42 giorni). La risposta a questa «emergenza qualità» esiste e si chiama European Chicken Commitment (ECC), un insieme di criteri che, tra le altre cose, impone il passaggio a razze a crescita più lenta. Oltre 300 aziende in Europa, tra cui Carrefour Italia, Cortilia ed Eataly, lo hanno già sottoscritto. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni pubbliche sulla sostenibilità e sul benessere animale, Conad, Coop ed Esselunga continuano a non adottare impegni concreti in questa direzione.
Lo scorso anno, aveva destato scalpore l’indagine effettuata da Essere Animali sui petti di pollo venduti sugli scaffali dei supermercati Lidl, risultati per il 90% affetti da «white striping». In totale, erano stati esaminati oltre 600 campioni di confezioni di petti di pollo in decine di punti vendita Lidl in 11 città dello Stivale, da Nord a Sud. Nonostante tutti i contenitori analizzati riportassero sull’etichetta indicazioni come “prodotto certificato”, “filiera controllata”, “uso di luce naturale”, “arricchimenti ambientali per favorire comportamenti naturali”, i risultati hanno fatto emergere come 9 prodotti su 10 presentassero le striature bianche tipiche del white striping, che corrono parallele alle fibre muscolari della carne. Oltre la metà dei campioni analizzati, peraltro, hanno mostrato livelli alti di gravità della malattia.
Aggiornamento delle 17.20 di martedì 11 novembre – In seguito alla pubblicazione dell’inchiesta di Essere Animali, di cui abbiamo pubblicato i risultati, ci è pervenuta la replica di Coop, che riportiamo di seguito integralmente:
Il fenomeno del “white striping” è da tempo conosciuto e non comporta rischi di sicurezza del prodotto, come dimostrato da autorevoli studi scientifici. Si tratta di una caratteristica visiva della carne di pollo per la quale Coop chiede una particolare attenzione nei contratti di fornitura per quanto concerne i propri prodotti a marchio. Coop definisce, infatti, rigorosi standard di sicurezza e qualità per tutti i prodotti a proprio marchio e chiede ai propri fornitori un controllo puntuale durante la lavorazione, oltre ad effettuare altri controlli direttamente nelle diverse fasi di produzione e vendita.
Relativamente al caso segnalato, i nostri controlli sistematici, effettuati con metodologie che prevedono l’apertura delle confezioni e la verifica di tutti i tagli presenti all’interno, non confermano le percentuali riportate nell’articolo: nel 2024 (ultimo dato annuale), sono state analizzate da personale esperto oltre 1500 confezioni rilevando la presenza del fenomeno ad una percentuale inferiore al 5%.
Esprimiamo inoltre dubbi sul metodo di verifica utilizzato e sul campionamento effettuato: una delle foto presenti nel Report non è un prodotto a marchio Coop, per questo non è possibile stabilire con certezza se i dati dichiarati sono effettivamente riconducibili al nostro prodotto a marchio.
Libano, rilasciato dopo 10 anni di carcere Hannibal Gheddafi
Le autorità libanesi hanno rilasciato Hannibal Gheddafi, figlio dell’ex dittatore libico Muammar Gheddafi, dopo il pagamento di una cauzione di 770mila euro. Era detenuto da dieci anni in carcerazione preventiva a Beirut, ma il processo non è ancora iniziato. Gheddafi è accusato di avere occultato informazioni sulla scomparsa nel 1978 di Musa al Sadr, leader sciita libanese mai più ritrovato. Il rilascio è avvenuto dopo la revoca del divieto di viaggio e la riduzione della cauzione, inizialmente fissata a 9 milioni, grazie all’intervento del governo libico di Tripoli. Gli avvocati di Gheddafi hanno ritirato la denuncia contro lo stato libanese.
Israele dà il primo via libera alla legge per la pena di morte solo per i palestinesi
La legge che permette di uccidere i palestinesi anche in prigione è passata in prima lettura alla Knesset, il Parlamento israeliano, ieri sera, con 39 voti favorevoli e 16 contrari.
Il disegno di legge, proposto dalla deputata Limon Son Har-Melech del partito Potere Ebraico, stabilisce che i tribunali israeliani devono infliggere la pena di morte a coloro che hanno commesso un omicidio di “matrice nazionalista” ai danni di un cittadino israeliano, consentendo ai giudici dei tribunali militari della Cisgiordania di condannare a morte i colpevoli con una maggioranza semplice, anziché con una decisione unanime. Il disegno di legge eliminerebbe anche la possibilità che i comandanti militari regionali commutino tali sentenze.
La nuova legge, se approvata dopo tre letture in Parlamento, permetterebbe di giustiziare coloro che uccidono israeliani per “razzismo” e “con l’obiettivo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua terra”. Una legge che punisce la lotta armata contro l’occupazione israeliana, profondamente razzista e discriminatoria, dato che si applicherebbe solo agli arabi che uccidono ebrei e non ai terroristi ebrei.
Già in passato Amnesty aveva condannato la proposta di legge, sia per il ritorno alla pena di morte in sé sia perché la legge «è il tentativo di creare una distinzione su base etnico-nazionalista e questo la rende una legge di apartheid». La condanna arrivava anche dagli esperti ONU, che parlano di un «passo profondamente regressivo» che «tra l’altro si applicherà alle minoranze e a chi vive da 55 sotto occupazione».
Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, la definisce «una decisione che apre la porta a esecuzioni extragiudiziali sul campo ed è un chiaro intento di commettere un crimine». Addameer, l’associazione palestinese per i diritti umani parla di un «nuovo episodio nella serie continua di oppressione e costituisce una grave escalation delle violazioni diffuse da parte di Israele nei confronti dei palestinesi, comprese centinaia di esecuzioni extragiudiziali». Una legge che rivela « un altro aspetto del regime di apartheid israeliano».
Il disegno di legge sarà ora deferito alla commissione per essere preparato per le ultime due letture che deve superare per diventare legge. «Oggi abbiamo compiuto un passo storico verso la vera giustizia e il rafforzamento della deterrenza contro il terrorismo. La legge sulla pena di morte per i terroristi, che ha superato la prima lettura, è l’espressione morale e nazionale di un popolo che rifiuta di accettare una realtà in cui gli assassini di ebrei vivono in prigione e si aspettano accordi», ha detto la deputata Son Har-Melech.
Dopo la votazione, il presidente di Otzma Yehudit (potere ebraico) e ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha iniziato a distribuire baklava (dolci) ed a esultare di gioia. Il partito aveva già promosso due tentativi di approvazione di una legge simile, nel 2022 e nel 2023, entrambe falliti. Ma il genocidio impunito a Gaza, e la liberazione degli ostaggi vivi a Gaza ha evidentemente aperto un varco, subito sfruttato dai nazionalisti di estrema destra. Ben Gvir, oltre a farsi fotografare con i detenuti palestinesi torturati e bendati nelle carceri israeliane, oltre a farsi riprendere mentre distribuisce ordini di demolizione delle case palestinesi nel Negev, è noto per aver tenuto un ritratto nel suo salotto del terrorista Baruch Goldstein, che uccise 29 fedeli musulmani palestinesi e ne ferì altri 125 a Hebron, nel massacro della Tomba dei Patriarchi. Un ministro che da un lato idolatra i terroristi israeliani che hanno commesso massacri: ma che vuole la morte di qualsiasi palestinese che uccide un ebreo.
Sebbene la pena di morte esista formalmente nella legislazione israeliana, è stata applicata solo una volta, nel 1962, nel caso dell’ufficiale nazista Adolf Eichmann, uno degli artefici dell’Olocausto. È tecnicamente consentita nei casi di alto tradimento, nonché in determinate circostanze in regime di legge marziale applicabile all’interno dell’IDF e in Cisgiordania, ma attualmente richiede una decisione unanime da parte di un collegio di tre giudici e non è mai stata applicata. Se approvata in via definitiva, la nuova legge permetterà di giustiziare – solo i palestinesi – anche con una maggioranza semplice. Aprendo le porte a nuovi abusi e crimini contro i detenuti palestinesi.
Nasceva oggi Dostoevskij: lo scrittore che ha svelato il male (e la nostra umanità)
204 anni fa, a Mosca, nasceva Fedor Dostoevskij, il più grande scrittore russo mai esistito. Per noi occidentali non è sempre facile comprendere il ruolo e il peso che ebbe Dostoevskij nella società russa e che ha tutt’ora. E non solo nel mondo russo. Dostoevskij, infatti, non fu soltanto uno dei più grandi scrittori mai esistiti. Le sue intuizioni sul funzionamento della psiche umana, l’inconscio, o come lo chiamava lui il sottosuolo, hanno ispirato Freud e Jung. Memorabili i suoi appelli accorati contro la pena di morte, che definisce la più barbara e crudele di tutte le pratiche; e la sua denuncia del sistema carcerario russo è disgraziatamente valida oggi come allora, e non riguarda soltanto il mondo russo.
La filosofia che permea i suoi romanzi, una critica feroce all’utilitarismo e al razionalismo di matrice settecentesca, ha influenzato Nietzsche, Sartre, Camus, e centinaia di filosofi dopo di lui. Per non parlare di ciò che emerge dalle pagine de I fratelli Karamazov, nel capitolo Il grande inquisitore, un ritratto fin troppo veritiero e profetico di come funziona il Potere e di quali meccanismi lo sorreggano.
Le sue opere continuano a essere lette, studiate e discusse non solo per la loro bellezza letteraria, ma perché ci spingono a riflettere su ciò che significa essere uomini. Come affrontiamo il male, dentro e fuori di noi? Quali sono i limiti della nostra libertà? Come possiamo comprendere quella cosa misteriosa che chiamiamo vita? «L’uomo è un mistero e noi dobbiamo svelarlo. Io mi occupo di questo mistero, perché voglio essere un uomo». Se la sua genialità, come filosofo, scrittore, come libero pensatore è fuor di dubbio, la sua vita continua a serbare qualche mistero.

Chiunque legga la biografia di Dostoevskij, infatti, non può fare a meno di pensare: quest’uomo ha vissuto una lunga, interminabile serie di disgrazie. La deportazione in Siberia, la morte della prima moglie e dell’adorata figlioletta e poi ancora l’epilessia, la minaccia di sequestro delle sue proprietà, i debiti di gioco: l’intera esistenza di Dostoevskij fu scandita, scavata dalla sofferenza. Christina Danilovna Alčevskaja lo descrisse così: «Guardando il suo volto sofferente, i suoi bassi, piccoli occhi infossati, le sue rughe profonde, ciascuna delle quali sembrava avesse una sua biografia, si poteva dire con sicurezza che era una persona che aveva molto pensato, molto sofferto, molto sopportato».
Ma facciamo un passo indietro. Quando aveva vent’anni, Dostoevskij fu condannato a morte per essersi ribellato allo zar. È il 22 dicembre del 1849 e in piazza Semënovskaja un gruppo di giovani, accusati di cospirazione e attività sovversive, vengono condotti al patibolo. Tra loro c’è anche Dostoevskij,
A un certo punto viene dato l’ordine di calare i cappucci sul capo dei prigionieri. «Ricordava tutto con insolita chiarezza e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. […] Gli restavano in tutto cinque minuti di vita, non di più. […] ma in quel momento, diceva lui, niente era più opprimente di un pensiero incessante: E se potessi non morire? E se mi restituissero la vita? Sarebbe infinita! E sarebbe tutta mia! In tal caso, trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, calcolerei ogni minuto con precisione, non getterei più nulla invano!»
Questo è uno dei passi più belli de L’idiota: è il principe Mỳškin a parlare, ma in realtà è Dostoevskij che racconta e rivive quello che provò e sentì quella mattina di dicembre. Dostoevskij non morì sul patibolo: fu graziato per ordine dello zar Nicola, che aveva deciso di punire quel fastidioso gruppetto d’intellettuali e liberi pensatori, inscenando la loro esecuzione e graziandoli poco prima che venissero giustiziati. Soltanto per condannarli poi ai lavori forzati.
Così la mattina di Natale del 1849 ha inizio il viaggio di Dostoevskij per la fortezza di Omsk, nel cuore della Siberia. Quel viaggio sarebbe durato dodici giorni. L’ultima notte la trascorre nella prigione del castello di Toblosk. Il castello ancora oggi ha un fascino cupo; pare un’oscura sentinella che accoglie i visitatori che si spingono fino alla frontiera estrema dell’Europa. Da Toblosk giunge alla colonia penale Omsk, antesignana dei moderni gulag.
Al suo arrivo viene spogliato, privato di qualsiasi effetto personale, e condotto in una minuscola cella. Un tavolaccio è l’unico letto che gli viene concesso.
Di giorno ha il compito come gli altri detenuti di demolire vecchie navi in disuso; la sera viene nuovamente rinchiuso nella baracca. Durante la notte il caldo e l’afa sono insopportabili. La coesistenza forzata è anche peggiore. «Non si restava mai soli, neanche una volta, nemmeno un minuto: sempre sotto scorta; ma al tempo stesso si era sempre soli, senza amici, senza compagni, senza affetti. Non avevo, accanto a me, quasi un solo essere con cui scambiare una parola cordiale. Mi sentivo bandito, tagliato via dal mondo».
La vita non potrebbe essere più dolorosa: il cuore ha perso i suoi palpiti, il cibo non ha sapore, la vista, in quello spazio angusto e soffocante, non serve a nulla; ogni piacere intellettuale e poetico è perduto.
Fu da quell’esperienza che nacque Memoria da una casa di morti, un resoconto della sua prigionia e della crudeltà sadica che gli uomini infliggono ai loro simili e che non può non farci tornare alla mente i nomi di Guantanamo, Abu Ghraib e di Ofer, la prigione israeliana dove i detenuti palestinesi sono sottoposti a torture senza fine. «Nelle prigioni di Israele non sei più un essere umano, ti vogliono trasformare in un insetto», racconta Khatib, un resoconto che pare uscito direttamente dalle pagine di Dostoevskij.

«Adesso non capisco come abbia potuto viverci per dieci anni,» scrisse Dostoevskij al termine della sua condanna. «Fu una sofferenza indicibile, interminabile, perché ogni ora, ogni minuto pesava sulla mia anima come una pietra».
Qui però inizia a porsi le domande: perché l’uomo uccide un proprio simile? Che cosa sono il bene e il male? Da dove nasce e perché nasce il male? Come impedire cioè che i nostri peggiori istinti si trasformino in crudeltà, in sopraffazione e nella disumanizzazione di noi stessi e degli altri? Domande che non hanno soltanto una valenza filosofica ma che riguardano ogni aspetto della nostra vita, politica e sociale in primis.
«Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e non in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in che cosa consiste la vita».
Ma come restare umani? Come mantenere intatta la nostra umanità, quando la violenza e la crudeltà sono parte integrante del sistema-vita? Tra tutte le sue opere ce n’è una in particolare che risponde in modo esaustivo al problema più antico di tutti: come mettere un argine al male.
Sto parlando de I fratelli Karamazov, l’ultimo e mi azzardo a dire il suo più grande capolavoro, un romanzo che ruota attorno a un parricidio, ma che in realtà è un ritratto senza tempo dell’umanità in tutte le sue sfumature e dimensioni.
Nei Fratelli Karamazov c’è il padre che disprezza il figlio e il figlio che disprezza il padre, c’è la giustizia che s’inganna e commette errori, c’è la gelosia, la vendetta, il bene che lotta contra il male in quel campo di battaglia che si chiama il cuore dell’uomo. E poi ci sono momenti intensissimi di sofferenza e di riscatto, e soprattutto ci sono le idee, idee talmente forti e potenti che spingono alla salvezza o alla dannazione.
Dostoevskij, infatti, ci mostra quanto un sogno, un’idea, un amore possano accelerare il destino di un uomo e restituirlo a sé stesso. E infine c’è Dio, il problema Dio. Dio però non è qualcosa di astratto: è il senso e il significato della vita, i perché che la muovono. Tutti i personaggi di Dostoevskij si domandano: cos’è la vita? Per cosa vale la pena vivere? Per cosa voglio vivere?
Ivan Karamazov invece già a vent’anni medita di «mandare in pezzi la coppa della vita». Ivan è un giovane pieno di disperazione, di solitudine e di amarezza. Il dramma di Ivan è il dramma dell’uomo che non sente più nulla, è cinico, indifferente, imperturbabile, somiglia molto all’uomo contemporaneo che è capace di commettere o di assistere imperturbabile a ogni tipo di atrocità senza muovere un dito per fermarla.

Il vero male, sembra dirci Dostoevskij, non nasce tanto dalla crudeltà o dal sadismo ma dall’incapacità di riconoscerlo e condannarlo come tale. Ma a un certo punto, in un momento di agnizione, Ivan confessa al fratello Alesa: «Le foglioline viscose della primavera, il cielo azzurro, ecco quello che amo! Qui non c’è intelligenza, non c’è logica, qui si ama con le viscere, col ventre». Questa è una delle pochissime volte in cui Ivan usa la parola amare. Alesa completa la sua intuizione dicendo: «Penso che tutti debbano amare la vita prima di ogni altra cosa al mondo».
«Amare la vita più del suo significato?» gli domanda Ivan confuso, e nella sua domanda si avverte tutta la perplessità dell’uomo che fino ad allora si è affidato soltanto alla ragione.
«Certamente. Ama la vita più della sua logica solo allora ne capirai il senso».
Le foglioline viscose a primavera, il cielo azzurro sono l’immagine simbolica di una vita che non può essere né spiegata né compresa ma soltanto sentita e vissuta. Quest’affermazione racchiude in pieno l’essenza della poetica dostoevskana e la parabola esistenziale che ha vissuto.
Tutti i personaggi di Dostoevskij sentono con forza. C’è Raskolnikov che vuole a tutti i costi far trionfare la sua idea, anche a costo di sfidare Dio, il mondo e la morale; c’è Mitja Karamazov che insegue senza sé e senza ma l’amore, e non si vergogna dell’intensità del suo sentimento. Altri come Natas’ja Filippovna nell’Idiota o l’uomo del sottosuolo sono guidati da una fortissima voglia di riscatto, di rivalsa, di vendetta perfino. La forza di questi personaggi sta nell’intensità con cui provano l’amore, l’odio, la tristezza, la gioia, il dolore.
Ma è la capacità di sentire e d’immedesimarsi nel dolore altrui, senza il filtro della ragione o della morale, a riscattare questi personaggi, e a redimerli. Il bene non è altro che la capacità di sentire; la crudeltà e la violenza nascono non da idee fuorvianti, o meglio non solo, ma da sistemi di pensiero, ideologie e morali che sacrificano il sentire sull’altare del pensiero. Con Dostoevskij cioè assistiamo a un ribaltamento della morale cartesiana: non più «penso, dunque sono», ma «sento, dunque sono». E anche soltanto per questo meriterebbe di essere letto e riletto all’infinito.
Trump riceve al-Sharaa e allenta le sanzioni alla Siria
Storico incontro ieri a alla Casa Bianca tra il presidente americano Donald Trump e il presidente siriano Ahmad al-Sharaa, già leader della filiale siriana di al Qaeda, incarcerato e con una taglia di 10 milioni di dollari, inserito insieme al suo gruppo Hayat Tahrir al-Sham nelle liste terroristiche. Al termine del colloquio, Trump ha annunciato la sospensione per 180 giorni delle sanzioni previste dal “Caesar Act”, legge da lui stesso firmata durante il primo mandato per colpire il governo di Damasco. L’obiettivo, ha spiegato, è “consentire al Paese di ricostruirsi e prosperare”. La decisione segue la rimozione delle sanzioni personali contro Al Sharaa e altre misure di alleggerimento adottate negli ultimi mesi verso la Siria.
Italia, sempre più psicofarmaci a bambini e ragazzi: ricette triplicate in dieci anni
In dieci anni, il consumo di psicofarmaci tra bambini e ragazzi è quasi triplicato: se nel 2016 venivano prescritte 20,6 confezioni ogni mille bambini, il numero ammontava a 59,3 confezioni nel 2024, raddoppiando nei soli quattro anni successivi alla pandemia. È questo il quadro dipinto dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), nell’ultimo Rapporto OsMed sull’uso dei farmaci in Italia nel 2024. I dati sono in linea con quanto rilevato ormai da anni da studiosi e ricercatori: il peggioramento della salute mentale dei giovani e dei giovanissimi, soprattutto a seguito della pandemia.
Il rapporto specifica che i farmaci descritti sono, in particolare, antipsicotici, antidepressivi e farmaci per l’ADHD (il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività), con un andamento crescente per età: il massimo viene raggiunto nella fascia 12-17 anni, nella quale il consumo è di 129,1 confezioni ogni 1000, ovvero l’1,17% della popolazione affetta da disturbi di qualche tipo. Secondo il report, si tratta di un trend in crescita in linea con i risultati di altri studi epidemiologici internazionali, nei quali si riscontra un generale aumento del numero di prescrizioni di questo genere di farmaci in quasi tutti i Paesi del mondo – in particolare, dopo la pandemia da Covid-19. E che le politiche di restrizione sociale imposte per il contenimento di quest’ultima abbiano rappresentato un acceleratore del disagio giovanile è ormai un fatto conclamato, anche se non rappresentano l’unico fattore di disagio.
Già nel 2023, l’ISS (Istituto Superiore della Sanità) rilevava che disturbi alimentari quali l’anoressia, la bulimia nervosa e il disturbo da alimentazione incontrollata (che al 90% riguardano persone di sesso femminile) fossero aumentati del 40% tra il 2019 e il 2021, mentre l’età di esordio dei disturbi si abbassava al punto che il 30% della popolazione affetta aveva meno di 14 anni. Lo stesso ministero della Salute specificava inoltre che il dato potrebbe essere enormemente sottostimato, dal momento che gran parte dei soggetti affetti da queste patologie non arriva alle cure. In contemporanea, è stato rilevato un aggravarsi della situazione dei giovani che, prima dell’arrivo della pandemia, soffrivano già di disturbi alimentari. Nel solo Ospedale Pediatrico Bambin Gesù gli accessi al pronto soccorso per disturbi del comportamento alimentare csono raddoppiati tra il 2021 e il 2022, mentre i ricoveri sono aumentati di oltre il 50% (dai 180 casi pre-pandemia ai 300 del 2022). La situazione non è migliorata con il passare del tempo, con le diagnosi di disturbi della nutrizione e dell’alimentazione che sono aumentate del 64% trail 2019 e il 2025 nel solo Ospedale Bambin Gesù, con età di insorgenza che si è abbassata fino agli 8 anni. Un ruolo nell’aggravarsi dell’incidenza di disturbi di questo genere (e del peggioramento generale dela salute mentale dei giovani) lo giocano anche i social media, i quali aumentano dinamiche di confronto sociale e di ossessione per l’esercizio fisico.
Tra il 2019 e il 2022 è inoltre raddoppiato il numero di giovani che si isolano e smettono di incontrare gli amici all’infuori della scuola, tanto che gli esperti parlano di un fenomeno ormai strutturale e non legato a specifiche condizioni socio-economiche o geografiche. Lockdown e didattica a distanza hanno infatti accelerato il passaggio delle interazioni umane a quelle della sfera virtuale, con conseguenze tangibili sulla salute mentale. In contemporanea, sono peggiorate le relazioni familiari, è diminuita la fiducia negli altri ed aumentata l’esposizione al cyberbullismo.
Secondo l’UNICEF, il peggioramento della salute mentale dei giovani a causa dell’isolamento sociale imposto dalle politiche di contenimento della pandemia è stato senza precedenti. Se già prima del 2020 il disagio mentale giovanile era un problema ampiamente diffuso, e non solo in Italia, le restrizioni imposte con il Covid hanno fatto da acceleratore di queste dinamiche. Nel 2021, il suicidio era la prima causa di morte dei giovani tra i 15 e i 19 anni in Europa settentrionale e Asia centrale, la seconda in Nord America, Europa occidentale e Africa occidentale e centrale.
Le radici di una problematica di questa entità affondano nel sistema culturale ed economico che contraddistingue la società moderna. E se un ripensamento e un percorso di profonda autocritica da parte del sistema attuale sembra imprescindibile, nell’immediato sarebbe utile implementare politiche statali che aiutino ad arenare il disagio delle generazioni più giovani, implementando anche i finanziamenti a settori quali lo sport e la cultura parallelamente al supporto a strutture e strumenti di cura. Eppure, la situazione sembra quantomeno incerta, alla luce di provvedimenti quali quello previsto nella Legge di Bilancio del 2025, dove sono stati eliminati tutti i finanziamenti per le case di cura specializzate in disturbi alimentari esistenti su territorio nazionale. In generale, fondi e operatori della salute mentale in Italia scarseggiano, con l’Italia fanalino di coda tra i Paesi ad alto reddito europei per la quota di spesa per l’assistenza psichiatrica.
Pakistan, scontri al confine con l’Afghanistan: uccisi 20 miliziani
L’esercito pakistano ha ucciso 20 miliziani del gruppo Tehrik-e-Taliban Pakistan in un attacco condotto nell’area nordoccidentale del Paese, al confine con l’Afghanistan. Parallelamente, riporta l’esercito, un altro gruppo di militanti avrebbe tentato di assaltare un collegio a Wana, una città nel distretto del Waziristan meridionale, anch’essa situata nel nord-ovest; l’esercito ha risposto aprendo il fuoco contro gli assalitori, uccidendo altri due miliziani. Gli scontri avvengono in un contesto di tensione tra Pakistan e Afghanistan, che hanno recentemente siglato un cessate il fuoco; sabato 8 novembre il Pakistan ha interrotto i colloqui con Kabul, mantenendo tuttavia attiva la tregua.









