venerdì 21 Novembre 2025
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Germania, la cannabis legale funziona: meno reati e nessuna crescita del consumo

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Germania cannabis riforma dati

Era il primo aprile del 2024 quando in Germania entrò in vigore la legge (KCanG) che ha reso legale l’autoproduzione di cannabis in forma domestica e associata nei Cannabis Social Club, oltre che il consumo per i maggiorenni, con alcune limitazioni. Una legge che non rappresenta una completa legalizzazione, perché non sono presenti negozi con licenze deputati alla vendita, ma che in Europa ha stabilito uno spartiacque nelle politiche sulla cannabis perché, nonostante Malta e Lussemburgo ne avessero approvate di simili, è arrivata dalla più grade economia europea che ha la forza di indicare la strada anche agli altri Stati membri.

Mentre infatti in Europa la EUDA (European Union Drugs Agency) sta promuovendo il progetto Cannapol per fornire strumenti di policy che accompagnino governi nazionali nel disegnare regolamentazioni basate su evidenza scientifica, vale la pena ricordare che, se le legalizzazioni americane sono arrivate principalmente per ragioni economiche, la svolta nel cuore dell’Europa è arrivata per motivi sociali e sanitari. “Mi preoccupo di proteggere e aiutare le persone, non di punirle. Con la vendita controllata e regolata della cannabis in Germania, faremo la storia europea” aveva infatti sottolineato Burkhard Blienert, l’allora commissario tedesco per le droghe, spiegando che l’approccio sarebbe stato rivoluzionario e avrebbe portato un “vero cambiamento di paradigma nella politica delle droghe e delle dipendenze”.

Perché è questo il punto sul quale si gioca tutto: scegliere se continuare con l’impostazione fallimentare della “guerra alla droga”, che non tocca quasi mai gli interessi dei grandi gruppi criminali e porta in carcere semplici consumatori, facendoci spendere cifre assurde per controlli e processi, in un cortocircuito che si autoalimenta, oppure smetterla di criminalizzare chi consuma sostanze per iniziare a inquadrare la questione dal punto di vista sociale, sanitario e dei diritti umani. Siamo talmente abituati alla logica attuale, che pensare a un consumatore di cannabis in carcere non ci crea grandi problemi, nonostante non ci sia né un reato né un’offesa alla cosa o alla salute pubblica. Ma cercare di risolvere il problema delle droghe nella società, presenti da millenni e a tutte le latitudini, mettendo in galera chi le consuma, è come pensare di risolvere il problema dell’obesità arrestando chi mangia tanto.

Ecco perché è importante analizzare i dati che arrivano dalla Germania, per capire quale strada sia meglio scegliere. Ekocan è il progetto che valuta gli effetti della legge tedesca a partire dai dati, e la prima analisi è stata pubblicata a fine settembre.

Mercato della cannabis
Le prime analisi indicano che nel 2024 la domanda complessiva di cannabis in Germania – considerando sia l’uso medico che quello ricreativo – si è attestata tra le 670 e le 823 tonnellate. Solo una piccola parte di questo fabbisogno, pari al 9-13%, è stata soddisfatta attraverso il canale medico, mentre i club di coltivazione associati hanno coperto meno dello 0,1%. Il resto della domanda proviene principalmente dall’autoproduzione domestica o dal mercato illegale.

Tutela dei giovani
“I dati finora disponibili non rivelano effetti a breve termine sull’utilizzo dei servizi di prevenzione da parte dei giovani”, spiega il rapporto, mettendo in chiaro che: “Tuttavia, vi sono indicazioni sia di una diminuzione delle segnalazioni relative alla cannabis agli uffici di assistenza ai minori, sia di una diminuzione del numero di sedute di consulenza per le dipendenze a cui i giovani accedono. Questi sviluppi possono essere in parte spiegati dal calo del consumo di cannabis tra i giovani, osservato dal 2019 e che sembra continuare anche dopo la legalizzazione parziale”.

Tutela della salute
“Non si sono osservati chiari cambiamenti nell’attuale tendenza al consumo di cannabis tra gli adulti. L’aumento percentuale di adulti che hanno fatto uso di cannabis negli ultimi 12 mesi, osservato a partire dal 2011 circa, dovrebbe proseguire nel 2024 e nel 2025 senza drastici cambiamenti. Anche i risultati del monitoraggio delle acque reflue di undici città non indicano un aumento improvviso del consumo di cannabis”, si legge nello studio.

Reati correlati
Il punto principale è che “la legge sulla cannabis rappresenta la depenalizzazione più significativa nella storia della Repubblica Federale Tedesca in termini quantitativi”. Secondo le autorità tedesche: “Ha un impatto considerevole sul lavoro delle forze dell’ordine. I cosiddetti “reati di consumo” ai sensi della legge sugli stupefacenti (BtMG), precedentemente considerati dalla legge, hanno in gran parte cessato di essere perseguiti dal 1° aprile 2024. Tuttavia, con la definizione di nuovi reati amministrativi (ad esempio, il consumo in presenza di minori) e reati penali (ad esempio, la coltivazione di più di tre piante di cannabis), sono emersi anche nuovi compiti e responsabilità per le autorità, alcuni dei quali sono ancora poco chiari”. Ad ogni modo nello studio viene scritto chiaramente che: “I dati disponibili indicano che il numero totale di reati correlati alla cannabis denunciati è diminuito del 60-80%”.

Stragi di mafia: Mori querela Salvatore Borsellino, l’ex terrorista Bellini verso l’archiviazione

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Il dibattito politico-culturale e l’iter giudiziario sulle stragi di mafia del 1992-1993 continuano a riservare grosse sorprese. Negli ultimi giorni, infatti, il fratello di Paolo Borsellino, fondatore del Movimento delle Agende Rosse, si è visto recapitare un avviso di conclusione indagini in seguito a una querela indirizzata nei suoi confronti dall’ex ufficiale dei ROS Mario Mori, risultando dunque indagato per diffamazione. Imputato (uscito assolto) al processo “Trattativa” e attualmente indagato per concorso in strage ed eversione dalla Procura di Firenze, Mori si è sentito diffamato da una dichiarazione del fratello del giudice, che lo ha accusato di conoscere il contenuto della famosa agenda rossa trafugata in via D’Amelio dopo l’esplosione della bomba e di pilotare la Commissione Antimafia. Parallelamente, a Caltanissetta, la Procura ha chiesto l’archiviazione per Paolo Bellini, ex estremista nero condannato come esecutore della strage di Bologna, che prima della consumazione delle stragi degli anni Novanta fu in stretti rapporti con Nino Gioè, uno dei boia di Capaci e “cerniera” tra Cosa Nostra e il mondo dei servizi.

Mori contro Borsellino

«Sono incriminato ai sensi dell’articolo 595, comma 2, per diffamazione aggravata, pronunciata in luogo pubblico, con l’aggravante dell’offesa consistente nell’attribuzione di fatti determinati. Dopo trenta anni di lotta per la Verità e la Giustizia sono io, fratello di Paolo Borsellino, ad essere incriminato. Ma ne sono contento. Finalmente, davanti ad un giudice, si potrà parlare del furto dell’Agenda Rossa». Salvatore Borsellino commenta con queste parole l’avviso di conclusione delle indagini preliminari relative a una denuncia per diffamazione aggravata presentata da Mario Mori, che lo vedono incriminato per alcune frasi proferite lo scorso 18 luglio in un convegno organizzato da Antimafia Duemila a Villa Trabia (Palermo). Come ricorda lo stesso Borsellino, in occasione dell’incontro il fratello di Paolo ha affermato che, «dato che l’Agenda Rossa è stata sottratta dal luogo della strage dai servizi, Mario Mori, essendo stato a capo dei servizi stessi, ne conosce il contenuto e sa dove viene occultata e ha utilizzato il contenuto di questa agenda e il potere che gli deriva da questa conoscenza per influenzare la Commissione Parlamentare Antimafia e le sue scelte relative ai consulenti da nominare». Mario Mori è passato alle vie di fatto, querelandolo. A commentare l’accaduto è stato il legale di Borsellino, Fabio Repici, il quale ha annunciato che il procedimento che si aprirà «rappresenta l’insperata occasione di fare passi avanti sulla ricerca della verità, anche sulla sottrazione dell’agenda rossa», aggiungendo che, dal momento che «il diritto di difesa del fratello di Paolo Borsellino non è conculcabile da nessuno, chiederemo al procuratore Melillo e al procuratore De Lucia (della Procura di Palermo che, nello specifico, è stata investita della questione, ndr) di attivarsi per metterci a disposizione le intercettazioni disposte su Mori dalla Procura di Firenze, che dimostrano proprio come il generale abbia pilotato l’attività della Commissione Antimafia». Il tema era stato oggetto di una puntata di Report, andata in onda lo scorso giugno, dal titolo “Mori va alla guerra”.

La posizione di Bellini

«Contemporaneamente oggi mi è arrivata dal Tribunale di Caltanissetta anche la notifica della richiesta di archiviazione, a firma del PM Valeria Andolina, del procedimento penale a carico di Paolo Bellini – ha annunciato Salvatore Borsellino – Lo stesso Paolo Bellini che è stato recentemente condannato in via definitiva all’ergastolo per la sua partecipazione, come autore materiale, alla strage di Bologna. Io indagato, Paolo Bellini archiviato. GIUSTIZIA E’ FATTA». Effettivamente, lo scorso luglio la Procura di Caltanissetta ha chiesto di archiviare l’indagine su Paolo Bellini in relazione alle stragi del 1992, aperta nel 2022. Giovane membro del MSI e poi di Avanguardia Nazionale, legatissimo a Stefano Delle Chiaie, coperto (secondo la Corte d’assise che lo ha condannato) dai servizi segreti dopo aver ucciso, nel 1975, il militante di Lotta Continua Alceste Campanile, negli anni Novanta Paolo Bellini divenne killer di ‘Ndrangheta, per poi pentirsi e confessare 13 omicidi. Nel giugno del 2023, Bellini era stato perquisito e interrogato dagli inquirenti: nel decreto venivano ricostruiti i suoi viaggi in Sicilia nel 1992, che sarebbero stati effettuati anche per incontrare il boss di Altofonte Nino Gioè, poi protagonista di uno strano “suicidio” in carcere nel 1993. Recentemente, Bellini è stato condannato all’ergastolo per essere uno degli esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e archiviato dal gip di Firenze in relazione alle stragi degli anni Novanta.

La posta in gioco

Attenzione, però, a dare tutto per scontato: già nel 2022 la Procura di Caltanissetta tentò di arrivare all’archiviazione dell’inchiesta sui presunti mandanti esterni della strage di via D’Amelio. La gip Graziella Luparello, però, si oppose, dando impulso a nuove indagini ed esplicitando anche i “binari” sui quali far convogliare le energie investigative dei pm: la possibile rilevanza della «pista ‘istituzionale’», incentrata sul «concorso nelle stragi di personaggi delle istituzioni deviate, eventualmente organizzati in organismi paramilitari»; quella dell’eventuale presenza «di un anello, di carattere politico, individuabile in un personaggio o in un partito politico che potrebbe aver concorso a definire la strategia della tensione, allo scopo di legarsi, in un reciproco ‘do ut des’, a Cosa Nostra» e quella della «pista nera», che evidenzi le possibili «collusioni tra mafia siciliana ed esponenti di destra eversiva» nell’ambito della «lettura coordinata dei diversi delitti eccellenti degli anni ’80-’90». Tra le figure che, secondo la gip, meritano un accurato approfondimento investigativo, c’è ovviamente anche quella di Paolo Bellini. Quest’anno è arrivata un’altra richiesta di archiviazione da parte dei pm, su cui Luparello deve ancora pronunciarsi.

Mori e Bellini

Nel 1992, i destini dei protagonisti di queste storie incrociate, Mori e Bellini, si incontrarono. In quella fase storica, infatti, il carabiniere Roberto Tempesta inviò Bellini, in qualità di infiltrato, dai membri di Cosa Nostra con l’obiettivo di recuperare alcune opere d’arte rubate dalla pinacoteca di Modena. Bellini si rapportò in via diretta con Nino Gioè, capomafia di Altofonte, che aveva conosciuto nel carcere di Sciacca nel 1981. Gioè fornì a Bellini un biglietto contenente i nomi di cinque importanti mafiosi allora detenuti, chiedendo per loro “arresti domiciliari o ospedalieri” per la buona riuscita della trattativa. Il documento arrivò sul tavolo del colonnello Mori, che reputò subito improponibili le richieste ma che, senza sequestrarlo né informare l’Autorità Giudiziaria, trattenne il biglietto e lo distrusse. Mori è oggi sotto inchiesta per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico nell’indagine sui mandanti delle stragi del 1993. Tra le altre cose, infatti, la Procura di Firenze afferma che Mori sarebbe «stato informato già nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta del proposito di Cosa Nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale italiano, in particolare alla Torre di Pisa». Al momento, comunque, si tratta solo di accuse.

Obroni Wawu October: una storia di resistenza tessile e spirito di comunità

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Resilienza, resistenza, creatività e comunità: questi sono gli ingredienti principali del festival Obroni Wawu October, evento giunto alla sua quarta edizione in quel di Accra (Ghana), vicino al “famoso” mercato di Kantamanto, il più grande cestino dei rifiuti tessili del mondo dove ogni settimana vengono scaricati circa 15 milioni di articoli.

Non potendo assimilare e smaltire questa quantità infinita di prodotti, l’ingegno e la voglia di fare hanno trovato una via di fuga. Inondate il nostro Paese con i vostri rifiuti? Noi li trasformiamo in bellezza. 

È così che Rawlings Park, alla fine del mese scorso, si è trasformato in un’esplosione di colore e spirito di comunità per la celebrazione del OWO Day 2025, evento finale di un mese dedicato all’upcycling, pratica di recupero e trasformazione di “scarti” in pezzi di design dal valore nettamente superiore ormai entrata nel vocabolario comune del mondo moda, ma non solo. Arte in cui gli abitanti di Accra sono diventati non solo abili , ma quasi maestri, grazie alla forza, alla visione e alle abilità artistiche delle persone che vivono e danno vita a una delle economie dell’usato più dinamiche al mondo. 

Fonte foto: Obroni Wawu October

Il tema dell’edizione di quest’anno è stato:  Kantamanto! – una celebrazione della forza e della determinazione della comunità, una spinta a risollevarsi e risorgere dalla “spazzatura” uniti e creativi, pronti ad essere riconosciuti come hub globale per la circolarità tessile. Riutilizzo, riparazione, rigenerazione e upcycling sono le chiavi e gli strumenti che hanno animato questo che non è un semplice festival, ma una celebrazione dell’innovazione e della creatività; uno spazio dove si celebrano talento e competenze, mentre si creano momenti dedicati all’istruzione e all’emancipazione grazie ai tessuti. Arti di filo come terapia, tessuti come tele di libertà, fili che intrecciano vite e formano corde di salvataggio e vie di fuga da quell’economia mondiale che cerca di affossare uno dei luoghi dove la voglia di fare vibra in ogni angolo. E che dovrebbe essere presa come esempio da tutto il mondo.

Il processo che ha portato all’evento finale è iniziato nel mese di luglio, dove la OWO School ha messo in atto un programma educativo di quattro mesi per i professionisti dell’upcycling di Kantamanto. Un accelleratore di moda upcycled, dove rappresentanti della Or Foundation hanno fornito risorse, laboratori pratici, consulenze professionali, connessioni con punti vendita e con altri professionisti, per lo sviluppo del proprio marchio, oltre che tecniche pratiche per la costruzione dei propri capi/accessori. 

Sono state create sette collezioni collaborative, il cui scopo era esplorare e raccontare storie di piacere, resilienza, creatività, gioia. 

Eventi per riunire la comunità ed affrontare in maniera pratica argomenti come sostenibilità e solidarietà sono stati organizzati durante tutto il mese di Ottobre dalla Fondazione Or, in collaborazione con la Kantamanto Obroni Wawu Businesses Association, la Kantamanto Women’s Association e la Kantamanto Upcyclers Association.

A partire da una pulizia della spiaggia per raccogliere i rifiuti tessili lungo tutta la costa di Accra; insieme ai membri della comunità di Kantamanto, allo staff della Fondazione e ai volontari del pubblico, sono state prelevate circa 29 tonnellate di rifiuti prima che entrassero nell’oceano; una bella dimostrazione di responsabilità ambientale e azione collettiva. A seguire una serata dedicata alle donne che lavorano come capo-facchini al mercato di Kantamanto, la Kayayei Night (kayayei è il nome con cui vengono indicate queste signore) e un grande “Block Party” che ha animato lo Shoe Yard del mercato a ritmo di musica trap locale e venditori di articoli di seconda mano. Il tutto ha condotto alla serata finale, l’ultima domenica di ottobre: una spettacolare celebrazione a base di usato, riciclo creativo, artigiani e upcycler e cibo di strada del posto. 

Fonte foto: Obroni Wawu October

Le strade si sono colorate di moda, non quella blasonata e griffata, ma quella fatta da chi ha veramente passione e visioni, tra creativi e grande pubblico, che ha sfoggiato look originali gareggiando per l’ambito titolo di Best Dressed. Il premio del Talent Show ha omaggiato con un premio di 2.000 cedis il vincitore della gara.

Ma il premio morale va a tutta questa comunità che, nonostante la situazione critica in cui verte il territorio, ha saputo rialzarsi, creare, gioire e fungere da esempio virtuoso per tutti: il talento non ha bisogno di grandi scuole, ma di volontà, visione e collaborazione. Questo festival ha il potere di mettere davanti al mondo occidentale, e al sistema moda globale, la loro totale inefficienza e a fare i conti con il loro modello di business obsoleto basato sullo spreco.

L’UE limita i visti ai cittadini russi: «rischio di sabotaggi e guerra ibrida»

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«Viaggiare nell’UE è un privilegio, non un diritto acquisito». La guerra diplomatica ed economica tra l’Europa e la Russia, si arricchisce di un nuovo capitolo: il 7 novembre l’Unione europea ha introdotto nuove restrizioni agli ingressi dei cittadini russi sul suo territorio. La stretta sui visti era nell’aria da settimane ed è stata ufficializzata dall’Alto Rappresentante Kaja Kallas: «Scatenare una guerra in Europa e pretendere di viaggiare liberamente nel continente è piuttosto difficile da giustificare», ha scritto Kallas su X. Da ora, i cittadini russi non potranno più ottenere visti per ingressi multipli, ma solo per un unico ingresso, ha precisato la Commissione europea.

È l’ennesima misura dal forte valore simbolico, in cui ogni gesto di Mosca viene letto come una potenziale minaccia e ogni decisione di Bruxelles appare come una difesa preventiva contro un nemico ormai percepito come onnipresente. Le autorità europee hanno giustificato la nuova politica con la necessità di «proteggere la sicurezza interna» e di ridurre il rischio di «sabotaggi, spionaggio e guerra ibrida». «In un momento in cui aumentano gli atti di sabotaggio e le intrusioni di droni, abbiamo il dovere di proteggere i nostri cittadini», ha spiegato Kallas. Secondo l’UE, l’aumento dei droni rinvenuti nei pressi di infrastrutture strategiche sarebbe la prova di una “pressione” russa volta a destabilizzare l’Europa. La misura va ben oltre il piano della sicurezza e rappresenta una scelta politica prebellica, che segna l’ennesimo passo nel progressivo isolamento culturale e sociale della Russia dal resto del continente. Bruxelles ha stabilito che potranno ottenere un visto solo i russi che viaggiano per motivi familiari urgenti, giornalisti indipendenti, difensori dei diritti umani o dissidenti del Cremlino.

Non sorprende che Mosca abbia reagito con durezza. Il Ministero degli Esteri russo ha parlato di decisione discriminatoria, definendo l’UE «ostaggio della propria russofobia». La portavoce Maria Zakharova ha accusato Bruxelles di preferire «disertori ucraini e migranti illegali ai turisti russi con capacità di spesa». Secondo il Cremlino, si tratta di un atto politico dettato da interessi geopolitici e pressioni interne, non da reali esigenze di sicurezza. Mosca ha evidenziato come l’Unione Europea sembri ormai intrappolata in una narrativa bellica permanente, dove ogni azione russa – reale, presunta o inventata – serve a consolidare un fronte politico compatto contro un nemico esterno. È una logica di blocco che riporta l’Europa indietro di decenni, alla guerra fredda. Oggi, la “guerra ibrida” ha preso il posto della “minaccia sovietica”, ma la dinamica è la stessa: costruire l’immagine del pericolo per rafforzare il consenso interno e deviare l’attenzione dalle fratture economiche e sociali che attraversano l’UE.

L’Unione Europea, che un tempo si presentava come garante della libertà di movimento e dei diritti universali, appare oggi sempre più chiusa in un sistema di regole e controlli. Il sospetto è diventato la cifra dominante di una burocrazia che tende a giudicare non ciò che una persona fa, ma ciò che rappresenta. La logica del “rischio potenziale” ha trasformato la sicurezza in un filtro ideologico che restringe spazi e diritti, censura le opinioni divergenti, sostituendo la fiducia con il controllo. Così l’Europa, nata per abbattere muri e confini, finisce per innalzarne di nuovi, più invisibili ma altrettanto rigidi. Le parole di Kaja Kallas, che ha definito i viaggi nell’UE un “privilegio”, segnano un cambio di paradigma: la libertà non è più un diritto da tutelare, ma un favore da concedere. Nel tentativo di difendersi da un nemico percepito come onnipresente, l’Europa rischia di rinchiudersi in una nuova cortina di sospetti e divieti che ne limita lo spirito originario più di qualunque minaccia esterna.

Esplosione a Nuova Delhi: almeno 8 morti

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A Nuova Delhi, capitale dell’India, almeno 8 persone sono morte e altre 24 sono rimaste ferite a causa di una esplosione. L’esplosione è avvenuta nei pressi del Forte Rosso, edificio patrimonio dell’umanità situato nel centro della città. Ancora ignote le cause dell’esplosione, che ha causato un grande incendio. Dalle prime notizie diffuse dai media locali, sembra sia esplosa un automobile.

Boeing si salva da ogni accusa per i disastri aerei di cui è protagonista

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Nel 2018 e nel 2019, Boeing è stata protagonista di due disastri aerei che hanno messo a nudo le falle più profonde delle sue pratiche industriali e gestionali. Due tragedie che sono costate la vita a 346 persone e che hanno acceso come non mai i riflettori sulle criticità sistemiche di un modello d’impresa orientato al contenimento dei costi e alla massimizzazione dei profitti, spesso a scapito della sicurezza. Giovedì 6 novembre, su richiesta del Governo statunitense, il giudice federale incaricato del caso ha deciso di archiviare il procedimento, approvando un accordo che consente a Boeing di evitare qualsiasi ammissione di colpa.

La decisione ha scatenato comprensibilmente un’ondata di indignazione tra i familiari delle vittime, i quali chiedono da anni giustizia e trasparenza. I due incidenti, avvenuti rispettivamente in Indonesia e in Etiopia, coinvolgevano il modello Boeing 737 MAX, un aereo dotato di un sistema automatico di controllo del volo (MCAS) progettato per correggere l’assetto in determinate condizioni, ma che, a causa di un singolo sensore difettoso e di un addestramento inadeguato dei piloti, si è trasformato in una trappola mortale. Nel periodo successivo, indagini hanno inoltre messo in luce la sistematica manipolazione di documenti tecnici e di manutenzione da parte dell’azienda, un modus operandi che conferma una cultura dirigenziale che ha in spregio la sicurezza delle persone. 

Nonostante simili premesse, l’Amministrazione Biden aveva negoziato un compromesso con Boeing: in cambio dell’archiviazione delle accuse più gravi, l’azienda avrebbe riconosciuto la propria responsabilità per frode e ostruzione alle indagini, pagato una multa, risarcito le famiglie e accettato una supervisione esterna per tre anni da parte di un organismo indipendente. Con l’insediamento del presidente Donald Trump, i termini dell’accordo sono però stati ulteriormente addolciti. Un’eventuale ammissione di colpevolezza avrebbe però inciso negativamente sugli appalti assegnati dal Dipartimento della Guerra a Boeing, sia sul piano aeronautico che sul frangente spaziale, quindi la Casa Bianca ha ben deciso di rimuovere questo requisito, eliminando nel frattempo anche l’istituzione di un meccanismo di vigilanza. 

Nella formulazione più recente, l’impresa si impegna a versare 1,1 miliardi di dollari tra multe, risarcimenti e investimenti interni all’azienda, nonché ad assumere alle proprie dipendenze dei “consulenti indipendenti per la conformità”. Una soluzione che, tuttavia, lascia ampi dubbi sulla reale efficacia del controllo e sulla capacità del sistema giudiziario di garantire responsabilità in casi di tale portata. I familiari delle vittime hanno chiesto al giudice distrettuale Reed O’Connor di respingere l’accordo, ma quest’ultimo, pur riconoscendone la debolezza, ha dichiarato di non avere il potere di opporsi alla volontà dell’esecutivo. Nelle sue stesse parole, “l’accordo non assicura il livello di responsabilità necessario a garantire la sicurezza del pubblico volante”, tuttavia rappresenta, secondo il governo, una scelta strategica nell’interesse pubblico. Gli avvocati delle famiglie hanno già annunciato che presenteranno ricorso.

Da parte sua, l’amministrazione statunitense difende la decisione sostenendo che Boeing abbia migliorato le proprie procedure di sicurezza e che la Federal Aviation Administration (FAA) ne stia monitorando da vicino le operazioni. Una posizione opinabile: appena pochi giorni fa, un velivolo cargo Boeing operato da UPS è precipitato, provocando la morte di dodici persone. Un nuovo segnale, tragicamente concreto, che la fiducia nei cieli — e nei colossi che li dominano — è ancora lontana dall’essere pienamente riconquistata.

La Thailandia sospende l’accordo di pace con la Cambogia

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La Thailandia ha annunciato la sospensione dell’accordo di pace con la Cambogia. L’annuncio è arrivato dopo il ferimento di due soldati thailandesi di pattuglia nei pressi del confine con Phnom Penh, avvenuto dopo l’esplosione di una mina; dopo l’incidente, uno dei due soldati avrebbe perso il piede. Il portavoce del governo thailandese ha affermato che con la sospensione dell’accordo non verranno rilasciati i 18 soldati cambogiani che sarebbero dovuti rientrare nel Paese. L’accordo di pace tra Cambogia e Thailandia era stato siglato con la mediazione di Trump dopo una serie di bombardamenti reciproci scoppiati a causa di diversi scontri avvenuti sul confine.

216 minorenni uccisi: la guerra di Israele ai bambini palestinesi in Cisgiordania

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Palestina Occupata – Murad Fawzi Abu Seifen aveva 15 anni. I soldati israeliani l’hanno ucciso la sera del 5 novembre a Al-Yamoun (nordovest di Jenin) sparandogli tre proiettili nel cranio da una distanza di 60/80 metri. Poi hanno impedito all’ambulanza di raggiungere il luogo e ne hanno sequestrato il giovane corpo, caricandolo sulla jeep militare e allontanandosi dalla città, impedendo alla famiglia di fare l’ultimo saluto all’adolescente e di seppellirlo. Anche Yamen Hamed Yousef Hamed aveva 15 anni. È stato ucciso da un proiettile delle IDF che gli ha trapassato il torace mentre camminava in uno degli ingressi della sua città, Silwad. Era il 30 ottobre. Almeno 10 proiettili sono stati sparati verso il gruppo di ragazzini dalle forze di occupazione durante uno dei loro continui raid. Gli israeliani l’hanno lasciato sanguinare per circa mezz’ora, impedendo all’ambulanza di raggiungere il luogo e sparando contro i residenti che cercavano di avvicinarsi. Jameel Atef Jameel Hanani di anni ne aveva 17. E’ stato ucciso da un soldato israeliano appostato all’interno di un blindato militare israeliano intorno alle 22 del 2 novembre nella città palestinese di Beit Furik, a est di Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata. Gli hanno sparato da 50/70 metri di distanza, nell’addome. È morto in ospedale poco dopo.

Questi sono solo gli ultimi tre dei 216 bambini uccisi secondo l’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) dai soldati d’Israele dal 7 ottobre 2023, in quella che è una vera e propria guerra all’infanzia qui, in Cisgiordania occupata. Come a Gaza, lo sterminio dei bambini è una politica di guerra che non conosce pietà né limiti e l’esecuzione di minorenni è una prassi. Sono almeno 44 i minori uccisi dall’inizio del 2025, ossia 1 su cinque dei palestinesi assassinati in Cisgiordania.

La guerra ai bambini

Già nel dicembre del 2023, l’UNICEF aveva riportato che lo sterminio di bambini palestinesi in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, aveva raggiunto «livelli senza precedenti». Nei tre mesi successivi al 7 ottobre 2023, Israele aveva già ucciso 83 bambini palestinesi in Cisgiordania, più del doppio di quelli uccisi nell’intero 2022, che era già considerato uno degli anni con il maggior numero di minorenni palestinesi assassinati. Almeno 576 bambini erano rimasti feriti durante lo stesso periodo.

«Le forze israeliane stanno uccidendo i bambini palestinesi con brutalità e crudeltà su tutto il territorio palestinese occupato», ha dichiarato il direttore della DCIP (Defence for Children International Palestine) Khaled Quzmar. «Né una singola persona è stata dichiarata responsabile dell’omicidio di questi bambini, incoraggiando le forze israeliane a continuare impunite», ha detto Said Abu Eqtaish, anch’egli della DCIP. I video e le testimonianze riportate mostrano infatti una deliberata missione omicida delle IDF nei confronti dei minori. Omicidi mai puniti, anzi. Spesso celebrati come vittorie.

Mohammed Bahjat Mohammad Hallaq aveva solo 9 anni. Stava giocando a calcio con altri bambini nel villaggio di Al-Rihiya, a sud di Hebron, quando due jeep militari israeliane hanno fatto irruzione nella cittadina. I soldati hanno iniziato a lanciare gas lacrimogeni e proiettili veri contro i ragazzini, che sono scappati via. È stato allora che un soldato si è inginocchiato e ha sparato un solo colpo verso Mohammed, da 200 metri di distanza, trapassandolo da parte a parte. Era il 20 ottobre 2025. Vari testimoni dicono di aver visto il soldato alzare l’arma verso il cielo in segno di vittoria, mentre il bambino cadeva a terra. Altri due proiettili furono sparati contro un altro ragazzino che aveva tentato di soccorrerlo.
Il video che mostra la morte di Saddam Hussein Iyad Mohammad Rajab è scioccante. Una telecamera di sicurezza ha ripreso il bambino di 10 anni mentre, il 31 gennaio del 2025, un soldato israeliano gli ha sparato all’addome durante un incursione a Tulkarem. Il padre del bambino fu detenuto circa un’ora mentre cercava disperato di portare il figlio all’ospedale. Anche l’ambulanza fu trattenuta e rallentata durante il trasferimento del bimbo a Nablus. Fu lì che un soldato ha detto al padre di Saddam: «Sono io che ho sparato a tuo figlio. Se Dio vorrà, morirà».

Una crudeltà non nuova, se si pensa al genocidio tuttora in corso a Gaza, dove Israele ha ucciso almeno 20mila bambini nei primi 23 mesi di guerra. Più di un bambino ogni ora, circa il 2% di tutta la popolazione infantile gazawi. E ne ha feriti almeno 42.011, lasciando 21mila bambini con amputazioni e disabilità permanenti. Ma sono migliaia i minori che ancora mancano all’appello, forse ancora dispersi sotto le macerie di una Striscia quasi completamente distrutta.

Il numero più alto di detenzioni di bambini dal 2016

La guerra ai bambini palestinesi in Cisgiordania assume anche il volto della detenzione, un’arma da sempre utilizzata dallo Stato sionista per terrorizzare e torturare i giovani palestinesi. Sono circa 360 i minorenni della Cisgiordania trattenuti nelle carceri israeliane, quasi la metà senza accuse né processo. Si tratta del più alto numero di bambini detenuti dal 2016. Il 41% sono in “detenzione amministrativa”, ossia una forma di incarcerazione che non necessita di motivazioni né processi. Circa 140 i minori imprigionati sulla base di prove segrete, sconosciute sia a loro che ai loro avvocati, e la loro detenzione può essere rinnovata a tempo indeterminato. A essi si aggiungono circa 115 giovani palestinesi trattenuti nelle carceri sioniste perché trovati illegalmente nel “territorio israeliano”. Secondo l’ONG Save the Children, sono circa 10mila i bambini che sono stati detenuti nelle galere di Tel Aviv negli ultimi 20 anni.

«Questa è una tattica per controllare i bambini palestinesi, per impedirgli di crescere normalmente e di avere una educazione, un futuro» ha detto Kathryn Ravey, parte di DCIP, ad Al Jazeera. «Ogni anno Israele perseguita tra i 500 e i 700 bambini nelle corti militari. Un abuso sistematico che va contro ogni forma di diritto e di giusto processo». I bambini rischiano infatti anni di prigionia per aver lanciato una pietra – reato per la quale la pena arriva a 20 anni – o perché semplicemente accusati di aver reagito contro i carri armati che invadevano il loro quartiere o villaggio, senza nessuna prova. Nonostante l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est sia riconosciuta come illegale e condannata dall’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia, nonostante secondo il diritto internazionale un popolo sotto occupazione ha il diritto di resistere – anche con le armi -, Israele imprigiona e tortura anche i bambini che rispondono con le pietre alla sua violenza.
Le condizioni delle carceri infatti sono durissime; i detenuti testimoniano violenze sistematiche, come botte, assenza di cibo, vestiti, cure mediche.

Ayham al-Salaymeh, 14 anni, è diventato il più giovane palestinese a scontare una pena in carcere a dicembre del 2024, dopo aver passato un anno e mezzo di domiciliari. Suo padre ha espresso preoccupazione per la salute di Ayham in carcere, sottolineando che ex detenuti che pesavano più di suo figlio avevano perso decine di chili di peso. «Il ragazzo ora pesa 30 kg, dopo un anno di prigionia, cosa gli succederà?» ha detto in un video diventato virale. Walid Ahmed, 17 anni, è morto nel carcere di Megiddo pochi mesi dopo. Secondo l’autopsia, la prima causa di morte è stata la fame, legata alla mancanze di cure mediche.

Grazie a una nuova legge approvata alla Knesset a novembre 2024, le autorità israeliane sono ora autorizzate a detenere palestinesi dai 12 anni in su se riconosciuti colpevoli di omicidio terroristico, omicidio colposo o tentato omicidio. Una misura che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, è motivata dalla vendetta piuttosto che da esigenze di sicurezza. Secondo la legge, approvata come misura temporanea e della durata di cinque anni, i minori condannati possono essere detenuti in strutture chiuse fino al compimento dei 14 anni, dopodiché possono essere trasferiti in carceri ordinarie. Una legge identica, approvata nel 2016, era scaduta nel 2020.

Una guerra totale all’infanzia, fatta di uccisioni, reclusioni, ma anche trasferimenti forzati e privazioni di casa, scuola, sicurezza. Questa è la vita dei bambini in Cisgiorania: anche se. in netto peggioramento dal 7 ottobre 2023, tali condizioni hanno sempre caratterizzato la repressione israeliana dall’occupazione del 1967. Ad oggi, sono migliaia i bambini che hanno dovuto lasciare la propria casa – o che non hanno più una casa – a causa delle operazioni militari di Tel Aviv nei campi profughi di Jenin e Tulkarem. Altri centinaia i bambini rimasti per strada per le demolizioni forzate aumentate a dismisura in questi ultimi due anni. Senza parlare di tutte le conseguenze che queste politiche di sfollamento forzato e detenzione implicano: assenza di educazione, traumi psicologici, distruzione del futuro. Una guerra ai bambini a cui nessuno sembra riuscire, o volere, mettere un punto.

Elicottero precipitato tra Marche e Toscana: trovato il relitto, 2 morti

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Un elicottero privato partito da Venezia e diretto a Castiglion Fiorentino (Arezzo) è precipitato domenica pomeriggio sulle montagne al confine tra Marche e Toscana. Il velivolo, ritrovato distrutto e bruciato nella mattinata di lunedì, trasportava due persone ancora disperse: l’imprenditore orafo aretino Mario Paglicci e Fulvio Casini, di Sinalunga (Siena), entrambi piloti esperti. L’ultimo segnale era un messaggio di Paglicci alla figlia in cui segnalava un guasto al motore. Le operazioni di ricerca, rese difficili dalla fitta nebbia, si sono protratte per ore prima del ritrovamento dei resti dell’elicottero.

Italia, la strage silenziosa dei ciclisti: 3.000 morti in 10 anni

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Tra il 2014 e il 2023, in Italia si sono verificati oltre 164.000 incidenti che hanno coinvolto persone in bicicletta, causando circa 3.000 i morti e più di 150.000 i feriti. Numeri di una strage quotidiana che arrivano dai risultati del primo Atlante italiano degli incidenti ciclistici, un monitoraggio colossale e senza precedenti realizzato dal Politecnico di Milano, che ha incrociato dati di Istat, Aci e delle forze dell’ordine per costruire una mappa georeferenziata e interattiva dell’incidentalità ciclistica. La media riporta una realtà in cui quasi ogni giorno un ciclista rimane ucciso sulle strade e altri 41 vengono feriti, in una mappa nazionale che mostra problematiche diffuse, ma con differenze regionali molto marcate.

Il lavoro, raccolto in un portale consultabile online, rende visibili differenze territoriali nette: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana concentrano la maggioranza dei sinistri, con la Lombardia in testa (41.502 casi nel periodo). Tuttavia, il primato della pericolosità si sposta al Sud quando si parla di mortalità. Province come Enna, in Sicilia, o Vibo Valentia, in Calabria, registrano i tassi di mortalità più alti d’Italia, toccando rispettivamente picchi del 17,65% e del 12%. La fascia d’età più esposta è quella over-65, che rappresenta una quota consistente delle vittime.

Gli scenari degli incidenti raccontano una apparente contraddizione: tre incidenti su quattro avvengono in ambito urbano (73%), ma quasi la metà dei decessi si verifica su strade extraurbane, dove la velocità è maggiore e protezioni per i ciclisti scarseggiano. Il 68% degli scontri coinvolge autovetture; le tipologie più frequenti sono collisioni laterali e frontali-laterali agli incroci e nelle rotatorie, dove spesso emergono violazioni di precedenza. I dati mostrano anche quando avvengono i picchi: i giorni feriali con maggior incidentalità sono il giovedì e il sabato, mentre il momento più critico è il sabato mattina, con il picco che si verifica tra le 10 e le 12).

La mappatura evidenzia anche limiti tecnici, in quanto la completezza e la geolocalizzazione dei dati sono migliorate solo recentemente, e i dataset presentano ritardi di aggiornamento. «L’unica certezza è che della mobilità ciclistica, in Italia, sappiamo ancora relativamente poco – sottolineano i ricercatori –. Proprio per questo, abbiamo deciso di rendere pubblici i nostri dati, contributo concreto per un dibattito costruttivo sul tema dell’incidentalità ciclistica, ma anche uno strumento operativo per il futuro». Grazie al monitoraggio effettuato emergono infatti indicazioni utili per interventi pratici: ridurre la velocità, costruire piste ciclabili fisicamente separate, eliminare interruzioni nelle reti ciclabili tra comuni e adottare misure di moderazione del traffico. L’esperienza di alcune città è indicativa: l’introduzione del limite a 30 km/h in determinate aree del territorio ha mostrato riduzioni significative degli incidenti e della mortalità, oltre a una crescita dell’uso della bicicletta.

Allargando lo sguardo sul modello di mobilità italiano, possiamo constatare come esso appaia da anni sostanzialmente fermo, ancora fortemente dipendente dall’automobile e solo marginalmente orientato verso altre forme di trasporto pubbliche e private. Come testimoniato dal 21° Rapporto dell’Istituto Superiore di Formazione e Ricerca per i Trasporti (ISFORT) sulla mobilità degli italiani, uscito alla fine dell’anno scorso, in Italia l’automobile resta il mezzo di trasporto predominante: nel primo semestre del 2024 è stata utilizzata nel 63,1% degli spostamenti. Pur registrando un lieve calo rispetto all’anno precedente, il suo impiego risulta comunque superiore di 2,2 punti percentuali rispetto al 2019, prima della pandemia. In controtendenza, cresce l’uso dei mezzi pubblici, che hanno superato l’8%, e della mobilità dolce, a piedi o in bicicletta. Nel 2023 il tasso complessivo di mobilità sostenibile ha raggiunto il 31,1%, segnalando un piccolo miglioramento ma restando ancora lontano dai livelli pre-Covid. Guardando però agli ultimi vent’anni, il quadro rimane sostanzialmente immutato: nel 2000 la quota di spostamenti sostenibili era infatti del 34,1%.