domenica 23 Novembre 2025
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Australia, primo trattato con i popoli indigeni: riconosciuto il diritto all’autogoverno

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Per la prima volta, in Australia è stato approvato un trattato che riconosce formalmente il diritto all’autogoverno delle popolazioni native. È successo nello Stato federale di Victoria, nel sud-est del continente, dove il parlamento ha dato il via libera a un testo di 34 pagine che definisce nuove modalità di relazione tra le istituzioni e i popoli originari del continente.
L’accordo, sostenuto dal governo statale di centrosinistra, istituisce un organismo permanente chiamato Gellung Warl, espressione che in una lingua locale significa “punta di lancia”, con il compito di rappresentare in mod...

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Un aereo militare turco si schianta in Georgia: 20 dispersi

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Nel pomeriggio di oggi, 11 novembre, un aereo militare turco si è schiantato in Georgia. A bordo dell’aereo, un cargo C-130 erano presenti 20 militari turchi e azeri, che risultano ancora dispersi. Il velivolo era partito proprio dall’Azerbaijan, dalla città di Ganja, e si è schiantato al confine del Paese con la Georgia. Squadre georgiane stanno cercando eventuali superstiti. Non sono ancora note le cause dell’incidente.

Dalle Ande all’Amazzonia: i popoli indigeni arrivano alla COP30 per difendere la foresta

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Oltre 60 leader indigeni hanno attraversato il Rio delle Amazzoni in barca a vela per partecipare alla COP30, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La spedizione è partita quasi un mese fa dalle Ande ecuadoregne, da dove le imbarcazioni sono salpate per affrontare un viaggio di oltre 3.000 km. La missione ha preso il nome simbolico di “Yaku Mama”, richiamando la divinità “madre delle acque” che secondo la mitologia locale abita la foresta amazzonica. I leader indigeni, provenienti da Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Indonesia, Messico, Panama e Perù, sono arrivati a Belém – sede della Conferenza – ieri, lunedì 10 novembre. Lo scopo del viaggio era quello di mettere in risalto gli effetti della deforestazione e della carbonizzazione sulle comunità, e di chiedere agli Stati il rispetto delle politiche climatiche, l’istituzione di strumenti adeguati per la lotta alla crisi ambientale, e la «piena ed effettiva partecipazione e rappresentanza» dei popoli indigeni nei processi decisionali.

La missione Yaku Mama è iniziata il 16 ottobre con lo scopo di proporre un cambio di paradigma: «Porre l’Amazzonia al centro della lotta per la giustizia climatica e promuovere la fine dell’estrazione e dell’uso di combustibili fossili». Yaku Mama ha attraversato il Rio delle Amazzoni facendo diverse tappe presso comunità e villaggi di Perù, Colombia e Brasile. A partecipare alla spedizione sono state decine di leader indigeni che hanno chiesto di venire rappresentati nei processi decisionali riguardo al cambiamento climatico e che venga garantito alle comunità «l’accesso diretto, non mediato dagli Stati, a tutte le forme di finanziamento per il clima». In un comunicato del Forum internazionale dei popoli indigeni sui cambiamenti climatici (IIPFCC), i rappresentanti indigeni chiedono che il Programma di Lavoro sulla transizione rispetti «i diritti umani, in particolare la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni». Il Forum denuncia la «colonizzazione» dei territori indigeni, attraverso le politiche di estrazione di fossili, di materiali per la transizione, ma anche mediante «il commercio di quote di emissione, l’estrazione di uranio per l’energia nucleare, la geoingegneria e progetti infrastrutturali su larga scala per le energie rinnovabili».

Oltre alle richieste e alle denunce provenienti dai rappresentanti riuniti dei popoli indigeni, alcuni gruppi di comunità provenienti dal medesimo Paese hanno rilasciato comunicati congiunti per descrivere la propria situazione. I popoli ecuadoregni, per esempio, hanno accusato il proprio governo di stare portando avanti politiche dannose per l’ambiente, aumentando le concessioni per l’estrazione mineraria e petrolifera nelle foreste, e indebolendo il quadro giuridico per il contenimento di tali attività. Nello stesso Brasile, che ospita la Conferenza, la situazione non è delle migliori, tanto che il Paese ha recentemente autorizzato nuove perforazioni petrolifere in due bacini dell’Amazzonia. In generale, i popoli denunciano un impoverimento della lotta al cambiamento climatico, che sta danneggiando, tra le varie aree globali, anche la foresta amazzonica, e precisamente le aree a controllo indigeno: secondo un rapporto di Earth Insight e Global Alliance of Territorial Communities, circa il 17% degli spazi occupati dalle comunità indigene sarebbe ora soggetto a concessioni di trivellazione petrolifera e di gas, attività minerarie e di disboscamento; un altro studio mostra invece come il 36% delle attività di estrazione di oro in Amazzonia sia avvenuta in territori indigeni.

Quello della distruzione delle foreste è uno dei temi centrali della COP30: uno dei progetti chiave promossi dalla guida brasiliana è infatti il Tropical Forest Forever Facility, un fondo da 125 miliardi di dollari destinato alla preservazione delle foreste. La Conferenza è iniziata ieri, e terminerà il 21 novembre. Gli incontri in programma in questi giorni proveranno a fare passi avanti per il raggiungimento degli obiettivi delineati dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dall’accordo di Parigi. La UNFCCC prevede di raggiungere «la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da impedire pericolose interferenze antropiche con il sistema climatico», e di farlo «entro un lasso di tempo sufficiente a consentire agli ecosistemi di adattarsi»; l’accordo di Parigi, invece, punta a limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C. Durante il vertice si discuterà dei nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il 2035.

La guerra fa ingrassare la mafia ucraina: traffico di renitenti, armi e droga

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Quando si parla di Ucraina, l’immaginario collettivo evoca lo scenario di un Paese devastato dalla lunga guerra contro la Russia e di città ridotte in macerie. Ma dietro il fronte visibile del conflitto se ne combatte un altro, silenzioso e pervasivo: quello che vede come attore principale una criminalità organizzata radicata da decenni, che si è evoluta, adattata e persino mimetizzata nel caos della guerra. La mafia ucraina, spesso rimossa dal dibattito internazionale, rappresenta – non certo dal 2022, ma sin dalla fine della Guerra Fredda – uno dei fenomeni più complessi e sottovalutati d’Eu...

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SoftBank cede le sue azioni di Nvidia e incassa 5 miliardi

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SoftBank, il maggiore gruppo finanziario giapponese, ha ceduto tutte le sue azioni di Nvidia, la maggiore azienda di microchip al mondo, incassando circa 5 miliardi di euro dalla transazione. Il gruppo giapponese intende utilizzare quei fondi per investire maggiormente in aziende che si occupano di intelligenza artificiale come OpenAI (ideatrice del noto chatbot ChatGPT), di cui già possiede l’11% delle quote. In generale, SoftBank sta aumentando da tempo i propri investimenti nel settore delle IA.

Il Corriere e la matematica della propaganda: i conti (sbagliati) sulla guerra in Ucraina

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Il 2025 è stato l’anno più nero dell’esercito russo in Ucraina: 80.000 soldati morti in 9 mesi. Così titola Federico Fubini sul Corriere della Sera, l’8 novembre, consegnando al lettore l’immagine di una Russia esausta e sull’orlo del collasso. L’articolo prova a presentarsi come un’analisi corredata da numeri e citazioni di fonti apparentemente indipendenti come Meduza e Mediazona. In realtà, dietro la freddezza del dato, si nasconde una narrazione volta a convincere il lettore che Kiev stia vincendo, mentre Mosca sferra l’assedio a Pokrovsk: cifre decontestualizzate, stime manipolate, percentuali che non tornano. È un racconto che, evocando la nostalgia di chi ha creduto che i russi combattessero a dorso di mulo, a mani nude, senza calzini e con le pale, si allinea perfettamente alla linea atlantista dei grandi media italiani, trasformando l’informazione in uno strumento di conferma ideologica.

Fubini attribuisce a Meduza e Mediazona la stima di 65.000 morti russi tra dicembre 2024 e agosto 2025. Tuttavia, il rapporto congiunto dei due media indipendenti, pubblicato il 29 agosto 2025, basato su registri pubblici, necrologi e fonti ufficiali, riporta dati diversi. Nel testo non compare alcuna stima specifica di 65.000 morti per il periodo dicembre-agosto, né viene suggerito un incremento di 80.000 unità entro ottobre. Al contrario, gli autori precisano che le cifre più recenti sono “intrinsecamente incerte”, poiché i dati degli «ultimi sei-otto mesi» risentono dei ritardi burocratici nella registrazione dei decessi e di lacune significative nelle fonti locali. In altre parole, il rapporto non fornisce un numero “ufficiale” del governo russo, ma una stima basata su fonti indirette e analisi statistiche e invita alla prudenza: le ultime stime vanno lette come tendenze, non come numeri certi. Fubini ignora queste cautele e trasforma una stima con margini d’errore in una certezza numerica. L’effetto è potente ma ingannevole: il lettore crede di trovarsi di fronte a una verità scientifica, mentre si tratta di una proiezione arbitraria. È un classico meccanismo mediatico: prendere un dato provvisorio, decontestualizzarlo e presentarlo come prova – in questo caso della disfatta russa.

Nel tentativo di rendere più incisiva la sua analisi, Fubini cita poi l’Institute for the Study of War (ISW), sostenendo che la Russia avrebbe conquistato 2.700 chilometri quadrati di territorio ucraino in dieci mesi, equivalenti allo 0,73% del Paese. Tuttavia, nessuno di questi numeri compare nei rapporti dell’ISW. Nel suo aggiornamento del 30 agosto 2025, l’istituto statunitense stima guadagni territoriali russi pari a circa 2.300 chilometri quadrati, mentre per l’intero 2024 indica un totale di circa 4.100 chilometri quadrati. Inoltre, la percentuale indicata da Fubini è matematicamente errata: l’Ucraina ha una superficie di circa 603.700 chilometri quadrati e 2.700 corrispondono allo 0,45%, non allo 0,73%. L’ISW, nei suoi report, non traduce mai i dati territoriali in percentuali e non li collega al numero di perdite umane. Quella che ne deriva è un’elaborazione giornalistica costruita unendo categorie differenti – morti, feriti, stime OSINT e proiezioni politiche – per creare un rapporto numerico a effetto. Quella che viene presentata come un’analisi basata su dati militari è in realtà una semplificazione narrativa, dove le cifre diventano strumenti retorici per rafforzare un messaggio politico: la sproporzione tra i sacrifici russi e i risultati ottenuti sul campo.

A completare il quadro, Fubini descrive un’economia russa “ferma”, incapace di sostenere lo sforzo bellico, ma anche qui i dati lo smentiscono. Secondo l’International Monetary Fund (IMF), la crescita del PIL russo nel 2025 è stimata intorno all’1%, dopo un’espansione del 4,3% circa nel 2024. L’occupazione ufficiale mostra un tasso di disoccupazione al 2,2%–2,4% nei primi mesi del 2025, un livello storico (anche se la situazione reale del mercato del lavoro è complessa e presenta fragilità). L’economia, pur segnata dalle sanzioni e dall’aumento della spesa militare, non è dunque ferma. Non è la prima volta che Federico Fubini, oggi vicedirettore ad personam del Corriere della Sera, finisce al centro delle polemiche per il suo modo di piegare l’informazione alle logiche del potere. Nel 2019, ammise di aver taciuto la notizia dei bambini greci morti di fame per le politiche della Troika, per non offrire “una clava agli antieuropei”. Da allora, la linea non è cambiata. Di recente, in un’intervista a Roberto Cingolani, Fubini si è distinto più per il tono difensivo che per lo spirito critico. Non è nemmeno la prima volta che smentisce con foga che la Russia stia vincendo. In un confronto televisivo con Marco Travaglio a maggio 2025, Fubini aveva già sostenuto che la Russia fosse “allo stremo” nella guerra in Ucraina, citando perdite di circa 200.000 effettivi e problemi severi di reclutamento. Ora torna a recitare lo stesso copione: scegliere i numeri che servono, ignorare quelli che disturbano, vergando una pedagogia geopolitica, che confonde la verità con la versione autorizzata dei fatti.

«Questa non è pace»: intervista a Emergency, il racconto da Gaza tra bombe e fame

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Mentre il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti vacilla, a causa di ripetuti attacchi e violazioni da parte di Israele, la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza non fa altro che peggiorare. Emergency è presente a Gaza da agosto 2024 e gestisce diversi progetti, come una clinica nell’area di Khan Younis, e offre assistenza sanitaria di base nella clinica da campo che sorge nella località di al-Mawasi. Abbiamo raggiunto telefonicamente Alessandro Migliorati, capo progetto di Emergency a Gaza da marzo 2025, con cui abbiamo parlato riguardo la condizione umanitaria  in cui verte la Striscia oggi.

Quale è, dopo l’accordo di “pace”, la situazione umanitaria nella Striscia ?

C’è un 54% della Striscia tuttora occupato dall’IDF, da dove si sentono costantemente esplosioni e gli edifici vengono fatti crollare. Oltre a questo, ci sono bombardamenti aerei regolari. Dall’inizio del cessate il fuoco ci sono già state diverse giornate di maxi-escalation, in cui le attività militari si sono estese anche a quel 46% di territorio che dovrebbe essere l’area da cui l’IDF si è ritirato. In quelle occasioni ci sono stati attacchi mirati con droni, anche a un chilometro da casa nostra. Quindi chiamarla “pace” è assolutamente fuori luogo e chiamarlo “cessate il fuoco” è un’iperbole.

Nella parte sotto occupazione le azioni militari hanno come obiettivo solo la distruzione delle infrastrutture, o ci sono anche vittime civili?

Ci sono anche vittime civili. L’esercito israeliano ha tracciato una “linea gialla” per delimitare l’area dove si può stare e quella in cui non si deve entrare. Ma se un palestinese si avvicina a quella linea, viene attaccato. I civili sono morti già dal primo giorno di cessate il fuoco, quando la linea era più bassa. Venivano colpiti dai tank.  Durante l’ultima escalation, ci sono stati cento morti in ventiquattr’ore, di cui circa sessanta bambini. Questo tra la zona che dovrebbe essere “libera” e quella ancora occupata. Il punto è che non puoi proclamare un cessate il fuoco e poi sparare a vista a chi si avvicina a una linea che non è neanche chiara. La tutela dei civili non esiste.

Dall’11 ottobre, giorno successivo alla firma del cessate il fuoco, avete visto movimenti di persone verso nord, verso Gaza City? 

Nei primi giorni sì, c’è stata una prima ondata di persone che hanno provato a tornare verso Gaza City. Ma poi molti si sono fermati: hanno visto che bastava avvicinarsi alla linea gialla per essere colpiti. Adesso, dopo un mese, la maggior parte delle persone non si muove più. Non si fidano, pensano che il cessate il fuoco non reggerà. Restano nei campi, nelle tende. C’è molta attesa e poca fiducia.

Qual è la condizione nei campi profughi?

Le condizioni di vita sono pessime. I campi profughi sono sovraffollati, mancano i servizi di base, i materiali igienici. Ci sono continuamente infezioni della pelle, delle vie respiratorie e urinarie Le persone vivono in tende piccole con almeno dieci familiari, senza un tetto solido, esposti alle intemperie. Fa ancora caldo ma l’umidità è altissima e l’inverno è alle porte. È una condizione durissima.

Per quanto riguarda il cibo, avete visto più aiuti, più derrate alimentari?

Dall’inizio del cessate il fuoco sono entrati pochissimi aiuti. Dobbiamo distinguere: ci sono gli aiuti umanitari e quelli commerciali. Degli aiuti umanitari è entrato solo un sesto di quanto era stato promesso negli accordi. C’è ancora una grossa carenza di farmaci e di materiale per rifugi. Il cibo da distribuire alla popolazione è arrivato in quantità molto ridotta. Sono entrati invece più camion commerciali e nei mercati oggi si vede più cibo rispetto all’estate. Ma una grandissima fetta della popolazione non ha la capacità economica per acquistare questi beni: i prezzi non sono più altissimi come ad agosto -100 euro per un chilo di farina- ma oltre il 60% delle persone è disoccupato. Questa è la grossa pressione che fanno le ONG: la gente ha bisogno di cibo a costo zero.

Quel poco che entra, come viene gestito? Ci sono ancora episodi di saccheggi dei camion umanitari?

Sì, succede ancora. È successo anche negli scorsi giorni. Il problema è che dovrebbero entrare 300 camion e ne entrano due, le persone si organizzano per andare a prendere quello che riescono. Non è moralmente “giusto”, ma è logico: se lanci due panini in una stanza con cento persone affamate, è normale che si azzuffino per prenderli. Quando, subito dopo il cessate il fuoco, sembrava che gli aiuti sarebbero tornati regolari, i saccheggi si erano fermati. Ma dopo dieci, quindici giorni, vedendo che la situazione non cambiava, tutto è tornato come prima.

A livello medico, qual è la situazione?

Manca ancora tutto: garze, antibiotici, anestetici, materiale da sala operatoria. Non entrano camion commerciali di farmaci: è tutto mercato nero. Se una cosa in Italia costa 10, qui la paghi 1.000, se la trovi. E spesso si tratta di materiale rimasto in qualche magazzino o trafugato.

Quanti casi casi di malnutrizione grave vedete?

Ad ottobre abbiamo registrato circa 70 bambini malnutriti sotto i cinque anni. Ci occupiamo solo di quella fascia d’età. Sono soprattutto famiglie indigenti, che non possono comprare nulla. La malnutrizione richiede tempo per essere recuperata, quindi non si vedono ancora miglioramenti.

Com’è l’umore generale della popolazione?

Tutti camminano sulle uova. C’è voglia di essere ottimisti, ma anche paura di illudersi. La gente è in stand-by, osserva. Parlo soprattutto con colleghi che hanno uno stipendio, e anche loro vivono alla giornata. Si godono piccole cose: chi riesce a fumare di nuovo dopo mesi, chi trova un caffè. Non sono grandi passi — non tornano nelle loro case — ma piccoli segni di normalità. Rimane comunque una cautela estrema.  Ci tengo a dire un’altra cosa. Ho visto dall’Italia un grande movimento di protesta, e so che c’è stata molta polemica sulla sua utilità. Da qui possiamo dire che è servito. Subito dopo le proteste, il governo italiano ha ripreso i voli di evacuazione medica verso l’Italia, che erano stati sospesi. Per la popolazione palestinese sapere che la gente in Italia manifestava ha avuto un effetto enorme: molti ci hanno detto di averlo visto e si sentivano sostenuti. Non deve calare l’attenzione ora, di fronte all’idea che ci sia la pace: perché la pace non c’è, c’è un cessate il fuoco parziale, fragile. Ma c’è ancora speranza, e non è solo idealismo: in questi sei mesi ho visto persone che, nonostante tutto, continuano a vivere — giocano a carte sotto le tende, si innamorano, fanno figli, studiano per l’esame di maturità. Sono cose normali, ma importanti. Troppo spesso ci immaginiamo i palestinesi solo come vittime passive, come gente che non fa più nulla se non scappare o morire. È vero che soffrono, ma continuano a vivere. È importante raccontarlo: anche nei momenti più duri, la normalità resiste.

Alluvione a Lesbo: strade sommerse e danni

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Dalla notte di oggi l’isola greca di Lesbo, nell’Egeo nord-orientale, è colpita da una forte ondata di piogge. Le piogge si sono concentrate nella zona di Kalloni e nel villaggio costiero di Skala Kalloni, e hanno provocato allagamenti in diverse strade dell’isola. Le autorità hanno disposto la chiusura delle scuole e dispiegato le squadre di soccorso per evacuare i residenti bloccati nelle abitazioni. Sono stati inoltre segnalati danni al ponte bizantino di Kremasti.

Da “Fight the power” ai post filo-governativi: il cortocircuito del rap italiano

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L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Rondo da Sosa, giovane rapper milanese e idolo di migliaia di ragazzi. Rondo, all’anagrafe Mattia Barbieri, con già alcuni precedenti per rissa, guida senza patente e porto d’armi illegale, ha elogiato su X la nuova legge sulla legittima difesa, applaudendo la norma del governo e tributando il suo personale appoggio alle dichiarazioni di Giorgia Meloni. Ma a meritare un approfondimento non è tanto la vicenda di Rondo in sé, né tantomeno il tema specifico della legittima difesa, quanto una certa deriva che ha trasformato un genere nato nel Bronx come strumento di denuncia contro il potere in una musica commerciale come le altre, che non si fa problemi a flirtare con il potere e a valutare le possibili conseguenze negative in termini di fatturato prima di prendere qualsiasi posizione.

E mentre insigni giuristi ricordano alla premier e agli esponenti del governo che non è vero che “la difesa è sempre legittima”, e che la stessa legge prevede dei limiti precisi previsti nell’articolo 52 del Codice Penale, c’è un altro paradosso che non possiamo non sottolineare. Il rap, la musica che è nata per dare voce agli ultimi in Usa come in Italia, oggi viene utilizzata per far da grancassa al governo. “Complimenti a Giorgia Meloni per aver introdotto la nuova legge sulla difesa personale nella propria abitazione. Questa sì che è una legge seria”, è il tweet accompagnato dall’hashtag “se mi entrano in casa li accoppo”.

Forse in pochi di quelli che oggi ascoltano la trap, sanno che il rap è nato alla fine degli anni ’70 in quartieri come il Bronx, dove vivevano soprattutto afroamericani, latinos e immigrati. In un contesto di disuguaglianze, violenza, disoccupazione e abbandono urbano, le prime basi create mandando in loop parti di dischi allora a disposizione, erano la colonna di sonora di mega feste di quartiere, dove i giovani sparavano parole in rima per raccontare la propria realtà e ribellarsi al silenzio imposto dal sistema. L’evoluzione porta alla nascita dei primi gruppi e alle prime hit. Al grido di “Fuck tha police” degli NWA del 1988 risponde il “Fight the power” dei Public Enemy nel 1990. Il rap antisistema fa paura all’ordine precostituito perché non riesce a governarlo. Senza mettersi a fare l’esegesi della nascita del fenomeno hip-hop in Italia – per chi volesse approfondire sono stati scritti diversi ottimi libri – la miccia che accende la curiosità nel nostro Paese per questo mondo sconosciuto è la breakdance e per molti l’omonimo film del 1984 che porta anche ai primi approcci con questa nuova cultura. E quando il rap inizia a fare la sua comparsa, sul finire degli anni ’80, a fare da teatro alla nascita del futuro movimento sono i centri sociali.
Nel giugno del 1989 al Kantiere di Bologna si esibirono i New Velvet Underground, gruppo punk bolognese con un giovane batterista che si fa chiamare Jeff, ma che presto sarà conosciuto come Neffa. Tra i gruppi dell’epoca non si possono non citare gli Onda Rossa Posse (forse i primi a includere la parola posse nel nome), gli Assalti Frontali, gli Africa Unite, i Salento Posse (diventati Sud Sound System), i 99 Posse, Lou-X, i Casino Royale, Leleprox, i Radical Stuff e gli Almamegretta. E poi gli Isola Posse All Stars, dalle cui ceneri nascono i Sangue Misto che con l’album SXM segnano, sia per i suoni, sia per i contenuti, uno spartiacque con tutto ciò che era stato prima e sarà dopo.

Il rap allora è stato come il punk alla fine dei Sessanta: distruzione di regole precostituite. C’era l’indipendenza, l’onesta intellettuale e c’erano i contenuti. Le rime non erano tutte perfette, alcuni flow si potevano migliorare e per creare dei loop, campionare dei suoni e creare delle basi decenti ci si arrangiava. Ma, complici gli anni infuocati dal punto di vista politico, si dava voce a chi era contro perché i protagonisti del movimento erano contro per natura. Non ci si vergognava a essere “politicizzati”, come si dice con disprezzo oggi. Ma parlare di politica non significa solo citare partiti e correnti, vuol dire dare visibilità a questioni sociali, a ciò che ci succede intorno, per essere dei punti di riferimento per chi oggi non ne ha.

Così come Fabri Fibra – che pure è uno che si è sempre esposto – ha sbagliato a cantare “non è rap quello dei 99 Posse” in “Faccio sul serio” tanti anni fa, fa effetto leggere le dichiarazioni molto più recenti di Emis Killa, che ha detto: “Mi fa incazzare il messaggio che mi arriva spesso, quando ci sono argomenti importanti, non solo come la guerra ma di tipo politico, in cui si dice ‘voi che siete famosi dovete farvi sentire’. Faccio un ragionamento molto onesto: ma io mi devo esporre che ho tutto da perdere?”.

Posto che la risposta breve sarebbe: “Sì, esattamente”, quella un po’ più lunga dovrebbe passare da esempi del nostro passato recente che, per gli ideali in cui credevano, non solo hanno messo in discussione ciò che possedevano, ma la loro stessa vita. Immaginatevi di rivolgere la domanda di Emis Killa a personaggi come Gandhi o Mandela, come Thomas Sankara o Pepe Mujica, o ancora Thoreau o Julian Assange. Quale credete sarebbe la risposta?

Pakistan, attentato suicida a Islamabad: almeno 12 morti

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Almeno dodici persone sono rimaste uccise e 27 ferite oggi, 11 novembre, in un attentato suicida davanti a un tribunale di Islamabad, capitale del Pakistan. L’attacco, non ancora rivendicato, è avvenuto vicino a un’auto della polizia. Il ministro dell’interno Mohsin Naqvi ha dichiarato che l’attentatore si è fatto esplodere e che sono in corso le indagini per identificarlo. L’episodio segue un attacco nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan, che Islamabad accusa di essere «direttamente coinvolto». L’attentato riaccende la tensione tra Pakistan, Afghanistan e India, già protagonisti di recenti scontri armati.