venerdì 9 Maggio 2025
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In Polinesia sono stati scoperti dei coralli capaci di resistere al caldo

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Nella Polinesia francese, una missione scientifica sostenuta, tra gli altri, anche dall’UNESCO, ha scoperto un “super-corallo” capace di resistere a temperature superiori ai 30 gradi centigradi. La specie si trova nei pressi dell'atollo Tatakoto, situato a oltre 1.000 chilometri da Tahiti. Contro ogni previsione, le ricerche hanno dimostrato che decine di specie di coralli prosperano in questo ambiente instabile, a volte a un solo metro di profondità. La missione mirava a comprendere proprio i meccanismi di resilienza dei coralli di fronte alle pressioni ambientali, in particolare ai cambiamen...

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Confindustria esprime contrarietà al DL Bollette

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Il giorno successivo all’ok definitivo dell’Aula del Senato al Decreto Bollette, Confindustria ha espresso forte preoccupazione e contrarietà al testo a causa della «assenza di misure concrete a sostegno del cuore produttivo del Paese». L’organizzazione ha ricordato che «la bolletta di tutta l’industria italiana supera abbondantemente i 20 miliardi di euro all’anno» e che le imprese italiane «continuano a subire uno spread energetico che supera il 35% e che arriva anche a toccare punte dell’80% nel confronto con i Paesi europei». In ultimo, avverte che «è una situazione insostenibile per le imprese italiane» e «occorre agire con urgenza».

Dopo le disposizioni del governo molti Comuni cancellano le celebrazioni del 25 aprile

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Con la proclamazione di cinque giorni di lutto nazionale per la morte di papa Francesco, indetto dall’esecutivo Meloni dal 22 al 26 aprile, molti sindaci hanno colto l’invito governativo alla “sobrietà” per cancellare o ridimensionare le celebrazioni per l’80° anniversario del 25 aprile. Da nord a sud, Comuni di ogni colore politico hanno annunciato rinvii, annullamenti e restrizioni: cortei sospesi, musica bandita, manifestazioni ridotte all’osso. Quel senso di rispetto che il governo invoca si trasforma così in un terreno di scontro politico, risvegliando antiche tensioni – che oggi più che mai sembrano lontane dal potersi sopire – sulla natura stessa della Festa della Liberazione.

Eppure, a leggerlo bene, il decreto che ha formalizzato il lutto nazionale non impone lo stop alle commemorazioni: bandiere a mezz’asta e astensione da impegni sociali (eccetto le raccolte di beneficenza) sono le uniche prescrizioni. Il ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci, ha precisato che «tutte le cerimonie sono consentite naturalmente, tenuto conto del contesto e quindi con la sobrietà che la circostanza impone a ciascuno». Eppure, il richiamo alla «sobrietà» è stato subito interpretato come un utile escamotage per evitare manifestazioni che in molti Comuni conservatori – e non solo – non hanno mai visto di buon occhio. A Benevento il sindaco Clemente Mastella ha disposto la chiusura dei teatri e il divieto di musica all’aperto per la sera del 25 aprile, andando oltre le indicazioni ministeriali. Nel Bresciano, Ono San Pietro e Cividate Camuno hanno annullato i cortei, mentre a Domodossola la decisione ha attirato le critiche di Pd, Avs, M5S, Italia Viva e Volt. A Romano di Lombardia (Bergamo), il presidente del consiglio comunale ha vietato «brani musicali, inni e canti ad eccezione del Silenzio e dell’Attenti», inclusa “Bella ciao”, scatenando l’ira dell’ANPI locale e le critiche del gruppo regionale del PD. In molti casi, le tensioni erano esplose già prima del lutto. A Trieste la giunta aveva negato il patrocinio alla Festa della Liberazione organizzata dal Comitato 25 aprile; a Lissone l’amministrazione di centrodestra aveva rifiutato all’ANPI il permesso di esporre un drappo commemorativo.

A Legnano è stato annullato il concerto della band Punkreas. Anche Cesena ha cancellato il concerto del 24 aprile: in una nota Sinistra italiana Cesena ha osservato che «la proclamazione del lutto nazionale non impone necessariamente l’annullamento di eventi pubblici» e che «sospendere una celebrazione pubblica della Resistenza, anche in testimonianza di un lutto condiviso, significa mettere in secondo piano la memoria collettiva e i valori fondativi della nostra democrazia». A Ponte San Nicolò (Padova) il sindaco Gabriele De Boni, espressione di centrosinistra, ha annullato l’intero programma del 25 aprile, mantenendo solo «la messa in suffragio dei caduti e il momento commemorativo al monumento ai caduti». De Boni ha spiegato in una nota: «Le celebrazioni che avevamo preparato non potranno aver luogo così come pensate in quanto è stato istituto il lutto nazionale che impone ‘sobrietà’. Non entro nel merito della scelta del Governo, è una scelta di chi decide e come tale va rispettata, ma ancora una volta lascia agli amministratori locali la discrezionalità di come attuarla. Con i colleghi Sindaci ci stiamo confrontando e c’è tanto smarrimento. C’è chi dice nessun discorso, chi dice nessuna parata, chi dice niente in assoluto, chi dice che si faccia tutto… Per quanto mi riguarda credo sia doveroso onorare i caduti e celebrare l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo».

A Mogliano Veneto i consiglieri di minoranza hanno denunciato di «aver ricevuto dalla segreteria del Sindaco una comunicazione che annuncia modifiche al programma delle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della Liberazione, a seguito del lutto nazionale proclamato per la morte di Papa Francesco». I consiglieri spiegano che «nel messaggio si specifica che non si terranno ‘canti, musiche o celebrazioni solenni’» e «verrà cancellato il tradizionale corteo lungo via Pia e Piazza Duca d’Aosta». Aggiungono inoltre che «questa decisione segue la rimozione dei pannelli informativi dedicati alle donne della Resistenza, come ogni anno esposti sulla facciata del municipio» e di avere appreso del «tentativo da parte della Giunta di escludere anche l’intervento della presidente della sezione locale dell’ANPI». A Cinisello Balsamo la CGIL ha denunciato che il sindaco ha sospeso il comizio ANPI, ridotto la lunghezza del corteo e invitato i partiti a non esporre bandiere. A Cagliari il corteo è confermato, ma senza banda comunale. Persino gli Archivi di Stato hanno rinviato o annullato tutte le iniziative fino al 26 aprile, dopo una circolare interna.

Le opposizioni politiche hanno parlato di «attacco alla memoria». Angelo Bonelli (Avs) ha dichiarato che «il 25 aprile non è una festa in discoteca o un happy hour, ma il giorno della Liberazione dal nazifascismo». Gli ha fatto eco l’altro leader del partito, Nicola Fratoianni, che ha accusato il governo di mostrare «ancora una volta un’allergia alla Liberazione» e di considerare «inaccettabile» l’utilizzo della morte di papa Francesco per «sminuire il significato del 25 aprile». Il Partito Democratico, pur aderendo al lutto, ha chiesto «di sospendere e rinviare tutte le iniziative programmate» solo fino a oggi, non per il 25 aprile.

Suwayda dopo Assad: la sfida drusa per una Siria unita e libera

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È dal 9 dicembre 2024, il giorno successivo alla caduta del regime pluridecennale di Bashar al-Assad, che l’ampia maggioranza della comunità drusa di Suwayda – nel profondo sud della Siria – si dichiara pronta a lavorare per la creazione di uno Stato siriano unito e democratico. Anche gli israeliani, dal 9 dicembre scorso, non hanno perso tempo: hanno ampliato le terre occupate (dal 1967) sulle alture del Golan, bombardato città e stabilimenti militari siriani, e interferito nelle divisioni tra le comunità di un Paese che oggi aspira a ricostituirsi e a sanare cicatrici profonde.

Sono ancora molte le tensioni, culminate lo scorso primo marzo tra alcune forze armate filogovernative e la comunità drusa di Jaramana, un quartiere periferico di Damasco. Non è tardata ad arrivare la reazione di Netanyahu, che si è detto «pronto a difendere» le comunità druse minacciate dal «governo estremista e islamista siriano». Si tratta di un tassello della propaganda israeliana regionale, volta a raccontare un presunto desiderio separatista dei drusi dalla Siria. Ma la società civile drusa chiede una sola indipendenza: quella della Siria tutta, unita e libera da qualsiasi influenza straniera, compresa quella israeliana. «Rifiutiamo i separatismi e rivendichiamo l’integrità territoriale siriana» – così reagiva lo sceicco Hikmat al-Hijri, la più autorevole guida spirituale dei drusi siriani, alle bandiere israeliane issate per provocazione a Suwayda in seguito alle dichiarazioni di Netanyahu.

Il leader spirituale della comunità drusa in Siria, lo sceicco Hikmat al-Hijri

Pressioni esterne e compromessi forzati

Le minacce del premier israeliano hanno senz’altro accelerato le trattative con il governo ad interim su un accordo di unità – siglato il giorno dopo lo storico patto con le forze curdo-siriane del Rojava – su cui Ahmed al-Sharaa, l’autoproclamato presidente, temporeggiava ormai da mesi. I servizi di sicurezza di Suwayda saranno collegati al ministero degli Interni del governo di Damasco, ma la polizia locale sarà composta esclusivamente da residenti della comunità drusa. Sebbene siano stati i comandanti del consiglio militare di Suwayda a firmare l’accordo con al-Sharaa, lo sceicco al-Hijri ha preso le distanze anche da questa iniziativa. «Con l’attuale amministrazione non può esserci riconciliazione. Sono estremisti settari», ha dichiarato all’indomani dell’accordo stipulato con Damasco.

Ma facciamo qualche passo indietro. Sono entrato a Suwayda quando la Siria stava ancora festeggiando la cacciata del tiranno Assad. I drusi avevano già ottenuto un’autonomia de facto dal regime da ormai più di quattro anni, coordinando militarmente le forze armate popolari, un tempo divise in decine di milizie indipendenti. «Gli ufficiali del governo c’erano, ma scaldavano le sedie e rimanevano chiusi tra le mura delle zone militari, senza alcuna autorità e senza potere», mi confida Hazem mentre lasciamo la capitale per dirigerci verso il capoluogo della regione drusa.

Suwayda si raggiunge in due ore di bus da Damasco. In tutta la regione, il terreno e le pietre delle costruzioni antiche sono di un nero scuro per via degli ex vulcani, ormai diventati montagne, che quando arriviamo sono coperte da un sottile strato di neve. Incastonata nel profondo sud del Paese, al confine con la Giordania, era uno snodo molto importante per la rotta internazionale del Captagon. Anche per questo Assad aveva estremo bisogno di controllarla, riducendo all’osso l’attività economica. Prima dell’accordo siglato con il governo ad interim, la comunità di Suwayda era sospesa nel tempo, in attesa di capire il suo ruolo nella ricostruzione del Paese e nella difesa dalle minacce esterne. Qui non c’è Hay’at Tahrir al-Sham (HTS): comandano ancora i drusi, un popolo combattivo, non disposto ad abbassare la testa davanti ai despoti. «Il leader della resistenza contro l’oppressione coloniale francese era un druso di Suwayda», racconta Mirouat Anohamza, scrittrice e poetessa, a L’Indipendente. «Siamo forti perché siamo uniti. Noi ci fidiamo del governo, ma ci serve che anche loro si fidino di noi. Per adesso stanno mettendo in posizioni di potere soltanto musulmani sunniti di Idlib», aggiunge.

A Suwayda, e nei villaggi circostanti, vivono circa mezzo milione di drusi, quasi la metà di questa comunità nel mondo. Gli altri sono sparsi tra Giordania, Libano e Palestina/Israele. In Siria compongono il 3% della popolazione e, a differenza dei curdi, i drusi sono arabi. Nello specifico si tratta di una minoranza che ha aderito a un pensiero esoterico e crede nella reincarnazione. I drusi sono discendenti di una corrente sciita ismaelita. Hanno una società civile laica, ma le figure religiose svolgono un ruolo politico centrale. Si tratta di una comunità ristretta: per una persona drusa è infatti vietato sposare qualcuno al di fuori della comunità.

La gente di Suwayda vuole far parte della Siria, ma è pronta a lottare per mantenere integra la propria identità. «Difenderemo i drusi ovunque essi siano, siamo un tutt’uno dal Libano alla Giordania. Anche a Jaramana sono tutti nostri fratelli e parenti», spiega un esponente del consiglio militare di Suwayda a L’Indipendente, riferendosi agli scontri avvenuti a marzo contro alcuni uomini fedeli ad al-Sharaa.

«Difenderemo la nostra identità indipendentemente da ciò che accade a Damasco», sottolinea Anohamza, facendo intendere che, comunque avanzerà il processo di unità del Paese, la parziale autonomia e la relativa decentralizzazione di determinati organi istituzionali saranno imprescindibili per la popolazione locale. I drusi di Suwayda la libertà se la sono conquistata dopo decenni di sottomissione e – similmente ai curdi – si immaginano una Siria democratica con il potere più distribuito e meno concentrato a Damasco. La loro storia spiega da sé il perché di questo bisogno. «Storicamente i siriani ci hanno ritenuti vicini ad Assad perché, quando nel 1925 i francesi volevano separare Suwayda dal resto del Paese, noi ci siamo opposti», spiega a L’Indipendente M.S., attivista che ha passato anni nelle prigioni del regime. «Assad ci temeva però, per via della nostra indole combattiva», continua M.S. «È per questo che fino alla rivoluzione, Suwayda è stata sempre ghettizzata a livello economico», si inserisce di nuovo Anohamza.

Una delle tante grandi proteste dei drusi contro il regime di Assad

Resistenza e isolamento sotto il regime

Man mano che le violenze del regime venivano smascherate, i nodi di decenni di tirannia venivano al pettine, e questo ha creato spazio affinché le persone iniziassero a lottare per l’autonomia. «Nel 2016 i soldati drusi hanno deciso che non avrebbero più combattuto per Assad», spiega un giornalista druso di Syria TV a L’Indipendente. La strategia del regime diventava sempre più focalizzata sull’impoverimento della gente per costringerla a lasciare la città. Man mano che le milizie druse prendevano forza, diventava sempre più rischioso uscire da Suwayda. Da allora fino alla caduta del regime, la città è diventata a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto. «All’epoca i nostri giovani o riuscivano a scappare, o li prendeva il regime, talvolta non abbiamo più avuto loro notizie», dice Abdul, avvocato di Suwayda, a L’Indipendente. «Dal 2016 non potevamo uscire dalla città. Dopo anni di stenti ho scelto di scappare per andare in Libano, ma al confine mi hanno catturato e messo in un carcere militare per tre mesi, per poi obbligarmi a servire nell’esercito». La storia di Hazem è molto simile a quella di migliaia di giovani drusi, diventati negli ultimi anni un target del regime per rimpolpare un esercito sempre più povero.

È nel 2020 che le forze armate druse della regione si uniscono sotto la guida delle milizie Karama (dall’arabo “dignità”), omonime del movimento che dallo stesso anno ha guidato le incessanti proteste contro il regime, ignorate dalla stampa internazionale. «Nel 2020 abbiamo preso la città», riprende Kinan Alprihe, giornalista di Syria TV. «Qui non abbiamo le bombe, il nostro problema è la sopravvivenza. Ci manca il cibo, anche per questo scappiamo», aggiunge Abdul, seduto affianco a lui. Ma la comunità drusa, prima di scappare, lotta. Dal 2023 le piazze della regione erano piene ogni giorno. Le proteste, iniziate per richiedere migliori servizi pubblici, si sono presto trasformate in un moto finalizzato alla caduta del regime. «Ci eravamo detti che avremmo lottato fino alla fine della tirannia di Assad», mi racconta Hazem. Così è stato. «La maggior parte di noi prima era considerata un alleato dell’ex regime. Abbiamo resistito e ora ci considerano dei ribelli», riprende Kinan.

Oggi la disponibilità a costruire la Siria democratica c’è, ma non a cedere i diritti conquistati. La maggior parte delle donne a Suwayda non indossa il velo e non accetterà nessun governo intento a imporglielo. «Quando il nuovo governo ci ha chiesto di nominare un rappresentante, abbiamo votato Muhsina al-Mahitawi, una donna. Ma la loro scelta è poi ricaduta su uno dei loro uomini in città», spiega una scrittrice di Suwayda a L’Indipendente.

«Damasco non ci dà garanzie. Il governo opera con la mentalità del partito unico», ci racconta lo sceicco Hikmat al-Hijri. Nonostante gli accordi di unità che il governo ha firmato con la comunità drusa e con l’SDF, non tutti a Suwayda hanno la stessa fiducia nei confronti di al-Sharaa. «Oggi i massacri su base etnica mossi da odio settario portati avanti da fazioni vicine al governo continuano», riprende al-Hijri, «soltanto la Siria di Assad è stata settaria: come Paese prospereremo se valorizziamo la diversità, non se la reprimiamo».

Solo il tempo ci mostrerà se l’atto di fiducia che il presidente ha concesso ai curdi e ai drusi si estenderà a tutte le comunità che compongono il mosaico della società civile siriana, e non solo a chi è ben armato. Questo sarà misurato dai progressi sulla Conferenza Nazionale che dovrebbe portare a una costituente, nella quale per ora né i curdi nel Nord-Est né i drusi nel Sud sono stati ufficialmente inclusi.

Tra speranze di unità e nuove minacce

Intanto l’altro tema urgente su cui il nuovo governo deve offrire soluzioni presto è l’integrità territoriale. La tensione è ancora alta sia a Nord, con le milizie filo-turche, sia a Sud, con l’occupazione israeliana che avanza. Per alcuni, il vero obiettivo di Israele è quello di rendere il Sud una zona cuscinetto tra lo Stato ebraico e la nuova Siria di al-Sharaa. «Vogliono creare un muro con la nostra gente tra loro, Hezbollah e l’Iran. Non vogliono la nostra terra», mi confida A., cittadino di Suwayda che, come tutti coloro che mi parlano di Israele, chiede che il suo nome non venga riportato. «Molti hanno paura dello Stato ebraico. La maggioranza invece si rifiuta di sottostare alle loro angherie. Non ne parliamo molto perché abbiamo paura che acquisisca centralità nel nostro dibattito pubblico», mi confida M. a bassa voce in un caffè nel centro di Suwayda. «Da sempre vogliamo essere parte della Siria», continua, «siamo con al-Sharaa se vorrà creare un Paese in cui tutti hanno i propri diritti».

Nelle piazze della regione, le numerose manifestazioni contro le violenze di Israele dicono chiaramente da che parte sta la gente. D’altronde conoscono la loro storia. Nel 2017 Yossi Cohen, ex capo del Mossad, ha dichiarato che «la Siria non tornerà a essere uno Stato unito». Similmente l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett, nel 2018, affermava che «ci devono essere entità indipendenti che riflettano la diversità settaria ed etnica. La Siria deve rimanere debole e divisa per il bene di Israele». «Già dal 1963», racconta a L’Indipendente A., guardandosi intorno, «Israele ha detto che una parte della Siria doveva andare ai drusi».

Nonostante ciò, c’è una parte della popolazione che si sente ancora minacciata da Damasco, oltre alla povertà lacerante che cresce e alimenta il discontento, e Israele lavora sempre più alla luce del sole. «Adesso a Suwayda alcune persone dicono apertamente di prendere soldi da Israele. Se prima la cosa era tenuta nascosta, ora sta emergendo», spiega F., militante del Partito Comunista Siriano a L’Indipendente. «Nessuno attacca al-Hijri, che è connesso agli americani, perché non si vuole sangue all’interno della nostra comunità», aggiunge. Sono infatti significative le parole di un membro del consiglio militare di Suwayda che ha riferito a L’Indipendente che «Israele non può essere considerato un nemico». Sempre più persone iniziano a pensarla così, dando spago alla strategia di Israele, che si sta insinuando con successo nelle divisioni del Paese. Qui come altrove, il futuro è nelle mani del popolo siriano e della società civile, che dopo decenni di guerre e massacri, vuole conquistare l’unità.

Bosnia, sospesi i finanziamenti al partito di Dodik

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L’Alto Rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Christian Schmidt, ha ordinato la sospensione di tutti i finanziamenti al partito del leader secessionista della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (o Repubblica Srpska), Milorad Dodik, ricercato dalle autorità statali. Secondo le leggi bosniache, ogni partito in parlamento riceve finanziamenti di bilancio proporzionali ai consensi. L’annuncio di Schmidt, l’autorità incaricata di supervisionare il rispetto degli accordi che posero fine alla guerra nel Paese, arriva dopo l’emissione del mandato di arresto contro Dodik e altri due leader della Repubblica Repubblica Srpska, entità a maggioranza serba del Paese. I tre sono accusati di avere “attaccato l’ordine costituzionale”.

Gaza: l’ONU e tre Paesi UE contro il blocco degli aiuti umanitari di Israele

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Da oltre cinquanta giorni, migliaia di camion carichi di cibo, acqua e medicine restano bloccati al confine di Gaza. Dall’altra parte, oltre due milioni di civili – la maggior parte donne e bambini – affrontano una situazione drammatica, tra ospedali al collasso, panifici chiusi e scorte alimentari praticamente azzerate. Mentre la fame dilaga, cresce la pressione internazionale contro Israele: Francia, Regno Unito e Germania, con una dichiarazione unitaria, hanno denunciato apertamente il blocco, mentre l’ONU parla espressamente di una «punizione collettiva». Il Commissario generale dell’UNRWA, Philippe Lazzarini, non ha usato mezzi termini, parlando di Gaza come di «una terra di disperazione», in cui gli aiuti umanitari «vengono usati come merce di scambio e arma di guerra».

Nella loro dichiarazione congiunta del 23 aprile 2025, i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto E3) hanno lanciato un appello diretto al governo Tel Aviv: «Israele blocca l’ingresso a Gaza degli aiuti umanitari da oltre 50 giorni. I prodotti di prima necessità sono esauriti o lo saranno presto. I civili palestinesi, tra cui un milione di bambini, sono esposti a un grave rischio di carestia, epidemie e morte. Questa situazione deve cessare». I tre Paesi chiedono il «ripristino del rapido e libero accesso degli aiuti umanitari a Gaza» e definiscono «intollerabile» la decisione israeliana di bloccare gli ingressi. In particolare, condannano le parole del ministro israeliano degli Esteri Israel Katz, che ha recentemente dichiarato che l’invio di aiuti dipenderà dal rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas. «La fornitura di aiuti umanitari non deve mai essere strumentalizzata a fini politici», ammoniscono i tre ministri, «e il territorio palestinese non può essere ridimensionato né subire alcuna modifica demografica forzata». Sul campo, la situazione è tragica. Secondo le Nazioni Unite, sono rimasti solo 250 pacchi alimentari disponibili in tutta Gaza. L’UNRWA ha denunciato che «la farina è finita, i panifici stanno chiudendo, gli ospedali sono al collasso senza carburante né medicine e i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati vertiginosamente». Sul piano politico, Francia, Regno Unito e Germania rilanciano il processo diplomatico: «Esortiamo tutte le parti a raggiungere un cessate il fuoco, che è essenziale. Continuiamo a chiedere ad Hamas di liberare immediatamente tutti gli ostaggi ancora detenuti, che stanno subendo terribili sofferenze». Ma ricordano anche che «il personale umanitario deve poter fornire assistenza a chi ne ha più bisogno, indipendentemente dalle parti in conflitto e in conformità con i principi umanitari».

Il Ministero della Salute di Gaza ha sottolineato il prezzo «pericoloso e catastrofico» per le donne e i bambini che soffrono di malnutrizione, molti dei quali non hanno cibo adeguato, acqua potabile e latte in polvere. Dall’inizio del blocco, circa 3.000 camion carichi di aiuti salvavita, preparati dall’UNRWA, sono fermi al valico di Rafah. Philippe Lazzarini parla apertamente di una strategia calcolata: «La fame si sta diffondendo e aggravando, in modo deliberato e provocato dall’uomo». E aggiunge: «Due milioni di persone, in maggioranza donne e bambini, stanno subendo punizioni collettive». A peggiorare il quadro, ci sono gli attacchi israeliani contro operatori umanitari. I governi di Parigi, Berlino e Londra hanno condannato esplicitamente gli «attacchi delle forze armate israeliane contro il personale, le infrastrutture, gli impianti e le attrezzature sanitarie delle organizzazioni umanitarie». Hanno ribadito che «Israele deve fare molto di più per proteggere i civili, le infrastrutture e gli operatori umanitari», chiedendo il ripristino dei «meccanismi di risoluzione dei conflitti» e la libera circolazione del personale umanitario nella Striscia. Nonostante tutto, l’UNRWA continua a operare sul territorio. Otto centri sanitari e 39 punti medici sono ancora attivi e gestiscono circa 15mila visite al giorno. Si raccolgono rifiuti, si fornisce acqua potabile, si avviano campagne di donazioni di sangue per sostenere gli ospedali. Ma senza carburante e medicine, anche questi sforzi rischiano di diventare inutili.

A metà aprile, il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha delineato un programma «chiaro e inequivocabile» delle forze di Tel Aviv su Gaza, imperniato su alcuni punti fondamentali: occupare in maniera permanente la Striscia e bloccare tutti gli aiuti umanitari alla popolazione, proseguendo nel mentre con bombardamenti ininterrotti. Negli scorsi giorni, il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite ha avvertito che il sistema di aiuti umanitari è sull’orlo del collasso e la carestia incombe. In quello che è da mesi un teatro degli orrori, dove l’acqua è un miraggio e i generatori rimangono spenti, due milioni di persone sono infatti ridotte a ostaggi affamati, privi di medicine e protezione. Nel frattempo, non si ferma l’ondata dei bombardamenti israeliani, sempre più distruttivi. In sole 24 ore, sono stati uccisi almeno 50 palestinesi. Stamane, gli aerei israeliani hanno bombardato il mercato di Jabalia, nel nord di Gaza, uccidendo almeno sette persone.

Foie gras etico? L’ennesimo business per l’industria alimentare

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In questi giorni si è diffusa la notizia di un gruppo di ricercatori tedeschi dell’Istituto Max Planck, guidati dal fisico Thomas Vilgis, i quali avrebbero trovato finalmente il modo di produrre il foie gras (letteralmente “fegato grasso”) senza impiegare pratiche crudeli di alimentazione forzata nei confronti di oche e anatre, volatili da cui attualmente si ricava questo prodotto. La “scoperta” prevede che il fegato di oche e anatre nutrite normalmente venga mescolato al fegato e al grasso prelevati dagli stessi uccelli e trattato con gli enzimi lipasi, ottenendo così – con un processo controllato in laboratorio – un prodotto quasi del tutto identico, per consistenza e sapore, al foie gras tradizionale. Gli esiti di questo esperimento chimico sono stati pubblicati sulla rivista Physics of Fluids dai ricercatori dell’Istituto Max Planck. 

In realtà, al di là dei facili trionfalismi a cui ha fatto subito eco la stampa mainstream, in questa “scoperta” non sembra esserci assolutamente nulla di etico. La realtà è che, semplicemente, si passerebbe dall’attuale sfruttamento crudele di oche e anatre ad un’altra forma di produzione altrettanto poco etica, basata ancora sullo sfruttamento di questi volatili. Vediamo meglio come stanno le cose.

La produzione attuale del foie gras

Lavorazione del foie gras

Il metodo attuale per produrre foie gras è basato sull’alimentazione forzata di oche e anatre attraverso lunghi tubi a pompa idraulica o pneumatica, che vengono inseriti nella bocca e fino allo stomaco degli animali, per poi spruzzare a pressione una poltiglia di cibo grasso molto calorico (gavage, in francese, la patria del foie gras, o force-feeding in lingua inglese). Gli uccelli sono ingozzati due volte al giorno. Questo è il metodo industriale attualmente in uso per la produzione del patè di foie gras. La Francia è il primo produttore e consumatore al mondo, seguita da Belgio, Spagna, Bulgaria, Ungheria. Va detto che molti altri Stati hanno vietato la produzione di foie gras con questi metodi: l’Italia è uno di questi (il divieto da noi esiste dal 2007). 

Attraverso questa modalità di alimentazione forzata e crudele si induce forzosamente negli animali una malattia del fegato, la steatosi epatica. Dopo lo shock dell’ingozzamento, gli animali sono soggetti a diarrea e a convulsioni; il funzionamento del fegato è compromesso, l’animale soffre e non riesce a regolare la temperatura del corpo; le dimensioni del fegato superano di 10 volte quelle di uno normale, rendendo così difficile la respirazione e doloroso ogni movimento. Le sacche polmonari sono compresse, il centro di gravità dell’animale spostato. Il rapporto del 1998 del Comitato Scientifico Veterinario istituito dalla Commissione europea menziona dei tassi di mortalità anche da 10 a 20 volte più elevati per gli animali ingozzati rispetto a quelli allevati senza ingozzamento.

Il “metodo etico” del futuro

Ora analizziamo con franchezza e obiettività il nuovo metodo “etico”. Leggendo direttamente le parole dei ricercatori dal loro studio intitolato Patè di foie gras senza ingozzamento si afferma che «un modo efficace per evitare l’alimentazione forzata e la gavage è quello di utilizzare i fegati degli animali macellati e il loro grasso naturale sottocutaneo fuso e trasformarli in un prodotto simile al paté di foie gras senza l’aggiunta di proteine, emulsionanti o grassi provenienti da altre fonti. Il risultato principale di questo studio è stata la produzione di successo di paté di fegato d’anatra puro».

In pratica, ciò che gli scienziati dicono è che, per produrre patè di fegato cruelty free, bisognerà direttamente procedere ad ammazzare le oche e le anatre – chiaramente, continuando ad allevarle in maniera intensiva, per soddisfare le esigenze della produzione industriale, continuando a sfruttare in maniera insensata gli animali. Il comportamento naturale degli animali sarebbe infatti quello di migrare, nella stagione autunnale, per migliaia di chilometri, alimentandosi spontaneamente in base alle esigenze e accumulando riserve di energia. Questo sarebbe possibile anche nel caso in cui gli animali venissero allevati in stabilimenti allìaperto, senza capannoni. Invece, secondo la logica capitalista che tutto sfrutta, per produrre foie gras “etico” bisogna insistere con l’allevamento industriale, confinando gli animali in strutture chiuse e ridurre i loro spazi di libertà.

Corea del Sud, ex presidente Moon Jae-in incriminato per corruzione

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L’ex presidente sudcoreano Moon Jae-in è stato incriminato oggi per corruzione. Secondo l’accusa, durante il suo mandato – fu in carica tra il 2017 e il 2022 – Moon Jae-in avrebbe agevolato la nomina dell’ex parlamentare Lee Sang-jik alla guida della Korea SMEs & Startups Agency (KOSME), agenzia non profit finanziata dall’esecutivo. In cambio, si sarebbe assicurato l’assunzione del suo ex genero alla compagnia aerea thailandese Thai Eastar Jet, di cui Lee era amministratore delegato. Lo stipendio incassato dal genero dell’ex presidente sarebbe stato dunque inquadrato come una tangente.

I portuali marocchini boicottano l’invio di armi a Israele in solidarietà con la Palestina

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In un atto di solidarietà con il popolo palestinese, i portuali marocchini hanno rifiutato di operare su una nave della ditta di trasporto danese Maersk sospettata di trasportare componenti destinati agli aerei da guerra F-35. Quando la nave è arrivata al porto di Tangeri Med, i lavoratori si sono rifiutati di avviare le gru e di fornire i servizi portuali essenziali alla nave Nexoe Maersk. La protesta è arrivata dopo giorni di analoghe manifestazioni che hanno coinvolto cittadini e portuali di diverse città marocchine. Il boicottaggio è stato promosso da tre sindacati dei lavoratori portuali marocchini per protestare contro la normalizzazione dei rapporti tra il governo del Paese e Israele.

Il boicottaggio della nave Maersk nel porto di Tangeri Med è avvenuto domenica 20 aprile. Secondo un’inchiesta di Declassified UK e The Ditch, che hanno visionato documenti in esclusiva, la nave trasporterebbe «silenziosamente» componenti di F-35 verso Israele. I dati indicherebbero che le merci proverrebbero dallo stabilimento 4 dell’aeronautica militare statunitense di Fort Worth e sarebbero state caricate a Houston a bordo di due navi portacontainer Maersk, Nexoe Maersk e Maersk Detroit. I documenti indicherebbero l’arrivo del carico in due distinte date: una passata, il 5 aprile, e una sempre più vicina, il 1° maggio. Le navi dovrebbero portare i materiali ad Haifa, da dove verrebbero poi trasportati da un’altra società verso la base aerea di Nevatim, nel deserto del Negev, sede della flotta di F-35 dell’aviazione israeliana.

La nave Nexoe Maersk è in viaggio da settimane, e ha incontrato proteste durante l’attracco nei porti lungo la costa atlantica americana e nel Mediterraneo sotto la giurisdizione marocchina. A lanciare la mobilitazione in Marocco sono stati tre sindacati portuali del Paese, tra cui l’Unione dei Portuali marocchini, che in una dichiarazione condivisa da The New Arab ha denunciato senza mezzi termini che «chiunque faciliti il ​​passaggio di questa nave è, senza dubbio, un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese», chiedendo alle autorità bloccarne l’arrivo. I cittadini e i lavoratori marocchini si sono così sollevati a Rabat, Tangeri e Casablanca, e il 18 aprile, in occasione dell’arrivo di Nexoe Maersk nel porto di quest’ultima città, hanno provato a fermarne l’attracco. La protesta si è tenuta per le strade di Casablanca e la polizia ha chiuso l’accesso al porto, scontrandosi con i manifestanti. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato raggiunto da oltre 1.500 persone e la nave è stata respinta da 18 dei 20 addetti al controllo remoto delle gru. Al cambio di turno, altri 27 dei 30 addetti previsti si sono aggiunti alla protesta, bloccando i lavori sull’imbarcazione.

Le proteste contro la nave di Maersk fanno parte della campagna “Mask off Maersk” e del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti – tra cui proprio componenti di F-35 – a Israele. Diversi rapporti provano infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi. Per tale motivo, Oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno chiesto con una lettera congiunta ai governi coinvolti nel programma Joint Strike Fighter di interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, inclusi proprio i caccia F-35. Il programma Joint Strike Fighter è sottoscritto solo da Stati firmatari del Trattato sul commercio di armi (ATT), che prevede l’interruzione del commercio diretto e indiretto di attrezzature e tecnologie militari, comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto internazionale dei diritti umani».

Dazi, altri 12 Stati USA fanno causa a Trump

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Dopo l’annuncio della California, altri 12 Stati degli USA hanno deciso di fare causa all’amministrazione Trump contro la scelta di imporre dazi su tutto il mondo. Gli Stati coinvolti sono Arizona, Colorado, Connecticut, Delaware, Illinois, Maine, Minnesota, Nevada, New Mexico, New York, Oregon e Vermont. Guidati dal governatore di New York, essi accusano Trump di aver fatto un uso illegittimo dell’International Emergency Economic Powers Act nell’imporre le tariffe a vari Paesi del mondo, esattamente come fatto dal governatore californiano Gavin Newsom.