domenica 23 Novembre 2025
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216 minorenni uccisi: la guerra di Israele ai bambini palestinesi in Cisgiordania

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Palestina Occupata – Murad Fawzi Abu Seifen aveva 15 anni. I soldati israeliani l’hanno ucciso la sera del 5 novembre a Al-Yamoun (nordovest di Jenin) sparandogli tre proiettili nel cranio da una distanza di 60/80 metri. Poi hanno impedito all’ambulanza di raggiungere il luogo e ne hanno sequestrato il giovane corpo, caricandolo sulla jeep militare e allontanandosi dalla città, impedendo alla famiglia di fare l’ultimo saluto all’adolescente e di seppellirlo. Anche Yamen Hamed Yousef Hamed aveva 15 anni. È stato ucciso da un proiettile delle IDF che gli ha trapassato il torace mentre camminava in uno degli ingressi della sua città, Silwad. Era il 30 ottobre. Almeno 10 proiettili sono stati sparati verso il gruppo di ragazzini dalle forze di occupazione durante uno dei loro continui raid. Gli israeliani l’hanno lasciato sanguinare per circa mezz’ora, impedendo all’ambulanza di raggiungere il luogo e sparando contro i residenti che cercavano di avvicinarsi. Jameel Atef Jameel Hanani di anni ne aveva 17. E’ stato ucciso da un soldato israeliano appostato all’interno di un blindato militare israeliano intorno alle 22 del 2 novembre nella città palestinese di Beit Furik, a est di Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata. Gli hanno sparato da 50/70 metri di distanza, nell’addome. È morto in ospedale poco dopo.

Questi sono solo gli ultimi tre dei 216 bambini uccisi secondo l’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) dai soldati d’Israele dal 7 ottobre 2023, in quella che è una vera e propria guerra all’infanzia qui, in Cisgiordania occupata. Come a Gaza, lo sterminio dei bambini è una politica di guerra che non conosce pietà né limiti e l’esecuzione di minorenni è una prassi. Sono almeno 44 i minori uccisi dall’inizio del 2025, ossia 1 su cinque dei palestinesi assassinati in Cisgiordania.

La guerra ai bambini

Già nel dicembre del 2023, l’UNICEF aveva riportato che lo sterminio di bambini palestinesi in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, aveva raggiunto «livelli senza precedenti». Nei tre mesi successivi al 7 ottobre 2023, Israele aveva già ucciso 83 bambini palestinesi in Cisgiordania, più del doppio di quelli uccisi nell’intero 2022, che era già considerato uno degli anni con il maggior numero di minorenni palestinesi assassinati. Almeno 576 bambini erano rimasti feriti durante lo stesso periodo.

«Le forze israeliane stanno uccidendo i bambini palestinesi con brutalità e crudeltà su tutto il territorio palestinese occupato», ha dichiarato il direttore della DCIP (Defence for Children International Palestine) Khaled Quzmar. «Né una singola persona è stata dichiarata responsabile dell’omicidio di questi bambini, incoraggiando le forze israeliane a continuare impunite», ha detto Said Abu Eqtaish, anch’egli della DCIP. I video e le testimonianze riportate mostrano infatti una deliberata missione omicida delle IDF nei confronti dei minori. Omicidi mai puniti, anzi. Spesso celebrati come vittorie.

Mohammed Bahjat Mohammad Hallaq aveva solo 9 anni. Stava giocando a calcio con altri bambini nel villaggio di Al-Rihiya, a sud di Hebron, quando due jeep militari israeliane hanno fatto irruzione nella cittadina. I soldati hanno iniziato a lanciare gas lacrimogeni e proiettili veri contro i ragazzini, che sono scappati via. È stato allora che un soldato si è inginocchiato e ha sparato un solo colpo verso Mohammed, da 200 metri di distanza, trapassandolo da parte a parte. Era il 20 ottobre 2025. Vari testimoni dicono di aver visto il soldato alzare l’arma verso il cielo in segno di vittoria, mentre il bambino cadeva a terra. Altri due proiettili furono sparati contro un altro ragazzino che aveva tentato di soccorrerlo.
Il video che mostra la morte di Saddam Hussein Iyad Mohammad Rajab è scioccante. Una telecamera di sicurezza ha ripreso il bambino di 10 anni mentre, il 31 gennaio del 2025, un soldato israeliano gli ha sparato all’addome durante un incursione a Tulkarem. Il padre del bambino fu detenuto circa un’ora mentre cercava disperato di portare il figlio all’ospedale. Anche l’ambulanza fu trattenuta e rallentata durante il trasferimento del bimbo a Nablus. Fu lì che un soldato ha detto al padre di Saddam: «Sono io che ho sparato a tuo figlio. Se Dio vorrà, morirà».

Una crudeltà non nuova, se si pensa al genocidio tuttora in corso a Gaza, dove Israele ha ucciso almeno 20mila bambini nei primi 23 mesi di guerra. Più di un bambino ogni ora, circa il 2% di tutta la popolazione infantile gazawi. E ne ha feriti almeno 42.011, lasciando 21mila bambini con amputazioni e disabilità permanenti. Ma sono migliaia i minori che ancora mancano all’appello, forse ancora dispersi sotto le macerie di una Striscia quasi completamente distrutta.

Il numero più alto di detenzioni di bambini dal 2016

La guerra ai bambini palestinesi in Cisgiordania assume anche il volto della detenzione, un’arma da sempre utilizzata dallo Stato sionista per terrorizzare e torturare i giovani palestinesi. Sono circa 360 i minorenni della Cisgiordania trattenuti nelle carceri israeliane, quasi la metà senza accuse né processo. Si tratta del più alto numero di bambini detenuti dal 2016. Il 41% sono in “detenzione amministrativa”, ossia una forma di incarcerazione che non necessita di motivazioni né processi. Circa 140 i minori imprigionati sulla base di prove segrete, sconosciute sia a loro che ai loro avvocati, e la loro detenzione può essere rinnovata a tempo indeterminato. A essi si aggiungono circa 115 giovani palestinesi trattenuti nelle carceri sioniste perché trovati illegalmente nel “territorio israeliano”. Secondo l’ONG Save the Children, sono circa 10mila i bambini che sono stati detenuti nelle galere di Tel Aviv negli ultimi 20 anni.

«Questa è una tattica per controllare i bambini palestinesi, per impedirgli di crescere normalmente e di avere una educazione, un futuro» ha detto Kathryn Ravey, parte di DCIP, ad Al Jazeera. «Ogni anno Israele perseguita tra i 500 e i 700 bambini nelle corti militari. Un abuso sistematico che va contro ogni forma di diritto e di giusto processo». I bambini rischiano infatti anni di prigionia per aver lanciato una pietra – reato per la quale la pena arriva a 20 anni – o perché semplicemente accusati di aver reagito contro i carri armati che invadevano il loro quartiere o villaggio, senza nessuna prova. Nonostante l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est sia riconosciuta come illegale e condannata dall’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia, nonostante secondo il diritto internazionale un popolo sotto occupazione ha il diritto di resistere – anche con le armi -, Israele imprigiona e tortura anche i bambini che rispondono con le pietre alla sua violenza.
Le condizioni delle carceri infatti sono durissime; i detenuti testimoniano violenze sistematiche, come botte, assenza di cibo, vestiti, cure mediche.

Ayham al-Salaymeh, 14 anni, è diventato il più giovane palestinese a scontare una pena in carcere a dicembre del 2024, dopo aver passato un anno e mezzo di domiciliari. Suo padre ha espresso preoccupazione per la salute di Ayham in carcere, sottolineando che ex detenuti che pesavano più di suo figlio avevano perso decine di chili di peso. «Il ragazzo ora pesa 30 kg, dopo un anno di prigionia, cosa gli succederà?» ha detto in un video diventato virale. Walid Ahmed, 17 anni, è morto nel carcere di Megiddo pochi mesi dopo. Secondo l’autopsia, la prima causa di morte è stata la fame, legata alla mancanze di cure mediche.

Grazie a una nuova legge approvata alla Knesset a novembre 2024, le autorità israeliane sono ora autorizzate a detenere palestinesi dai 12 anni in su se riconosciuti colpevoli di omicidio terroristico, omicidio colposo o tentato omicidio. Una misura che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, è motivata dalla vendetta piuttosto che da esigenze di sicurezza. Secondo la legge, approvata come misura temporanea e della durata di cinque anni, i minori condannati possono essere detenuti in strutture chiuse fino al compimento dei 14 anni, dopodiché possono essere trasferiti in carceri ordinarie. Una legge identica, approvata nel 2016, era scaduta nel 2020.

Una guerra totale all’infanzia, fatta di uccisioni, reclusioni, ma anche trasferimenti forzati e privazioni di casa, scuola, sicurezza. Questa è la vita dei bambini in Cisgiorania: anche se. in netto peggioramento dal 7 ottobre 2023, tali condizioni hanno sempre caratterizzato la repressione israeliana dall’occupazione del 1967. Ad oggi, sono migliaia i bambini che hanno dovuto lasciare la propria casa – o che non hanno più una casa – a causa delle operazioni militari di Tel Aviv nei campi profughi di Jenin e Tulkarem. Altri centinaia i bambini rimasti per strada per le demolizioni forzate aumentate a dismisura in questi ultimi due anni. Senza parlare di tutte le conseguenze che queste politiche di sfollamento forzato e detenzione implicano: assenza di educazione, traumi psicologici, distruzione del futuro. Una guerra ai bambini a cui nessuno sembra riuscire, o volere, mettere un punto.

Elicottero precipitato tra Marche e Toscana: trovato il relitto, 2 morti

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Un elicottero privato partito da Venezia e diretto a Castiglion Fiorentino (Arezzo) è precipitato domenica pomeriggio sulle montagne al confine tra Marche e Toscana. Il velivolo, ritrovato distrutto e bruciato nella mattinata di lunedì, trasportava due persone ancora disperse: l’imprenditore orafo aretino Mario Paglicci e Fulvio Casini, di Sinalunga (Siena), entrambi piloti esperti. L’ultimo segnale era un messaggio di Paglicci alla figlia in cui segnalava un guasto al motore. Le operazioni di ricerca, rese difficili dalla fitta nebbia, si sono protratte per ore prima del ritrovamento dei resti dell’elicottero.

Italia, la strage silenziosa dei ciclisti: 3.000 morti in 10 anni

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Tra il 2014 e il 2023, in Italia si sono verificati oltre 164.000 incidenti che hanno coinvolto persone in bicicletta, causando circa 3.000 i morti e più di 150.000 i feriti. Numeri di una strage quotidiana che arrivano dai risultati del primo Atlante italiano degli incidenti ciclistici, un monitoraggio colossale e senza precedenti realizzato dal Politecnico di Milano, che ha incrociato dati di Istat, Aci e delle forze dell’ordine per costruire una mappa georeferenziata e interattiva dell’incidentalità ciclistica. La media riporta una realtà in cui quasi ogni giorno un ciclista rimane ucciso sulle strade e altri 41 vengono feriti, in una mappa nazionale che mostra problematiche diffuse, ma con differenze regionali molto marcate.

Il lavoro, raccolto in un portale consultabile online, rende visibili differenze territoriali nette: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana concentrano la maggioranza dei sinistri, con la Lombardia in testa (41.502 casi nel periodo). Tuttavia, il primato della pericolosità si sposta al Sud quando si parla di mortalità. Province come Enna, in Sicilia, o Vibo Valentia, in Calabria, registrano i tassi di mortalità più alti d’Italia, toccando rispettivamente picchi del 17,65% e del 12%. La fascia d’età più esposta è quella over-65, che rappresenta una quota consistente delle vittime.

Gli scenari degli incidenti raccontano una apparente contraddizione: tre incidenti su quattro avvengono in ambito urbano (73%), ma quasi la metà dei decessi si verifica su strade extraurbane, dove la velocità è maggiore e protezioni per i ciclisti scarseggiano. Il 68% degli scontri coinvolge autovetture; le tipologie più frequenti sono collisioni laterali e frontali-laterali agli incroci e nelle rotatorie, dove spesso emergono violazioni di precedenza. I dati mostrano anche quando avvengono i picchi: i giorni feriali con maggior incidentalità sono il giovedì e il sabato, mentre il momento più critico è il sabato mattina, con il picco che si verifica tra le 10 e le 12).

La mappatura evidenzia anche limiti tecnici, in quanto la completezza e la geolocalizzazione dei dati sono migliorate solo recentemente, e i dataset presentano ritardi di aggiornamento. «L’unica certezza è che della mobilità ciclistica, in Italia, sappiamo ancora relativamente poco – sottolineano i ricercatori –. Proprio per questo, abbiamo deciso di rendere pubblici i nostri dati, contributo concreto per un dibattito costruttivo sul tema dell’incidentalità ciclistica, ma anche uno strumento operativo per il futuro». Grazie al monitoraggio effettuato emergono infatti indicazioni utili per interventi pratici: ridurre la velocità, costruire piste ciclabili fisicamente separate, eliminare interruzioni nelle reti ciclabili tra comuni e adottare misure di moderazione del traffico. L’esperienza di alcune città è indicativa: l’introduzione del limite a 30 km/h in determinate aree del territorio ha mostrato riduzioni significative degli incidenti e della mortalità, oltre a una crescita dell’uso della bicicletta.

Allargando lo sguardo sul modello di mobilità italiano, possiamo constatare come esso appaia da anni sostanzialmente fermo, ancora fortemente dipendente dall’automobile e solo marginalmente orientato verso altre forme di trasporto pubbliche e private. Come testimoniato dal 21° Rapporto dell’Istituto Superiore di Formazione e Ricerca per i Trasporti (ISFORT) sulla mobilità degli italiani, uscito alla fine dell’anno scorso, in Italia l’automobile resta il mezzo di trasporto predominante: nel primo semestre del 2024 è stata utilizzata nel 63,1% degli spostamenti. Pur registrando un lieve calo rispetto all’anno precedente, il suo impiego risulta comunque superiore di 2,2 punti percentuali rispetto al 2019, prima della pandemia. In controtendenza, cresce l’uso dei mezzi pubblici, che hanno superato l’8%, e della mobilità dolce, a piedi o in bicicletta. Nel 2023 il tasso complessivo di mobilità sostenibile ha raggiunto il 31,1%, segnalando un piccolo miglioramento ma restando ancora lontano dai livelli pre-Covid. Guardando però agli ultimi vent’anni, il quadro rimane sostanzialmente immutato: nel 2000 la quota di spostamenti sostenibili era infatti del 34,1%.

La Germania vuole l’esercito più forte d’Europa: «Il nostro stile di vita è in pericolo»

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«Vogliamo rendere la Bundeswehr l’esercito convenzionale più forte dell’Unione Europea, come si addice a un Paese della nostra dimensione e responsabilità». Con queste parole, il cancelliere Friedrich Merz ha sancito la svolta militare della Germania, che punta a dotarsi della forza armata più potente del continente per affrontare quella che definisce «una nuova era di minacce». A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino archivia i tabù del passato e prepara un riarmo senza precedenti volto a riaffermare la centralità strategica tedesca, mentre il ministro della Difesa Boris Pistorius avverte che «non è allarmismo dire che il nostro stile di vita è in pericolo».

Nei “Piano Operativo Germania”, la Bundeswehr punta a crescere fino a 460.000 unità entro il 2029, con 80.000 soldati attivi e circa 120.000 riservisti, per garantire una forza mobilitabile in tempi rapidi. A questo si aggiunge un massiccio programma di investimenti in armamenti, logistica e tecnologia, pensato per riportare l’esercito tedesco al vertice europeo per capacità operative. «Non è un piano di guerra, ma piuttosto un piano di prevenzione della guerra», ha spiegato il Tenente Generale Alexander Sollfrank, capo del Comando Operativo delle forze armate. Il progetto si inserisce nella cornice della “Zeitenwende” (letteralmente “svolta epocale”, termine usato per la prima volta in senso politico dal cancelliere tedesco Olaf Scholz il 27 febbraio 2022), che indica il cambio di rotta della Germania dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dichiarato Merz nel suo discorso al Bundestag, «La nostra libertà, la nostra pace e la nostra sicurezza sono seriamente in pericolo» e «oggi non basta più reagire alle crisi: serve essere pronti a prevenirle». Sul piano strategico, Berlino è destinata a diventare il fulcro operativo della NATO in Europa e il principale garante della sicurezza europea. In questa direzione vanno i nuovi programmi di spesa che, grazie al fondo straordinario da 100 miliardi di euro istituito dopo il 2022, permetteranno l’acquisto di mezzi blindati, sistemi di difesa aerea, missili a lungo raggio e nuovi aerei da combattimento.

Secondo documenti governativi visionati da Politico, Berlino prepara un’espansione militare da 377 miliardi di euro, la più imponente dal 1945. Il piano prevede 561 sistemi antiaerei Skyranger 30, 14 batterie IRIS-T SLM, 396 missili SLM, 300 IRIS-T LFK e 400 missili da crociera Tomahawk Block Vb, oltre a 3 lanciatori mobili Typhon. Dal 2026, la Germania ospiterà anche i missili ipersonici Dark Eagle, capaci di colpire la Russia centrale in 7 minuti: il simbolo di una deterrenza sempre più autonoma dagli Stati Uniti. Il nuovo “Force Model” dell’Alleanza prevede la possibilità di mobilitare fino a 800.000 uomini in 180 giorni in caso di emergenza, e la Germania dovrà sostenere una quota significativa di questo contingente. Pistorius ha sottolineato che «la Russia si sta preparando per un’altra guerra» e che l’Europa deve farsi trovare pronta. A rincarare la dose Sollfranck, che si è detto convinto che il conflitto con la Russia sia inevitabile e che, pertanto, «un attacco su larga scala alla NATO potrebbe diventare possibile, e presto». La Bundeswehr ha già avviato una riforma interna che punta a rendere più efficienti i comandi e a migliorare la logistica, da tempo considerata un punto debole. Tuttavia, restano ostacoli strutturali: carenza di reclute, infrastrutture obsolete e una catena di approvvigionamento ancora troppo lenta.

Il nuovo protagonismo militare tedesco evoca il riarmo degli anni Trenta che preparò la Wehrmacht all’Operazione Barbarossa, ma non lascia indifferente l’Europa. In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto, durante una puntata della trasmissione 5 minuti, in onda su RAI 1, ha indicato Berlino come esempio da seguire, chiedendo una riforma profonda delle forze armate e un incremento di almeno 30.000 unità, richiamando esplicitamente i numeri tedeschi. Roma, come Berlino, tenta di ridefinire la propria strategia tra le pressioni della NATO e i limiti di bilancio. Mentre in Europa cresce la corsa agli armamenti, la Germania guida una stagione che, abbandonata la prudenza del dopoguerra, riporta al centro la logica della potenza. Nel solco della storia tedesca, risuona l’ammonimento di Marx ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Allora, nel 1941, l’invasione dell’URSS decretò la rovina della Germania; oggi, un riarmo giustificato da una minaccia costruita a tavolino rischia di spingere ancora una volta il Vecchio Continente sull’orlo del baratro.

Infezioni e carcasse nell’allevamento del gruppo Veronesi: l’impero dei marchi Aia e Negroni

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Un’inchiesta fotografica e video-documentale dell’organizzazione ambientalista GreenPeace ha messo a nudo condizioni drammatiche nell’allevamento di suini La Pellegrina, a Roncoferraro (Mantova), di proprietà del Gruppo Veronesi, detentore di noti marchi come AIA, Negroni e Wudy. Le immagini mostrano, tra le altre cose, carcasse di suini abbandonate e infestazioni di ratti a contatto diretto con gli animali, ferite non trattate e ambienti angusti privi di luce naturale. Quanto emerge solleva interrogativi sanitari, di benessere animale e di rischio ambientale per aree protette nelle vicinanze: per questo, GreenPeace ha presentato un esposto alle autorità e ribadito il sostegno alla proposta di legge che vorrebbe andare «oltre gli allevamenti intensivi».

Le fotografie e i filmati documentano una convivenza pericolosa tra suini e roditori all’interno di box di gestazione e di pre-maternità, dove i ratti scorrazzano liberamente. In più punti si vedono carcasse di suinetti «morse o mangiate dai ratti» e animali morti lasciati a terra per oltre 24 ore. Come spiegato nel comunicato diramato dall’organizzazione, la presenza massiccia di roditori è più che un problema di scarsa igiene: aumenta il rischio di trasmissione di patologie (salmonellosi, leptospirosi, toxoplasmosi), la contaminazione dei mangimi e dei macchinari e può portare all’ingestione di carcasse avvelenate a causa dell’uso di rodenticidi. I problemi non si confinano all’interno dei capannoni. Riprese aeree rivelano una perdita di liquami dal sistema di smaltimento, con feci e urine riversate sul terreno aziendale. Questo comporta un concreto rischio di inquinamento per i terreni e le falde acquifere, in un’area particolarmente sensibile a pochi chilometri da ben cinque aree tutelate, tra cui la Zona Protetta di Vallazza.

Le condizioni fisiche dei maiali risultano gravi in diversi casi. Le scrofe presentano lacerazioni compatibili con gli spazi ristretti delle gabbie di maternità, e in alcune immagini si notano prolassi uterini non trattati, condizione che, se non curata, può provocare emorragie interne e la morte. Si documentano inoltre mutilazioni alle code dei suinetti, pratica usata negli allevamenti intensivi per prevenire il morso reciproco ma che indica al contempo livelli elevati di stress e sovraffollamento. Dalle riprese emergono anche segnali di gestione farmacologica frequente: bottiglie e confezioni di ossitocina per facilitare il parto e di anti-infiammatori come il ketoprofene. Pur non essendo farmaci vietati, la loro abbondante presenza è un indizio di malattie ricorrenti e di pratiche di controllo della produzione che puntano più alla produttività che alla cura. Si vedono, inoltre, guanti in lattice abbandonati in box maternità e carenze nelle pratiche di biosicurezza.

Questa denuncia non è inquadrata da GreenPeace come un caso isolato, bensì come sintomo di un sistema intensivo basato sull’iper-produzione che favorisce grandi aziende, marginalizza le piccole imprese e impone costi ambientali e sanitari alla collettività. L’organizzazione, insieme a una coalizione di associazioni, propone la legge “Oltre gli allevamenti intensivi” come strada per ridurre il numero di animali allevati, bloccare l’espansione degli impianti intensivi e avviare una transizione verso modelli a minor impatto. GreenPeace chiede al governo una moratoria immediata sui progetti di nuova costruzione o ampliamento di allevamenti intensivi e lo stop ai finanziamenti pubblici agli allevamenti intensivi; inoltre, si richiede l’adozione di politiche che valorizzino diete prevalentemente a base vegetale e misure efficaci per la tutela delle risorse idriche, nonché di evitare le importazioni di materie prime come la soia utilizzata come mangime e di imprimere un miglioramento all’attuale proposta di certificazione volontaria dei prodotti di origine animale.

Portogallo, centomila in piazza contro la riforma liberista del lavoro

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Nel finesettimana, decine di migliaia di persone sono scese in piazza in Portogallo, per protestare contro la nuova riforma del lavoro. Secondo gli organizzatori, almeno centomila persone si sarebbero ritrovate per opporsi a misure che, riporta il CGTP (il più grande sindacato portoghese), indeboliranno i diritti dei lavoratori attraverso iniziative quali l’abbassamento dei salari, una maggiore deregolamentazione degli orari di lavoro e procedure di licenziamento più semplici, compreso per quello senza giusta causa. La riforma prevede inoltre un allentamento delle restrizioni all’esternalizzazione e consentirebbe alle aziende di disporre legalmente di un certo numero di straordinari non pagati.

Sarebbero oltre un centinaio, riferisce Tiago Oliveira (segretatio generale del CGPT), gli aspetti della legislazione sul lavoro che il governo vorrebbe rivedere. Tra questi, in particolare, vi sono l’allungamento degli orari di lavoro e l’aumento del banco ore individuale, senza conseguente aumento degli stipendi (che si traducono, sostanzialmente, in straordinari non pagati per un massimo di 150 ore all’anno); maggiori possibilità per i datori di lavoro di assumere a tempo determinato, aumentando così la precarietà; facilitazione dei licenziamenti, incluso quello senza giusta causa; attacchi alla contrattazione collettiva, che facilitano «il ricatto padronale»; limitazione del diritto allo sciopero; limitazione di ingressi e contatti dei sindacati con i lavoratori nei luoghi di lavoro. Sono previste anche limitazioni per quanto riguarda congedi parentali, permessi per l’allattamento e lutto gestazionale. La stessa ministra del Lavoro, Maria do Rosário Palma Ramalho, nella conferenza stampa che annunciava la riforma, ha dichiarato che questa fosse necessaria per «rendere più flessibili» i regimi lavorativi e «aumentare la competitività dell’economia e delle imprese».

Per questo motivo, decine di migliaia di persone sono scese per le strade delle due maggiori città del Portogallo, Lisbona (la capitale) e Porto, e mostrare al governo la netta opposizione alle nuove misure. Dal palco di Lisbona, Tiago Oliveira, segretario generale del CGPT, ha definito senza mezzi termini la riforma del governo di Luís Montenegro come «uno dei più grandi attacchi mai sferrati ai lavoratori» ed accusato l’esecutivo di stare mettendo in atto «tutti i meccanismi affinchè il padronato possa avanzare ancora di più nello sfruttamento dei lavoratori». Oliveira ha anche accusato il governo di «attaccare e indebolire la lotta e l’organizzazione dei lavoratori», attraverso una maggiore individualizzazione dei rapporti di lavoro, attacchi alla capacità di organizzazione, deregolamentazione e precarietà.

La riforma andrebbe a colpire i cinque milioni di lavoratori del Portogallo, dei quali 1,4 milioni hanno già contratti di lavoro precari (il 54% dei giovani). «La redistribuzione della ricchezza è profondamente ingiusta nel nostro Paese», sostiene Oliveira, dal momento che «2 milioni di persone vivono in condizioni di povertà e una ogni dieci si trova in questa situazione anche se ha un lavoro», in un Paese dove il salario minimo è di 870 euro. In un simile contesto, il governo si sta muovendo nella direzione dello smantellamento del sistema di istruzione e salute pubblica, mentre si punta a ridurre il personale anche nei tribunali e nelle pubbliche amministrazioni, «non per una questione di soldi, ma di scelte politiche».

Secondo la Confederazione Intersindacale Galiziana (CIG), la riforma voluta dal governo è «ingiustificata, ingiusta e indesiderabile», in quanto non risolve nessuno dei problemi esistenti ma va piuttosto a rendere il rapporto tra lavoratore e dipendente ancora più squilibrato e iniquo. «Nessuna delle misure è neutra: tutte spostano l’equilibrio dalla parte di chi ha già più potere».

Unesco: primo sì a cucina italiana patrimonio dell’umanità

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L’UNESCO ha espresso parere tecnico favorevole all’iscrizione della cucina italiana tra i patrimoni culturali immateriali dell’umanità. Il risultato è arrivato in vista della decisione finale che sarà presa dal Comitato intergovernativo a New Delhi dall’8 al 13 dicembre. Se confermata, sarà la prima cucina al mondo a ottenere questo riconoscimento nel suo complesso. Tra le decisioni pubblicate oggi dall’Organizzazione delle Nazioni Unite ci sono anche quelle relative allo Yodel svizzero, al Son cubano, agli Origami giapponesi, al vino passito cipriota, alla passione di Cristo in Messico. 

Shock economy a Gaza: le imprese italiane in fila per la ricostruzione

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Nonostante il cessate il fuoco, proseguono le stragi di palestinesi da parte dell’esercito israeliano a Gaza, ma questo non ha impedito alle grandi imprese di tutto il mondo – comprese quelle italiane – di cominciare a guardare con interesse alla fase della ricostruzione fiutando la possibilità di fare affari d’oro grazie ai finanziamenti internazionali. È quella che in senso lato si può definire shock economy, la tendenza ad approfittare di crisi di qualsiasi tipo per mettere in atto azioni di speculazione economico-finanziaria che vanno soprattutto a beneficio di una élite economica. Tra le principali imprese italiane, quelle che punterebbero a partecipare al business della ricostruzione compaiono Webuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire. Secondo la rivista Fortune Italia, «Le aziende europee avranno una corsia privilegiata nelle gare per la ricostruzione».

La Banca Mondiale ha stimato in oltre 80 miliardi di dollari la cifra per smaltire le macerie e ricostruire Gaza e, insieme alle Nazioni Unite, ha già pubblicato diversi bandi per finanziare la ristrutturazione del territorio martoriato dalla guerra, tra cui il “Procurement Plan 2025-2027” con sovvenzioni iniziali per il progetto di riedificazione. L’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS), invece, ha indetto un bando per apparecchiature mediche destinate agli ospedali palestinesi, la maggior parte dei quali sono interamente da ricostruire. La Banca Mondiale ha conferito a Gaza lo status di “special conflict-affected“, facilitando così l’accesso delle aziende ai bandi. Degli ottanta miliardi almeno venti andranno spesi nei primi tre anni e questo ha già attirato l’attenzione di grandi gruppi industriali, tra cui quelli europei e italiani.

La ricostruzione di Gaza si preannuncia come un compito estremamente difficile: il livello di distruzione, infatti, richiede la rimozione di ben 61 milioni di tonnellate di rovine. Almeno 436.000 abitazioni sono state distrutte o parzialmente danneggiate, secondo le stime di sei mesi fa contenute nel rapporto redatto dall’Ufficio per gli Affari Umanitari dell’Onu. Tra le rovine ci sono poi parti in amianto, metalli pesanti e ordigni inesplosi che necessitano di un «trattamento speciale», senza considerare il fatto che le macerie “restituiranno” almeno diecimila cadaveri. Secondo le Nazioni Unite per ristrutturare l’enclave potrebbero volerci circa vent’anni.

In questo quadro, gli ottanta miliardi di dollari stimati per ristrutturare Gaza serviranno per realizzare tre livelli di intervento tra loro interdipendenti: messa in sicurezza e rimozione delle macerie; ripristino funzionale delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria); ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo livello, non è possibile avviare gli altri due e senza il secondo, il terzo non è sostenibile nel tempo. A tal fine, si prevede che la cifra complessiva sarà stanziata in fasi e strumenti diversi: la prima fase prevede le donazioni per stabilizzazione, macerie e servizi essenziali, la seconda richiede un’unione tra donatori, banche multilaterali e garanzie per lavori su reti idriche, elettriche e trasporti. La terza fase infine apre a partenariati pubblico-privato (PPP) riguardanti edilizia sociale, energia distribuita e gestione dei rifiuti. Ed è qui che subentra l’interesse delle grandi imprese e che si svolgeranno le partite per i grandi appalti.

Tra le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione figurano grandi gruppi internazionali, tra cui anche diverse imprese italiane: oltre alle già citate WeBuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire compaiono anche Cementir, Gavio e ENI. Il grosso degli appalti potrebbe andare a WeBuild con il supporto di Cassa Depositi e Prestiti, mentre Gavio si occuperebbe delle infrastrutture stradali. Si fanno anche i nomi di Italferr per le ferrovie e Anas per l’asfalto. Ma la protagonista principale, secondo Piazza Affari, sarà Cementir dei Caltagirone grazie alla sua importante capacità produttiva in Turchia. Secondo Banca Akros, Cementir «potrebbe beneficiare della fine dei conflitti in Ucraina, Siria e nella Striscia di Gaza» grazie alla forte presenza in Turchia che la colloca nella posizione ideale per servire i cantieri dell’area. Dopo l’annuncio del presidente statunitense Trump sull’accordo per Gaza e la ricostruzione, le azioni Cementir hanno guadagnato il 16%, mentre da inizio anno la crescita arriva al 52%. Sono salite del 2% anche le altre due possibili beneficiarie della ricostruzione a Gaza: Buzzi e WeBuild. In questo panorama, anche la Commissione europea ha valutato un investimento triennale fino a 1,6 miliardi di euro (2025-2027).

Dopo aver contribuito alla distruzione di Gaza mediante il totale silenzio sulla condotta di Israele o addirittura inviando armi, ora i governi di buona parte del mondo cercano il loro spazio privilegiato negli affari della ricostruzione della Striscia con promesse allettanti per i grandi colossi industriali. Non c’è però solo l’aspetto economico, ma anche quello geopolitico: finanziare la ricostruzione di Gaza significa esercitare influenza sul territorio, rafforzando la propria presenza strategia nell’area del Mediterraneo. Profitti per le imprese secondo la dottrina della shock economy e geo-strategia per i governi appaiono le chiavi di volta che guidano le azioni degli attori internazionali nella ricostruzione di Gaza. Nel frattempo, il cessate il fuoco appare sempre più fragile e la popolazione civile è ancora sotto il fuoco dell’esercito israeliano che, a quanto pare, non ha ancora terminato la missione della distruzione dell’enclave palestinese.

Senato USA approva accordo bipartisan, stop allo shutdown

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Al Senato americano è stato siglato un accordo bipartisan che pone fine allo shutdown del governo federale, estendendo il finanziamento fino al 30 gennaio. Bufera sugli otto senatori del partito Democratico che hanno rotto la linea del gruppo e votato a favore dell’intesa. L’accordo prevede anche la riassunzione dei dipendenti federali licenziati durante la chiusura. Continuano i negoziati per le misure più controverse, tra cui la riforma sanitaria. Ora il disegno di legge passerà all’esame della Camera. Questo dovrebbe permettere il ritorno alla normalità del traffico aereo che rischiava una paralisi totale nelle prossime ore. 

Nel mondo il 92% della popolazione ha ormai accesso sufficiente all’elettricità

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Dal 1998, da quando sono disponibili i primi dati a livello mondiale, al 2023, l'accesso all'elettricità è cresciuto nel mondo. Ourworldindata ha elaborato, sulla base dei dati forniti dalla Banca Mondiale, un indicatore per misurare il fenomeno. È risultato che la percentuale di popolazione che usufruisce di una fonte elettrica capace di coprire bisogni basilari sia passata dal 73% del 1998 al 92% del 2023. A trainare la crescita sono le regioni del Sud globale, come l'Africa Subsahariana e l'Asia meridionale. L'accesso all'elettricità ha un'importante ricaduta sulle condizioni di vita delle ...

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