Israele sta blindando anche la Cisgiordania. Il valico di Allenby, unico punto di passaggio tra la Giordania e la Cisgiordania, verrà chiuso “fino a nuovo avviso” da domani “su indicazione della leadership politica”. Lo ha dichiarato un portavoce dell’Autorità aeroportuale israeliana, che sovrintende al valico, non fornendo ulteriori motivazioni per la chiusura. Army Radio, citata da Times of Israel, riferisce che i funzionari della sicurezza hanno ricevuto istruzioni dal primo ministro Benjamin Netanyahu in persona di chiudere il confine in entrambe le direzioni. Il media riporta di aver chiesto all’ufficio del primo ministro se la decisione di chiudere il valico di frontiera fosse legata all’ondata di riconoscimenti internazionali dello Stato palestinese, ma di non aver ricevuto risposta.
Il valico è di importanza vitale per i palestinesi residenti nei territori occupati della Cisgiordania: essendo l’unica frontiera attraversabile per la maggior parte dei residenti, è il punto dal quale passano molti dei palestinesi che desiderano recarsi all’estero ed è anche l’unica porta per il trasporto delle merci commerciali tra la Giordania e la Cisgiordania. La sua chiusura è una ulteriore punizione collettiva per i cittadini palestinesi già blindati in Cisgiordania tra check-points e occupazione di coloni e militari israeliani.
Il valico è di importanza vitale per i palestinesi residenti nei territori occupati della Cisgiordania: è il punto dalla quale passano molti dei palestinesi che desiderano recarsi all’estero ed è anche l’unica porta per il trasporto delle merci commerciali tra la Giordania e la Cisgiordania. Fonte mappa Jordan Horizons Tour
Tel Aviv aveva appena riaperto il valico di Allenby lunedì, quattro giorni dopo che un uomo alla guida di un camion di aiuti umanitari giordano aveva ucciso a colpi di arma da fuoco due soldati israeliani. Il valico era stato chiuso in seguito alla sparatoria per poi essere riaperto ai passeggeri ma non agli aiuti umanitari diretti a Gaza, teoricamente fino al completamento delle indagini. Nella giornata del 22 settembre era stato nuovamente chiuso a causa del capodanno ebraico. La riapertura era prevista al termine della festività ebraica.
Questo ulteriore attacco alla libertà dei palestinesi arriva dopo le recenti dichiarazioni del primo ministro Netanyahu, che domenica 21 settembre aveva preannunciato la sua “risposta” ai Paesi che riconoscono lo Stato palestinese una volta tornato dalla visita negli Stati Uniti. Domenica scorsa, infatti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Portogallo hanno dichiarato il loro riconoscimento dello Stato di Palestina, seguiti subito dopo da Lussemburgo, Belgio, Andorra, Francia, Malta, Monaco e Repubblica di San Marino. Il numero di Paesi che riconoscono lo Stato è arrivato così a circa 159 su 193 Stati membri dell’ONU. Il tentativo è quello di rilanciare verso la soluzione dei due Stati, mentre il genocidio a Gaza continua. In risposta, alcuni alleati della coalizione di destra di Netanyahu hanno affermato che il governo dovrebbe annettere la Cisgiordania. E Netanyahu ha fatto chiudere tutti i confini.
Intanto, mentre il governo spagnolo ha approvato l’embargo “totale” sulle armi a Israele, una misura parte di un pacchetto di altre iniziative volte a fermare quello che il primo ministro Pedro Sánchez ha definito “il genocidio a Gaza”, e mente sempre più Stati europei e non stanno riconoscendo lo stato di Palestina, l’Italia continua a dichiararsi solidale e alleata di Israele, rendendosi complice di un Paese che ormai non nasconde più il suo volto genocidario. Il governo Meloni sta anche ignorando le centinaia di migliaia di persone che sono scese ieri nelle piazze di tutta Italia in uno sciopero nazionale come non si vedeva da anni, dimostrando, ancora una volta, il poco interesse del governo verso l’opinione dei propri cittadini. E dando appoggio politico a un paese che continua a utilizzare forme di punizione collettiva per perseguire la sua politica di annessione e pulizia etnica.
Nel pomeriggio di oggi, 24 settembre, è stato lanciato un attacco con droni sulla città israeliana di Eilat. L’attacco, sostengono i media israeliani, avrebbe provocato almeno 24 feriti, di cui due gravi. Le autorità israeliane sostengono che i droni siano stati lanciati dallo Yemen, e hanno attribuito l’attacco al movimento Ansar Allah, meglio noto con il nome di Houthi. Ansar Allah non ha ancora rivendicato l’attacco, ma i media ufficiali del gruppo riportano la notizia scrivendo che i droni sarebbero di origine yemenita. I droni, nota l’emittente ufficiale dell’esercito israeliano, non sono stati rilevati dai radar del Paese e hanno superato indisturbati i sistema di difesa israeliani.
Gli agricoltori e i popoli indigeni colombiani si stanno battendo per promuovere una proposta di legge per vietare l’utilizzo di colture geneticamente modificate. Di preciso, la proposta intende cambiare l’articolo 81 della Costituzione del Paese, e introdurre il divieto di ingresso, produzione, commercializzazione ed esportazione di semi geneticamente modificati. Lo scopo è quello di tutelare la biodiversità e le coltivazioni di sementi locali, specialmente quella di mais, che in Colombia è presente in centinaia di varietà distinte. La proposta è stata avanzata da diverse organizzazioni locali coordinate dal gruppo Semillas, ed è stata accolta positivamente dal governo del presidente Gustavo Petro. In passato, la Corte Costituzionale si era già espressa a favore delle organizzazioni indigene, che avevano intentato una causa contro il governo per proteggere i semi tradizionali dalla contaminazione genetica. Negli anni, infatti, diversi studi hanno provato i rischi di contaminazione e trasferimento di geni da mais geneticamente modificato a colture non modificate in Colombia.
La proposta di legge contro gli OGM avanzata dalle diverse associazioni coordinate da Semillas è in cantiere da luglio del 2022, e recentemente è stata discussa anche dalla commissione costituzionale del Congresso colombiano. A promuovere l’iniziativa sono un totale di 13 realtà tra comitati locali, gruppi di indigeni, organizzazioni di agricoltori e università. Essa intende aggiungere un comma all’articolo 81 della Costituzione, che vieta “la fabbricazione, l’importazione, la detenzione e l’uso di armi chimiche, biologiche e nucleari, nonché l’introduzione di scorie nucleari e rifiuti tossici nel territorio nazionale” e sancisce che “lo Stato regola l’ingresso e l’uscita delle risorse genetiche nel Paese, nonché il loro utilizzo, nel rispetto dell’interesse nazionale”. Proprio in coda a quest’ultimo punto, verrebbe aggiunta la frase: “Sono vietati l’ingresso, l’importazione, la produzione, la commercializzazione e l’esportazione di semi geneticamente modificati”.
La battaglia contro i semi transgenici in Colombia è iniziata ben prima della proposta di legge, e uno dei casi che più la rappresenta è quello del municipio di San Lorenzo – Nariño e della sua battaglia per preservare le sementi di mais autoctone: nel 2017 la popolazione locale, ha siglato una bozza di accordo con il Consiglio comunale; con essa, il comune si impegnava a proteggere il territorio dalle colture geneticamente modificate e nominare San Lorenzo “territorio libero da OGM, per i semi, il territorio e la vita”. Presentato come iniziativa popolare all’esecutivo comunale, con il sostegno di 1.300 firme, l’accordo è stato approvato e sancito nel febbraio del 2018. Da quel momento, il comune si è battuto per promuovere una legge che estendesse tale denominazione all’intero Paese, e nel 2022 è sorta la proposta di legge.
Il tema delle colture OGM in Colombia, insomma, non nasce oggi. Già nel 2023, la Corte Costituzionale aveva ordinato al governo di varare misure volte a proteggere le colture di mais locali, sostenendo che la mancanza di norme adeguate impedisse “la creazione di un ambiente favorevole per affrontare le preoccupazioni [degli indigeni] o rischi specifici e differenziati”. Secondo i ricorrenti, tale buco legislativo minacciava i diritti all’autodeterminazione, all’identità etnica e culturale, a un ambiente sano, alla salute, all’accesso alle informazioni pubbliche e alla partecipazione effettiva, e comportava rischi per la biodiversità comprovati da diversi studi scientifici. Effettivamente, la Colombia è da tempo al centro di studi riguardanti l’impatto degli OGM sugli organismi non geneticamente modificati: alcuni di essi hanno riscontrato evidenze di contaminazione genetica, incrementato dal fatto che il polline di mais transgenico raggiunge distanze particolarmente elevate, ben superiori ai limiti di sicurezza richiesti dall’Istituto Agricolo Colombiano, finendo per investire un maggior numero di coltivazioni.
Quando da adolescente lessi per la prima volta Hemingway e mi innamorai di Hemingway, non m’innamorai di certo di Addio alle armi. Non mi piacque e non lasciò nessuna impronta nel mio cuore. In breve Addio alle armi è il racconto, in parte autobiografico, dell’esperienza vissuta dal giovane Hemingway al fronte italiano durante la prima guerra mondiale. Nel 1917 gli Stati Uniti erano appena entrati in guerra. Hemingway si fa assegnare come volontario al rifornimento di uno spaccio a pochi chilometri dalle trincee; nelle vicinanze di Fossalta di Piave. Si muove tra il fuoco dei cannoni e dei mortai su una semplice bicicletta per distribuire cibo, cioccolata e sigarette ai soldati al fronte. Pochi mesi dopo nella notte tra l’8 e il 9 giugno, viene colpito da un mortaio da trincea. Sopravvissuto all’esplosione, viene trasportato in un ospedale da campo e infine ricoverato in un ospedale di Milano dove trascorrerà parte della sua convalescenza e s’innamorerà di una bella e giovane infermiera. Da quell’esperienza nacque Addio alle armi. Ma la prima volta che lessi Addio alle armi non capii l’insistenza di Hemingway nel descrivere la vita militare, la guerra e la devastazione che provoca. La verità è che a sedici anni non ero ancora pronta per Addio alle armi.
Che m’importava da adolescente di quella follia che parlava di uomini che marciavano, morivano, combattevano e s’ammazzavano per qualche oscura e altrettanto folle ragione che si chiamava Prima Guerra Mondiale? Che rapporto aveva con la mia vita? Nessuno. Fu così che mi dimenticai di Addio alle armi e lo liquidai, mettendolo nello scaffale dei libri destinati a essere dimenticati e mai più aperti. Dopo quello che è accaduto in questi ultimi due anni, tornai a rileggere Addio alle armi e stavolta lo lessi con occhi nuovi.
Quando la mattina scorro le notizie sui giornali, ho quasi l’impressione di essere precipitata in un romanzo distopico. Di contino sento attorno a me parole come «genocidio», «riarmo», «bombe». Mi domando come sia possibile che nel XXI secolo sia sopravvissuto qualcosa di tanto folle e barbaro e insensato come guerra. Quanto è accaduto, sta accadendo e continua ad accadere a Gaza mi ha lasciato addosso un senso d’orrore inesprimibile.
E tutte le parole che mi sono rimaste incastrate in gola, tutto quello che vorrei dire e scrivere e gridare sulla guerra e contro la guerra, Ernest Hemingway lo disse per me. In un modo tanto sincero e autentico che oggi, a distanza di quasi cento anni dalla pubblicazione di Addio alle armi, le sue parole risuonano ancora potenti e necessarie.
Ernest Hemingway nel 1918
«Fatta eccezione per tre anni, da quando è stato scritto c’è stata quasi sempre una guerra di qualche tipo. Qualcuno si chiedeva perché questo tizio fosse così preoccupato e ossessionato dalla guerra, e forse ora, a partire dal 1933, è chiaro perché uno scrittore dovrebbe interessarsi al continuo, prepotente, mortifero e sciatto crimine della guerra».
Ma Hemingway, che la guerra l’aveva vissuta e conosciuta, non attraverso un film o qualche racconto di seconda mano, ma attraverso i propri occhi, non si limitò a definire la guerra un crimine. Ma disse a chiare lettere: «ma è la ponderata opinione dell’autore di questo libro che a combattere le guerre siano le persone migliori, o diciamo pure semplicemente le persone, anche se più ci si avvicina alle zone di combattimento e più si incontrano persone migliori; ma a provocare, iniziare e far scoppiare le guerre sono le solite rivalità economiche e i porci che ne traggono profitto. Ritengo che tutti quelli che hanno da guadagnare da una guerra e che contribuiscono a causarla andrebbero fucilati il giorno che inizia, da rappresentanti accreditati dei leali cittadini di quei paesi che si accingono a combatterla».
Ecco, queste parole non sono soltanto un manifesto contro la guerra, ma sono anche una presa di posizione netta che ci fanno capire quale fosse il ruolo e il valore dell’intellettuale ai tempi di Hemingway. E quale dovrebbe esserlo oggi.
Qualche tempo fa sono stata testimone di una polemica feroce che ha investito uno dei più grandi divulgatori del mondo storico italiano e che nella sua particolarità ritengo meriti di essere menzionata. Sto parlando di Alessandro Barbero. E voglio menzionare questa vicenda in un articolo che parla di Hemingway perché risponde a quella domanda che prima o poi ogni lettore si sente rivolgere almeno una volta nella vita: perché leggiamo? A cosa serve la lettura?
Nel mese di Aprile, quando il dibattito pubblico in Italia ruotava incessantemente attorno al tema e al problema del riarmo, Alessandro Barbero nel corso di un intervento pubblico ha detto: «ho l’impressione che l’epoca nostra assomigli sempre più agli anni che hanno preceduto lo scoppio della prima guerra mondiale». All’epoca c’era una grande paura, la paura di essere invasi e tutti dicevano più o meno le stesse cose: «il nostro paese è debole, siamo circondati da nemici cattivissimi, dobbiamo riarmarci perché non siamo abbastanza sicuri».
Il discorso di Barbero aveva delle implicazioni politiche, e ovviamente si può essere o non essere d’accordo con la sua analisi, ma ciò che mi ha sorpresa non è stato il fatto che il suo discorso fosse diventato oggetto di critiche, una cosa naturale in una democrazia, ma che le critiche rivolte a Barbero non riguardassero la tesi che aveva esposto e le conclusioni a cui era arrivato, ma il fatto puro e semplice che avesse tenuto quel discorso. In breve, a detta di alcuni, Barbero in quanto medievalista deve parlare del medioevo. Punto. Tutto il resto non è di sua competenza.
Al di là del fatto che ridurre Barbero alla sua specializzazione significa farne una scimmia ammaestrata, c’è un fraintendimento enorme dietro la pretesa che uno storico si mantenga neutrale, imparziale, che non abbia idee politiche o visioni politiche e che queste ultime non influenzino in qualche modo le sue narrazioni.
Lo Storico Alessandro Barbero
La letteratura è politica. L’arte è politica. La filosofia è politica. Come lo è la Storia. Persino la scelta di cosa raccontare è già di per sé una presa di posizione politica ben precisa. Politica intesa non come «vota questo o quel partito», ma intesa come riflessione, partecipazione e analisi critica di ciò che significa pensare, vivere e dialogare nel mondo di oggi.
Tolstoj fu scrittore, romanziere, storico per passione e filosofo per vocazione. Orwell non avrebbe mai scritto 1984 e Pasolini non sarebbe stato Pasolini se non avessero preso posizione ora contro il comunismo ora contro il fascismo. E tutto ciò che ne consegue. Non c’è pagina di Dostoevskij in cui storia, politica, giurisprudenza, economia e psicologia siano un tutt’uno.
Cultura non significa sapere tanto ma pensare molto. Significa mettere in relazione. Non puoi relegarla in comportamenti stagni, in camere non comunicanti. Oggi invece abbiamo un abbondanza di esperti, tecnici, specialisti, ma abbiamo pochi intellettuali degni di questo nome. La Storia si è ridotta a un ammasso di date da memorizzare, la letteratura a un ammasso di pagine da collezionare, perfino l’arte spesso e volentieri è analisi delle tecniche pittoriche e delle peculiarità stilistiche che vi sono dietro, più che discorso sui sentimenti e sulle idee che un artista ha voluto metterci dentro.
Ma a cosa serve leggere, se non per imparare ad esprimere, dar voce e provare ad avere un pensiero critico sulle questioni che davvero contano? A cosa serve leggere Hemingway, Celine, Omero, Tolstoj che ci hanno regalato pagine tanto drammatiche e sofferte e dolorose sulla guerra se poi nelle guerre che viviamo nel nostro oggi il cervello dobbiamo spegnerlo e mandarlo in soffitta? Alcuni invece vedono nella letteratura soltanto un ozioso passatempo.
Ernest Hemingway, convinto che lo scopo di un artista fosse sfidare i Soloni di turno, avrebbe lanciato uno sguardo sconvolto, in parte incredulo, in parte arrabbiato, a chi gli avesse detto che uno scrittore deve restare neutrale e non prendere posizione. Non avrebbe capito il significato della parola imparzialità, e avrebbe lanciato occhiate sempre più nervose alla porta se avessi tentato di convincerlo che l’arte e la politica sono due cose ben distinte. Ed è questa dimensione a tutto tondo della cultura che dobbiamo recuperare, ecco perché credo che leggere Hemingway oggi non sia solo doveroso ma necessario.
La Costa Rica ha sospeso i voli nei suoi aeroporti internazionali e ha temporaneamente chiuso il suo spazio aereo. L’annuncio è stato dato all’agenzia di stampa Reuters dal vicedirettore dell’Aviazione Civile del Paese, Luis Diego Saborio. Secondo una dichiarazione rilasciato dal ministero dei Trasporti, l’intero spazio aereo è interessato dal blocco del traffico. Il motivo dietro tale decisione è stato un guasto elettrico che avrebbe mandato in tilt i sistemi di rilevazione radar del Paese. Ancora ignota l’origine del guasto.
Mentre 80 piazze in tutta Italia si sono riempite pacificamente a sostegno dello sciopero generale indetto da Usb contro il genocidio in atto a Gaza, il governo ha scelto di concentrare l’attenzione sugli scontri avvenuti alla stazione Centrale di Milano. L’episodio, che ha coinvolto poche centinaia di persone, è diventato il pretesto non solo per ridimensionare il successo della mobilitazione, ma anche per rilanciare una proposta che rischia di colpire al cuore il diritto di sciopero, ipotizzando di chiedere una cauzione a chi organizza cortei e manifestazioni per fare in modo, in caso di danni, che siano loro a pagare. Una criminalizzazione che si nutre anche dell’atteggiamento passivo di non pochi cittadini, che da una parte denunciano il genocidio in corso, ma dall’altro attaccano sui social le manifestazioni che si tramutano in blocchi delle strade, delle ferrovie, della produzione. Come se lo sciopero dovesse essere solo una testimonianza di dissenso che non dà fastidio a nessuno anziché, come è da sempre e per definizione, un’azione collettiva che mira a rendere insostenibile lo status quo per costringere il governo a scendere a patti con le istanze popolari. Eppure, e come vedremo la storia d’Italia lo dimostra, proprio lo sciopero è da sempre il motore di gran parte delle conquiste e dei diritti sociali dei quali ancora possiamo godere.
Cos’è lo sciopero?
Lo sciopero è uno strumento collettivo di lotta e rivendicazione dei lavoratori, che consiste nell’astenersi temporaneamente dal lavoro per esercitare pressione nei confronti del datore di lavoro, del settore produttivo o delle istituzioni. Può assumere diverse forme: dallo sciopero generale, che coinvolge trasversalmente più categorie e settori, allo sciopero di categoria o aziendale, limitato a un comparto specifico; dallo sciopero politico, rivolto a decisioni governative, a quello a singhiozzo, con interruzioni intermittenti della produzione. Esistono poi varianti come lo sciopero bianco, in cui i lavoratori applicano rigidamente i regolamenti rallentando le attività, e lo sciopero a oltranza, che prosegue fino al raggiungimento degli obiettivi prefissati. In tutte le sue forme, rimane uno dei principali strumenti di partecipazione e conflitto sociale riconosciuti nelle democrazie moderne.
La storia del Primo maggio
Il 1° maggio 1886 a Chicago non è un giorno come gli altri. Migliaia di lavoratori, 200mila secondo le cronache dell’epoca, scendono in strada chiedendo una cosa che oggi ci sembra banale: otto ore di lavoro, otto di riposo, otto di tempo libero. La parola d’ordine nasce dal sindacato dei lavoratori edili – stanchi di lavorare dalle 12 alle 14 ore al giorno – e si diffonde come un lampo nelle fabbriche degli Stati Uniti. Il 3 maggio, davanti alla McCormick, una fabbrica produttrice di mietitrebbie, la polizia apre il fuoco sugli operai in sciopero: due morti, decine di feriti. Il giorno dopo, durante un comizio in Haymarket Square, esplode una bomba. La polizia reagisce sparando sulla folla. È il caos. Alla fine rimangono a terra una decina di morti. Quei giorni sanguinosi, passati alla storia come i moti di Haymarket, hanno un effetto imprevisto: trasformano la repressione in simbolo universale. Da allora il 1° maggio diventa la Festa dei Lavoratori per ricordare che ogni diritto nasce da una rottura, da un “no” collettivo. Da uno sciopero. Per anni le otto ore rimasero una rivendicazione. Solo con la Prima guerra mondiale e il rischio di rivoluzioni sociali, i governi capirono che bisognava dare una risposta. Nel 1919, con il Trattato di Versailles, fu creata l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Alla sua prima Conferenza, a Washington, i delegati approvarono la Convenzione n. 1, che fissava per la prima volta un limite globale: otto ore al giorno, 48 alla settimana per l’industria. Era un compromesso difficile, ma segnò una svolta: dalle barricate di Chicago si arrivava a una norma internazionale vincolante.
Dalla fabbrica alla Costituzione
In Italia, lo sciopero ha un percorso tortuoso. Il primo sciopero generale del nostro Paese nell’età moderna risale al 1904, quando i sindacalisti e il partito Socialista guidato allora da Filippo Turati il 16 settembre guidarono una mobilitazione generale, nelle città e nelle campagne, portando i braccianti agricoli a smettere di lavorare. Le richieste comprendevano sia il miglioramento delle condizioni lavorative sia la fine degli “eccidi proletari”, riferendosi a diversi casi in cui, in proteste precedenti, le forze dell’ordine avevano sparato e ucciso contadini e minatori.
Durante il fascismo lo sciopero viene dichiarato illegale: le Camere del lavoro chiuse, i sindacati soppressi, gli scioperanti perseguiti. Ma già nel marzo 1943 gli operai della Fiat incrociano le braccia contro la fame e la guerra, mettendo in moto un processo che è passato alla storia come il “risveglio operaio”. Tutto ha inizio a Torino, il 5 marzo, con il fermo totale delle macchine alla Fiat Mirafiori, dando inizio a una serie di scioperi antifascisti che coinvolsero 100mila operai in tutto il nord Italia. È il primo grande sciopero di massa in un Paese sotto dittatura dove, alle iniziali richieste economiche si aggiunsero quelle di natura politica, chiedendo la fine della guerra. Dopo la Liberazione, la Costituzione del 1948 sancisce all’articolo 40: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». È la prima volta che lo Stato italiano riconosce apertamente il conflitto come legittimo. È un passaggio epocale: lo sciopero smette di essere solo un atto di ribellione e diventa un diritto costituzionale.
“L’Autunno caldo” e lo Statuto dei lavoratori
Una delle numerose proteste del cosiddetto ”Autunno Caldo” che coinvolsero tutta l’Italia nel 1969
Negli anni ’60 l’Italia cambia volto: il miracolo economico crea lavoro in fabbriche enormi e catene di montaggio, con masse di operai che migrano dal sud al nord. Ma le condizioni sono dure: turni lunghi, salari bassi, sicurezza scarsa. È in questo clima che esplode “l’Autunno caldo” del 1969: scioperi a catena, milioni di ore di lavoro sospese, piazze piene. A guidare le lotte non sono solo i sindacati confederali, ma anche consigli di fabbrica, delegati di reparto, assemblee spontanee. Lo sciopero diventa pratica quotidiana, strumento di democrazia diretta. I risultati arrivano: aumenti salariali, migliori condizioni contrattuali, ferie e malattia pagate. E soprattutto, nel 1970, lo Statuto dei Lavoratori. La legge n. 300 del 20 maggio 1970 riconosce libertà sindacale, la tutela contro i licenziamenti arbitrari, diritto di assemblea in fabbrica, divieto di controllo a distanza. È una rivoluzione civile. Senza gli scioperi di quegli anni, questa legge non sarebbe mai esistita.
Dagli operai ai rider: lo sciopero che cambia volto
Ogni conquista – dalle ferie pagate al salario minimo, dalla sicurezza sul lavoro al congedo di maternità – ha dietro di sé una storia di scioperi. Le otto ore non furono un dono, ma il frutto di sacrifici, carcere, sangue. Oggi, in molti Paesi, il diritto allo sciopero è eroso da leggi restrittive, preavvisi eccessivi, sanzioni. Nei servizi pubblici essenziali viene ridotto a simulacro. Si invoca l’interesse collettivo per negare la voce di chi rivendica soprusi e ingiustizie, dimenticando che senza quella voce non c’è equilibrio sociale, ma solo imposizione. La storia insegna una cosa chiara: i diritti non cadono dall’alto. Sono il frutto di conflitti, di scioperi, di mobilitazioni.
Ogni epoca ha il suo sciopero. Negli anni ’80 e ’90 lo strumento viene usato per difendere il posto di lavoro durante le grandi ristrutturazioni industriali. Ma la lotta subisce un cortocircuito. È il 14 ottobre del 1980 quando a Torino va in scena la Marcia dei Quarantamila, manifestazione organizzata dai dirigenti della Fiat contro i sindacati e i picchetti che da oltre un mese bloccavano le fabbriche, dopo che l’azienda – in crisi – aveva optato per licenziamenti e cassa integrazione per oltre 20mila operai. La Fiat ottiene la riduzione del conflitto, i sindacati escono indeboliti. Lo sciopero sembra perdere forza, ma non scompare.
Per arrivare a un’altra grande mobilitazione bisogna aspettare il 2002, quando milioni di persone scendono in piazza contro la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: è una delle più grandi mobilitazioni del dopoguerra. È il 23 marzo quando la CGIL porta in piazza 3 milioni di persone che invadono pacificamente le strade di Roma per confluire al Circo Massimo, inaugurando una mobilitazione che salverà l’articolo 18. Almeno fino al 2012, quando venne profondamente modificato dalla riforma Fornero e fino all’abrogazione del 2014 con ilJobs Actvoluto dal governo Renzi. Negli ultimi anni, la scena cambia ancora: a incrociare le braccia sono i rider delle piattaforme digitali, i lavoratori della logistica, gli addetti ai servizi essenziali. Con scioperi piccoli ma mirati ottengono contratti, riconoscimento di tutele, visibilità sociale che altrimenti non avrebbero.
Il senso dello sciopero per Gaza
I fatti del passato dimostrano una cosa chiara: i diritti non cadono dall’alto. Sono il frutto di conflitti, di scioperi, di mobilitazioni. Senza la possibilità di sospendere il lavoro, il singolo è inerme di fronte alle grandi aziende e alle multinazionali, capaci di imporre la propria agenda ai governi nazionali, figurarsi ai propri lavoratori. Quali armi avrebbero i lavoratori di Amazon in Italia se non potessero scioperare? Nessuna, perché lo sciopero è la leva che trasforma la disperazione individuale in forza collettiva. Cerchiamo di ricordarcelo quando, dopo uno sciopero, si punta il dito solo sui disagi vissuti dal resto dei cittadini. O quando siamo noi stessi a lamentarci perché una manifestazione ci fa perdere un treno o ci fa rimanere imbottigliati nel traffico: lo sciopero, per sua natura, nasce proprio per dare fastidio: è un atto di disturbo che interrompe la normalità del lavoro e dei servizi, perché solo così riesce a rendere visibile la forza e le rivendicazioni di chi protesta. È proprio in quel disagio che risiede il senso dello sciopero, nel costringere la società a fermarsi un momento e a riconoscere le condizioni di chi manifesta. Uno sciopero “indolore” sarebbe inoffensivo, e quindi inutile.
E qui arriviamo alla madre delle critiche che in molti hanno fatto sullo sciopero per Gaza, sostenendo che non avrebbe cambiato di un millimetro le politiche di Israele e il genocidio in corso nella Striscia. Questo è un ragionamento che dimentica un punto essenziale: nessuna protesta in Italia può incidere direttamente sulle decisioni di Tel Aviv, ma lo sciopero è uno dei pochi strumenti che i cittadini hanno per forzare i propri governi a prendere posizione, a riconoscere ciò che sta accadendo e ad agire di conseguenza. Non è un caso se, all’indomani delle manifestazioni, Giorgia Meloni abbia improvvisato un’apertura – pur di circostanza – al riconoscimento della Palestina. E non è un caso nemmeno che il ministro della Difesa Crosetto abbia inviato una nave militare per proteggere gli italiani a bordo della Global Sumud Flotilla che sta cercando di raggiungere Gaza: proprio una delle richieste che era al centro dello sciopero. È questo il punto: la pressione dal basso non abbatte i muri da sola, ma costringe chi sta in alto a muoversi, anche di pochi passi. E senza quei pochi passi, la storia insegna, non si arriva mai a un cambiamento vero.
Mentre manca sempre meno all’inizio dei Giochi Olimpici invernali del 2026, l’immagine di Milano-Cortina si offusca sotto il peso di due ulteriori vicende opache emerse negli ultimi giorni. Da un lato, gli appalti per le infrastrutture risultano segnati dalla presenza di un’impresa, la Bracchi srl di Valdisotto, esclusa da una gara regionale perché coinvolta in un’inchiesta per corruzione, ma ancora al lavoro come subappaltatrice in due cantieri cruciali di Simico. Dall’altro, i nuovi trampolini della Val di Fiemme, appena testati, sono già al centro di polemiche internazionali dopo tre gravi infortuni in 48 ore occorsi ad atlete di altissimo livello, facendo temere per la sicurezza degli impianti. Un binomio di ambiguità gestionale e potenziali rischi che getta una lunga ombra sulla preparazione dell’evento, già segnato da scandali giudiziari, ritardi operativi e lievitazione dei costi.
Il caso che scuote la governance degli appalti olimpici ha un nome: Bracchi srl. A fine aprile, la società era stata esclusa con determina dal direttore generale di Aria, Lorenzo Gubian, da un appalto da 13 milioni per l’impianto di innevamento di Bormio, dal momento che non aveva comunicato l’inchiesta “Recharge” che a marzo era costata gli arresti domiciliari al titolare, Enrico Davide Bracchi, con accuse dicorruzione, peculato e falso. Eppure, come risulta dal portale ufficiale di Simico, responsabile delle opere sportive e stradali contenute nel Piano Olimpico, la stessa Bracchi risulta oggi subappaltatrice per la costruzione del sistema di innevamento della pista Stelvio (appalto da 20 milioni) e per i lavori di riqualificazione delle aree limitrofe (1,2 milioni). Un paradosso denunciato in Parlamento dal deputato Tino Magni (Verdi-Sinistra), che evidenzia come la normativa sui contratti pubblici, sebbene rigorosa per gli appaltatori principali, mostri una pericolosa lacuna nei controlli sui subappaltatori.
Sul fronte sportivo, la “prova generale” in Val di Fiemme si è trasformata in un incubo. Tre atlete di vertice mondiale – l’austriaca Eva Pinkelnig, la canadese Alexandria Loutitt e la giapponese Haruka Kasai – hanno riportato gravi infortuni ai legamenti del ginocchio in cadute sui nuovi trampolini. Le dinamiche degli incidenti, sebbene differenti, hanno scatenato le critiche della stampa internazionale e portato al ritiro in blocco delle squadre austriaca e canadese dalle ultime prove. Un gesto assai eloquente, che potrebbe essere seguito a breve dalla squadra della Polonia. Se i tecnici internazionali assolvono i profili costruttivi, standardizzati dalla Federazione, e attribuiscono le cadute a errori umani, il sospetto che i nuovi impianti possano nascondere criticità è ormai un’ipotesi concreta che richiederà accertamenti approfonditi. Quelli del trampolino sono solo gli ultimi problemi registrati dall’organizzazione dell’evento sportivo: l’ultimo aveva riguardato la cabinovia di Cortina, che lo scorso 4 settembre è sprofondata nel terreno aprendo una voragine di 15 metri di lunghezza.
L’intreccio tra opacità negli appalti, ritardi infrastrutturali e dubbi sulla sicurezza degli impianti sportivi dipinge un quadro allarmante per Milano-Cortina 2026, al centro di aspre polemiche sul tema degli sprechi e della mala gestione. Ad agosto, la Camera dei Deputati aveva dato il via libera definitivo al Decreto Sport, che ha incluso anche le norme volte a coprire i buchi di bilancio della Fondazione Milano-Cortina per le Olimpiadi invernali 2026. Il decreto ha stanziato infatti 328 milioni di euro alla istituzione di un nuovo Commissario per le Paralimpiadi, che avrebbe il compito di «subentrare nei rapporti giuridici della Fondazione». Una formulazione che appare come una scusa per scorporare parte dei costi, dal momento che le Paralimpiadi erano già presenti nel Comitato. Inoltre, l’esecutivo ha deciso di destinare al finanziamento dei Giochi ben 43 milioni di euro provenienti dal Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di mafia, usura e agli orfani di femminicidio.
Lo scorso aprile la Procura di Milano ha chiesto di archiviare l’inchiesta sulla Fondazione organizzatrice, in cui si contestavano reati di corruzione e turbativa d’asta, ma ha sollevato la questione di costituzionalità sul decreto del governo che, trasformandola in ente privato, avrebbe ostacolato intercettazioni e sequestri preventivi di un presunto profitto di reato di circa 4 milioni. Il tutto non considerando un buco milionario generato dalla Fondazione: in un contesto già segnato da deficit patrimoniali accumulati dalla Fondazione – oltre 107 milioni – la stima dei costi è infatti lievitata di ulteriori 180-270 milioni.
Un corso formativo sugli psichedelici, per dare anche a medici, psichiatri e psicoterapeuti italiani gli strumenti necessari per conoscere queste sostanze e, quando sarà permesso, utilizzarle con i pazienti. È la nuova iniziativa di Illuminismo Psichedelico, podcast condotto dallo scrittore Federico Di Vita e co-prodotto dall’Associazione Luca Coscioni che da anni, insieme a molte altre, porta avanti anche questa battaglia di civiltà.
L‘Academy di Illuminismo Psichedelico, che come podcast è nato 5 anni fa e nel frattempo si è trasformato in un’associazione, ha creato per la prima volta in Italia un corso di questo tipo, con un totale di 300 ore suddivise in 18 mesi di lezioni, mettendo a disposizione 50 crediti formativi per i professionisti della salute che decideranno di partecipare. Tra i docenti ci sono personalità note a livello internazionale, come l’etnobotanico Giorgio Samorini o il ricercatore Tommaso Barba – neuroscienziato dell’Imperial College di Londra che è una vera e propria istituzione in materia – medici e psichiatri come Piero Cipriano e Fabio Villa, e professori come Nicola De Pisapia e Bruno Neri.
Il momento non è casuale perché in tutto il mondo stiamo assistendo alla riscoperta di queste sostanze, a lungo studiate nel ‘900 fino alla loro proibizione, che promettono di cambiare la psicoterapia per come noi occidentali l’avevamo conosciuta fino ad oggi. Parliamo di molecole diverse tra loro, come LSD, psilocibina, MDMA e ketamina, che, secondo un’enorme mole di studi scientifici in continuo aumento, sarebbero efficaci nel trattare patologie che vanno dalla depressione resistente ai farmaci tradizionali, passando per il disturbo da stress post traumatico o il disturbo ossessivo-compulsivo, fino ad arrivare alle dipendenze da sostanze, alcol compreso. È dai primi anni duemila che queste sostanze sono tornate prepotentemente alla ribalta della ricerca scientifica, portando alla definizione di “Rinascimento psichedelico”. Un cambio di paradigma che, di recente, sta incidendo anche sulle politiche sanitarie di diversi Paesi.
La Nuova Zelanda è l’ultimo Paese ad aver autorizzato l’uso terapeutico degli psichedelici in medicina: il professor Cameron Lacey potrà trattare con psilocibina i pazienti affetti da depressione resistente, mentre gli altri medici dovranno richiedere l’approvazione a Medsafe, l’ente regolatorio nazionale. A fare da apripista era stata l’Australia, che dal 1° luglio 2023 consente agli psichiatri di prescrivere MDMA e psilocibina come farmaci a tutti gli effetti, prima al mondo a introdurre una simile regolamentazione. In Europa, la Repubblica Ceca sarà la prima a muoversi in questa direzione: dal 2026 la psilocibina potrà essere impiegata contro depressione, PTSD e dipendenze. Nel frattempo la Germania è diventato il primo Paese europeo a permettere, a certe condizioni, di curare i pazienti con la psilocibina, il principio attivo dei funghi magici; l’autorità regolatoria per i farmaci in Germania (BfArM), ha autorizzato due strutture, l’Istituto Centrale di Salute Mentale e la Clinica OVID di Berlino, a un programma di uso compassionevole, coma già accade negli Stati Uniti, in Canada, in Svizzera e Israele.
Ed è una possibilità che, secondo l’Associazione Luca Coscioni, dovrebbe essere disponibile anche in Italia, perché, anche in assenza di una legge esplicita, l’uso compassionevole di farmaci sperimentali – comprese le sostanze psichedeliche – è già previsto dalla normativa vigente (Regolamento UE 726/2004, DM 2017). Sul tema l’associazione ha di recente pubblicato un documento dell’avvocata e attivista civile Claudia Moretti, in cui viene spiegato che secondo le norme che regolano le cure palliative e l’uso del farmaco sperimentale è possibile già oggi utilizzare composti che si sono dimostrati efficaci in letteratura, in assenza di un’alternativa a livello terapeutico.
Mentre a livello europeo è attiva una ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) che mira a promuovere l’accesso equo, sicuro e legale alle terapie assistite da psichedelici per migliorare la salute mentale nell’Unione Europea, anche in Italia qualcosa sta cambiando. È stato infatti dato il via libera al primo studio clinico italiano per analizzare gli effetti della psilocibina nel trattamento della depressione resistente ai farmaci tradizionali e sarà coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità. Lo studio, che durerà 2 anni e prevede la partecipazione di 68 pazienti con depressione resistente, valuterà gli effetti della psilocibina sui pazienti tramite l’utilizzo di tecniche innovative di neuroimaging e neurofisiologia, che permettono di ottenere immagini dettagliate del cervello, con l’obiettivo di identificare biomarcatori cerebrali e definire nuove strategie di psichiatria di precisione.
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha autorizzato l’invio di una nave militare per «garantire assistenza ai cittadini italiani» a bordo della Global Sumud Flotilla, la missione umanitaria marittima che intende rompere l’assedio israeliano su Gaza. L’invio della nave militare, la fregata multiruolo Fasan della Marina Militare, arriva in risposta all’attacco con droni scagliato contro diverse imbarcazioni della Flotilla nella notte tra ieri e oggi, 24 settembre. Crosetto ha condannato l’attacco, e ha spiegato che la nave si trovava già in navigazione a nord dell’isola di Creta e che ora sta viaggiando verso l’area «per eventuali attività di soccorso». La decisione è stata presa in coordinazione con la premier Meloni e il Capo di Stato Maggiore della Difesa. Crosetto ha inoltre informato l’addetto militare israeliano in Italia, l’ambasciatore e l’addetto militare italiani in Israele, e l’unità di crisi della Farnesina. Nel frattempo, Tajani ha chiesto a Israele di garantire la sicurezza dei civili a bordo del convoglio, ammettendo implicitamente la presunta responsabilità di Tel Aviv negli attacchi.
«In merito all’attacco subito nelle scorse ore dalle imbarcazioni della Sumud Flotilla, a bordo delle quali si trovano anche cittadini italiani, condotto mediante l’impiego di droni da parte di autori al momento non identificati, non si può che esprimere la più dura condanna». Inizia così il comunicato del ministero della Difesa, che rimarca come, «in democrazia anche le manifestazioni e le forme di protesta devono essere tutelate quando si svolgono nel rispetto delle norme del diritto internazionale e senza ricorso alla violenza». Crosetto ha dunque annunciato di avere inviato la fregata Fasan verso l’area, «per eventuale attività di soccorso». Il ministro non ha specificato in cosa consistano esattamente queste attività, né che ruolo avrebbe l’imbarcazione nel caso in cui dovesse verificarsi un ulteriore attacco. La nave, dispiegata nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro al largo delle coste libiche, è già in navigazione verso il convoglio ed è partita questa notte alle 3:50.
La scelta di inviare la fregata Fasan «in soccorso» agli italiani della Global Sumud Flotilla da parte di Crosetto arriva in seguito all’attacco avvenuto nella notte tra ieri e oggi a diverse navi della missione umanitaria: secondo i resoconti degli attivisti, diverse navi sono state attaccate da una serie di droni che avrebbero sganciato bombe assordanti, oggetti non identificati e spray urticanti nelle acque internazionali a sud dell’isola di Creta. In seguito all’attacco, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha contattato le autorità israeliane, «affinché qualsiasi operazione che possa essere affidata alle forze amate di Gerusalemme sia condotta rispettando il diritto internazionale e un principio di assoluta cautela»; le parole di Tajani sembrano ammettere implicitamente che l’attacco, che non è stato reclamato da nessuno, sia effettivamente stato condotto da Israele, e che il governo italiano ne sia pienamente conscio. Nonostante ciò, il ministro non ha rilasciato alcuna condanna contro lo Stato ebraico, suggerendo, anzi, che non criticherebbe eventuali «operazioni affidate alle forze armate di Gerusalemme», sempre se condotte con «cautela».
Ieri, martedì 23 settembre, a Roma, è iniziato il processo per diffamazione intentato da ENI contro Greenpeace Italia, Greenpeace Paesi Bassi e ReCommon. La multinazionale accusa le organizzazioni di aver promosso una «campagna d’odio», ma queste denunciano l’azione come una causa temeraria volta a intimidire chi critica l’azienda e il suo ruolo nella crisi climatica. La coalizione europea CASE ha già certificato il procedimento come tale. ENI è accusata di distogliere l’attenzione dalla “Giusta Causa” avviata nel 2023 per denunciare le responsabilità del Cane a Sei Zampe nell’attuale crisi climatica. Greenpeace e ReCommon promettono di continuare la denuncia pubblica.
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