Nonostante il cessate il fuoco, proseguono le stragi di palestinesi da parte dell’esercito israeliano a Gaza, ma questo non ha impedito alle grandi imprese di tutto il mondo – comprese quelle italiane – di cominciare a guardare con interesse alla fase della ricostruzione fiutando la possibilità di fare affari d’oro grazie ai finanziamenti internazionali. È quella che in senso lato si può definire shock economy, la tendenza ad approfittare di crisi di qualsiasi tipo per mettere in atto azioni di speculazione economico-finanziaria che vanno soprattutto a beneficio di una élite economica. Tra le principali imprese italiane, quelle che punterebbero a partecipare al business della ricostruzione compaiono Webuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire. Secondo la rivista Fortune Italia, «Le aziende europee avranno una corsia privilegiata nelle gare per la ricostruzione».
La Banca Mondiale ha stimato in oltre 80 miliardi di dollari la cifra per smaltire le macerie e ricostruire Gaza e, insieme alle Nazioni Unite, ha già pubblicato diversi bandi per finanziare la ristrutturazione del territorio martoriato dalla guerra, tra cui il “Procurement Plan 2025-2027” con sovvenzioni iniziali per il progetto di riedificazione. L’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS), invece, ha indetto un bando per apparecchiature mediche destinate agli ospedali palestinesi, la maggior parte dei quali sono interamente da ricostruire. La Banca Mondiale ha conferito a Gaza lo status di “special conflict-affected“, facilitando così l’accesso delle aziende ai bandi. Degli ottanta miliardi almeno venti andranno spesi nei primi tre anni e questo ha già attirato l’attenzione di grandi gruppi industriali, tra cui quelli europei e italiani.
La ricostruzione di Gaza si preannuncia come un compito estremamente difficile: il livello di distruzione, infatti, richiede la rimozione di ben 61 milioni di tonnellate di rovine. Almeno 436.000 abitazioni sono state distrutte o parzialmente danneggiate, secondo le stime di sei mesi fa contenute nel rapporto redatto dall’Ufficio per gli Affari Umanitari dell’Onu. Tra le rovine ci sono poi parti in amianto, metalli pesanti e ordigni inesplosi che necessitano di un «trattamento speciale», senza considerare il fatto che le macerie “restituiranno” almeno diecimila cadaveri. Secondo le Nazioni Unite per ristrutturare l’enclave potrebbero volerci circa vent’anni.
In questo quadro, gli ottanta miliardi di dollari stimati per ristrutturare Gaza serviranno per realizzare tre livelli di intervento tra loro interdipendenti: messa in sicurezza e rimozione delle macerie; ripristino funzionale delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria); ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo livello, non è possibile avviare gli altri due e senza il secondo, il terzo non è sostenibile nel tempo. A tal fine, si prevede che la cifra complessiva sarà stanziata in fasi e strumenti diversi: la prima fase prevede le donazioni per stabilizzazione, macerie e servizi essenziali, la seconda richiede un’unione tra donatori, banche multilaterali e garanzie per lavori su reti idriche, elettriche e trasporti. La terza fase infine apre a partenariati pubblico-privato (PPP) riguardanti edilizia sociale, energia distribuita e gestione dei rifiuti. Ed è qui che subentra l’interesse delle grandi imprese e che si svolgeranno le partite per i grandi appalti.
Tra le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione figurano grandi gruppi internazionali, tra cui anche diverse imprese italiane: oltre alle già citate WeBuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire compaiono anche Cementir, Gavio e ENI. Il grosso degli appalti potrebbe andare a WeBuild con il supporto di Cassa Depositi e Prestiti, mentre Gavio si occuperebbe delle infrastrutture stradali. Si fanno anche i nomi di Italferr per le ferrovie e Anas per l’asfalto. Ma la protagonista principale, secondo Piazza Affari, sarà Cementir dei Caltagirone grazie alla sua importante capacità produttiva in Turchia. Secondo Banca Akros, Cementir «potrebbe beneficiare della fine dei conflitti in Ucraina, Siria e nella Striscia di Gaza» grazie alla forte presenza in Turchia che la colloca nella posizione ideale per servire i cantieri dell’area. Dopo l’annuncio del presidente statunitense Trump sull’accordo per Gaza e la ricostruzione, le azioni Cementir hanno guadagnato il 16%, mentre da inizio anno la crescita arriva al 52%. Sono salite del 2% anche le altre due possibili beneficiarie della ricostruzione a Gaza: Buzzi e WeBuild. In questo panorama, anche la Commissione europea ha valutato un investimentotriennale fino a 1,6 miliardi di euro (2025-2027).
Dopo aver contribuito alla distruzione di Gaza mediante il totale silenzio sulla condotta di Israele o addirittura inviando armi, ora i governi di buona parte del mondo cercano il loro spazio privilegiato negli affari della ricostruzione della Striscia con promesse allettanti per i grandi colossi industriali. Non c’è però solo l’aspetto economico, ma anche quello geopolitico: finanziare la ricostruzione di Gaza significa esercitare influenza sul territorio, rafforzando la propria presenza strategia nell’area del Mediterraneo. Profitti per le imprese secondo la dottrina della shock economy e geo-strategia per i governi appaiono le chiavi di volta che guidano le azioni degli attori internazionali nella ricostruzione di Gaza. Nel frattempo, il cessate il fuoco appare sempre più fragile e la popolazione civile è ancora sotto il fuoco dell’esercito israeliano che, a quanto pare, non ha ancora terminato la missione della distruzione dell’enclave palestinese.
Al Senato americano è stato siglato un accordo bipartisan che pone fine allo shutdown del governo federale, estendendo il finanziamento fino al 30 gennaio. Bufera sugli otto senatori del partito Democratico che hanno rotto la linea del gruppo e votato a favore dell’intesa. L’accordo prevede anche la riassunzione dei dipendenti federali licenziati durante la chiusura. Continuano i negoziati per le misure più controverse, tra cui la riforma sanitaria. Ora il disegno di legge passerà all’esame della Camera. Questo dovrebbe permettere il ritorno alla normalità del traffico aereo che rischiava una paralisi totale nelle prossime ore.
Dal 1998, da quando sono disponibili i primi dati a livello mondiale, al 2023, l'accesso all'elettricità è cresciuto nel mondo. Ourworldindata ha elaborato, sulla base dei dati forniti dalla Banca Mondiale, un indicatore per misurare il fenomeno. È risultato che la percentuale di popolazione che usufruisce di una fonte elettrica capace di coprire bisogni basilari sia passata dal 73% del 1998 al 92% del 2023. A trainare la crescita sono le regioni del Sud globale, come l'Africa Subsahariana e l'Asia meridionale. L'accesso all'elettricità ha un'importante ricaduta sulle condizioni di vita delle ...
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Nella Repubblica Democratica del Congo sono scoppiati nuovi scontri. I combattimenti stanno interessando gli altopiani di Fizi e Mwenga, nella provincia orientale del Sud Kivu. A scontrarsi sono il gruppo ribelle Twirwaneho, vicino all’M23, e l’esercito regolare, supportato dal Burundi. Secondo le fonti locali, almeno dieci persone sarebbero state uccise nei combattimenti, e i ribelli avrebbero conquistato diversi villaggi. Gli scontri arrivano dopo un mese di relativa calma nel Paese, raggiunta dopo i negoziati di pace tra i ribelli dell’M23 e le autorità centrali.
Le autorità marittime della Malesia hanno dichiarato di stare effettuando una operazione di soccorso per cercare circa 300 persone migranti disperse nei pressi dell’arcipelago di Langkawi, vicino al confine con la Thailandia. Il gruppo di migranti era partito da Buthidaung, in Birmania: le persone erano dirette in Malesia, e sono inizialmente salite a bordo di una grande imbarcazione; mentre si avvicinavano al confine, è stato loro ordinato di trasferirsi su tre imbarcazioni più piccole per eludere le autorità. C’è tuttavia stato un incidente, e ora risultano disperse. Finora, le autorità della Malesia hanno trovato dieci sopravvissuti e un corpo.
È tutto pronto per l’inizio della COP30, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2025. Gli incontri inizieranno domani, lunedì 10 novembre, a Belém, città portuale brasiliana situata sul limitare dell’Amazzonia, e termineranno il 21 novembre. Il vertice di quest’anno sarà particolarmente delicato: tra le varie cose, in ballo ci sono i tagli delle emissioni previsti per l’accordo di Parigi, i finanziamenti ai cosiddetti “Paesi meno sviluppati”, gli aiuti alle popolazioni indigene e il tentativo di istituire un fondo per la preservazione delle foreste. Agli incontri, tuttavia, mancheranno i leader di diversi Paesi importanti – primi fra tutti gli Stati Uniti – mentre i capi indigeni e i rappresentanti Paesi meno sviluppati faticano addirittura a trovare alloggio in città. Di contro, è prevista la presenza di lobbisti per le grandi multinazionali del fossile, storicamente più rappresentate delle popolazioni indigene.
Gli incontri di domani proveranno a fare passi avanti per il raggiungimento degli obiettivi delineati dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dall’accordo di Parigi. La UNFCCC prevede di raggiungere «la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da impedire pericolose interferenze antropiche con il sistema climatico», e di farlo «entro un lasso di tempo sufficiente a consentire agli ecosistemi di adattarsi»; l’accordo di Parigi, invece, punta a limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C. Durante gli incontri si discuterà dei nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il 2035; un altro dei progetti chiave promossi dalla guida brasiliana è il Tropical Forest Forever Facility, un fondo da 125 miliardi di dollari destinato alla preservazione delle foreste.
Agli incontri parteciperanno circa 50.000 persone. Ci saranno delegati da almeno 162 Paesi, rappresentanti indigeni, membri della società civile e lobbisti dei gruppi di idrocarburi; gli eventuali accordi raggiunti dai Paesi avrebbero valore vincolante. I problemi di rappresentatività si sono fatti sentire sin dall’organizzazione del vertice: Belém non ha infatti la capacità ricettiva per ospitare tutte le persone che avrebbero dovuto partecipare agli incontri. Prima della COP, la città contava circa 18.000 posti letto, e sin da gennaio, il governo brasiliano ha stanziato decine di milioni di euro per cercare di aumentare l’offerta entro l’inizio del vertice. A oggi, Belém offre circa 53.000 alloggi di cui 14.547 in alberghi, 6.000 nelle crociere, 10.004 affitti tramite agenzie immobiliari e 22.452 Airbnb. Secondo quanto comunica il quotidiano francese Le Monde, all’inizio della scorsa settimana 49 Paesi che intendevano partecipare all’evento non erano ancora riusciti a trovare un alloggio; il ministro per l’Ambiente della Lettonia ha detto all’agenzia di stampa Reuters di avere chiesto di potere partecipare ai tavoli tramite collegamento a distanza, perché i costi per gli alloggi erano troppo alti.
A risentire del problema dei costi e del numero degli alloggi sono stati propri i Paesi meno sviluppati, quelli dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari, e i gruppi indigeni. Alcuni rappresentanti di questi ultimi hanno lanciato la Flotilla4Change, una iniziativa per attraversare l’Atlantico a bordo di imbarcazioni a vela; a partecipare sono circa 3.000 persone tra attivisti, scienziati dell’ambiente e, appunto, membri delle comunità indigene. Parallelamente, decine di imbarcazioni si sono mosse da diverse località dell’Amazzonia, delle Ande, e di altri Paesi sudamericani come l’Ecuador. Lo scopo delle missioni è quello di mettere in risalto gli effetti della deforestazione e della carbonizzazione sulle comunità.
Chi invece non sembra avere avuto alcun problema con gli alloggi sono i lobbisti che lavorano per i gruppi di idrocarburi. Non è ancora noto quanti rappresentanti parteciperanno agli incontri di quest’anno, ma una recente analisi di Kick Big Polluters Out (KBPO), una coalizione di 450 organizzazioni per l’ambiente, ha svelato i numeri degli anni precedenti. Negli ultimi quattro anni, tra il 2021 e il 2024, oltre 5.300 lobbisti hanno avuto accesso ai vertici ONU: alla COP26 erano presenti 503 lobbisti; alla COP27 ce n’erano 636; alla COP28 2.546; e alla COP29 1.773. L’anno scorso i lobbisti erano il 70% in più rispetto al numero totale dei rappresentanti delle Nazioni più vulnerabili al clima, e circa 10 volte il numero di delegati delle comunità indigene. I 5.300 lobbisti che hanno preso parte agli ultimi quattro incontri per l’ambiente hanno lavorato per 859 organizzazioni, tra cui 180 compagnie petrolifere di gas e carbone; la metà esatta di queste ultime rappresentano il 57% di tutto il petrolio e il gas prodotti lo scorso anno.
L’attività lobbistica ha avuto un ruolo negli accordi al ribasso siglati l’anno scorso, in cui risultava centrale il programma di finanziamento dei Paesi meno sviluppati. Quest’anno, il contesto in cui inizia la COP30 non sembra promettere risultati tanto diversi: gli Stati Uniti non saranno presenti, e c’è chi ipotizza che Trump – da fuori – possa fare come già fatto per l’accordo sulle emissioni marittime, ossia esercitare pressione politica sui Paesi per spingerli a bocciare gli accordi troppo svantaggiosi per l’industria fossile. I ministri dell’Ambiente dell’UE hanno recentemente raggiunto un accordo sul taglio delle emissioni, che tuttavia risulta più elastico di quanto originariamente previsto, e lo stesso Brasile ha recentemente autorizzato nuove perforazioni petrolifere in due bacini dell’Amazzonia.
Sono almeno due i morti per il tifone Fung-wong che sta colpendo le Filippine. Il tifone ha colpito le aree centrali e orientali del Paese, portando con sé forti piogge e venti. Per limitare i danni, le autorità hanno ordinato a oltre un milione di persone di evacuare dalle aree colpite. Fung-wong è il terzo tifone che colpisce le Filippine nell’ultimo mese e mezzo: a settembre, il Paese è stato colpito dal tifone Ragasa, che ha causato 25 morti tra Manila e Taiwan; a ottobre e novembre, invece, è stata la volta del tifone Kalmanegi, che ha ucciso 193 persone, di cui 188 nelle Filippine e 5 in Vietnam.
Nel pieno delle trattative sulla legge di bilancio 2026, la tassa sugli extraprofitti bancari riaccende le tensioni nella maggioranza. Il governo è a caccia di risorse per finanziare le misure sociali senza sforare i conti, ce la proposta di tassare gli istituti bancari si è trasformata in uno scontro politico. Ma mentre il teatro della politica invade tv e giornali, molti italiani si chiedono – giustamente – cosa si intende con il termine extraprofitti, in che senso sono diversi dai consueti utili aziendali e perché il tema è diventato “di moda” negli ultimi tempi. È un tema importante, perché capire cosa si intende quando si parla di extraprofitti bancari ci porta al centro di una delle storture del sistema capitalistico europeo che, per preservare le banche da possibili fallimenti come quelli andati in scena nel decennio scorso, ha creato un sistema che – unito all’inflazione – ha permesso agli istituti di credito di generare profitti senza precedenti accumulando soldi che, come vedremo, non è scorretto dire che siano stati sottratti ai correntisti e alle aziende.
Che cosa sono gli extraprofitti bancari
A differenza degli utili aziendali, che rappresentano il profitto ordinario generato da un’impresa attraverso la sua normale attività economica, in condizioni di mercato stabili, per extraprofitti si intendono guadagni temporanei, eccezionalmente elevati rispetto alla media storica o alle attese in condizioni normali di mercato. In sostanza, mentre l’utile misura la redditività strutturale, l’extraprofitto indica una rendita congiunturale dovuta a fattori esterni più che alla produttività o all’efficienza dell’impresa. L’extraprofitto non è un concetto giuridico tipizzato, ma una categoria economica: profitti generati da fattori congiunturali e, quindi, non “fisiologici”. Nello specifico, gli extraprofitti bancari sono i guadagni eccezionali che le banche realizzano in un periodo limitato di tempo, quando le condizioni economiche o monetarie diventano particolarmente favorevoli. In pratica, si verificano quando i tassi d’interesse sui prestiti e mutui aumentano rapidamente, mentre quelli riconosciuti sui depositi dei risparmiatori restano bassi, ampliando così il cosiddetto “margine di interesse”.
Come spiega l’economista e saggista Maurizio Milano, per extraprofitto bancario s’intende l’«incremento straordinario dei guadagni netti delle banche, principalmente a partire dal 2022-2023», maturato quando «i tassi richiesti su prestiti e mutui sono saliti rapidamente», mentre «i rendimenti sui conti correnti e depositi hanno seguito il rialzo in ritardo e solo parzialmente». È da questa asimmetria che nasce la stagione dei profitti record. Nel caso italiano, la discontinuità è stata determinata dalla rapida inversione della politica monetaria: dopo anni di tassi a zero o negativi, la BCE ha innalzato i tassi ufficiali per domare l’inflazione, portando il tasso di riferimento dal 4,50% del settembre 2023 al 4,25% di giugno 2024 e poi su un sentiero di progressiva riduzione fino al 2,15% del giugno 2025. Il picco e la successiva discesa hanno scandito il ciclo dei margini bancari, con l’allargamento nel 2023 e l’inizio di normalizzazione nel 2024-2025. Milano invita a leggere il fenomeno come «una fase “eccezionale” di allargamento del margine di interesse, a favore delle banche, dopo anni di tassi bassi in modo anomalo», sottolineando che «ora la situazione è tornata alla normalità: con i tassi in discesa il margine di interesse è tornato a contrarsi, ritornando su livelli fisiologici».
La linea gialla rappresenta i tassi medi sui prestiti richiesti delle banche, quella azzurra invece i tassi d’interesse che le banche garantiscono ai correntisti. La differenza tra i due tassi rappresenta l’extra-profitto
Margine di interesse e tempi di trasmissione
L’aumento dei tassi ufficiali tra il 2022 e il 2023 ha accelerato l’adeguamento dei tassi su mutui e prestiti, innalzando i ricavi da interessi. Al contrario, la remunerazione della raccolta (depositi a vista e conti) è rimasta più rigida, sia perché i prodotti non indicizzati reagiscono lentamente, sia perché la concorrenza sulla raccolta retail è meno aggressiva nei primi mesi di svolta monetaria. Il risultato è un margine di interesse in forte espansione. È lo stesso Milano a ricordare che «Le banche sono state sicuramente più veloci ad alzare i tassi a proprio favore sugli impieghi – prestiti e mutui a imprese e famiglie – che a rialzare i tassi riconosciuti ai clienti sui depositi, beneficiando così di un veloce e marcato allargamento del margine di interesse». Nella fase precedente, con i tassi negativi, era accaduto l’opposto, con le banche che «dovevano addirittura pagare degli interessi passivi per depositare le riserve alla BCE, mantenendo la remunerazione dei conti dei clienti poco al di sopra dello zero». «In tal caso», spiega Milano, «il margine di interesse per le banche era addirittura negativo», perché la liquidità in eccesso parcheggiata in BCE generava oneri mentre i depositi dei clienti restavano quasi a zero. L’asimmetria non è l’unico driver: efficientamento operativo, digitalizzazione e minori accantonamenti su crediti deteriorati hanno amplificato l’effetto sui conti economici, sostenendo il ROE (Return on Equity, che misura quanto utile netto un’azienda genera per ogni euro di patrimonio netto investito dagli azionisti) nel 2023 e nella prima parte del 2024. Analisi indipendenti segnalano, per esempio, un utile aggregato in crescita e indicatori di redditività in miglioramento nella semestrale 2024 dei principali gruppi italiani, coerenti con la coda del ciclo dei tassi elevati.
Negli ultimi quattro anni il differenziale tra i tassi sui prestiti e quelli garantiti ai correntisti è più che raddoppiato, garantendo alle banche extra-profitti di oltre 40 miliardi l’anno
Quanto valgono gli extraprofitti
Il 2023 è stato un anno straordinario per il settore: le stime consolidate indicano utili di sistema superiori a 40 miliardi, con proiezioni attorno ai 43 miliardi. Si tratta di un ordine di grandezza che non ha precedenti recenti e che ha radicato nell’opinione pubblica l’idea di un “tesoretto” bancario. Nel 2024 la redditività è rimasta elevata: diverse ricognizioni indicano un nuovo massimo storico, con un utile totale nell’area dei 46-47 miliardi, e le prime cinque banche che da sole hanno sommato circa 23,6 miliardi. Anche qui la dinamica è coerente con quanto osservato da Milano: «L’aumento dei tassi ha inciso in misura decisamente positiva sul margine di interesse delle banche, particolarmente in Italia dove i mutui a tasso variabile sono molto diffusi, consentendo così agli istituti bancari di adeguare in tempi rapidi i rialzi dei tassi BCE. Tale aumento è, però, andato man mano contraendosi, visti i numerosi tagli operati dalla BCE a partire dall’estate 2024 e la situazione è ora ritornata alla “normalità”», configurando dunque un guadagno soprattutto “una tantum”.
I timidi interventi del governo italiano
Il governo intervenne per la prima volta nell’estate 2023, con un prelievo straordinario agganciato all’incremento del margine di interesse, inizialmente al 40% e comunque “cappato” allo 0,1% delle attività ponderate per il rischio. In seguito, la possibilità di optare per un accantonamento a riserva non distribuibile ridusse drasticamente il gettito in cassa rispetto alle stime iniziali da 2,5-3 miliardi. L’impianto rimase, dunque, più simbolico che sostanziale, pur segnando un precedente politico. Alcuni economisti, come lo stesso, Milano sono critici verso la logica del prelievo ex post: «Fare cassa cambiando le regole ex post rischia di allontanare la vera priorità di intervenire su spese e sprechi», con la pressione fiscale già elevata che si aggira sul 43% e la spesa pubblica vicino alla metà del PIL.
La legge di bilancio 2026 non reintroduce una “tassa sugli extraprofitti” in senso stretto, ma ne conserva lo spirito con un mix di leve: aumento temporaneo IRAP per banche e assicurazioni, limitazioni a taluni crediti d’imposta e meccanismi per sbloccare le riserve create come alternativa al prelievo del 2023, con oneri in uscita nell’area del 27-27,5% per chi esce dai vincoli. Le stime convergono su un contributo per il comparto dell’ordine di 4,4-4,5 miliardi, pur con elementi di “volontarietà” che lasciano margini di incertezza sul gettito effettivo. Alla domanda se sia opportuno intervenire di nuovo, Milano riconosce la tentazione redistributiva in una fase di finanza pubblica tesa, ma avverte che «cercare di coprire fabbisogni strutturali con manovre una tantum cavalcando il risentimento anti-banche non serve a migliorare i conti pubblici». A suo giudizio, l’attenzione dovrebbe semmai spostarsi su spending review e qualità della spesa.
Effetti attesi su credito e concorrenza
In un mercato relativamente concentrato come quello italiano, un onere straordinario può essere trasferito – almeno in parte – su famiglie e imprese sotto forma di tassi più alti, minori rendimenti della raccolta o maggiori commissioni, comprimendo l’offerta di credito. Le esperienze europee mostrano che prelievi temporanei spesso producono gettiti inferiori alle attese e incentivi a riorganizzare i bilanci per attenuarne l’impatto, con ricadute limitate sulla distribuzione del reddito, ma non trascurabili sull’attività creditizia. Milano avverte che «le “buone intenzioni” potrebbero ottenere risultati controproducenti, ad esempio frenando la concessione di credito, in una fase già delicata del ciclo». C’è poi un rischio di contenziosi e incertezza regolatoria: «Per applicare una tassa sugli extra-profitti bisognerebbe definire con precisione che cosa si intende per “extra”», in questo senso, «il rischio è aprire contenziosi col settore», dice l’economista, che colloca la discussione italiana nel solco di altri Paesi europei, dal Centro-Est alla Germania e alla Francia, dove l’argomento è passato e passerà al vaglio dei Parlamenti e delle autorità fiscali.
La finanziarizzazionedell’economia
Il picco dei profitti ha alimentato la percezione di un divario crescente tra banche e cittadini, specie tra i mutuatari a tasso variabile e i risparmiatori con depositi poco remunerati. «Al di là degli extra-profitti bancari, che hanno riguardato un periodo determinato e conclusosi», osserva Milano, «il focus dovrebbe spostarsi sulla “finanziarizzazione dell’economia”», cioè sullo scollamento fra dinamiche finanziarie ed economia reale. Le politiche monetarie hanno favorito gli asset finanziari, mentre l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto, con effetti regressivi sui redditi fissi. In questo quadro, chiedere al settore un contributo straordinario può apparire come un gesto di equità; resta, però, il tema di fondo: senza più concorrenza, educazione finanziaria e strumenti che riallineino i tempi di trasmissione dei tassi tra impieghi e raccolta, la ciclicità dei margini si ripresenterà, con la stessa controversia politica.
L’economista e saggista Maurizio Milano
La tassazione degli extraprofitti bancari, nella forma prevista dalla manovra 2026, appare più come una mossa di facciata che come una politica economica coerente. Il governo punta a un gettito di circa 4,5 miliardi di euro, cifra modesta se rapportata agli oltre 46 miliardi di utili netti realizzati complessivamente dal sistema bancario nel 2024. In termini relativi, il contributo richiesto allo Stato rappresenta meno del 10% dei profitti del settore e non incide in modo significativo sulla struttura dei bilanci. La misura, pur presentata come un atto di equità, è intrinsecamente debole: il carattere “volontario” dell’adesione e la possibilità di compensare l’imposta con riserve o altri strumenti contabili riducono drasticamente l’impatto reale. Anche in passato, con la tassa del 2023, le banche hanno dimostrato di poter aggirare il prelievo effettivo, trasformandolo in un accantonamento che non ha prodotto gettito per l’erario. I dati ufficiali confermano che il gettito effettivo si è fermato sotto i 700 milioni di euro, a fronte di stime iniziali superiori ai 2,5 miliardi.
Interventi di facciata
Nel frattempo, gli istituti di credito hanno continuato a distribuire dividendi e riacquistare azioni proprie per decine di miliardi. Secondo la Banca d’Italia, nel biennio 2023-2024 le principali banche italiane hanno destinato oltre 18 miliardi di euro tra cedole e buyback (un’operazione con cui una società ricompra sul mercato le proprie azioni utilizzando la liquidità disponibile), una somma superiore all’intero ammontare del contributo straordinario previsto dalla legge di bilancio. Questo squilibrio alimenta la percezione che il governo preferisca interventi di facciata, mentre lascia intatta la rendita generata dall’asimmetria tra tassi sui prestiti e remunerazione dei depositi. Il settore bancario, dal canto suo, difende i risultati come un “ritorno alla normalità” dopo un decennio di margini compressi. Ma i numeri raccontano una realtà più complessa: nel 2023, il margine d’interesse delle principali banche italiane è cresciuto in media del 40%, mentre i tassi medi riconosciuti sui depositi a vista sono rimasti sotto l’1%, contro tassi sui prestiti che hanno superato il 5%. L’effetto redistributivo di questa forbice è evidente: una trasferenza silenziosa di reddito da famiglie e imprese verso gli istituti di credito, mascherata da normalità di mercato.
Conclusioni
In questo quadro, la manovra 2026 rischia di essere una risposta debole a un problema strutturale. Colpire gli extraprofitti con un prelievo temporaneo può generare consenso, ma non modifica le cause profonde del disequilibrio: un mercato bancario poco competitivo, tassi di remunerazione della raccolta rigidi e un sistema fiscale che continua a gravare su chi produce e investe. Il rischio, come avverte anche Maurizio Milano, è che «le buone intenzioni ottengano risultati controproducenti, frenando la concessione di credito proprio nella fase in cui servirebbe più sostegno all’economia reale». In definitiva, la tassa sugli extraprofitti rappresenta un compromesso imperfetto: troppo blanda per riequilibrare il sistema, troppo simbolica per produrre effetti redistributivi, troppo incerta per migliorare i conti pubblici. Le banche, che nel frattempo restano tra i principali beneficiari del ciclo monetario, escono di fatto indenni; il governo, che si limita a misure una tantum, rinuncia ancora una volta a una riforma strutturale della finanza e della concorrenza. Se non accompagnata da un piano serio per ridurre la concentrazione del mercato, migliorare la trasparenza dei tassi e incentivare la concorrenza sui depositi, questa misura finirà per confermare l’impressione che, in Italia, la politica economica continui a punire simbolicamente i forti per non affrontare la debolezza del sistema. La vera sfida, per banche e governo, non è tanto tassare i profitti eccezionali, quanto impedire che diventino permanenti a spese dell’economia reale.
La Cina ha sospeso il divieto di esportazione di gallio, antimonio e germanio, metalli rari utilizzati nella produzione di semiconduttori, verso gli Stati Uniti. I semiconduttori vengono utilizzati per produrre microchip, componenti fondamentali della maggior parte dei prodotti tecnologici. Il divieto di esportazione era stato disposto dalla Cina nel dicembre del 2024. La sua sospensione rimarrà in vigore fino al 27 novembre 2026. Essa arriva qualche giorno dopo il raggiungimento di una tregua commerciale tra i due Paesi: il 5 novembre, Washington e Pechino hanno stipulato un’intesa per fermare i dazi aggiuntivi sui prodotti in entrata.
Sale a 69mila persone uccise il bilancio del genocidio del popolo palestinese commesso da Israele nella Striscia di Gaza. A riferirlo è l’agenzia di stampa WAFA, citando i dati forniti dalle autorità locali dopo il recupero di molti corpi sotto le macerie. Le vittime continuano a crescere anche a causa delle quotidiane violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele, che dall’inizio della tregua raggiunta il 10 ottobre scorso ha ucciso 241 palestinesi, ferendone 614. Le persone ferite nella Striscia negli ultimi due anni salgono così a 170mila.
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