Nel 2025 la spesa per gli stipendi della pubblica amministrazione ha raggiunto i 201 miliardi di euro, con un aumento del 2,3% rispetto all’anno precedente, principalmente a causa dei rinnovi contrattuali. La Corte dei Conti, nella sua relazione sul costo del lavoro pubblico, segnala che i salari non hanno ancora recuperato l’inflazione e sottolinea l’importanza di una gestione attenta dello smart working. Inoltre, evidenzia l’invecchiamento della forza lavoro pubblica. Rispetto al 2015, la spesa per i salari pubblici è aumentata del 19,4%, con una quota sul Pil del 9%.
Entro il 2030 la Polonia avrà più carri armati di Germania, Francia, UK e Italia messi insieme
Con un accordo miliardario firmato il 1° agosto a Gliwice, nel cuore industriale della Slesia, la Polonia ha ufficialmente imboccato la strada per diventare, entro il 2030, la prima potenza corazzata d’Europa. Forte dell’intesa siglata con la Corea del Sud per l’acquisto di 180 carri armati K2 Black Panther e 81 veicoli blindati di supporto progettati dalla Hyundai Rotem, Varsavia si prepara ad affermare la propria centralità strategica nel continente, rafforzando il ruolo di gendarme atlantico dell’Est. E lo fa con numeri che parlano da soli: 1.100 carri armati operativi, più di quelli posseduti da Regno Unito, Francia, Germania e Italia messi insieme (un totale di 950). Solo due Stati membri della NATO – Grecia e Turchia – avranno più carri armati della Polonia una volta che l’accordo con la Corea del Sud sarà concluso: la Turchia ne possiede attualmente 2238, la Grecia 1344.
Il contratto da oltre 6 miliardi di euro rappresenta l’ultima tappa di un processo di maxi-riarmo iniziato nel 2022. Già allora Varsavia aveva stipulato un precedente accordo con Seul da 3,4 miliardi di dollari per l’acquisto di lanciatori d’artiglieria a razzo K239 Chunmoo, aerei da combattimento leggeri FA-50 e obici semoventi K9. Il nuovo accordo – che prevede forniture a ritmo serrato, dal 2026 al 2030 – include 81 veicoli di supporto, formazione logistica, un programma completo di assistenza e riparazione e una clausola di trasferimento tecnologico. Gli ultimi 61 tank saranno assemblati direttamente in Polonia, nello stabilimento Bumar Łabędy di Gliwice, rilanciando così anche l’industria nazionale della difesa.
«È un grande affare per la sicurezza della nostra patria, per la nostra industria bellica. L’accordo avvia il processo di ripristino della produzione di carri armati nel nostro Paese», ha scritto su X il vicepremier e ministro della Difesa Władysław Kosiniak-Kamysz, sottolineando l’importanza simbolica della data di firma dell’intesa, l’81° anniversario della Rivolta di Varsavia.
La scelta della Polonia di puntare su fornitori non europei – Corea del Sud e Stati Uniti in testa – non è soltanto tecnica, ma geopolitica. Mentre Bruxelles cerca di rafforzare l’autonomia strategica dell’UE attraverso iniziative come ReArm Europe, Varsavia guarda altrove. In pochi anni, ha acquistato non solo tank K2, ma anche carri armati M1 Abrams, elicotteri Apache, lanciarazzi HIMARS e sistemi antimissilistici Patriot dagli Stati Uniti, ponendosi come un “alleato modello della NATO”, secondo il segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth.
Questa politica di approvvigionamento bellico esterno riflette una linea chiara: l’ancoraggio della sicurezza polacca non è l’Unione Europea, ma l’Alleanza Atlantica. È a Washington, non a Bruxelles, che Varsavia guarda quando si tratta di definire i propri paradigmi difensivi. Un paradosso se si pensa che la Polonia, con una spesa militare pari al 4,7% del PIL (35 miliardi di euro) – la quota più alta tra i Paesi della NATO – è oggi il maggior investitore in Difesa in Europa in rapporto alla ricchezza nazionale.
Il riarmo polacco non si limita alla modernizzazione dell’apparato militare: sta trasformando in profondità anche la società. In un contesto di crescente tensione geopolitica, il governo ha avviato una profonda riforma educativa con l’introduzione di programmi scolastici di preparazione alla difesa, che includono corsi di addestramento militare, orientamento alla sicurezza nazionale e alfabetizzazione strategica. Già dalle scuole superiori si diffonde un approccio “pre-bellico” all’educazione, pensato per preparare i giovani a un potenziale conflitto su larga scala.
Parallelamente, in un clima da assedio permanente, la mobilitazione civile assume connotati sempre più marcati: la retorica antirussa pervade il dibattito pubblico e il giornalismo mainstream, mentre il volontariato territoriale e le esercitazioni delle forze di difesa locali vengono incentivate e normalizzate. Il Paese alimenta un’identità collettiva fondata sulla minaccia costante dell’aggressione esterna, in particolare da parte di Mosca, costruendo un’immagine di “fortezza” dell’Occidente ai confini dell’Orso russo. «Dobbiamo sempre investire e ricordare che Putin o un altro dittatore potrebbero arrivare e minacciare la nostra sicurezza. Non finirà mai», aveva dichiarato a febbraio, nella conferenza stampa a fianco del capo del Pentagono Hegseth, Wladyslaw Kosiniak-Kamysz, esortando l’Europa a svegliarsi.
A determinare questa accelerazione del riarmo non è solo la guerra in Ucraina e la crisi al confine con la Bielorussia, ma anche la memoria storica di un Paese vulnerabile alla pressione delle potenze esterne. La geografia polacca – un vasto bassopiano privo di barriere naturali – ha favorito, nel XX secolo, sia l’avanzata della Wehrmacht nel 1939 sia quella dell’Armata Rossa nel 1944-1945. Da qui l’adozione di una dottrina difensiva basata sul controllo aggressivo del fronte terrestre tramite la superiorità corazzata. La lezione del passato è oggi rilanciata in chiave moderna: deterrenza non più solo come difesa, ma come proiezione d’influenza e, dunque, di potenza. La Polonia punta a presidiare ogni accesso al proprio territorio, diventando uno snodo cruciale dell’interoperabilità NATO e un soggetto centrale nel dispositivo di contenimento del rischio russo. Il riarmo non è più strumento, ma fine: parte di una strategia strutturale volta a consolidare l’agenda russofoba del governo, guidato dal centrista Donald Tusk.
La Polonia, oggi, non è solo un attore emergente sulla scacchiera europea. È il volto nuovo di un continente che, tra memoria storica, timori contemporanei e ambizioni di potenza, si prepara a ridefinire il proprio destino entro la fine del decennio.
Brasile: colosso petrolifero annuncia la scoperta di un nuovo giacimento
Il colosso britannico degli idrocarburi BP ha annunciato di avere trovato il più grande giacimento petrolifero scoperto dalla compagnia negli ultimi 25 anni. Il giacimento è stato scoperto durante un’attività esplorativa in un bacino su cui detiene una licenza esclusiva. Il giacimento si trova al largo del Brasile, a circa 400 chilometri da Rio de Janeiro. Esso si trova a una profondità di 2,37 chilometri e si estende su un’area di 300 chilometri quadrati. «I risultati delle analisi effettuate sul sito di perforazione indicano livelli elevati di anidride carbonica», si legge in un comunicato della compagnia. BP inizierà ora le analisi di laboratorio per comprendere quanti idrocarburi potranno essere estratti.
La “democrazia” israeliana: deputato dice che a Gaza è genocidio, cacciato dal Parlamento
In quella che il mondo Occidentale insiste a definire “unica democrazia del Medio Oriente” le già esigue voci di critica che si sollevano contro l’operato genocida del proprio Stato vengono allontanate con la violenza. È successo a Ofer Cassif, deputato di Hadash, partito che si definisce non-sionista. Nel suo discorso davanti al Parlamento, Cassif ha detto che Israele sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza, citando un movimento di ammissione che lentamente e faticosamente sta prendendo piede anche tra una minoranza di intellettuali ebraici. Una parola proibita all’interno del palazzo del potere israeliano, dove Cassif è stato prima contestato e interrotto da alcuni parlamentari di altri schieramenti e poi portato via senza che gli sia stato concesso di terminare il discorso.
Ofer Kassif è stato cacciato dall’aula della Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, ieri sera, lunedì 4 agosto. Il deputato stava leggendo un discorso per commemorare il “massacro di Shefaram” di vent’anni fa, in cui un soldato israeliano sparò all’interno di un autobus uccidendo 4 arabi israeliani. Nel suo intervento, Kassif ha citato un’intervista a David Grossman rilasciata a La Repubblica, in cui lo scrittore israeliano ammette che quello che Israele sta commettendo a Gaza è un genocidio; non appena il deputato ha pronunciato la parola “genocidio” sono iniziate a sollevarsi voci di dissenso contro di lui, che lo hanno intimato a non utilizzare quel termine all’interno del Parlamento. Kassif ha continuato a parlare per circa un minuto, mentre le urla contro di lui si sono moltiplicate, e l’aula si è scaldata; è stato così chiamato un uomo della sicurezza, che ha spostato il microfono con cui Kassif stava parlando, per poi prendere il deputato di peso e portarlo fuori dall’aula.
Non è la prima volta che Ofer Kassif, che da oltre un anno accusa il proprio Paese di genocidio, viene allontanato dalla Knesset per avere preso una posizione contro il genocidio in corso a Gaza. L’ultima volta era stata lo scorso luglio, quando era stato sospeso dalle attività parlamentari per avere contestato il genocidio a Gaza e la campagna militare di Israele in Iran durante la Guerra dei dodici giorni. Poco prima, anche il leader di Hadash, Ayman Odeh, era stato oggetto di un procedimento per avere contestato le politiche israeliane, tanto che contro di lui era stata avanzata una richiesta di impeachment, poi non approvata. La scure della censura israeliana si è abbattuta anche sui media, come accaduto all’emittente qatariota Al Jazeera e al giornale israeliano di sinistra Hareetz.
In generale, quella che l’Occidente definisce “unica democrazia del Medio Oriente” ha ben poco di democratico. Tra i casi più eclatanti che contraddicono questa narrativa ci son quelli di leggi che negano i diritti dei palestinesi, a cui Israele ha imposto addirittura il controllo delle relazioni amorose; c’è poi la legge sulla cittadinanza e sull’entrata in Israele, anche detta «messa al bando della riunificazione delle famiglie», secondo cui nessun individuo di nazionalità straniera proveniente dalla Striscia di Gaza o dalla Cisgiordania può entrare in Israele o ottenere la cittadinanza se non per comprovati motivi lavorativi o di salute. La più contraddittoria, tuttavia, è forse la cosiddetta Legge della Nazione, che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, minando al contempo il concetto di Stato democratico: questo perché se lo Stato è ebraico, non può essere democratico, perché non può esistere al suo interno uguaglianza. Mentre se è democratico, non può essere ebraico, in quanto una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica né tantomeno della religione professata.
I “Panama Playlists” ci mostrano i gusti musicali dei poteri USA
Spotify si trova a dover affrontare un nuovo “scandalo”. Approfittando della scarsa inclinazione alla privacy offerta dal servizio di streaming musicale, ha preso forma “Panama Playlists”, un portale che, scimmiottando il nome dei Panama Papers, fa trapelare le presunte liste musicali ascoltate dai ricchi e dai potenti. Politici, dirigenti e giornalisti statunitensi hanno visto snudati i loro gusti musicali grazie a un monitoraggio continuo delle informazioni pubbliche e dagli sforzi di raccolta da un anonimo che si muove dietro al progetto sin dall’“estate del 2024”.
Secondo il creatore, ogni playlist resa pubblica, ogni foto profilo e persino il “live listening feed”, ossia l’ultimo brano ascoltato e il conteggio delle riproduzioni, è stato vagliato e associato alle identità reali grazie a indizi quali nomi utente, titoli di playlist e connessioni con altri profili, quali le playlist condivise con partner o colleghi. Sebbene vengano sfruttati esclusivamente i dati condivisi online da Spotify, alcune informazioni, come il numero esatto di volte in cui un brano è stato riprodotto, suggeriscono da parte dell’autore una sorveglianza costante nell’arco di giorni, probabilmente ottenuta tramite le API di Spotify o l’osservazione diretta dei feed. Non è chiaro se il risultato delle Panama Playlists sia frutto di un soggetto che ha agito singolarmente o di un intero team, visto che le informazioni in merito sono state modificate con il progressivo aggiornamento del portale.
Tra i protagonisti messi in luce, spicca JD Vance, Vicepresidente degli Stati Uniti, la cui playlist “Making Dinner” alterna le hit delle boyband One Direction e Backstreet Boys a pezzi indie anni 2000. Non molto diverso è il gusto di Pam Bondi, ex Procuratrice Generale, che ha rivelato un debole per i tormentoni degli anni Duemila – da Nelly ai Black Eyed Peas. Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, ha invece condiviso una playlist intitolata “Baby Shower”, la quale spazia dalle grandi voci soul di Beyoncé e Aretha Franklin fino ai più recenti successi virali come A Bar Song (Tipsy) di Shaboozey.
Nel mondo della tecnologia, Sam Altman, CEO di OpenAI, è comparso con la sua raccolta “My Shazam Tracks”, un mix tra i ritmi elettronici di David Guetta, le note pop di OneRepublic. Figurano dunque nomi quali il conduttore Seth Meyers, il CEO di Meta AI, Alexandr Wang, il fondatore di Oculus, Palmer Luckey, e giornalisti di spicco quali Taylor Lorenz e Kara Swisher. Alcune delle figure coinvolte hanno effettivamente confermato l’autenticità delle informazioni tapelate: Luckey ha confessato senza remore che la compilation attribuitagli è la sua, mentre Mike Isaac del New York Times ha tirato un sospiro di sollievo nel far notare che, contrariamente ad altri, non ha playlist “troppo imbarazzanti”. Kara Swisher ha smentito la playlist a lei attribuita, ma ha anche spiegato che, probabilmente, la discrepanza deriva dal fatto che la lista dei brani sia stata ricavata da un dispositivo condiviso con la moglie.
Il caso mette a nudo una falla strutturale, ma sistematicamente ricercata, di Spotify: tutte le playlist e i profili rimangono pubblici salvo disattivazione manuale, un’opzione poco visibile nelle impostazioni e che va applicata manualmente a ogni singolo elenco. Il servizio indulge infatti in dinamiche dai toni social, prediligendo l’esposizione di informazioni che troppo spesso consideriamo intime o private e rendendo laboriosa ogni azione che potrebbe ostacolare questa direzione. L’integrazione con Facebook e Google – che trasferisce anagrafiche da un servizio all’altro – contribuisce inoltre a rendere ancora più facile l’associazione di dati personali a informazioni di ascolto.
Nonostante non siano emersi retroscena rivoluzionari, i leak di Panama Playlists offrono uno spaccato inedito sulla vita privata delle élite globali e ricordano con una certa leggerezza che, nell’era della condivisione digitale, ogni clic e ogni ascolto possono diventare accessibili a terzi, nonché che l’anonimato scricchiola sotto il peso di un’analisi incrociata dei Big Data. Un richiamo alla realtà che, questa volta, ci viene indirettamente offerto da Spotify, azienda che probabilmente è ben felice di aver finalmente distolto l’attenzione dal fatto che il suo CEO, Daniel Ek, sia solito investire nel settore delle armi.
Il Ruanda ha accettato di ricevere 250 migranti espulsi dagli USA
Il Ruanda ha accettato di accogliere fino a 250 migranti espulsi dagli Stati Uniti, secondo quanto annunciato dalla portavoce del governo Yolande Makolo. Le persone dovranno aver già scontato eventuali condanne e non avere procedimenti penali in corso. I primi dieci nomi sono già stati trasmessi dall’amministrazione Trump, che ha proposto accordi simili ad altri 15 paesi africani. In cambio, il Ruanda riceverà fondi di entità non precisata. L’intesa rappresenta anche un’opportunità politica per il presidente Paul Kagame, che mira a migliorare la propria immagine internazionale nonostante il suo governo autoritario.
Siracusa, 12 arresti per maltrattamenti su anziani e disabili in RSA
In provincia di Siracusa, dodici persone sono state arrestate per maltrattamenti e violenze ai danni di anziani e disabili psichici in due RSA situate nella zona di Pachino: cinque sono finite in carcere, sette ai domiciliari con divieto di lavorare in ambito assistenziale. Le due strutture sono state sequestrate, insieme a una terza in via preventiva, tutte riconducibili alla stessa cooperativa. Le indagini, avviate dopo segnalazioni di residenti, hanno rivelato gravi abusi, somministrazione impropria di farmaci e carenze assistenziali. Altri quattro indagati sono sottoposti all’obbligo di firma. I 20 ospiti sono stati trasferiti altrove.
Caso Almasri: archiviazione per Meloni, ma due ministri rischiano il processo
Archiviata la premier Meloni, mentre tre uomini della compagine di governo, tra cui due ministri, rischiano di finire alla sbarra per peculato e favoreggiamento. Sono queste le risultanze dell’indagine del Tribunale dei ministri sul caso Almasri, torturatore capo della polizia giudiziaria libica arrestato in Italia lo scorso gennaio e frettolosamente liberato e rimpatriato a Tripoli su un aereo dei servizi segreti italiani. A darne notizia è direttamente il Presidente del Consiglio in un comunicato: «I giudici hanno archiviato la mia sola posizione, mentre dal decreto desumo che verrà chiesta l’autorizzazione a procedere nei confronti dei Ministri Piantedosi e Nordio e del Sottosegretario Mantovano», scrive Meloni. La quale però rivendica l’operato sulla vicenda, affermando di avere agito in maniera coesa con i ministri e il sottosegretario e attaccando apertamente i magistrati.
«Gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna, limitatamente alla posizione della sola Presidente del Consiglio Giorgia Meloni», mette nero su bianco il Tribunale dei ministri, poiché non esistono prove di una sua «reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato (…) con le attività poste in essere dagli altri concorrenti». «Nel decreto si sostiene che io “non sia stata preventivamente informata e (non) abbia condiviso la decisione assunta”: e in tal modo non avrei rafforzato “il programma criminoso” – scrive la premier -. Si sostiene pertanto che due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all’intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte. È una tesi palesemente assurda». Nello specifico, il Tribunale dei ministri aveva aperto un’inchiesta sulla mancata consegna di Almasri alla Corte penale internazionale da parte del governo italiano in seguito alla denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti. «A differenza di qualche mio predecessore, che ha preso le distanze da un suo ministro in situazioni similari» (qui la stilettata di Meloni è diretta a Giuseppe Conte ed è riferita al caso Open Arms), «rivendico che questo governo agisce in modo coeso sotto la mia guida: ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata. È quindi assurdo chiedere che vadano a giudizio Piantedosi, Nordio e Mantovano, e non anche io, prima di loro».
La vicenda è salita alle cronache nazionali negli ultimi mesi. Almasri, soprannominato «il torturatore di Tripoli» dalle organizzazioni che investigano la situazione dei migranti in Libia, si trovava a Torino quando, lo scorso 19 gennaio, è stato arrestato dalle forze dell’ordine italiane su segnalazione dell’Interpol. Su di lui pendeva un ordine di arresto segreto della Corte Penale Internazionale (CPI) con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, principalmente per quanto accade all’interno delle carceri libiche. La Corte d’Appello di Roma ha però giudicato «irrituale» l’operazione, sostenendo che la polizia italiana non avesse l’autorità per agire, come prevedono le norme sulla cooperazione con la Corte dell’Aia, senza una preventiva autorizzazione del ministro della Giustizia. Il ministro della giustizia Nordio, a quel punto, avrebbe potuto sanare la situazione dando l’autorizzazione per convalidare l’arresto, ma non è intervenuto. In un informativa al Parlamento, Nordio si è difeso dicendo che il mandato è «arrivato in lingua inglese senza essere tradotto con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello». Tra questa sorta di barriera linguistica, cui Nordio ha fatto più volte riferimento, e il «pasticcio» formale della CPI, il guardasigilli – almeno secondo la sua versione – avrebbe tardato nella lettura degli atti, che in ogni caso avrebbe giudicato «nulli». Così, Almasri è stato scarcerato, con il ministro dell’Interno Piantedosi che ha firmato un decreto di espulsione, dichiarandolo «soggetto pericoloso» e vietandogli l’ingresso in Italia per 15 anni. Almasri è stato quindi riportato in Libia su un aereo dei servizi segreti italiani.
Anche Piantedosi ha riferito al Parlamento sulla vicenda, facendo riferimento a vaghe questioni di sicurezza e ordine pubblico, ma affermando verso la fine dell’intervento «sì è reso necessario agire rapidamente per i profili di pericolosità riconducibili al soggetto e per i rischi che la sua permanenza in Italia avrebbe comportato soprattutto con riguardo a valutazioni concernenti la sicurezza dei cittadini italiani e la sicurezza degli interessi del nostro Paese all’estero in scenari di rilevante valore strategico, ma al contempo di enormi complessità e delicatezza». Ammettendo dunque indirettamente che i rapporti tra Italia e Libia sono troppo «rilevanti» per venire minati. Effettivamente, il legame tra Italia e Libia è oggi molto stretto: Tripoli è tornata a essere il principale fornitore di petrolio per il nostro Paese, mentre il volume degli scambi commerciali è triplicato negli ultimi anni. Secondo la Camera di Commercio Italo-Libica, l’Italia è attualmente il primo importatore e il terzo esportatore nei confronti della Libia. Senza dimenticare il controverso Memorandum Italia-Libia sui flussi migratori, firmato nel 2017 e rinnovato ogni tre anni, che prevede il nostro Paese finanzi e equipaggi la guardia costiera libica per impedire alle imbarcazioni di migranti di lasciare il Paese nordafricano.
Giappone-Australia, accordo da 6,5 miliardi per navi da guerra
Il Giappone ha concluso un accordo dal valore di 6,5 miliardi di dollari per la costruzione di navi da guerra di nuova generazione per l’Australia. L’accordo segna la più importante vendita di armamenti da parte di Tokyo dal 2014; esso prevede la costruzione di tre fregate multiruolo di classe Mogami, da consegnare a Canberra a partire dal 2029. Tale mezzo è progettato per dare la caccia ai sottomarini, colpire navi di superficie e fornire difesa aerea e richiede un equipaggio di circa 90 uomini, meno della metà di quello richiesto dalle navi attualmente in uso in Australia; l’Australia prevede di impiegare le nuove navi per difendere le proprie rotte commerciali marittime.
Fonti del governo israeliano: “Decisione presa, occuperemo Gaza e Trump è con noi”
Secondo diverse fonti del governo israeliano, riprese da giornali ed emittenti di tutto il Paese, Israele avrebbe deciso di occupare Gaza. La scelta, che avrebbe ottenuto il beneplacito di Trump, sarebbe arrivata a margine di una riunione del governo e dovrebbe essere ratificata a partire da oggi dal gabinetto di sicurezza. Il contenuto del presunto piano non risulta ancora chiaro, ma pare che esso partirebbe da una intensificazione degli attacchi nelle aree centrali della Striscia di Gaza. Altrettanto nebbiosa appare la durata dell’occupazione militare, la quale tuttavia potrebbe portare alla più volte suggerita annessione dell’intera Striscia in via definitiva. Pare inoltre che, in sede di discussione, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, si sia opposto al piano e abbia annullato una visita con i vertici del Pentagono proprio a causa della sua approvazione; «Se non è d’accordo dovrebbe dimettersi», avrebbe detto Netanyahu, riferendosi a Zamir.
L’indiscrezione sulla presunta approvazione del piano di occupazione totale di Gaza ha iniziato a comparire sui giornali israeliani nella sera di ieri, lunedì 4 agosto. Da allora non è arrivata alcuna conferma ufficiale, ma la notizia è stata ripresa da numerosi quotidiani ed emittenti del Paese, tra cui spiccano nomi di corrispondenti e giornalisti generalmente considerati affidabili e autorevoli in Israele. Tra questi, figura Yaakov Bardugo, giornalista di Channel 14 e avvocato particolarmente vicino a Netanyahu, spesso definito dai quotidiani israeliani «confidente» e «stretto collaboratore» del primo ministro. «Il governo si riunirà questa settimana per decidere se sottomettere e occupare la Striscia di Gaza», scriveva ieri Bardugo per la sua emittente. Secondo Bardugo, «una volta interrotti i negoziati e impedita la possibilità di restituire gli ostaggi attraverso un accordo parziale o globale, l’IDF riceverà l’ordine di occupare la Striscia di Gaza e sottomettere la sanguinaria organizzazione terroristica Hamas». L’obiettivo dichiarato, insomma, è sempre quello di uccidere i vertici di Hamas, che, secondo Bardugo, verrebbero presi di mira anche se si trovassero fuori dai territori palestinesi; altro fine sarebbe quello di liberare gli ostaggi, nonostante lo stesso capo dell’esercito Zamir abbia a più riprese affermato che la messa in sicurezza degli ostaggi non sia conciliabile con l’occupazione militare della Striscia.
Diversi media del Paese hanno riportato presunti attriti tra Zamir e Netanyahu, che sarebbero sorti proprio a causa dell’approvazione del piano. Lo scontro ai vertici è stato confermato da Itay Blumenthal, noto corrispondente di guerra di Channel 11. «Il capo di Stato Maggiore Zamir ha annullato un viaggio di lavoro negli Stati Uniti per incontrare alti funzionari del Pentagono, che prevedeva la sua partecipazione a una cerimonia di scambio», scrive Blumenthal. Zamir avrebbe dovuto viaggiare verso gli Stati Uniti proprio ieri sera, ma, da quanto riporta il giornalista, il vertice militare avrebbe «condizionato il suo viaggio all’esistenza di un cessate il fuoco» e deciso di annullarlo per il mancato raggiungimento di un accordo; oggi, scrive Blumenthal, sarebbe prevista una riunione di gabinetto per parlare del piano. Nel caso dovesse venire approvato, riporta il sito di informazione Ynet, esso avrebbe l’appoggio di Trump.
Il contenuto del presunto piano di occupazione è ancora vago. Secondo Channel 14, esso prevedrebbe in prima battuta l’entrata diretta delle forze terrestri a Gaza City, Deir al Balah e Nuseirat (campo profughi situato nello stesso governatorato di Deir al Balah), nell’ottica di un’invasione dell’intera area centrale della Striscia – dove si ritiene che si trovino gli ostaggi; se dovesse venire approvato, Israele aumenterebbe il numero di soldati presenti a Gaza. Zamir, invece, pare preferire un approccio meno diretto, che prevedrebbe l’accerchiamento delle medesime aree nell’ottica di una guerra di logoramento e l’effettuazione di incursioni mirate. Secondo l’emittente Channel 12, nel quadro proposto da Zamir, la fanteria israeliana circonderebbe le medesime aree elencate da Channel 14, per poi penetrare in attacchi temporanei «anche in luoghi che riteneva protetti». Sotto il piano di Zamir, il numero di soldati presenti nella Striscia diminuirebbe per essere concentrato in punti strategici, e «qualsiasi mossa delle IDF nella zona avverrebbe in pieno coordinamento con gli americani»; che prenda piede la proposta di Zamir o quella di Netanyahu, insomma, Israele intensificherebbe le aggressioni, e gli USA sarebbero coinvolti.