Nel cuore verde del Sud-Est asiatico, una rivoluzione silenziosa sta salvando le foreste tropicali. In 38 regioni dell’area, l’adozione della tecnica dell’agroforestazione – l’integrazione sistematica di alberi e arbusti nei paesaggi agricoli – ha provocato un’inversione di tendenza rispetto alla deforestazione selvaggia, che per anni ha minacciato questi territori. Secondo uno studio internazionale pubblicato su Nature Sustainability, grazie a questa pratica si è ottenuto, in media, un calo annuo della deforestazione pari all’1,08%. Questo risultato si è tradotto in una tutela aggiuntiva di oltre 250.000 ettari all’anno e una riduzione delle emissioni pari a quasi 59 milioni di tonnellate di CO2.
Lo studio, realizzato dalla National University of Singapore, dalla Vietnam National University di Hanoi e dalla Chulalongkorn University di Bangkok, ha analizzato i dati fra il 2015 e il 2023 in 38 regioni subnazionali. I ricercatori spiegano che l’agroforestazione porta benefici ramificati: maggiore biodiversità, suoli più sani, produttività agricola potenziata e, cosa cruciale nel contesto climatico, riduzione dell’emissione di anidride carbonica. La riduzione media dell’1,08% della deforestazione è stata osservata in 22 delle 38 regioni; nelle restanti 16, la deforestazione è aumentata, ma solo dello 0,64% in media. Le aree che hanno tratto maggior vantaggio sono state quelle con alte concentrazioni di carbonio (HCS, High Carbon Stock). I Paesi dove la pratica si è dimostrata più efficace includono il Laos, regioni del nord-Vietnam, il Myanmar settentrionale, il Borneo e la Malesia peninsulare. Al contrario, la Cambogia orientale ha registrato un aumento della deforestazione. Gli autori sottolineano che la chiave del successo è spesso la gestione comunitaria del territorio: ad esempio, in Indonesia le “aree forestali sociali” gestite dalle comunità sono passate da 1,8 milioni di ettari nel 2018 a 5 milioni nel 2022.
Questo risultato assume un rilievo particolare in un momento storico in cui l’azione per la tutela delle foreste tropicali è imprescindibile per mitigare il cambiamento climatico e preservare gli ecosistemi più fragili. Il Sud-Est asiatico ospita circa il 15% delle foreste naturali mondiali, ma negli ultimi vent’anni ha perso territori pari all’estensione della Thailandia. L’agroforestazione emerge come una strategia concreta: non solo fermare il disboscamento, ma facilitarne la riconversione in paesaggi produttivi sostenibili, combinando la tutela delle piante native con le coltivazioni agricole. I ricercatori avvertono che non tutte le esperienze sono uguali e che la mera introduzione di alberi non basta: servono diritti territoriali chiari, coinvolgimento della comunità locale e adeguati incentivi economici. Senza questi elementi, il rischio è che l’agroforestazione diventi un pretesto per un’espansione agricola che continua a spingere sull’ecosistema boschivo. La foresta non ha solo bisogno di essere protetta, ma può essere parte attiva del tessuto agricolo-ambientale, attraverso un sistema che unisca rigore, partecipazione e visione.
Nel nord-est del Belgio, tre droni di grandi dimensioni sono stati avvistati durante la notte sopra la base militare di Kleine Brogel Air Base, un sito tra quelli europei in cui potenzialmente sarebbero custodite armi nucleari statunitensi. Il ministro della Difesa belga Theo Francken ha definito l’episodio «non un normale sorvolo, ma una chiara missione di sorveglianza mirata». Le forze di polizia e l’aeronautica hanno seguito i velivoli senza però riuscire a intercettare i velivoli e le indagini sono tuttora in corso per risalire a provenienza e responsabilità.
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha annunciato la ricostruzione e il potenziamento degli impianti nucleari del Paese, precisando che l’obiettivo non riguarda la produzione di armi nucleari. Nel suo intervento, ha evidenziato che il programma atomico sarà rilanciato nel rispetto degli impegni internazionali e destinato esclusivamente a scopi civili. L’annuncio arriva in un contesto di crescenti tensioni regionali e di nuove sanzioni statunitensi. Pezeshkian ha inoltre sottolineato l’importanza del dialogo con le potenze occidentali e la necessità di garantire all’Iran il diritto allo sviluppo tecnologico e alla sovranità energetica.
La crisi tra Stati Uniti e Venezuela torna a infiammarsi. Nelle ultime ore, Washington ha dato il via al più imponente dispiegamento navale nel Mar dei Caraibi, dalla crisi dei missili di Cuba nel 1962: la portaerei USS Gerald Ford, la più grande della flotta americana, è salpata insieme ad altre tre navi da guerra con a bordo circa 4.000 militari. Il Pentagono parla di un’operazione contro il narcotraffico, ma il messaggio politico è chiaro: gli Stati Uniti vogliono mostrare i muscoli a Caracas. Nel frattempo, un raid aereo statunitense in acque internazionali ha colpito una nave sospettata di traffico di droga, causando la morte di tre persone.
Sebbene venerdì il presidente Donald Trump avesse dichiarato di non voler attaccare il Venezuela, smentendo le indiscrezioni del Wall Street Journal e del Miami Herald che avevano parlato di attacchi imminenti, la tensione continua a salire. Da settimane, gli Stati Uniti stanno rafforzando la loro presenza militare nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico orientale. Navi lanciamissili dotate di Tomahawk, caccia F/A-18 e aerei da guerra elettronica EA-18 Growler pattugliano la regione, mentre bombardieri B-52 e B-1 hanno condotto missioni di ricognizione a ridosso delle coste venezuelane. La vicina Repubblica di Trinidad e Tobago ha messo il proprio esercito in stato di allerta, temendo un’escalation. Sebbene, la Casa Bianca neghi piani di invasione, fonti interne citate dai media americani riferiscono che sarebbero già stati individuati porti e aeroporti venezuelani ritenuti “obiettivi sensibili” legati al traffico di droga.
Mentre le navi americane si avvicinano alle acque venezuelane, da Mosca arriva una presa di posizione. Il ministero degli Esteri russo, tramite la portavoce Maria Zakharova, ha denunciato sabato «l’uso eccessivo della forza militare» da parte degli Stati Uniti nel Mar dei Caraibi, riaffermando il «sostegno alla leadership venezuelana nella tutela della sovranità nazionale». «Stiamo monitorando attentamente la situazione in Venezuela», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ribadendo che la Russia auspica una soluzione pacifica. La diplomazia si accompagna ai fatti: il presidente venezuelano Nicolás Maduroha inviato una richiesta formale di assistenza militare a Vladimir Putin, chiedendo sistemi radar difensivi, pezzi di ricambio per i caccia Sukhoi Su-30, motori e missili antiaerei. L’alleanza tra Caracas e Mosca non è nuova: i due Paesi hanno firmato a maggio un accordo di cooperazione strategica che comprende forniture energetiche, addestramento militare e tecnologia di difesa. Tuttavia, gli analisti restano cauti. La Russia, già impegnata sul fronte ucraino e limitata dalle sanzioni occidentali, potrebbe non disporre delle risorse necessarie per un intervento diretto. Ciononostante, anche solo un appoggio simbolico a Maduro rischia di riaprire un fronte di tensione tra Mosca e Washington in quello che, storicamente, gli Stati Uniti considerano il loro “cortile di casa”. Caracas nel frattempo, guarda anche a Pechino e Teheran per ampliare le alleanze e rompere l’isolamento internazionale.
La crisi ha immediatamente suscitato reazioni nella comunità internazionale. Nazioni Unite e Unione Europea hanno già espresso preoccupazione per l’aumento della tensione e per il rischio di un conflitto nella regione. Il commissario dell’ONU per i diritti umani, Volker Türk, ha chiesto l’apertura di un’inchiesta sui raid militari americani contro le imbarcazioni nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico, definendo gli attacchi “inaccettabili”. Esperti di diritto internazionale ricordano che qualsiasi azione militare non autorizzata dal Consiglio di Sicurezza costituirebbe una violazione del principio di sovranità e del divieto dell’uso della forza sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. In America Latina, diversi Paesi hanno invitato Washington a evitare «iniziative unilaterali» e Caracas a non rispondere alle provocazioni. Il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha dichiarato che l’ingresso di imbarcazioni statunitensi nei Caraibi «è una fonte di preoccupazione» e che il Paese intende evitare uno scontro diretto. La situazione resta incandescente. Oltre al destino del Venezuela, in gioco non ci sono solo relazioni bilaterali, ma la tenuta del diritto internazionale e l’equilibrio di potere in un mondo che sembra tornare pericolosamente ai vecchi fantasmi della guerra fredda.
Una pesante frana ha colpito la zona collinare di Chesongoch, nella contea di Elgeyo Marakwet, nell’ovest del Kenya, provocando la morte di almeno 21 persone e lasciando più di 30 disperse. Le forti piogge della stagione breve hanno scatenato lo smottamento che ha distrutto oltre mille abitazioni. Le squadre di soccorso sono al lavoro nonostante le condizioni difficili: 30 feriti gravi sono stati evacuati in aereo verso un ospedale di Eldoret. L’area collinare di Chesongoch è soggetta a frane che hanno causato decine di morti in incidenti separati nel 2010 e nel 2012. Nel 2020, un centro commerciale è stato spazzato via dalle inondazioni.
Mezzo secolo dopo, esattamente 51 anni da quella notte di novembre del ’75, una fotografia in bianco e nero del massacro all’Idroscalo, la “lezione al frocio” che in realtà è stata un’esecuzione pianificata nei dettagli, racconta più di tanti fascicoli giudiziari e di pagine dei giornali. Il furgone nero della morgue, un tizio in giacca e cravatta, un altro col giubbino scuro di pelle e un cronista col taccuino, tutti con la sigaretta a penzoloni in bocca o tra le dita. In primo piano, sotto al lenzuolo macchiato da due grosse chiazze di sangue e tenuto fermo alla meglio da due mattoni di cemento, il cadavere martoriato di Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista. L’intellettuale del Io so, dell’impegno civile, degli ultimi della classe. Uno voce limpida e scomoda, molto scomoda nel panorama italiano degli anni ’70, sullo sfondo un Paese che veniva avvelenato e insanguinato dalla strategia della tensione e dalle oscure trame che PPP, il suo acronimo, aveva promesso di rivelare e denunciare: «Farò nomi e cognomi».
La notte tra l’1 e il 2 novembre è stato trucidato in una zona di Ostia dove erano fiorite baracche abusive, un nulla di edifici malsani ed erbacce alle spalle del litorale. Proprio lì, attorno ad un campo di calcio di terra battuta trasformato in acquitrino dalla pioggia e dall’umidità, ha trovato la morte l’autore degli Scritti corsari e di tutte le pagine vergate con rabbia, lucidità e molta lungimiranza, se si pensa a quanto sia stato profetico sulla società italiana, sui suoi vizi e distorsioni e sul suo declino.
Ostia, Idroscalo — il luogo del ritrovamento del corpo di Pier Paolo Pasolini, la mattina del 2 novembre 1975.
Pasolini ammazzato di botte e abbandonato ormai agonizzante tra le pozzanghere, in una notte nera come la pece: passando adesso da quelle parti, non si trova molto di più se non una statua di marmo bianco realizzata da Mario Rosati una ventina di anni fa. Pochi suoi versi incisi sopra, «passivo come un uccello che vede tutto, volando, e si porta in cuore nel volo in cielo la coscienza che non perdona», tutt’intorno un parco con giochi per i bambini e qualche pianta, all’orizzonte Ostia che è rimasta invece uguale a com’era quella notte, e con essa Roma con i suoi tentacoli, le sue trame, i suoi incroci pericolosi tra la politica, i servizi segreti e gli ambienti dell’estrema destra che chiamavano “Paola” il poeta, con sommo spregio per la sua figura e le sue scelte di vita che lo hanno portato ad essere scomodo e ingombrante nella società piccolo-borghese del tempo.
Pasolini coi suoi Ragazzi di vita, protagonisti del romanzo che raccontava la gioventù sbadata o a volte bruciata delle periferie romane. Volti ed esistenze sospesi in bilico sulla delinquenza, faticose sopravvivenze quotidiane alle spalle di casermoni popolari o in quartieri senz’anima: personaggi quasi caricaturali come Pino Pelosi, detto “Pelosino”, ragazzino di Casal Bruciato dove la Tiburtina si libera dalla pressione di Roma e apre al nulla della campagna. Un giornalista che lo vide superstite dell’aggressione all’Idroscalo, gonfiato di botte pure lui, con gli occhi lividi e il naso tumefatto, lo ha soprannominato proprio per questo Pino la Rana.
Eppure è stato lui il capro espiatorio del delitto Pasolini. Giuseppe Pelosi, poi deceduto di malattia nel 2017, è stato riconosciuto colpevole del suo omicidio e condannato con sentenza definitiva a nove anni e sette mesi che ha scontato in silenzio e integralmente, fino a che dopo 30 anni non ha deciso di parlare, di vuotare il sacco e di raccontare come sia finito in carcere per un assassinio non commesso, minacciato di fare una brutta fine, lui e la sua famiglia, se avesse parlato.
Lui che si è sempre definito un «ladro di motorini», coinvolto in quello che col passare del tempo è parso sempre di più un omicidio politico. L’agguato ad un intellettuale libero che coi suoi libri e i suoi film aveva denudato il re, oggi si direbbe i poteri forti di allora, e che stava scrivendo Petrolio, il romanzo nel quale molti hanno visto una specie di requisitoria contro molti potenti tra cui l’ENI. Nella sentenza del 4 dicembre 1976, i giudici di appello hanno addossato a Pelosi – definito «un marchettaro di 17 anni» – la responsabilità dell’omicidio. La ricostruzione passata alle cronache è stata distillata con pochi semplici ingredienti. Pasolini che rimorchia Pelosi alla stazione Termini, lo porta a mangiare al ristorante “Biondo Tevere” e poi si apparta con lui in quella landa desolata, in una fredda e cupa notte invernarle, a bordo della sua Alfa GT che diventerà poi un capitolo a parte della vicenda, oltre che una potenziale fonte di prove mai cercate. A quel punto, dopo un rapporto sessuale, Pino Pelosi lo avrebbe aggredito “con un bastone marcio” e ridotto fin di vita, col cranio spaccato e diverse altre ferite gravi, oltre a investirlo con la sua stessa auto.
Pino “la Rana” Pelosi, diciassettenne all’epoca dei fatti, fu arrestato e processato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto all’Idroscalo di Ostia
Del resto, Pasolini aveva da tempo un’etichetta ed erano note le sue frequentazioni. Fu espulso dal Partito Comunista di Casarsa della Delizia, in Friuli, la sua origine, per una denuncia di abusi su minori e gli fu tolta l’abilitazione all’insegnamento in tutto il territorio italiano. La ricostruzione del delitto faceva acqua da tutte le parti, a cominciare dal fatto che un ragazzino minorenne potesse accanirsi con tanta ferocia su un adulto comunque in grado di badare a se stesso, se è vero che proprio Pasolini aveva inseguito e malmenato Serafino Di Luia raggiungendolo fin sopra ad un autobus, in seguito all’aggressione di matrice fascista per la prima del film Mamma Roma, il 22 settembre 1962. Di Luia non era uno qualsiasi: era un “camerata” tra i fondatori di Lotta di Popolo, inquisito e prosciolto per ricostituzione del partito fascista e sentito tra l’altro come testimone durante le indagini per la strage dell’Italicus. Eppure in primo grado, il Tribunale minorile di Roma aveva suggerito un altro scenario per la feroce aggressione dell’Idroscalo. Con pronuncia del 26 aprile 1976, i giudici che avevano ritenuto Pelosi inattendibile, lo avevano condannato per omicidio volontario «in concorso con ignoti». «Assai più logica appare invece l’ipotesi che il Pasolini mentre stava fuggendo venne raggiunto da più persone che, dopo averlo fermato per i capelli, iniziarono a colpirlo tanto con il bastone che con la tavoletta (e probabilmente anche con altri oggetti contundenti)».
Invece di sviluppare con altre indagini e approfondimenti questo scenario, che avrebbe probabilmente le trame oscure e i mandanti dell’omicidio di Pasolini, è stato semplicemente accompagnato in carcere Pelosi che si è deciso a parlare nel 2005, partecipando ad una trasmissione televisiva in Rai. Davanti alle telecamere di Franca Leosini, l’ex ragazzo di vita ormai adulto ha raccontato un’altra verità, spiegando che è stato obbligato ad attribuirsi la colpa dei fatti per evitare conseguenze peggiori. Pelosi conosceva Pasolini da mesi, la loro amicizia era iniziata nel luglio di quell’anno e i due si erano visti diverse volte. Ne era al corrente la famiglia di Pelosi e lo sapevano anche gli amici di Pasolini, a cominciare da Ninetto Davoli che è stato al suo fianco per una vita.
Quella notte all’Idroscalo i due non ci sono andati per appartarsi in auto, ma perché Pasolini doveva recuperare le nove “pizze” del film Salò che il regista stava ultimando. Le bobine erano state trafugate a Cinecittà e tramite Pelosi, che conosceva alcuni degli autori del furto a cui è poi seguita una richiesta di soldi, Pasolini aveva concordato la cifra e il luogo per riprendersi quei materiali senza i quali non avrebbe potuto ultimare la sua opera. All’appuntamento all’Idroscalo, i due attendevano i fratelli Borsellino, Franco detto “Labbrone” e Pino, “er braciola”, nomi caricaturali ma feroci criminali, amici di Pino con cui avevano compiuto molti furti e “imprese” tra la Tiburtina e le zone limitrofe. Pelosi racconta, però, che dopo un momento di intimità con Pasolini, all’improvviso sono sbucati dal buio una motocicletta, una Gilera, con a bordo i fratelli Borsellino e due automobili, una 1500 scura ed una GT identica a quella del poeta.
L’Alfa Romeo 2000 GT Veloce di Pier Paolo Pasolini durante una perquisizione degli inquirenti
Dall’auto sono scesi tre uomini e mentre uno, grosso e con la barba scura, ha immobilizzato e percosso Pelosi, intimandogli di «farsi i ca… tuoi», gli altri due hanno tirato fuori di forza Pasolini dall’Alfa Romeo e hanno cominciato a colpirlo con violenza alla testa. Il regista ha cercato di fuggire, già sanguinante e in preda ad urla disumane, ma hanno continuato a colpirlo, investendolo con l’altra GT presente sulla scena, fino a ridurlo in fin vita. Prima di fuggire via, il tizio che ha malmenato Pelosi gli ha intimato di non dire una parola su tutto quello che era successo, «perché conosciamo te e la tua famiglia». Pino la Rana, tumefatto e dolorante, è stato arrestato poco dopo dai carabinieri ed è diventato in breve l’assassino di Pasolini, mentre il reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri ha poi rinvenuto tre profili ematici sugli abiti indossati da Pasolini, non appartenenti né al poeta e nemmeno a Pelosi. L’identità del commando che ha eseguito un omicidio premeditato, Pelosi ha raccontato che mentre andavano verso Ostia erano seguiti da una motocicletta e il benzinaio dove si sono fermati a fare rifornimento ha raccontato di aver visto dietro di loro una Fiat 1500 scura, è rimasta ignota.
Per qualcuno, ne faceva parte anche Danilo Abbruciati, uno dei fondatori della Banda della Magliana e che avrebbe fatto parte del furto delle bobine del film Salò su commissione di Franco Conte, vicino ad ambienti della destra romana e titolare di una bisca dove proprio Abbatino aveva visto la GT di Pasolini, che probabilmente ci era andato per trattare la restituzione delle “pizze”. Abbatino conosceva anche i fratelli Borsellino e perfino Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro, per qualcuno presente pure lui all’aggressione dell’Idroscalo che evidentemente è maturata negli ambienti della malavita romana dell’epoca. Solo che per tirarsi fuori, Abbatino ha poi prodotto un certificato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria secondo cui si trovava in carcere dal maggio al novembre del 1975. Il documento non ha dissipato tutti i dubbi sul suo coinvolgimento in quello che è stato, anche, un atto intimidatorio verso il messaggio culturale diffuso da Pasolini.
La morte di Aldo Semerari è stata teatralmente terrificante: l’1 aprile 1982 all’interno di una Fiat 128 parcheggiata davanti all’abitazione di Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra con cui Semerari aveva avuto rapporti di lavoro per una perizia e per la sua attività di incaricato del tribunale, fu trovata la testa del criminologo dentro una bacinella, sul sedile passeggero.
Il suo racconto della Repubblica di Salò nel film che risale proprio a quell’anno non è certamente piaciuto a tanti ambienti di destra ed estrema destra e a personaggi che gravitavano tra la politica e i servizi segreti. Come per esempio il criminologo Aldo Semerari che fu uno dei periti nominati dalla difesa di Pelosi, l’avvocato Rocco Mangia che suggerì a quel ragazzino di borgata di assumersi tutta la responsabilità, «colpevolezza senza complicità», riducendo praticamente tutto ad un “fatto tra froci”. Semerari che in una perizia a distanza, nel 1962, aveva definito Pasolini «persona socialmente pericolosa» e i suoi comportamenti «espressione di infermità mentale». Ma era anche uno che “giocava su più tavoli” nella malavita organizzata romana, in contatto con esponenti della P2 e attivo con l’estrema destra, dopo un passato comunista e ancora prima dopo aver aderito alla Repubblica di Salò. Conosciuto anche dalla Banda della Magliana, se è vero che Abbatino ricorda nella sua villa di Rieti un letto di metallo nero sormontato da una bandiera con svastiche e aquile, e cani dobermann a cui Semerari si rivolgeva con ordini in tedesco.
Anche lui rientra nel cupo scenario e nelle tetre atmosfere che hanno fatto da cornice al delitto Pasolini e la sua fine è stata teatralmente terrificante: l’1 aprile 1982 all’interno di una Fiat 128 parcheggiata davanti all’abitazione di Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra con cui Semerari aveva avuto rapporti di lavoro per una perizia e per la sua attività di incaricato del tribunale, fu trovata la testa del criminologo dentro una bacinella, sul sedile passeggero. Il resto del corpo legato e avvolto in un lenzuolo dentro al bagagliaio. Semerari, che certamente non amava Pasolini per quello che era e per quello che scriveva e che è una delle tante figure cupe che ruotano intorno a queste vicende, è stato anche associato ad ambienti della malavita romana che saldati con quelli dell’estrema destra avrebbero dovuto creare commandi criminali da impiegare per rapine, furti e assalti a portavalori.
Sabaudia 1975, Pasolini e l’Alfa 2000 GTV targata Roma K 69996 in un celebre scatto di Dino Pedriali
L’Alfa Romeo GT di Pasolini fu condotta presso la stazione dei carabinieri di Ostia ma non fu mai sottoposta ad esami o accertamenti. È rimasta alle intemperie per anni fino a che Ninetto Davoli non la fece rottamare, ma all’epoca era possibile farlo utilizzando solo le targhe: da allora la macchina è sparita, ma fino al 2019 alla targa RMK69996 risultava ancora l’immatricolazione dell’Alfa Romeo GT 2000 Veloce a “Pasolini Pier Paolo”. L’ultimo mistero di un delitto premeditato, e probabilmente anche – in qualche modo – annunciato.
Lo shutdown del governo federale americano ha mandato in tilt il traffico aereo negli Stati Uniti. La carenza di controllori di volo, molti dei quali assenti o non retribuiti, ha costretto la Federal Aviation Administration a ridurre le operazioni in numerosi scali. A New York, Los Angeles e Orlando decine di voli sono stati cancellati o hanno accumulato ritardi di oltre due ore. La situazione, aggravata dalla pressione sui turni e dalla mancanza di fondi, rischia di paralizzare il sistema in vista delle festività, mentre le compagnie invitano i passeggeri a verificare lo stato dei voli prima di partire.
Sono stati ritrovati senza vita i due dispersi sulla Cima Vertana, nel gruppo dell’Ortles, in Alto Adige. Si tratta di due turisti tedeschi, padre e figlia di 17 anni. Il bilancio della valanga di ieri sale così a cinque vittime. La slavina, precipitata sul versante nord della montagna, aveva travolto un gruppo di escursionisti. Le ricerche, ostacolate da nebbia e maltempo, sono proseguite per ore: gli elicotteri hanno elitrasportato in quota i soccorritori fino a 2.600 metri, da dove le squadre hanno proseguito a piedi. Ieri erano già stati recuperati i corpi di altri tre turisti tedeschi, due uomini e una donna, travolti mentre risalivano un canalino con piccozze e ramponi.
Un’ondata di rivolte ha colpito le istituzioni politiche ed economiche di vari Paesi sparsi per il globo, dal Nepal alla Mongolia. Tutte hanno un tratto in comune: coloro che vi hanno preso parte sono per la maggior parte appartenenti alla cosiddetta Generazione Z, ovvero quella dei nati tra il 1997 e il 2012. Le analisi condotte dai media hanno bollato questi eventi come proteste contro la corruzione o la repressione poliziesca, senza sforzarsi di comprendere a fondo il fenomeno e tracciare le similitudini. Molte di queste lotte sono infatti animate da una coscienza politica profonda e vedono tra i promotori movimenti che contestano apertamente le disparità economico-sociali, puntando il dito contro un modello di sviluppo che permette condizioni sempre più agiate a una ristretta élite, in molti casi figlia della stessa classe dirigente, in netto contrasto con l’abbandono infrastrutturale e la diffusa povertà della maggior parte della popolazione. Questi manifestanti non chiedono una generica riforma della politica, ma pretendono il cambio di un sistema incentrato su privilegi per pochi e precarietà di vita per tutti gli altri.
Nepal, da Discord alla caduta del governo
Giovani manifestanti a Katmandu, Nepal
Tra le proteste che negli ultimi due anni hanno imperversato tra l’Asia meridionale e il Sud Est Asiatico, le manifestazioni in Nepal sono state tra quelle maggiormente coperte dai mezzi di comunicazione occidentali.
Dopo secoli di monarchia, nonostante l’ottenimento della democrazia, durante gli ultimi vent’anni la situazione in Nepal non ha portato ai miglioramenti sperati dalla popolazione. L’attuazione di un modello capitalista fondato su una scarsa industrializzazione e sul turismo ha ingrossato le casse delle caste più elevate, a discapito della maggior parte della popolazione nepalese. Il tasso di povertà assoluta che supera il 20% e la disoccupazione giovanile al 21% si scontrano con le condizioni economiche delle famiglie al potere, le quali, in molti casi, fanno sfoggio dei propri agi sui social network. Dopo una prima ondata di manifestazioni, represse duramente dalla polizia, l’8 settembre sono riesplose le proteste, quando il governo ha deciso di bloccare temporaneamente l’accesso a più di venti social network. Rapidamente le proteste, organizzate su piattaforme come Discord, sono divenute violente e si sono abbattute sulle principali strutture del potere nepalese a Kathmandu.
I manifestanti hanno preso d’assalto il Parlamento, la Corte Suprema, oltre che le residenze del presidente e le sedi del Partito Comunista del Nepal. Nei giorni seguenti il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli ha rassegnato le dimissioni e il testimone è passato nelle mani di Sushila Karki, giurista nota per la sua lotta alla corruzione e segnalata dai manifestanti come unica figura in grado di poter traghettare il Paese alle prossime elezioni.
Indonesia, il dissenso contro la militarizzazione
Proteste a Makassar, in Indonesia
Tra le proteste imperversate tra i Paesi del Sud Est asiatico, l’Indonesia ha raggiunto livelli di violenza e repressione militare eccezionalmente alti e allarmanti. In pochi giorni le attività della polizia hanno portato a 3000 arresti, venti persone risultano scomparse e l’utilizzo della violenza da parte delle autorità militari ha causato almeno otto morti accertati. Il fuoco della protesta è deflagrato il 25 agosto del 2025, quando i giovani, appoggiati dai sindacati, sono scesi per le strade di Jakarta e in particolare di fronte al Parlamento a manifestare contro l’approvazione di una legge che prevedeva l’aumento di benefici economici per i parlamentari del Paese. Gli stipendi di queste figure politiche superano i 100 milioni di rupie indonesiane (più di 5000 euro), di cui una parte è costituita da un bonus per l’alloggio. Queste cifre entrano in netto contrasto con le politiche attuate dal presidente indonesiano Prabowo Subianto che, in carica dall’ottobre del 2024, ha dato il via a una serie di misure di austerity finalizzate a contrastare l’aumento dell’inflazione attraverso profondi tagli a settori come la sanità e l’istruzione.
Se da un lato i progetti economici di Prabowo hanno già deluso le aspettative, dall’altro la società indonesiana sta vivendo sulla propria pelle un aumento drastico della militarizzazione del Paese. È bene sottolineare che la figura del presidente è storicamente legata agli anni della dittatura in Indonesia, quando, sotto l’autorità di Suharto, Prabowo ricopriva il ruolo di comandante delle forze speciali indonesiane. Difatti, l’approvazione di alcune misure in ambito militare ha rapidamente attirato l’attenzione di coloro i quali hanno vissuto gli anni della dittatura. Nel marzo del 2025, Prabowo ha rimaneggiato l’articolo 47 della Costituzione, applicando un aumento dell’età pensionabile per il personale militare e l’accesso agli incarichi civili da parte delle forze militari. Tra questi ruoli spiccano lasegreteria di Stato, la procuratoria generale e l’antiterrorismo. Se la prima ondata di proteste è stata repressa con violenza dalle autorità, l’approvazione di una nuova misura che raddoppia l’indennità dei parlamentari per le vacanze sta innalzando nuovamente il livello di tensione tra i manifestanti.
Mongolia, si dimettono due presidenti
Proteste di fronte al palazzo del governo a Ulaanbaatar, in Mongolia
Tra le manifestazioni contro la corruzione che hanno animato i giovani di vari Paesi dell’Asia, sicuramente le proteste in Mongolia hanno trovato poco spazio nella stampa generalista italiana. Anche in questo caso, la popolazione è scesa in piazza in seguito a scandali di corruzione legati alla classe politica a capo del Paese. Nel maggio del 2025 sono state organizzate altre manifestazioni in occasione di scandali emersi attraverso i social network della famiglia presidenziale. Il casus belli riguarderebbe alcuni regali di lusso fatti dal figlio del presidente Oyun-Erdene Luvsannamsrai alla propria fidanzata, elemento che metterebbe in evidenza le ricchezze della famiglia al governo e sottolineerebbe così le profonde disuguaglianze tra le élite del Paese e il resto della popolazione. Eletto nel 2024, Luvsannamsrai raggiunse la presidenza grazie a un’alleanza tra il suo Partito Popolare e il Partito Democratico, avversario durante le elezioni.
Le proteste, che si sono svolte in maniera prevalentemente pacifica, hanno raccolto il plauso di alcuni deputati democratici: proprio questo elemento ha portato all’esclusione del partito dalla coalizione di governo e, di conseguenza, alla proposta di una mozione di fiducia nei confronti del presidente Luvsannamsrai. Nonostante il capo del governo abbia negato ogni coinvolgimento con i casi di corruzione, il 3 giugno scorso si è visto costretto a rassegnare le dimissioni in seguito all’insuccesso della mozione di fiducia.
Dopo soltanto quattro mesi, il 10 ottobre del 2025, anche il neopresidente Gombojav Zandanshatar è stato sfiduciato dal parlamento con l’accusa di aver nominato unilateralmente il nuovo ministro della Giustizia e degli Affari Interni, contravvenendo alla Costituzione.
Marocco: più ospedali, meno stadi
Le proteste dei giovani marocchini contro le politiche di Rabat
Anche i giovani marocchini stanno scendendo in piazza da settimane per protestare contro il sistema. Tutto ha avuto inizio a fine settembre del 2025, quando, dopo la diffusione di una notizia riguardante le morti di otto partorienti nell’ospedale Hassan II di Agadir, migliaia di giovani si sono radunati nelle piazze principali delle più grandi città marocchine per manifestare contro le politiche di Rabat. Le immagini delle condizioni in cui versano molti degli ospedali pubblici hanno acceso un sentimento di profonda ingiustizia in una popolazione che denuncia gravi lacune in ambito sanitario, profonde disuguaglianze economiche, un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 37% e una condizione di totale abbandono delle aree più periferiche del Paese.
A questo si aggiunge l’organizzazione della Coppa d’Africa del 2025 e dei Mondiali di calcio del 2030, che, come reclamato dai giovani manifestanti, sta mettendo in evidenza l’interesse da parte del governo di concentrarsi su tematiche futili, invece di intervenire sulle condizioni critiche in cui versano i principali settori pubblici del Paese. Come in Nepal, le proteste sono state organizzate su piattaforme social come Discord e Instagram, sotto il nome di GenZ212 e Moroccan Youth Voices. Le manifestazioni sono rapidamente dilagate in tutto il territorio e, come denunciato da vari collettivi impegnati nella tutela dei diritti umani, le forze di polizia hanno represso fin da subito ogni forma di dissenso, attaccando con violenza sproporzionata i giovani manifestanti e uccidendo tre persone. Gli arresti sarebbero oltre duemila, novecento le accuse di crimini di vario genere. Nonostante le proteste, il multimiliardario primo ministro e sindaco di Agadir Aziz Akhannouch ha sorvolato sulle ragioni delle manifestazioni, mentre il re Mohammed VI ha invitato il governo ad approvare riforme sociali, senza però mai accennare all’eventualità di dimissioni per il presidente Akhannouch.
Perù, la repressione infiamma le proteste
Anche nel caso del Perù, le proteste si sono concentrate dopo l’approvazione, da parte del governo di Dina Boluarte, di una legge legata al sistema pensionistico del Paese. Secondo quanto previsto da questa misura, tra le altre cose, i pensionati di età inferiore ai 40 anni non avrebbero potuto più accedere al 95,5% dei fondi accumulati fino al momento. Spontaneamente, dal 13 settembre, vari manifestanti, ispirati dalle immagini provenienti dal Nepal e dall’Indonesia, hanno iniziato a riunirsi nelle vie del centro della capitale Lima e, nei giorni successivi, le proteste si sono diffuse in varie città del Paese, interessando specialmente i giovani. Fin da subito la polizia ha attaccato con violenza i manifestanti, ferendo anche vari giornalisti, ma la repressione non ha fatto altro che innalzare il livello della tensione sociale.
Il 9 ottobre il Congresso della Repubblica ha destituito Dina Boluarte, per poi trasferire l’incarico al conservatore José Jerí, accusato, tra le altre cose, di aggressione sessuale e arricchimento illecito. L’assunzione dell’incarico da parte del nuovo presidente non ha fatto che aizzare le proteste, che il 15 di ottobre si sono svolte simultaneamente in più di quindici città peruviane. Anche in questo caso la polizia ha represso brutalmente i manifestanti, ferendone a decine, mentre a Lima un agente di polizia avrebbe ucciso il musicista Mauricio Ruíz, noto con il nome d’arte Trvko. L’uccisione di Ruíz ha innescato una spirale di rabbia tra i manifestanti, che la stessa sera si sono radunati davanti alla sede del Congresso della Repubblica e del Palazzo del Potere giudiziale e hanno iniziato a lanciare sassi contro le rispettive sedi del potere peruviano.
Il termine «Gen Z» per celare la lotta di classe
Sebbene sia indubbio che i principali fautori di questa nuova ondata di proteste siano i giovani appartenenti alla generazione nata a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, è interessante notare come la stampa occidentale abbia rapidamente etichettato le proteste attraverso la dicitura «Gen Z», senza sottolineare che nella quasi totalità dei casi si tratta di manifestazioni indette dalle fasce più colpite dalle disuguaglianze sociali e dalla disoccupazione. Come affermato da Wlliam Shoky, redattore della rivista online Africa is a Country, l’attenzione rivolta dai media sull’età dei manifestanti sembra avere il fine di depoliticizzare delle proteste che invece denunciano le nefandezze di sistemi politici ed economici chiaramente definiti.
Proteste per la Palestina a Roma
Se da un lato i media generalisti scelgono di soffermarsi sulla presenza tra i manifestanti di bandiere con il Jolly Roger, il teschio tratto dal fumetto giapponese One Piece, con l’intenzione di trasformare le proteste in elementi di costume giovanile, dall’altro sembra essere messa in atto dalla stessa stampa un’operazione di profonda delegittimazione del movimento, che, nella sua essenza, vuole soppiantare un sistema ereditato da politiche messe a punto dalle generazioni precedenti. Se si vuole tracciare un filo rosso tra queste manifestazioni, è necessario, chiaramente, includere anche le proteste che si stanno verificando in Italia e in molte città europee contro il genocidio in Palestina, perché fondate sull’ingiustizia sofferta davanti all’impunità di cui gode Israele. La rabbia che sta animando simultaneamente migliaia di giovani in varie parti del mondo è il risultato di un sistema politico ormai fallito. Queste proteste stanno dimostrando la forza di una popolazione schiacciata da decenni di disuguaglianze istituzionali; limitarle alla dicitura «Generazione Z» potrebbe essere fin troppo riduttivo.
Una violenta aggressione a bordo di un treno diretto a Huntingdon, nel Cambridgeshire, ha provocato almeno dieci feriti. L’allarme è scattato alle 19:39, quando la British Transport Police ha ricevuto la segnalazione di un’aggressione a bordo del convoglio. Due persone sono state arrestate dalla polizia ferroviaria britannica, intervenuta con oltre trenta agenti armati e numerosi mezzi di soccorso. Il premier Keir Starmer ha definito l’attacco “scioccante e inaccettabile”, assicurando il pieno sostegno alle forze dell’ordine e alle vittime.
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