Il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una legge che obbliga il Dipartimento di Giustizia a rendere pubblici tutti i documenti relativi al caso Jeffrey Epstein entro 30 giorni dall’entrata in vigore. Il presidente Trump ha dichiarato di essere pronto a firmare il provvedimento. Intanto, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers, che ha prestato servizio sotto la presidenza di Bill Clinton, ha annunciato che si ritirerà dagli impegni pubblici a seguito della pubblicazione di nuovi documenti riguardo allo stretto rapporto con Epstein.
COP30: tra le proteste indigene i Paesi del mondo cercano un accordo sul clima
Al trentesimo vertice globale sul clima (COP30) si è conclusa la prima settimana di lavori tra avanzamenti disomogenei, tensioni politiche e qualche spiraglio di progresso. I negoziatori, riuniti a Belém in Brasile, sono ora chiamati a trasformare anni di discussioni in scelte politiche concrete. Più che di scelte per l’ambiente si parla di soldi. Sul tavolo, infatti, alle richieste di compensazioni da parte dei Paesi del sud globale fanno da contraltare le reticenze delle grandi nazioni industrializzate, restie a saldare il conto storico del proprio sviluppo industriale basato sulle fonti fossili per convincere gli Stati emergenti ad accettare di non seguire la medesima traiettoria. Sullo sfondo rimangono le proteste dei popoli indigeni che chiedono di rimettere al centro delle discussioni la protezione dell’ambiente e dei territori. Tutti i negoziati dovranno chiudersi necessariamente con un accordo entro venerdì, in caso contrario le discussioni slitteranno ai colloqui di Bonn del 2026 o, peggio, alla COP31.
La plenaria conclusiva della prima settimana ha restituito un clima sospeso. Molti governi hanno espresso apertamente la loro delusione per la lentezza dei lavori, tanto che il maestro di cerimonia del Vertice, il presidente brasiliano Lula, sta valutando di tornare personalmente a Belém per imprimere nuovo slancio dopo esser stato chiaro fin dal suo discorso inaugurale: la COP30 deve segnare la traiettoria per l’uscita progressiva dalle fonti fossili. Non più le vaghe sfumature linguistiche prive di impegni concreti come phase down (riduzione graduale) o transitioning away (transizione graduale), con cui si erano chiuse all’insegna degli accordi al ribasso i precedenti vertici, ma impegni concreti e databili. Alcune potenze, tra cui Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito, sostengono apertamente la proposta. Altri Paesi, come l’Italia, restano scettici quando non apertamente ostili. La divisione emerge chiaramente anche sull’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale entro gli +1,5 °C. Le piccole isole e diversi Paesi latinoamericani chiedono che sia richiamato in modo netto, mentre i Paesi arabi e l’India preferiscono riferirsi all’intero Accordo di Parigi, lasciando aperta la soglia dei 2°C. Intanto, anche il presidente del vertice, André Correa do Lago, ha intuito che serve una svolta per evitare che la COP30 si risolva in un nulla di fatto come le precedenti. Motivo per cui ha indetto un Mutirão, una “mobilitazione collettiva”, che prenderà la forma di una riunione a livello ministeriale e dei capi-delegazione in queste ore.
Tra i pochi accordi, di facciata ratificati fino ad ora, c’è quello per la lotta contro la “disinformazione climatica”, così come richiesto da tredici Paesi per la prima volta nella storia dei vertici sul clima. Al riguardo è stata anche firmata una dichiarazione che stabilisce impegni internazionali comuni per promuovere un’informazione corretta e fondata su ciò che indica la comunità scientifica. Contraria, l’Italia, la cui Presidente del Consiglio Meloni ha tra l’altro scelto di non essere presente alla COP30, seguendo la linea dell’alleato Donald Trump che da gennaio ritirerà di nuovo gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.
Ad ogni modo, come preannunciato, è la finanza climatica il grande nodo ancora irrisolto. Il percorso “Road to Belém” prevede di mobilitare la cifra di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Una somma apparentemente enorme ma che, in realtà, rappresenta poco più dello 1% del PIL globale, che nel 2024 è stato di circa 110.000 miliardi. Tuttavia, per comprendere l’entità del passo da fare, basta sapere che nel 2022 ci si accordò per 190 miliardi l’anno, una cifra di sette volte inferiore, oltretutto mai erogata totalmente. I cosiddetti fondi di compensazione sono le risorse che i Paesi del Sud globale chiedono ai Paesi ricchi perché hanno contribuito molto meno alla crisi climatica, ma ne subiscono gli impatti peggiori. Non sono aiuti caritatevoli, bensì soldi ritenuti dovuti per finanziare adattamento, transizione energetica e riparare perdite e danni causati in larga parte dalle emissioni storiche del Nord globale. Questo principio è già riconosciuto negli accordi ONU sul clima (dalla Convenzione del 1992 all’Accordo di Parigi), che impegnano i Paesi industrializzati a fornire finanza climatica e hanno portato alla creazione di un fondo ad hoc per «perdite e danni». Ma al di là del principio, c’è appunto da trovare un accordo sulla somma da destinare.
Ed oltretutto non è nemmeno la questione economica più difficile da stabilire. Il nodo più esplosivo è infatti stabilire precisamente quali Stati devono pagare e quali devono ricevere: le regole ONU sul clima sono ancora basate sulla divisione del 1992 tra “Paesi sviluppati” e “in via di sviluppo”. In questa seconda categoria restano anche grandi emettitori come Cina, India o Arabia Saudita, che rivendicano lo status di Paesi in via di sviluppo e quindi il diritto a ricevere fondi, non l’obbligo di contribuire in modo paragonabile a UE o USA. Molti Paesi occidentali insistono invece perché questi grandi emergenti diventino anche donatori netti, dato il loro peso economico e climatico attuale. Lo scontro su come aggiornare – o meno – questa mappa del mondo è uno dei punti che rischia di bloccare il nuovo sistema di finanza climatica.
Si cerca ancora un accordo anche sulla riduzione delle emissioni, le cosiddette Nationally Determined Contributions (NDC). Gli impegni presi nell’Accordo di Parigi sono giudicati insufficienti, ma solo 114 Paesi su 194 hanno presentato nuovi impegni aggiornati. Secondo le stime ONU, con gli impegni attuali il mondo viaggia verso un riscaldamento ben oltre 1,5 °C, più vicino ai 2,5-3 °C. Per restare negli obiettivi di Parigi servirebbero tagli molto più rapidi entro il 2030, e proprio su quanto accelerare – e chi deve farlo per primo – si sta consumando il braccio di ferro tra Nord globale e grandi economie emergenti.
In questo quadro difficile, arriva però qualche notizia positiva. La prima è che il fondo “perdite e danni”, cioè il meccanismo istituito per fornire assistenza finanziaria ai paesi in via di sviluppo che sono colpiti in modo sproporzionato dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici, è diventato operativo: nella prima settimana di negoziati è stato anche pubblicato il primo bando per le richieste di finanziamento. La seconda sarebbe l’istituzione del nuovo Tropical Forest Forever Facility, un fondo d’investimento che punta a difendere le aree forestali e che ha raccolto 5,5 miliardi di dollari da 53 Paesi per proteggere un miliardo di ettari di foreste tropicali. Un risultato significativo, ma non privo di incognite e potenziali punti critici, dato che si è scelto di subordinare la tutela delle foreste a logiche di investimento finanziario.
USA-eSwatini: accordo per esternalizzare i migranti
Gli Stati Uniti hanno firmato un accordo con l’eSwatini, stato dell’Africa meridionale, per esternalizzare le persone migranti che entrano nel Paese. I dettagli dell’accordo non sono ancora stati pubblicati, ma secondo indiscrezioni mediatiche il Paese africano ospiterebbe fino a 160 persone; è noto, inoltre, che l’eSwatini riceverà 5,1 milioni di dollari in cambio dell’accoglienza delle persone migranti. L’eSwatini è solo l’ultima degli Stati africani ad avere accettato di accogliere cittadini di Paesi terzi espulsi dagli USA. Tra gli altri paesi figurano il Sud Sudan, il Ghana e il Ruanda.
Dalla Corte dei Conti una nuova bocciatura al Ponte sullo Stretto
La magistratura contabile ha inferto un nuovo colpo al progetto del Ponte sullo Stretto: la Sezione centrale di controllo di legittimità della Corte dei Conti non ha concesso il visto di legittimità al terzo atto aggiuntivo della convenzione tra il Ministero delle Infrastrutture e la società concessionaria Stretto di Messina Spa, ampliando la crisi amministrativa aperta dal precedente rifiuto sul provvedimento Cipess. Questo nuovo stop, strettamente collegato alla precedente bocciatura della delibera Cipess di fine ottobre, blocca di fatto la definizione degli impegni amministrativi e finanziari necessari per la progettazione e realizzazione dell’opera, mettendo in discussione l’intero impianto giuridico del progetto.
La Corte dei Conti, in una nota ufficiale, ha comunicato di aver respinto il decreto n. 190 del primo agosto 2025, adottato «ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto-legge 31 marzo 2023, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2023, n. 58, recante “Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria”». Mentre si attendono le motivazioni complete – le prime previste entro fine novembre, le seconde per metà dicembre – gli scenari possibili per l’esecutivo si delineano tra due opzioni principali. La prima, più rischiosa, sarebbe procedere con una “registrazione con riserva”, procedura tecnicamente consentita ma che aprirebbe un nuovo fronte di scontro con la magistratura contabile. L’alternativa, preferibile ma potenzialmente più lunga, consisterebbe nell’apportare le correzioni necessarie per superare i rilievi della Corte, eventualmente ricorrendo a una nuova delibera.
Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha commentato la decisione affermando: «Nessuna sorpresa: è l’inevitabile conseguenza del primo stop della Corte dei conti. I nostri esperti sono già al lavoro per chiarire tutti i punti. Resto assolutamente determinato e fiducioso». Una posizione condivisa dal suo ministero, che in una nota ufficiale ha espresso fiducia «sulla prosecuzione dell’iter amministrativo in attesa delle motivazioni della Corte». Anche la società concessionaria Stretto di Messina Spa ha cercato di minimizzare l’accaduto. Il presidente Giuseppe Recchi ha definito la decisione «non un atto nuovo» poiché «gli argomenti trattati sono strettamente collegati» al primo stop, annunciando un Consiglio di Amministrazione per il 25 novembre per esaminare la situazione. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha aggiunto che l’esito era «prevedibile perché l’atto convenzionale è funzionalmente collegato alla delibera di approvazione del progetto definitivo del ponte del Cipess del 6 agosto», confermando la «piena collaborazione» della società per fornire «tutti i nuovi approfondimenti richiesti».
A fine ottobre era arrivata la prima pronuncia della Corte dei Conti, che aveva respinto la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) che impegna 13,5 miliardi di euro per la costruzione del Ponte. Secondo le prime ricostruzioni giornalistiche le motivazioni ricalcherebbero i dubbi già espressi dalla Corte lo scorso settembre nella sua richiesta di chiarimenti: documentazione carente, calcoli poco chiari, e mancato rispetto delle norme ambientali. Tra le altre cose, i magistrati avevano evidenziavano la mancata coerenza dei calcoli relativi alle spese per il Ponte, rilevando un «disallineamento tra l’importo asseverato dalla società Kpmg in data 25 luglio 2025 – quantificato in euro 10.481.500.000 – e quello di euro 10.508.820.773 attestato nel quadro economico approvato il 6 agosto 2025», evidenziando come diverse voci, dagli oneri per le condizioni contrattuali (cct) a quelli per la sicurezza, fossero lievitate rispetto al progetto preliminare. L’esecutivo si è scagliato contro la decisione dei magistrati: la presidente del consiglio Giorgia Meloni l’ha definita «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento», mentre il ministro Salvini ha affermato che il governo andrà avanti per la propria strada. Ora è arrivato il secondo colpo.
Cadono così ancora nel vuoto i fragorosi annunci del Ministro Salvini sull’inizio dei lavori, che ormai si fanno fatica a contare. Nel marzo del 2023, durante la trasmissione “Cinque minuti su Rai 1”, Salvini dichiarò che i lavori sarebbero iniziati «entro l’estate 2024», per poi ripeterlo due mesi dopo in occasione della conferenza stampa di presentazione del decreto che ha riattivato la Società Stretto di Messina, e poi a settembre, in seguito a un incontro del cda della società. A fine maggio 2024, Salvini aveva sbandierato l’obiettivo di «aprire i cantieri entro l’anno 2024». L’“annuncite” è ricomparsa nell’aprile di quest’anno, quando Salvini ha annunciato che l’inizio della costruzione fosse distante solo «poche settimane». Lo scorso 19 maggio, il Ministro ha invece affermato che i cantieri sarebbero stati aperti entro l’estate di quest’anno. In ultimo, l’orizzonte temporale si è spostato all’autunno 2025, ma come un macigno sono arrivate le pronunce dei giudici amministrativi.
Ecuador, sconfitta per il governo neoliberista: al referendum vince il no alle basi USA
L’Ecuador si è risvegliato con un verdetto che ribalta i piani del governo: la proposta di permettere la presenza di basi militari straniere, in particolare statunitensi, promossa dal presidente Daniel Noboa, è stata respinta con un netto “no” da 6 elettori su 10. Il risultato del referendum che si è tenuto domenica è un duro colpo per Noboa, che aveva condotto una campagna per modificare la Costituzione e revocare un divieto di ospitare sul territorio nazionale basi militari di Paesi stranieri, approvato dal parlamento nel 2008. La consultazione, che l’esecutivo aveva legato alla propria agenda di sicurezza e allineamento con Washington, si è trasformata in un giudizio politico incarnato dal presidente neoliberista. Il risultato ha messo a nudo la fragilità del governo di Quito, confermando un malessere sociale che da mesi attraversa il Paese.
Una volta reso noto l’esito del referendum, Noboa ha dichiarato su X che il suo governo «rispetterà la volontà del popolo» e continuerà a lottare per il Paese che «tutti meritano». Il referendum, che comprendeva tre quesiti, ha visto gli elettori rifiutare anche la fine dei finanziamenti pubblici ai partiti politici, la riduzione delle dimensioni del Congresso e l’istituzione di un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. Il cuore politico della consultazione era, però, quello relativo al possibile ritorno di basi militari statunitensi sul territorio nazionale, ipotesi caldeggiata dal governo come parte di una più ampia strategia di contrasto al narcotraffico e al crimine organizzato. Alleato del presidente Donald Trump, negli scorsi mesi il governo ecuadoriano aveva espresso l’interesse per l’apertura di una base statunitense e a marzo Noboa e Trump si erano incontrati per discuterne. Quito aveva puntato fortemente su questo voto, presentandolo come un passaggio fondamentale per rafforzare la sicurezza interna e proiettare l’Ecuador in una dimensione internazionale più stabile. La sconfitta, dunque, non è soltanto un risultato avverso: è un fallimento simbolico per un presidente che aveva cercato di legare la propria legittimazione alla capacità di imprimere una svolta liberista e filo-USA nel Paese.
Il contesto in cui si è arrivati alle urne era tutt’altro che sereno. Il consenso raccolto da Noboa alle elezioni di aprile scorso non si è tradotto in un sostegno solido e diffuso. Liberale e rappresentante della destra imprenditoriale, figlio del magnate ecuadoriano Alvaro Noboa, la sua impostazione economica orientata alle privatizzazioni e alla riduzione del ruolo dello Stato, unita alla crescente dipendenza da Washington in materia di sicurezza, ha alimentato sospetti e ostilità in ampie fasce della popolazione. L’Ecuador è un Paese che storicamente diffida della presenza militare straniera e l’idea di affidare a Washington un ruolo diretto nelle strategie interne ha riacceso tensioni sopite. Nei mesi precedenti al voto, manifestazioni diffuse avevano già messo sotto pressione l’esecutivo. Le proteste e gli scioperi contro le misure economiche neoliberiste, il caro vita e la gestione della sicurezza avevano coinvolto studenti, lavoratori, categorie produttive e, soprattutto, le comunità indigene.
In questo clima, il referendum è diventato una sorta di plebiscito sull’intero progetto politico del governo di Quito. Non a caso, il voto negativo sulle basi USA è stato accompagnato da un ampio dissenso anche sugli altri quesiti, che molti hanno interpretato come parte di un disegno volto a concentrare maggiormente il potere nelle mani dell’esecutivo. La bocciatura del pacchetto referendario segnala dunque una resistenza più ampia: non si tratta solo di rifiutare la presenza di truppe straniere, ma di contestare un modello politico-economico percepito come lontano dalle esigenze della popolazione. Ora, l’asse con Washington ne esce incrinato e la cooperazione militare con gli Stati Uniti diventa più difficile. La vittoria del “no” lascia il presidente più debole e costretto a rivedere un progetto che la società ha respinto, mentre il Paese rivendica il diritto di decidere autonomamente il proprio futuro senza pressioni né ingerenze esterne.
Internet sta avendo un malfunzionamento globale
Diversi siti internet stanno avendo un malfunzionamento a causa di un problema tecnico di Cloudfare, piattaforma che offre servizi per la gestione dei siti. Cloudfare è una delle piattaforme maggiori al mondo e tra i siti che stanno avendo difficoltà ve ne sono alcuni di molto noti e trafficati, come il social X (ex Twitter) e ChatGPT. Clodufare ha fatto sapere di stare lavorando per ripristinare l’erogazione dei propri servizi; l’azienda ha identificato la causa del malfunzionamento e alcuni siti stanno lentamente tornando a funzionare.










