domenica 14 Settembre 2025
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Spese militari: per la prima volta tutti i Paesi NATO raggiungono il 2% del PIL

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Nel 2025, per la prima volta, tutti gli alleati europei della Nato e il Canada raggiungeranno l’obiettivo di destinare almeno il 2% del PIL alla difesa, fissato nel 2014 e mai pienamente rispettato finora. Secondo i dati diffusi dall’Alleanza, anche Paesi come Italia, Belgio e Spagna supereranno la soglia, mentre l’Islanda resta esclusa perché priva di forze armate. Nel complesso, la spesa dei membri europei e canadesi salirà al 2,27% del PIL, contro l’1,40% del 2014. Con gli Stati Uniti, il dato raggiunge il 2,76%. La Polonia guida con il 4,48%, davanti ai Baltici, mentre Washington, pur con il bilancio più elevato al mondo, si colloca al 3,22%. L’Italia arriva al 2,01%. Secondo gli accordi, tutti i Paesi NATO dovranno arrivare a investire il 5% del PIL in armi e difesa entro i prossimi dieci anni.

Nello specifico, le tabelle – che presentano statistiche basate sui dati standardizzati comunicati dai dipartimenti di Difesa nazionali – dimostrano che gli Stati Uniti si sono ampiamente confermati al vertice della classifica per spesa militare, avendo messo sul piatto circa 980 miliardi di dollari (attorno ai 900 miliardi di euro). Con ampio distacco, al secondo posto per spesa in termini assoluti c’è il Regno Unito, con oltre 70 miliardi di sterline (circa 90,5 miliardi di euro) pari al 2,40% del PIL. Mentre per la Germania non sono ancora disponibili i dati riferiti al 2025, la Francia raggiunge il 2,05% del PIL, spendendo 66,5 miliardi di euro nel settore della difesa. Cresce – e di molto – la spesa militare in Italia, che nel 2025 supera i 45 miliardi di euro (nel 2014, ammontava a “soli” 18 miliardi) e si attesta al 2,01%. La Spagna, con poco più di 33 miliardi di spesa, tocca il 2%. Nel 2025 i Paesi Bassi hanno destinato 26,1 miliardi di euro alla difesa (2,49% del PIL), mentre la Polonia ha speso 44,3 miliardi di euro, pari al 4,48% del PIL, risultando tra i Paesi con il maggior impegno relativo. In coda alla classifica per valori assoluti si trovano la Grecia con 7,1 miliardi (2,85% del PIL), la Norvegia con 16,5 miliardi (3,35%) e la Danimarca con 14,3 miliardi (3,22%).

Nel frattempo, però, lo scorso giugno i ministri della Difesa dei 32 Paesi membri della NATO si sono accordati sui nuovi obiettivi per le spese militari. In particolare, si è arrivati a un’intesa di compromesso tra i vari attori incentrata sull’aumento delle capacità nazionali della Difesa al 3,5% del PIL, aggiungendo un ulteriore e più discrezionale 1,5% in investimenti correlati, tra cui le infrastrutture e la cybersicurezza. Per raggiungere appieno gli obiettivi richiesti dalla NATO, l’Italia dovrebbe investire circa 66 miliardi di euro in più all’anno nella Difesa. Che, a meno di miracoli economici, si tradurranno fisiologicamente in tagli alla spesa sociale, indebitamenti e privatizzazioni. Per far quadrare i conti, l’Italia ha già chiesto all’UE di poter inserire nel bilancio per la Difesa opere strategiche quali il Ponte sullo Stretto di Messina, secondo il governo un’infrastruttura «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» in quanto potrebbe dover essere necessaria per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». Come evidenziato dall’Osservatorio Milex, infatti, per raggiungere gli obiettivi di spesa richiesti l’Italia è costretta a inserire nel bilancio altre voci fino ad ora non considerate.

Strage di migranti al largo della Mauritania: almeno 49 morti

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Al largo della Mauritania, una piroga carica di migranti diretti verso le isole Canarie è naufragata nella notte tra martedì e mercoledì. Secondo quanto attestato nelle ultime ore dalle autorità locali, sull’imbarcazione viaggiavano circa 160 persone. Il bilancio, a più di 48 ore dal dramma, è di almeno 49 morti. Decine di persone risultano ancora disperse, secondo quanto riferito dalla guardia costiera e dalla gendarmeria mauritane all’agenzia AFP. Le operazioni di ricerca e soccorso continuano in un disperato tentativo di trovare superstiti.

Gli USA hanno stanziato 45 miliardi di dollari per il sistema carcerario privato

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Nel One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), la legge di bilancio firmata da Trump che prevede ingenti investimenti nel settore della Difesa, oltre che nuovi progetti di estrattivismo e disboscamento, è previsto un investimento di ben 45 miliardi di dollari per la costruzione di centri privati di detenzione, anche dei migranti. Non è la prima volta che Trump elargisce generosi finanziamenti al settore: d’altronde, i colossi del settore delle carceri private (come CoreCivic e GEO Group) hanno contribuito alla campagna elettorale del presidente statunitense con importanti donazioni.

Come riportato dal National Immigration Law Center (NILC) e dal Brennan Center for Justice, la legge OBBBA ha stanziato 45 miliardi di dollari per il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) da destinare alla detenzione di adulti e famiglie migranti. Questo importo, disponibile fino al 2029, quadruplica il budget annuale di detenzione dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) e mira a più che raddoppiare la capacità del sistema di detenzione, portandola da circa 40.000 a oltre 100.000 posti letto. Le fonti sottolineano che gran parte di questa espansione avverrà attraverso l’uso di strutture gestite da compagnie private, che già oggi detengono quasi il 90% degli individui sotto la custodia dell’ICE. Così, le compagnie carcerarie private sono destinate a guadagnare un mucchio di soldi da questa politica di Trump.

La generosità della legge di bilancio non è un fenomeno isolato, ma si inserisce in un quadro di legami e conflitti di interesse che risalgono al primo mandato di Trump. Le maggiori compagnie del settore, CoreCivic e GEO Group, sono noti donatori delle campagne elettorali e dei comitati di Trump. Come denunciato dal Project On Government Oversight (POGO), pochi giorni prima delle elezioni del 2024, un alto funzionario dell’ICE ha lasciato il suo incarico per assumere una posizione di rilievo in GEO Group. L’amministrazione ha già iniziato a stipulare contratti senza gara d’appalto con queste aziende, citando una “urgenza imperativa” per aumentare la capacità di detenzione. 

Queste pratiche, insieme ai finanziamenti diretti, dimostrano una chiara volontà politica di favorire compagnie come CoreCivic e GEO Group. E non è la prima volta che questo avviene. Un’inchiesta del The Guardian del 2017, basata sui dati dell’Institute for Policy Studies (IPS), ha calcolato che le riduzioni fiscali contenute nella legge di bilancio nell’anno dopo la sua elezione, in particolare l’abbassamento dell’imposta sul reddito delle società dal 35% al 21%, hanno garantito a queste due aziende un risparmio fiscale di circa 4,4 miliardi di dollari spalmati in dieci anni.

Le organizzazioni per i diritti umani, come la Robert F. Kennedy Human Rights, oltre a denunciare questo sistema carcerario privatizzato, hanno evidenziato i crescenti rischi finanziari per chi investe in queste aziende a causa di denunce di sotto-organico, negligenza medica e, soprattutto, abusi. Secondo Just Security, la legge di bilancio USA del 2025, concentrando una somma così ingente sulla detenzione, crea un complesso industriale della detenzione e deportazione che sarà difficile da smantellare negli anni a venire.

Il modello di business delle carceri private solleva questioni etiche e sociali profonde. In un mondo dove la detenzione diventa un prodotto, l’obiettivo non è più la sicurezza pubblica o la riabilitazione, ma il profitto. Un’analisi dell’American Civil Liberties Union (ACLU) sottolinea come le aziende private abbiano storicamente fatto pressioni per l’adozione di politiche punitive, come le leggi sul “three strikes“, che aumentano il numero di persone in carcere e garantiscono un flusso costante di entrate. ACLU sostiene che molti dei contratti con il governo contengono clausole che impongono un tasso di occupazione minimo, creando un incentivo perverso a mantenere le prigioni piene.

In questo modo, l’interesse economico delle compagnie si lega direttamente alla privazione della libertà dei cittadini, trasformando un servizio pubblico fondamentale in una macchina per fare soldi. Il sistema carcerario, che dovrebbe essere un mezzo di riabilitazione, diventa un fine a sé stante, con i costi sociali e umani che ricadono su tutti.

Thailandia, Corte Costituzionale destituisce premier: “Violazione etica”

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La Corte Costituzionale thailandese ha destituito la premier Paetongtarn Shinawatra, già sospesa a luglio, per una telefonata considerata inappropriata con l’ex primo ministro cambogiano Hun Sen. Durante la conversazione, incentrata su una disputa territoriale tra i due Paesi, Paetongtarn avrebbe usato toni eccessivamente deferenti, configurando secondo i giudici una violazione etica. La decisione, immediatamente esecutiva, segna la quinta rimozione di un primo ministro thailandese dal 2008 a oggi da parte della Corte Costituzionale, confermando l’instabilità politica che caratterizza il Paese da oltre quindici anni.

Yemen, primo ministro Houthi ucciso in un raid israeliano

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Ahmed al-Rahawi, primo ministro del governo ribelle Houthi nello Yemen, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano a Sana’a. Secondo quanto riferito anche dai media yemeniti, i raid dell’IDF ha colpito l’appartamento in cui si trovava, uccidendo anche alcuni suoi compagni. L’esercito israeliano ha confermato di aver colpito un «obiettivo militare» Houthi nella capitale, prendendo di mira alti funzionari del gruppo. In un raid separato, sarebbero stati attaccati anche altri 10 ministri, incluso quello della Difesa. Il ministro israeliano Katz ha dichiarato: «Chiunque alzi una mano contro Israele la perderà».

Stellantis allunga la cassa integrazione in Italia e investe in Marocco e Algeria

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In casa Stellantis, la luce in fondo al tunnel non si riesce proprio a vedere. A Pomigliano d’Arco, storico sito produttivo campano, è stato infatti firmato un pre-accordo tra l’azienda e le sigle sindacali che estende di un ulteriore anno, fino all’8 settembre 2026, la cassa integrazione in regime di solidarietà in deroga per 3.750 lavoratori. La misura, che prevede una riduzione media dell’orario di lavoro fino al 75%, arriva dopo il biennio concesso dalla cassa integrazione ordinaria, ormai esaurito. Inoltre, Stellantis ha comunicato ai sindacati la necessità di prolungare la durata della solidarietà per 2.297 lavoratori dello stabilimento di Mirafiori (Torino) fino al 31 gennaio. La produttività dell’azienda è in calo in tutti gli stabilimenti italiani, con flessioni fino al 72% rispetto all’anno scorso. Nel mentre, l’azienda sta delocalizzando la produzione in Paesi africani come in Marocco e Algeria, dove conta di aumentare gli investimenti e assumere più personale.

La situazione a Pomigliano, nonostante trainasse fino a poco fa il 64% della produzione nazionale di Stellantis in Italia, è critica. Nel primo semestre del 2025 ha prodotto 78.975 vetture, il 24% in meno rispetto allo stesso periodo del 2024. La Panda, suo fiore all’occhiello, con 67.500 unità rappresenta ancora oltre la metà dei volumi italiani, ma mostra segnali di affaticamento. A pesare sono la contrazione del mercato, il debutto della nuova Grande Panda (prodotta in Serbia) che “pesta i piedi” alla versione italiana, e persino i dazi di Trump che hanno fermato la produzione della Dodge Hornet. Per i lavoratori, gli effetti sono tangibili: ogni giorno di cassa integrazione significa circa 35 euro lordi in meno in busta paga. Con sette-otto giorni di CIG al mese, il taglio si aggira tra i 240 e i 280 euro lordi, un colpo durissimo per stipendi che si attestano sui 1.500-1.600 euro netti.

La firma del pre-accordo con Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Aqcf prevede anche un verbale congiunto per chiedere alla Regione Campania un sostegno al reddito destinato a permettere la partecipazione ai percorsi formativi collegati ai contratti di solidarietà. Per i sindacati la solidarietà «non può e non deve diventare una soluzione strutturale. È uno strumento di difesa, non di gestione ordinaria». I rappresentanti sindacali hanno chiesto al Governo di convocare i vertici dell’azienda. Dal canto suo, Stellantis giustifica la richiesta di ulteriori ammortizzatori con la fase di incertezza del mercato auto e con la necessità di gestire volumi ridotti; segnala però anche intenti di riorganizzazione industriale e investimenti esteri che non convincono i sindacati, preoccupati per la delocalizzazione di volumi strategici.

Mentre Termoli ha già concordato misure analoghe per 1.823 lavoratori dal 1° settembre 2025 al 31 agosto 2026, A Torino, la solidarietà riguarderà 903 operai del comparto che produce la 500 elettrica, 674 addetti alla produzione di Maserati, 300 dell’ex Pcma, 294 addetti al reparto Presse, 85 della costruzione stampi e i 41 operai dell’ex Tea. In un comunicato congiunto, i sindacati (Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Uglm e Associazione Quadri Fiat) hanno espresso profonda preoccupazione per la situazione produttiva di Stellantis a Torino. Pur riconoscendo la positiva imminente produzione della Fiat 500 ibrida, hanno evidenziato come ai lavoratori, dopo circa 18 anni di utilizzo della cassa integrazione, vengano nuovamente richiesti sacrifici economici a causa della carenza di produzione. Per far fronte a questa fase complessa, è stato concordato l’utilizzo di prestiti e trasferimenti temporanei dei dipendenti verso altre sedi europee del gruppo. L’azienda si è impegnata ad anticipare l’integrazione salariale. Tuttavia, i sindacati ritengono che la 500 ibrida da sola non sia sufficiente e chiedono con urgenza l’assegnazione di un nuovo modello da affiancarle allo stabilimento di Mirafiori.

La situazione è però diversa dall’altra parte del Mediterraneo. Come evidenziano i sindacati, l’azienda ha infatti annunciato ingenti investimenti in Marocco e Algeria, dove i costi produttivi sono notevolmente più bassi. Una strategia che le sigle sindacali accusano di essere una delle cause della crisi italiana. Nel frattempo, stando a quanto raccontano fonti interne allo stabilimento serbo di Stellantis a Kragujevac, l’azienda sta assumendo manodopera a basso costo dal Nord Africa per far fronte alla carenza di operai locali. Questi ultimi, infatti, rifiutano di lavorare per gli stipendi offerti (circa 600 euro). I nuovi dipendenti marocchini percepiscono uno stipendio base di 300 euro, integrato da un’indennità di trasferta di 700 euro. «Il nostro modello più importante, la Nuova Panda, è stato assegnato e viene prodotto in Serbia e solo pochi giorni fa è stato annunciato un investimento in Marocco», denuncia la Fiom Cgil, dipingendo uno scenario in cui l’Italia viene «superata da Paesi dell’Est Europa e doppiata dal Marocco».

A livello generale, i dati di produzione dei primi sei mesi del 2025 di Stellantis confermano il peggioramento rispetto al già critico 2024. Lo attesta, in particolare, il rapporto recentemente pubblicato da Fim-Cisl, in cui si prevede una chiusura d’anno intorno alle 440.000 unità totali, con circa 250.000 autovetture prodotte. «Nel primo semestre 2025 sono state prodotte complessivamente 221.885 unità tra autovetture e veicoli commerciali, in calo del -26,9% rispetto allo stesso periodo del 2024 – si legge nel report -. Le autovetture registrano una flessione del -33,6% (123.905 unità), mentre i veicoli commerciali sono scesi del -16,3% (97.980 unità)».

Sono entrati in vigore i nuovi dazi USA sui pacchi postali

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Da oggi negli Stati Uniti entrano in vigore nuovi dazi sulle importazioni, che colpiscono anche i pacchi di valore inferiore a 800 dollari, finora esenti. Restano esclusi solo i regali sotto i 100 dollari e i beni personali portati dai viaggiatori fino a 200 dollari. Per sei mesi i dazi potranno essere calcolati anche con importi fissi tra 80 e 200 dollari. La misura, voluta da Donald Trump, mira a contrastare l’uso dell’esenzione per aggirare i dazi e facilitare traffici illegali. L’impatto sarà forte sull’e-commerce, in particolare su piattaforme come Shein e Temu.

Progetto Oasi Marina: come Ischia sta facendo rinascere il suo fondale marino

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A Ischia è in corso un esperimento concreto per ricostruire il fondale marino danneggiato. Al centro del progetto c’è la Posidonia oceanica, pianta simbolo del Mediterraneo e fondamentale per la salute dell’ecosistema costiero. Dopo anni di degrado, torna a crescere grazie a un’operazione di riforestazione nelle acque protette dell’isola. A coordinare questo intervento è il Centro di Educazione e Ricerca Marina dell’isola, con il sostegno della Regione Campania e la partecipazione di biologi, subacquei, operatori locali e cittadini volontari. Il progetto si chiama Oasi Marina e ha un obiettivo...

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Pakistan, oltre un milione gli evacuati per le alluvioni

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Nel nord-est del Pakistan, oltre un milione di persone è stato evacuato negli ultimi giorni a causa delle devastanti alluvioni che hanno colpito la provincia del Punjab, tra le peggiori degli ultimi anni. Le piogge monsoniche, unite al rilascio controllato di acqua da alcune dighe indiane, hanno provocato lo straripamento dei fiumi Sutlej, Ravi e Chenab, allagando più di 1.400 villaggi. La regione, cuore agricolo del Paese, con coltivazioni di grano, riso e cotone, è ora in ginocchio: oltre 1,4 milioni di abitanti sono coinvolti. Le vittime sono almeno 14 nelle ultime ore e oltre 800 dall’inizio delle piogge a giugno.

Scandalo o retorica proibizionista? La verità sulle pipe per il crack a Bologna

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Bologna pipe crack polemica riduzione del danno

A Bologna una semplice proposta del Comune, che va nella direzione della riduzione del danno del consumo di stupefacenti, è stata trasformata da esponenti del governo nazionale in uno scandalo mediatico dove, come al solito, tutto si è trasformato in una crociata moralista. Riavvolgiamo il nastro: il Comune di Bologna, guidato dal sindaco Matteo Lepore (PD), ha deciso di avviare una sperimentazione per distribuire circa 300 pipe in alluminio gratuite destinate ai consumatori abituali di crack, nell’ambito di politiche di riduzione del danno. L’iniziativa, tra l’altro, era già partita in forma sperimentale nel 2024. Il costo dell’operazione è di 3.500 euro e le pipe saranno distribuite con l’obiettivo di ridurre lesioni come sanguinamenti, tracheiti e infezioni causate dall’uso di materiali improvvisati e condivisi. Durante la sperimentazione del 2024, 40 persone hanno partecipato volontariamente. I risultati dopo 30 e 60 giorni, pubblicati sulla rivista scientifica Substance use & misuse, indicano miglioramenti nella riduzione del consumo della sostanza, evidenziando la scomparsa o diminuzione di problemi respiratori e orali (es. dolori alla gola, respirazione difficoltosa) e la diminuzione delle patologie secondarie come sanguinamenti, bruciature o irritazioni labiali.

Le reazioni? Stefano Cavedagna (europarlamentare FdI) ha annunciato una denuncia per «istigazione al consumo e allo spaccio di droghe». Marco Lisei (senatore FdI) ha definito l’iniziativa una scelta ideologica che «tiene i tossicodipendenti nella gabbia della droga». L’immancabile vicepremier Matteo Salvini ha definito l’operazione una «follia» e una «spesa dei contribuenti per incentivare l’uso di droga». Matilde Madrid – assessora bolognese al welfare responsabile della proposta – difende l’iniziativa, sostenendo che si fonda su basi scientifiche, come analoghe strategie di riduzione del danno, e che mira concretamente alla salute delle persone più marginali. Ma nessun commento è arrivato sul merito, solo frasi fatte buttate lì per solleticare gli istinti dell’elettorato facendo leva su pregiudizi reazionari. Dall’altro lato l’Associazione Luca Coscioni, da sempre molto attenta a queste tematiche, ha lodato Bologna per aver messo in pratica una politica di riduzione del danno riconosciuta tra i Livelli essenziali di assistenza (LEA), auspicando che l’esperimento venga replicato in altre città.

D’altra parte la misura bolognese si appoggia su una teoria che è portata avanti in molti Paesi europei da decenni perché ritenuta più efficace del proibizionismo: la riduzione del danno.

L’approccio della riduzione del danno è una strategia di sanità pubblica che parte da un presupposto realistico: alcune persone useranno sostanze comunque, anche se sono illegali, e l’obiettivo non può essere solo quello di “eliminare” il consumo, ma di ridurre i rischi immediati e a lungo termine per la salute individuale e collettiva. È stato adottato in vari paesi dagli anni ’80 e ’90 (soprattutto in risposta all’epidemia di HIV) e il fatto che in Italia faccia parte dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), significa che è un approccio riconosciuto come un diritto alla salute. Non solo, perché il tema della riduzione del danno sia stato inserito per la prima volta l’anno scorso in una risoluzione Onu approvata durante la 67essima sessione dei lavori della Commission on Narcotics Drug.

Secondo chi difende la strategia della riduzione del danno contro quella del proibizionismo, la guerra alla droga (che è l’impostazione internazionale derivata dagli ultimi 70 anni di proibizionismo sfrenato) anche se viene presentata come una battaglia contro il narcotraffico è una battaglia indirizzata essenzialmente contro chi la droga la consuma: non tocca gli enormi monopoli che mafie e criminali hanno sulla gestione degli stupefacenti e non si occupa dei cittadini che li assumono, se non per mandarli in galera pensando così di risolvere un problema che in realtà si autoalimenta in un circolo vizioso. Miliardi di euro spesi per controlli e repressione in quello che si è trasformato in un corto circuito sociale: al consumo di stupefacenti la risposta è la prigione, mentre la droga circola come in ogni società umana dall’alba dei tempi, i criminali guadagnano miliardi, e spendiamo soldi pubblici per inasprire i controlli e mandare semplici consumatori in galere sempre più sovraffollate. A giugno 2025 i dati raccontano di oltre 62mila detenuti nelle carceri italiane, a fronte di 51mila posti: il tasso di sovraffollamento è del 134,3%.

La maggioranza dei Paesi Onu, da anni, chiede di mettere fine a questa ideologia che venne imposta a partire dagli anni ’50 dagli Stati Uniti, optando per le depenalizzazioni per le droghe leggere e per approcci di riduzione del danno per quelle pesanti. Nel 2022 un lungo documento firmato dagli esperti dell’Onu nei diritti umani chiese la fine della guerra alla droga e di passare dalla repressione ai diritti. Nel settembre 2023 l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR) è tornato sull’argomento pubblicando un report in cui mette in evidenza innanzitutto che la guerra alla droga – lanciata in Usa dal Nixon nel 1971 – è diventata innanzitutto una guerra contro le persone che la utilizzano. La raccomandazione degli esperti dell’Onu è dunque quella di «adottare alternative alla criminalizzazione, alla tolleranza zero e all’eliminazione delle droghe, prendendo in considerazione la depenalizzazione dell’uso e una regolamentazione responsabile, per eliminare i profitti del traffico illegale, della criminalità e della violenza».

La misura presa dal Comune di Bologna, piaccia o meno, si inserisce in questa cornice e quindi non centra nulla con «l’incentivare il consumo di droga», a meno che non si creda al fatto che le persone inizieranno o smetteranno di utilizzare il crack a seconda che i servizi comunali mettano a disposizione o meno delle pipe sterili per non infettarsi.