venerdì 21 Novembre 2025
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Tesla, via libera al mega-bonus da 1.000 miliardi per Elon Musk

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Gli azionisti di Tesla hanno approvato con oltre il 75% dei voti un nuovo pacchetto retributivo per Elon Musk della durata di dieci anni: se verranno superati una serie di obiettivi finanziari e operativi – fra cui portare Tesla a una capitalizzazione di mercato di 8.500 miliardi di dollari, gestire un milione di robot-taxi e un milione di robot – l’imprenditore sudafricano potrà ottenere azioni del Gruppo per oltre 1.000 miliardi di dollari, rendendo questo stipendio aziendale il più alto nella storia.

YouTube colpisce ancora: cancellati 700 video sui massacri israeliani in Palestina

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YouTube ha rimosso senza preavviso oltre 700 video e tre account di ong palestinesi, Al Haq, Al Mezan Center for Human Rights e Palestinian Centre for Human Rights, che documentavano i massacri da parte di Israele nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. L’eliminazione dei profili è stata confermata dalla stessa piattaforma che, interpellata da The Intercept, ha spiegato di averlo fatto per rispettare le leggi in materia di sanzioni imposte dal Dipartimento di Stato americano nei confronti delle organizzazioni coinvolte, per il loro contributo al procedimento della Corte penale internazionale contro Israele.

Dal canto loro, le tre ong colpite denunciano la rimozione dei contenuti come un tentativo di cancellare inchieste preziose su uccisioni, violenze e detenzioni arbitrarie nei territori palestinesi, sottraendo all’opinione pubblica testimonianze video essenziali e contribuendo così a silenziare la voce delle vittime, preservando al contempo la narrazione di Tel Aviv. I video rimossi comprendevano inchieste, interviste e documentari sulle azioni militari israeliane e sulle condizioni della popolazione palestinese, oggi in gran parte inaccessibili o recuperabili solo in parte, tramite archivi indipendenti su Wayback Internet Archive e su Facebook. Diversi video rimossi erano stati utilizzati come prove in indagini internazionali o ripresi da emittenti estere per documentare i crimini di guerra commessi da Israele. Tra i materiali cancellati figuravano un’analisi sull’uccisione della giornalista statunitense Shireen Abu Akleh, colpita da un cecchino israeliano mentre seguiva un’incursione dell’IDF nel campo rifugiati di Jenin, in Cisgiordania, testimonianze di detenuti palestinesi che denunciavano torture da parte delle forze israeliane e documentari come The Beach, che raccontava la morte di quattro bambini su una spiaggia di Gaza nel 2014, colpiti da un raid aereo.

I canali delle organizzazioni Al Haq, Al Mezan e del Palestinian Centre for Human Rights sono stati oscurati in blocco con la motivazione di presunte violazioni delle leggi sulle sanzioni, senza però che YouTube, di proprietà di Google, abbia fornito spiegazioni precise, né dettagli sui contenuti considerati irregolari, limitandosi a un messaggio automatico di chiusura. Le implicazioni toccano il diritto all’informazione e la trasparenza nei conflitti armati. La rimozione dei contenuti ripropone, inoltre, il tema della responsabilità delle piattaforme digitali nel filtrare le informazioni provenienti dalle zone di guerra e sulla reale trasparenza delle loro politiche di moderazione. A The Intercept il portavoce di Al Haq ha definito la decisione di YouTube «una grave violazione di principio e un’allarmante battuta d’arresto per i diritti umani e la libertà di espressione. Le sanzioni statunitensi vengono utilizzate per paralizzare il lavoro di accertamento delle responsabilità in Palestina e mettere a tacere le voci e le vittime palestinesi, e questo ha un effetto a catena su tali piattaforme che agiscono a loro volta in base a tali misure per mettere ulteriormente a tacere le voci palestinesi». Da parte sua, la piattaforma, in una nota del portavoce di YouTube Boot Bullwinkle, ha dichiarato di aderire alle leggi in materia, sottolineando che «ci impegniamo a rispettare le sanzioni applicabili e le normative sulla conformità commerciale».

Al di là delle giustificazioni formali, l’intervento di YouTube appare come una scelta politica: un’azione che contribuisce a oscurare la voce delle vittime e a tutelare, di fatto, l’immagine dello Stato israeliano, configurandosi di fatto come l’ennesima forma di censura della piattaforma, che mina il diritto alla verità e ostacola la diffusione di prove e testimonianze scomode sui crimini di guerra. In questo quadro, YouTube non agisce solo come intermediario tecnico, ma come un attore attivo nella costruzione del consenso informativo. La cancellazione di centinaia di video sulle violenze commesse a Gaza si configura come l’espressione di un controllo sistemico del racconto del conflitto, dove chi denuncia viene silenziato e chi colpisce resta protetto. Le ong palestinesi annunciano azioni legali e appelli internazionali per ripristinare i contenuti rimossi, denunciando il silenzio complice dell’Occidente. Mentre Israele continua a operare indisturbato, sostenuto dall’impunità diplomatica e dall’inerzia delle istituzioni internazionali, la rete – un tempo strumento di trasparenza – si trasforma nell’ennesimo campo di battaglia, dove la verità viene filtrata, rimossa e infine riscritta dai colossi del web.

La manovra redistribuisce al contrario: 400 euro ai dirigenti, 23 agli operai

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La legge di Bilancio 2026 conferma una redistribuzione alla rovescia: il taglio dell’Irpef premia i redditi più alti lasciando briciole ai lavoratori con salari modesti. Secondo le analisi tecniche, pubblicate da una fonte ufficiale come l’Ufficio parlamentare di Bilancio, i dirigenti beneficeranno di un risparmio medio di 408 euro annui, contro i 123 degli impiegati e i soli 23 euro degli operai. Il risultato è che quasi la metà dei 2,7 miliardi stanziati in Manovra andrà all’8% dei contribuenti con redditi superiori ai 48.000 euro.

I numeri dell’Ufficio parlamentare di Bilancio fotografano con precisione le disparità: «Il beneficio medio è pari a 408 euro per i dirigenti, 123 per gli impiegati e 23 euro per gli operai». Per i lavoratori autonomi il vantaggio si attesta su 124 euro, per i pensionati su 55. La misura, presentata come sostegno al “ceto medio”, finisce così per concentrare i suoi effetti sui redditi medio-alti, con «circa il 50 per cento del risparmio di imposta» che va a favore di quella fascia di contribuenti che rappresenta solo l’8% del totale. Anche il tentativo di correggere i vantaggi per i redditi oltre i 200.000 euro si rivela inefficace. Secondo l’organismo di vigilanza, la compensazione «riguarderà circa un terzo» della platea interessata, pari a 58.000 contribuenti. Per questi, il taglio di detrazione è di 188 euro, una quota assai inferiore al risparmio di 440 euro di cui beneficeranno grazie alla legge. Il risultato è che gran parte dei percettori di redditi elevati conserverà integralmente il vantaggio del taglio Irpef.

Le critiche all’impianto della manovra hanno coinvolto tutte le autorità indipendenti. L’Istat ha confermato che oltre l’85% delle risorse sarebbe destinato «alle famiglie dei quinti più ricchi della distribuzione del reddito». La Banca d’Italia ha sottolineato come l’intervento produrrà variazioni trascurabili sulle disuguaglianze, definendo «limitata» la sua capacità di rilanciare i rinnovi contrattuali e «incerta» la sua attuazione pratica. Persino il trattamento degli affitti nel calcolo dell’Isee finisce per penalizzare le famiglie meno abbienti. L’Ufficio parlamentare di Bilancio ha evidenziato come la modifica «alteri un elemento cardine della struttura dell’indicatore, ossia il trattamento equivalente» tra chi possiede l’abitazione e chi paga un affitto. Completano il quadro le perplessità sulle misure relative a banche e assicurazioni, con la Corte dei conti che ha bollato l’aumento temporaneo dell’Irap come un’anticipazione di imposte future che creerà un buco di bilancio a partire dal 2029. Un disegno complessivo che, nonostante le retoriche sul sostegno al ceto medio, conferma come la manovra finisca per ampliare le disuguaglianze invece di ridurle.

Mentre si moltiplicano rilievi e critiche sulla distribuzione delle risorse nella Manovra, non si può che constatare come il quadro finanziario sia dettato anche dai forti vincoli del Patto di Stabilità accettato l’anno scorso dal governo Meloni – che ha reso tecnicamente impossibile una Manovra espansiva – e dalla spinta al riarmo. Quest’estate, gli Stati Uniti e la NATO hanno richiesto ai Paesi membri dell’Alleanza spese militari al 5% del Pil. Una prospettiva a cui la premier Meloni si è sin da subito allineata, affermando davanti al Parlamento che si tratta di «impegni importanti e necessari che l’Italia rispetterà».

Tifone Kalmaegi devasta Vietnam e Filippine: 193 morti

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Il tifone Kalmaegi ha colpito duramente il Vietnam e le Filippine, lasciando dietro di sé devastazione e un bilancio delle vittime che sfiora le 200 persone. In Vietnam, almeno 5 morti e decine di feriti sono stati segnalati dopo che piogge torrenziali e venti fino a 160 km/h hanno distrutto abitazioni, interrotto linee elettriche e sommerso intere aree agricole. Nelle Filippine, già colpite nei giorni precedenti, i morti sono 188 e oltre 100 dispersi, mentre centinaia di migliaia di persone sono state evacuate. Le autorità dei due Paesi parlano di una delle tempeste più violente degli ultimi anni, con danni ingenti a infrastrutture e raccolti e il rischio di nuove frane e inondazioni nei prossimi giorni.

Liegi, avvistamento droni su aeroporto: chiuso per 30 minuti

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L’aeroporto belga di Liegi ha sospeso per circa 30 minuti tutti i voli questa mattina dopo l’avvistamento di un drone sopra lo scalo, il secondo episodio simile in una settimana. Il drone è stato segnalato ai controllori del traffico aereo intorno alle 7.30 ora italiana, portando alla temporanea chiusura per motivi di sicurezza. «Dobbiamo prendere sul serio ogni segnalazione», ha dichiarato il portavoce Kurt Verwilligen a Sky News. Intanto, il governo belga ha convocato una riunione d’urgenza dopo che il ministro della Difesa ha parlato di un possibile attacco coordinato.

Sette vulnerabilità hanno messo a rischio gli utenti di ChatGPT

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Confidare i propri segreti – personali o professionali – a ChatGPT non è mai una buona idea. E non solo perché tali informazioni possono essere potenzialmente accessibili all’azienda che controlla lo strumento, OpenAI, ma anche perché continuano a emergere criticità che dimostrano come i dati condivisi con il chatbot possano, in determinate circostanze, fuoriuscire dai contesti privati delle conversazioni. A suggerirlo è il fatto che, solamente negli ultimi giorni, la comunità della sicurezza informatica ha puntato i riflettori su ben sette diverse vulnerabilità e tecniche d’attacco che mettono a rischio la riservatezza dei dati personali, garantiscono la persistenza di istruzioni malevole e mettono in dubbio la sicurezza delle interazioni tra utenti e modelli linguistici.

A individuare queste falle è stata la società di cybersecurity Tenable, la quale ha pubblicato un resoconto dei suoi rinvenimenti sotto il pittoresco titolo di “HackedGPT”. Gran parte dei problemi emersi riconduce a un fenomeno già ben noto nel mondo delle intelligenze artificiali generative: la prompt injection, ossia la capacità di un attore malevolo di inserire nell’interazione con il modello delle istruzioni non previste, né desiderate, dall’utente. Ciò può avvenire non solo tramite prompt diretti, ma anche attraverso metodi più subdoli. Nel caso analizzato, i tecnici di Tenable hanno nascosto dei comandi all’interno della sezione commenti di un blog creato ad hoc, osservando come ChatGPT, interagendo con la pagina, finisse per eseguire gli ordini celati in calce.

Ancora più preoccupante è che forme di prompt injection siano state riscontrate anche durante l’uso della funzione di ricerca su internet. Lo staff di Tenable è infatti riuscito a indurre ChatGPT a seguire istruzioni occulte semplicemente creando una pagina web appositamente ottimizzata perchè venisse privilegiata tra le fonti di SearchGPT. In questo modo, gli attaccanti sono riusciti ad aggirare i meccanismi di difesa del sistema con una vulnerabilità che non richiede l’intervento attivo dell’utente, un cosiddetto “zero-click”: l’utente basta porre una domanda al chatbot affinché quest’ultimo finisca con l’assorbire comandi nascosti all’interno di una fonte apparentemente legittima. Considerando che un numero crescente di persone utilizza oggi i modelli di intelligenza artificiale come sostituti dei motori di ricerca tradizionali, questo scenario apre la strada a un vettore d’attacco potenzialmente ampio e mirato, capace di colpire gruppi di utenti in base a interessi specifici — dalle preferenze di consumo alle convinzioni politiche.

È significativo notare che le vulnerabilità riscontrate non riguardano soltanto versioni più obsolete dello strumento, con la ricerca di Tenable che ha evidenziato come alcune falle siano ancora attive anche nell’ultimo modello di OpenAI, GPT-5. L’intervento dell’azienda di sicurezza ha effettivamente portato alla correzione di parte dei problemi, tuttavia alcune vulnerabilità restano tuttora sfruttabili da eventuali malintenzionati. La combinazione di ricerca web, memoria conversazionale e capacità di navigazione amplifica la portata dei prompt injection, esponendo le debolezze strutturali dei grandi modelli linguistici. Un problema che, prevedibilmente, non è affatto limitato a OpenAI. Lo scorso ottobre è emerso che anche il Gemini di Google potrebbe essere suscettibile a vulnerabilità simili: la profonda integrazione con servizi come Gmail e Google Calendar consentirebbe di nascondere istruzioni malevole direttamente nelle email e negli appuntamenti segnati in agenda.

“HackedGPT mette in luce una debolezza fondamentale nel modo in cui i modelli linguistici di grandi dimensioni giudicano di quali informazioni possono fidarsi“, ha dichiarato Moshe Bernstein, Senior Research Engineer di Tenable. “Individualmente, questi difetti sembrano piccoli, ma insieme formano una catena di attacco completa, dall’iniezione e dall’evasione al furto di dati e alla persistenza. Il report evidenzia che i sistemi di intelligenza artificiale non sono solo potenziali bersagli; possono essere trasformati in strumenti di attacco che raccolgono silenziosamente informazioni dalle chat o dalla navigazione quotidiana”.

Il Perù dichiara la presidente del Messico persona non grata

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I legislatori peruviani hanno votato per dichiarare la presidente del Messico Claudia Sheinbaum persona non grata, negandole l’accesso al Paese. Il voto del Congresso peruviano arriva dopo una crisi diplomatica esplosa dopo un caso che ha interessato Betssy Chávez, ex prima ministra peruviana sotto processo per incitamento alla ribellione per il tentato golpe del 2022. Il Messico ha concesso asilo diplomatico alla politica, e il Perù ha reagito interrompendo le relazioni diplomatiche con il Paese, accusandolo di interferenze politiche. Città del Messico ha replicato di aver agito nel rispetto del diritto internazionale. Chávez, già arrestata nel 2023 e poi rilasciata, rischia fino a 25 anni di carcere.

I giudici smontano il decreto sicurezza: la cannabis light torna ai produttori

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La messa al bando della cannabis light da parte del decreto sicurezza continua a fallire nelle aule di tribunale. In seguito all’emanazione del provvedimento, le forze dell’ordine avevano sequestrato a Sassari e Brindisi centinaia di chili di infiorescenze e arbusti, tuttavia i tribunali del Riesame hanno ordinato la riconsegna del materiale sequestrato, giudicando lecito coltivare, detenere e commercializzare la canapa sativa. Mesi fa, una analoga situazione si era presentata in Liguria. Le infiorescenze di canapa sono state messe al bando dall’articolo 18 del Decreto Sicurezza, che vieta la coltivazione della canapa con basso contenuto di THC. La norma, in vigore dal 12 aprile, mette a rischio un settore che in Italia conta 3.000 aziende, 30.000 addetti, 500 milioni di fatturato e un export del 90%.

In Sardegna, il 23 ottobre il Riesame ha restituito all’imprenditore Giuseppe Pireddu circa 10 chili di infiorescenze e 5053 piante di canapa. All’azienda florovivaistica di Antonella Vinci, invece, sono tornati indietro 257 chili di biomassa essiccata e 954 piante. I due erano stati colpiti dallo stesso provvedimento di sequestro. Gli agenti avevano fermato ad un posto di blocco il furgone che trasportava la merce dai magazzini dell’azienda agricola al rivenditore florovivaista. Analoga situazione in Puglia, dove il tribunale del Riesame di Brindisi ha disposto il dissequestro di oltre 800 piante di canapa sativa light appartenenti alla società agricola ‘Prk’ di Carovigno, restituendo anche i macchinari e i materiali di lavorazione che erano stati precedentemente confiscati agli imprenditori.

A Sassari, i giudici hanno bocciato sequestro e convalida perché, secondo le ordinanze, manca qualunque indizio sull’illegalità della pianta. Anzi, per le toghe il sequestro ha colpito «aziende esercenti legittimamente la coltivazione di canapa», con «plurimi elementi indicativi della coltivazione legale». Nell’ordinanza si precisa che «la detenzione dei residui vegetali, anche se contenenti infiorescenze, non è vietata dalla normativa vigente e non costituisce reato». A Brindisi, le analisi tossicologiche hanno confermato valori di THC compresi tra 0,08 e 0,33%, livelli incapaci di produrre effetti psicoattivi. I magistrati hanno scritto che si tratta di valori «dunque non in grado di incidere in alcun modo sull’assetto neuropsichico di eventuali utilizzatori».

Il clima di repressione cieca colpisce sempre più spesso agricoltori che coltivano la canapa legale, con interventi giudiziari che negano le richieste dell’accusa. Emblematico il caso di un imprenditore della provincia di Belluno, recentemente arrestato con l’accusa di detenzione finalizzata allo spaccio nonostante coltivi canapa industriale con THC nei limiti di legge da 8 anni. Gli agenti non hanno neppure eseguito i campionamenti prima del sequestro, poi annullato grazie all’intervento del suo legale. Episodi simili si sono verificati a Palermo e in Puglia, dove i giudici hanno disposto la scarcerazione immediata di agricoltori accusati ingiustamente di spaccio, ricordando che «non basta che si tratti di cannabis», ma occorre «valutare l’effettiva capacità drogante del prodotto» prima di configurare un reato. Nel frattempo, è terminata con un nulla di fatto la maxi-inchiesta sulla cannabis light iniziata due anni fa dalla Procura di Torino, che ha interessato 14 persone e diverse aziende, ove era stato disposto il sequestro di circa 2 tonnellate di infiorescenze, dal valore complessivo di 18 milioni di euro.

L’esecutivo Meloni ha sin da subito adottato a livello nazionale una linea proibizionista sulla cannabis light, vietando nel 2023 i prodotti orali a base di CBD e classificandoli come stupefacenti. Il decreto ha immediatamente portato a sequestri nei punti vendita. L’associazione Imprenditori Canapa Italia (Ici) ha contestato il provvedimento, ottenendo in più occasioni dal TAR del Lazio la sospensione del divieto. A maggio dell’anno scorso, il governo ha rilanciato con un emendamento al Ddl Sicurezza che vieta la produzione e il commercio della cannabis light, colpendo un settore da 500 milioni annui e decine di migliaia di lavoratori. Federcanapa ha subito evidenziando come il divieto si sarebbe abbattuto sull’«intero comparto agroindustriale della canapa da estrazione, in particolare della produzione di derivati da CBD o da altri cannabinoidi non stupefacenti per impieghi in cosmesi, erboristeria o negli integratori alimentari», ricordando che «tali impieghi sono riconosciuti dalla normativa europea come impieghi legittimi di canapa industriale».

Il Kazakistan aderisce agli Accordi di Abramo

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato che il Kazakistan aderirà gli Accordi di Abramo. Gli Accordi di Abramo sono patti di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e Israele e Bahrein siglati con la mediazione degli Stati Uniti di Trump nel 2020; vennero poi ampliati per includere anche altri due Paesi a maggioranza islamica, Marocco e Sudan. Il Kazakistan è il primo Paese a entrare a far parte degli Accordi di Abramo nel secondo mandato di Trump; l’adesione di Astana ai patti di normalizzazione con Israele ricopre un valore prettamente simbolico, visto che il Kazakistan intrattiene rapporti con lo Stato ebraico da decenni.

Un aereo americano carico di bombe nucleari è passato dall’aeroporto di Brescia

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Nei giorni scorsi, l’aereo statunitense Globemaster III è atterrato nella base aera di Ghedi, a Brescia. Il velivolo è un cargo di grosse dimensioni – 54 metri di lunghezza per 50 metri di apertura alare – e risulta parte dell’unica squadriglia statunitense certificata per il trasporto di bombe atomiche. L’aereo, dopo una sosta in Germania, è arrivato martedì 4 novembre da Volkel, in Olanda ed è ripartito mercoledì alla volta di Incirlik, Turchia, sede di una importante base della NATO. L’Italia continua insomma a fornire supporto logistico all’escalation delle tensioni geopolitiche mondiali: Ghedi – come Incirlik e Volkel – è infatti una delle località che, secondo diversi rapporti, ospiterebbe bombe nucleari statunitensi nell’ambito del programma di condivisione nucleare. Secondo le stime Ghedi ospiterebbe circa 20 ordigni atomici statunitensi, motivo per cui è finita spesso sotto i riflettori e le contestazioni dei comitati locali.

Globemaster III è un grosso velivolo da trasporto statunitense C17, appartenente al 62° Airlift Wing, l’unico reparto statunitense autorizzato al trasporto di bombe atomiche. L’aereo è partito dalla Joint Base Lewis–McChord, situata a 15 km a sudovest di Tacoma, Washington, lo scorso 2 ottobre. Martedì è arrivato in Germania, nella base USA di Ramstein, e da lì ha iniziato il suo giro nelle basi USA del mondo: sempre martedì è giunto a Uden, nei Paesi Bassi, dove si trova la base aerea di Volkel. Si è fermato in Olanda per qualche ora, per poi raggiungere Ghedi; in Italia si è fermato più di 20 ore, ed è poi partito alla volta della Turchia. Ora si trova presso la base statunitense di Lakenheath, nel Regno Unito. Non sono note le prossime tappe dell’aereo.

Tutte le basi aeree visitate hanno fatto parte o si ritiene che facciano parte del programma di condivisione nucleare della NATO, stoccando armi atomiche per gli USA. Quella di Ramstein è una delle basi USA più importanti in Europa, e ospita il quartier generale delle Forze aeree statunitensi in Europa (USAFE) e del Comando aereo della NATO (NATO Allied Air Command); la base, inoltre, ha ospitato armi nucleari statunitensi fino al 2005. Anche Lakenheath ospitava armi nucleari per conto di Washington: in passato, la base è stata al centro di due incidenti – uno avvenuto nel 1956 e uno nel 1961 – che hanno coinvolto indirettamente e danneggiato l’arsenale atomico; le armi atomiche sono state ritirate nel 2007. Non si è altrettanto certi che le basi di Volkel, Incirlik e Ghedi ospitino o abbiano ospitato parte dell’arsenale nucleare degli Stati Uniti, ma tale ipotesi è sostenuta da diversi analisti. Uno dei rapporti più citati a riguardo è quello di Hans Christensen, pubblicato dal Natural Resources Defense Council (NRDC) nel 2005.

Secondo gli analisti, la base di Ghedi ospiterebbe 20 bombe B61-3, B61-4 e B61-7 a caduta libera, anche se in passato ne avrebbe avute 40; nelle sue stime Christensen ritiene che la base sarebbe capace di ospitarne un totale di 44. Le armi, sostiene Christensen, sarebbero arrivate dalla stessa Italia, e precisamente da Rimini, che in periodo di guerra fredda sarebbe stata sede delle armi nucleari statunitensi. Con la fine della guerra e il conseguente disimpegno nucleare, gli USA avrebbero trasferito le armi a Ghedi piuttosto che ritirarle dal Paese. Ghedi è inoltre sede del 6° Stormo dell’aeronautica militare italiana, e ospita aerei F-35A Lightning II e caccia multiruolo Tornado. La base è stata contestata svariate volte dai cittadini e dai comitati locali. Ieri, il movimento non violento di Brescia ha rilasciato una dichiarazione in cui chiede trasparenza e chiarimenti riguardo alla sosta del «mastodontico» cargo statunitense e al presunto ruolo di stoccaggio di Ghedi.