Gli Stati Uniti hanno investito 1,4 miliardi di dollari per ampliare l’accesso del Paese alle terre rare, materiali necessari per produrre componenti tecnologiche di diversa natura. L’investimento riguarda Vulcan Elements e ReElement Technologies, due startup attive rispettivamente nella produzione di magneti, e nei minerali e nel riciclo delle batterie. L’investimento dovrebbe consentire le aziende di aumentare la loro produzione a circa 10.000 tonnellate di materiale. Esso segue analoghi investimenti promossi da Trump nel corso dell’ultimo anno in quello che risulta un mercato dominato dalla Cina.
Il grande inquisitore: la letteratura russa per capire il controllo e il potere
Se ripercorressimo la storia degli ultimi anni, con la sua litania di guerre non volute o al contrario appoggiate e finanziate, come per il genocidio della Palestina, senza il consenso della popolazione, non potremmo fare a meno di domandarci: in che modo siamo stati persuasi ad approvare con il nostro tacito assenso guerre, leggi e misure che vanno contro i nostri stessi interessi? Come riesce, di volta in volta, l’Autorità a convincerci che il riarmo è necessario, che le guerre siano inevitabili, che certe ingiustizie siano questioni troppo complesse e al di là della portata della nostra comprensione? E perché la gente sembra incapace di reagire?
C’è un passo all’interno de I fratelli Karamazov di Dostoevskij che risponde a queste domande. Sto parlando de Il grande inquisitore, un capitolo che racchiude le pagine più sconcertanti di tutta la letteratura mondiale, pagine che spiegano perfettamente come e perché la gente venga assoggetta a un regime, a un governo o a qualsiasi tipo di casta che eserciti il potere.
Il grande inquisitore è ambientato nel Cinquecento, in Spagna. Un vecchio inquisitore di quasi novant’anni visita un uomo tenuto prigioniero nelle segrete. Quell’uomo è Cristo, tornato sulla Terra per una seconda volta. Il vecchio lo ha riconosciuto e proprio per questo lo ha fatto arrestare: «Perché mai sei venuto a disturbarci? […] domani io Ti condannerò e Ti farò bruciare sul rogo, come il più malvagio degli eretici».
Potrei dirvi che Dostoevskij da cristiano ortodosso odiava la Chiesa romana, il papato e i gesuiti, ecco perché dipinge in modo tanto fosco questo inquisitore, pronto a mandare al rogo perfino Cristo. Potrei dirvi che questo vecchio si vanta di aver ingannato gli uomini. «Noi,» confessa (e qui parafraso), «diciamo di agire in Tuo nome, ma non è vero. Abbiamo ingannato gli uomini, li abbiamo allontanati dal Tuo messaggio. Tu parlando di libertà e amore e della comprensione che nasce dalla sofferenza, hai lasciato al mondo parole che avrebbero fatto breccia soltanto nel cuore di pochi. Gli uomini, invece, vogliono la sicurezza, vogliono l’autorità, vogliono beni materiali, tangibili, immediati».
Sono pagine straordinarie, ma non è importante capire le posizioni politiche e religiose di Dostoevskij, o chiedersi se sia vero che la Chiesa abbia deformato il messaggio di Cristo, o se Cristo sia mai esistito. Queste pagine, infatti, racchiudono una verità politica e sociale ben più profonda. Il grande inquisitore parla di una casta che esercita un controllo assoluto sul suo gregge. E in che modo ci riesce? Attraverso quale meccanismo riesce a dominare incontrastata?

«Oh, li convinceremo che saranno liberi, soltanto quando si sottometteranno a noi. […] Nel ricevere da noi i pani, certo loro vedranno chiaramente che noi portiamo loro i loro stessi pani, che si sono guadagnati con le loro mani, senza alcun miracolo, vedranno che non abbiamo tramutato le pietre in pani, ma in verità più che del pane stesso essi saranno lieti di riceverlo dalle nostre mani! […] Proveranno ammirazione e paura nei nostri confronti, e s’inorgogliranno per la nostra potenza e intelligenza, capace di domare un simile gregge ribelle e innumerevole. Tremeranno infiacchiti alla nostra ira, le loro menti si faranno timide, i loro occhi diverranno lacrimosi, come quelli dei bambini. Sì, li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro costruiremo la loro vita come un gioco, con canti infantili e danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato, e ci ameranno per il fatto che permettiamo loro di peccare. Diremo loro che ogni peccato sarà espiato se sarà fatto con il nostro permesso. E non avranno alcun segreto per noi. Permetteremo o proibiremo loro di vivere con mogli e amanti, di avere o non avere figli – sempre giudicando in base alla loro obbedienza – e loro si sottometteranno con allegria e con gioia. I segreti più tormentosi della loro coscienza, tutto, tutto porteranno a noi, e noi tutto risolveremo, e loro crederanno alla nostra decisione con gioia, perché li libererà dalla grande preoccupazione di una decisione libera e personale».
La casta sacerdotale esercita il potere e impone la propria autorità in un modo semplicissimo: tenendo in uno stato di inferiorità coloro che domina. Non minaccia, non punisce, non tormenta, ma blandisce, intimidisce, manipola. Alla stessa conclusione era giunto George Orwell. In 1984 vi sono interi dipartimenti che lavorano giorno e notte col solo scopo di produrre libri, film e giornali spazzatura per anestetizzare il pensiero delle masse. Il Grande Fratello controlla ciò che la gente legge, sente e ascolta, perché, se si riempie la testa delle persone di gossip, stupidaggini e pettegolezzi, la gente, alla fine, parlerà soltanto di gossip, stupidaggini e pettegolezzi. Anche la casta descritta da Dostoevskij fa lo stesso. Vuole che la gente si diverta, purché non pensi ad altro che a divertirsi. S’ingegna per mantenerla in uno stato di perenne distrazione. Riempie le loro giornate di passatempi oziosi e giochi infantili, così «le loro menti si faranno timide, i loro occhi diverranno lacrimosi». È la stessa logica che oggi regge i meccanismi del consenso e dell’intrattenimento: distrai, consola, prometti pane e svago, e nessuno sentirà più il bisogno di ribellarsi. In un mondo che celebra la futilità e il gossip, l’autorità non ha più bisogno di punire o minacciare. Le basta sedurre: si serve della distrazione, del chiacchiericcio, del bisogno di appartenenza.
Infantilizzare le masse, trasformare uomini e donne in eterni bambini, in eterni adolescenti è la conditio sine qua non per dominarli; i bambini cercano per istinto una figura autoritaria: un padre che li sostenga e che dica loro cosa possono fare, come devono pensare e agire.

Ma c’è un altro aspetto fondamentale e altrettanto importante: il controllo. Non fine a sé stesso, il controllo, infatti, risponde a uno scopo psichico ben più preciso. Perché sembriamo incapaci di distogliere lo sguardo dallo schermo? Perché accettiamo di essere intrattenuti e distratti, anche quando sentiamo che dietro questo circo si nasconde un vuoto profondo? Perché sembriamo provare gratitudine per chi ci tiene per mano mentre ci addormenta?
La casta sacerdotale arbitra ogni aspetto della vita del suo gregge, lavora al suo benessere, ma vuole esserne l’unico regolatore. Stabilisce attraverso una minuziosa sfilza di leggi, divieti e prescrizioni come devono vivere, chi possono o non possono amare, regola i rapporti tra coniugi, tra genitori e figli, tra parenti, amici, cugini; infiacchisce la volontà, ostacola il pensiero, impedisce l’esercizio del libero arbitrio. In una parola, si rende indispensabile agli occhi delle persone. In quel geniale saggio che si chiama La democrazia in America Tocqueville giunge alle stesse conclusioni di Dostoevskij che ci ricorda che il potere più efficace non è quello che comanda, ma quello che ci convince a rinunciare spontaneamente alla nostra libertà.
Tra schiavo e padrone c’è sempre un rapporto di complicità. Nessun regime può esistere senza la collaborazione dei sudditi. Non esiste Stato, governo o sistema di potere che possa reggersi soltanto sulla forza. Nessuno può davvero dominare un popolo che non vuole essere dominato. E perché ciò avviene? Gli uomini sono felici di sottomettersi agli inquisitori, perché l’Autorità che essi incarnano li ha liberati dalla grande fatica di dover pensare e decidere da sé. Lo stesso meccanismo in fondo è alla base del successo e della popolarità di applicazioni, come ChatGPT: queste IA semplificano, velocizzano, automatizzano processi come la scrittura, l’ideazione, la progettazione, insomma si sostituiscono all’uomo nello svolgere quelle attività mentali che, costando tempo, energie e fatica, si preferisce demandare a una macchina. La mente umana tende a quella che si potrebbe definire un’economia del risparmio. Peccato che le energie mentali risparmiate e i pensieri salvati dalla necessità di essere formulati si traducano in un impoverimento della mente umana. «Le loro menti diventeranno timide», scriveva Dostoevskij due secoli fa, timide nel senso di poco propense al pensiero, al ragionamento, all’analisi critica e a quella che Pasolini chiamava l’atrocità del dubbio. Una profezia che oggi si è pienamente realizzata.
In Italia le multinazionali hanno evaso 22 miliardi di tasse in sei anni
Ventidue miliardi di euro sottratti al fisco in sei anni. È la cifra che l’Italia ha perso a causa dell’elusione fiscale delle multinazionali, secondo il nuovo rapporto State of Tax Justice 2025 del Tax Justice Network. Dietro i numeri si nasconde un sistema globale che premia i colossi economici e depaupera gli Stati, al punto che il dossier paragona l’evasione fiscale a un vero e proprio saccheggio da parte di «corporation statunitensi che svuotano silenziosamente i nostri tesori pubbliciTra il 2016 e il 2021 le aziende con sede nei grandi centri finanziari hanno spostato artificiosamente i profitti nei paradisi fiscali, sfruttando lacune normative e la complicità delle istituzioni internazionali. In Europa, l’Italia è tra i Paesi più colpiti, con un danno medio di quasi quattro miliardi l’anno: denaro che avrebbe potuto finanziare scuole, ospedali, infrastrutture o ridurre il debito pubblico.
Il dossier di 65 pagine stima che tra il 2016 e il 2021 il mondo abbia perso 1.700 miliardi di dollari di gettito fiscale, di cui 495 miliardi imputabili alle multinazionali statunitensi. Dopo la riforma del 2017 voluta da Donald Trump – il Tax Cuts and Jobs Act – gli Stati Uniti hanno ridotto l’aliquota sulle imprese dal 35% al 21%, trasformandosi di fatto in un paradiso fiscale “interno”: le corporation americane trasferiscono oggi il doppio dei profitti verso la madrepatria, ma pagano meno tasse di prima. Colossi come Google, Apple, Meta e Microsoft registrano aliquote effettive tra l’8 e il 15%, contro il 35% di otto anni fa». Ogni anno, leggiamo nel rapporto, «le multinazionali statunitensi sottraggono al mondo una quantità di tasse pari al doppio di tutto l’oro e l’argento che i colonizzatori spagnoli saccheggiarono dalle Americhe in un arco di centocinquant’anni». Paradossalmente, Washington è al tempo stesso il maggiore responsabile e la principale vittima dell’elusione globale. Il rifiuto di aderire al Common Reporting Standard dell’OCSE – lo scambio automatico di informazioni bancarie tra Paesi – ha reso gli USA la prima giurisdizione per segretezza finanziaria, superando Cayman e Regno Unito. L’Europa, intanto, continua a denunciare l’elusione ma tollera regimi fiscali agevolati in Irlanda, Olanda e Lussemburgo.
Lo State of Tax Justice 2025 stima che le perdite fiscali italiane derivino in gran parte dallo spostamento artificiale dei profitti da parte di multinazionali estere che operano nel Paese, ma dichiarano utili altrove. L’Italia è tra le economie europee più colpite, insieme a Francia (14 miliardi di dollari) e Germania (16,5 miliardi), con una perdita complessiva di 22 miliardi di euro tra il 2016 e il 2021. I settori più coinvolti sono digitale, farmaceutico, automobilistico ed energetico. Roma subisce una doppia perdita: i profitti vengono drenati verso paradisi fiscali interni all’UE – come Lussemburgo, Olanda e Irlanda, dove le aliquote effettive scendono sotto il 5% – senza strumenti legali per contrastare la pratica. Secondo i dati OCSE, circa il 25% dei profitti generati in Italia viene trasferito fiscalmente all’estero. Oltre la metà delle perdite è imputabile a gruppi statunitensi, il resto a società europee con sede nei Paesi Bassi e nel Regno Unito. I 22 miliardi sottratti equivalgono al 2,5% del gettito fiscale annuo o a un anno di spesa sanitaria di Lazio e Campania. Le PMI, invece, pagano in media il 27% di tasse, quasi tre volte più dei colossi globali, subendo una concorrenza sleale che erode il tessuto produttivo e favorisce la delocalizzazione.
Il dossier denuncia il fallimento dell’OCSE nel garantire trasparenza e cooperazione. L’unico passo in avanti, sottolinea il documento, è l’approvazione della Convenzione ONU sulla cooperazione fiscale internazionale, oggi in discussione a New York, che «rappresenta un’occasione per recuperare la sovranità fiscale perduta a causa dello spostamento dei profitti e delle transazioni infragruppo opache». Essa propone due misure chiave: la tassazione unitaria delle multinazionali – trattate come un’unica entità globale i cui profitti siano ripartiti secondo il luogo in cui si realizza l’attività economica reale – e la pubblicazione obbligatoria dei bilanci Paese per Paese. Il Tax Justice Network stima che, se tale misura fosse stata in vigore nel periodo analizzato, l’Italia avrebbe potuto recuperare fino a sei miliardi di euro l’anno. Il sistema di rendicontazione pubblica permetterebbe di verificare in tempo reale dove vengono prodotti e tassati i profitti, riducendo la possibilità di manipolare i prezzi di trasferimento o creare società di comodo. Nonostante i propositi, Roma continua a muoversi con lentezza. L’Italia partecipa al gruppo europeo che sostiene la trasparenza, ma non ha ancora reso effettiva la pubblicazione integrale dei dati di Rendicontazione dati nazionali Paese per Paese (CbCR country by country reporting). Nel frattempo, il divario tra tassazione reale e dovuta si allarga: ciò, come recita il rapporto, «alimenta le disuguaglianze, favorisce la corruzione e mina la democrazia».
La Libia arresta Almasri, il torturatore che era stato protetto dal governo italiano
La Procura libica ha annunciato di avere ordinato l’arresto del Capo del Dipartimento per le Operazioni Giudiziarie e la Sicurezza libico, Osama Almasri, che ora si trova in arresto sotto custodia cautelare. Almasri è particolarmente noto in Italia per una vicenda che lo ha interessato lo scorso gennaio, quando era stato arrestato a Torino per poi venire rimpatriato in Libia nonostante un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale. Almasri è accusato dalla CPI di avere commesso violazioni dei diritti umani nei confronti dei detenuti delle carceri libiche, torturandoli. La Procura di Tripoli lo ha arrestato dopo avere ricevuto segnalazioni di «tortura e trattamenti crudeli e degradanti» nei confronti di undici detenuti, uno dei quali morto in seguito alle violenze subite.
L’annuncio della Procura libica è arrivato oggi, mercoledì 5 novembre. La Procura ha spiegato di avere «completato la raccolta di informazioni relative alle violazioni dei diritti umani commesse contro i detenuti presso l’Istituto Penitenziario e Riabilitativo Principale di Tripoli». L’indagine faceva riferimento a una serie di segnalazioni di tortura nei confronti dei detenuti: «L’investigatore ha condotto un interrogatorio sulle circostanze relative alle violazioni dei diritti umani, raccogliendo prove sufficienti a sostegno delle accuse» e rinviando l’imputato al tribunale per la condanna. La Procura ha affermato che Almasri si trova ora sotto custodia cautelare. Dal comunicato della Procura sembra che il motivo per cui Almasri è stato arrestato non sia il mandato della CPI, ma una indagine interna. A tal proposito, va rimarcato che la Libia non fa parte della Corte; nonostante ciò, nel 2011, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha rilasciato la Risoluzione 1970, con la quale riconosce alla CPI la giurisdizione sui crimini commessi in territorio libico o da cittadini libici a partire dal 15 febbraio 2011. Lo scorso maggio, la Libia accettato la giurisdizione della CPI dal 2011 fino alla fine del 2027.
Almasri, soprannominato «il torturatore di Tripoli» dalle organizzazioni che investigano la situazione delle persone migranti in Libia, si trovava a Torino quando, lo scorso 19 gennaio, è stato arrestato dalle forze dell’ordine italiane su segnalazione dell’Interpol. Su di lui pendeva un ordine di arresto segreto della Corte Penale Internazionale (CPI) con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, principalmente per quanto accade all’interno delle carceri libiche. La Corte d’Appello di Roma ha però giudicato «irrituale» l’operazione, sostenendo che la polizia italiana non avesse l’autorità per agire, come prevedono le norme sulla cooperazione con la Corte dell’Aia, senza una preventiva autorizzazione del ministro della Giustizia. Il ministro della giustizia Nordio, a quel punto, avrebbe potuto sanare la situazione dando l’autorizzazione per convalidare l’arresto, ma non è intervenuto.
In una informativa al Parlamento, Nordio si è difeso dicendo che il mandato è «arrivato in lingua inglese senza essere tradotto con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello». Tra questa sorta di barriera linguistica, cui Nordio ha fatto più volte riferimento, e il «pasticcio» formale della CPI, il guardasigilli – almeno secondo la sua versione – avrebbe tardato nella lettura degli atti, che in ogni caso avrebbe giudicato «nulli». Così, Almasri è stato scarcerato, con il ministro dell’Interno Piantedosi che ha firmato un decreto di espulsione, dichiarandolo «soggetto pericoloso» e vietandogli l’ingresso in Italia per 15 anni. Almasri è stato quindi riportato in Libia su un aereo dei servizi segreti italiani.
Investito della questione in seguito alla denuncia presentata sul caso dall’avvocato Luigi Li Gotti, lo scorso agosto il Tribunale dei Ministri aveva archiviato la posizione della premier Giorgia Meloni, chiedendo invece l’autorizzazione a procedere per i ministri Nordio e Piantedosi e per il sottosegretario Alfredo Mantovano, indagati per favoreggiamento, con ulteriori accuse di peculato e rifiuto di atti d’ufficio. Il 9 ottobre, la Camera dei deputati ha però respinto definitivamente la richiesta di processare i tre membri del governo: come previsto, la maggioranza di centrodestra ha votato compatta contro l’autorizzazione a procedere: 251 voti contrari per Nordio, 252 per Mantovano e 256 per Piantedosi, con circa venti voti provenienti anche da parte dell’opposizione. L’esito ha comportato l’archiviazione delle indagini.
Francia, auto travolge pedoni: 10 feriti
Sull’isola d’Oléron, situata nella costa Atlantica francese, un’automobile ha investito pedoni e ciclisti, ferendo dieci persone. Quattro dei feriti si trovano in condizioni gravi. L’automobilista si stava spostando su una strada tra Dolus-d’Oléron e Saint-Pierre-d’Oléron, ed è stato arrestato dalle forze dell’ordine; si tratta di un uomo di 35 anni già autore di reati minori. L’uomo sarebbe stato arrestato mentre cercava di dare fuoco all’automobile, su cui erano presenti bombole di gas. Gli inquirenti hanno affermato che l’uomo avrebbe investito i pedoni deliberatamente, e che «i moventi non sono confermati». Hanno inoltre affermato che, dopo l’arresto, avrebbe urlato “Allah Akbar”, espressione araba che significa “Allah è grande” spesso associata all’estremismo islamico.
Il contenzioso Epic-Google è a un punto di svolta e potrebbe cambiare il mondo delle app
Il contenzioso Epic v. Google sembra aver raggiunto una svolta definitiva. Alphabet, la società madre di Google, ha annunciato di aver trovato con Epic Games, azienda nota ai più per il videogioco Fortnite, un’intesa che punta a riformulare l’ingiunzione al centro della disputa. L’accordo prevede una riforma sostanziale dell’ecosistema Android e del suo sistema di distribuzione delle app. Se approvato dal tribunale, il patto potrebbe riscrivere le regole di funzionamento degli smartphone e avere ripercussioni globali, incidendo su chiunque abbia in tasca un dispositivo elettronico.
La proposta è stata ufficialmente depositata presso il tribunale federale di San Francisco, all’attenzione del giudice distrettuale che sta seguendo il caso, James Donato. I dettagli dell’intesa sono però già stati anticipati anche sui canali social dal presidente di Google Android, Sameer Samat, e dal CEO di Epic Games, Tim Sweeney, entrambi apparsi entusiasti del compromesso intavolato. L’11 dicembre 2023, Donato aveva di fatto decretato la vittoria di Epic Games, decisione seguita, nell’ottobre 2024, da un’ingiunzione permanente che obbligava Google Play a introdurre modifiche sostanziali al proprio modello di business negli Stati Uniti, tra cui l’apertura per tre anni ai negozi digitali di terze parti.
Ingiunzione che Google ha cercato di far sospendere, ma con scarso successo. L’accordo attuale riparte proprio dai presupposti fissati dal giudice, ma ridefinendo i dettagli così che le specifiche siano dettate dalle due aziende, evitando l’intervento del sistema giudiziario. Secondo la proposta di modifica, Google introdurrà un nuovo programma da integrare nei prossimi aggiornamenti di Android, il quale permetterà ai marketplace di terze parti di registrarsi in un elenco ufficiale gestito dall’azienda, semplificandone così il download e l’installazione da parte degli utenti. La misura verrebbe inizialmente applicata negli Stati Uniti, per poi essere estesa progressivamente ad altri Paesi fino a coprire l’intero mercato globale.
Più complessa resta la questione delle commissioni sulle transazioni digitali, ambito in cui Google – come Apple – viene spesso accusata di pratiche scorrette e predatorie nei confronti degli sviluppatori. La nuova struttura prevede trattenute che variano tra il 20% e il 9% sugli acquisti in-app, una quota che viene determinata in base alla natura dell’acquisto: i miglioramenti che incidono attivamente sul gameplay saranno per esempio soggetti a tariffe più alte, mentre gli oggetti cosmetici o i servizi in abbonamento beneficeranno di aliquote ridotte. A titolo di confronto, l’attuale modello di Google Play applica una commissione standard del 30%, con alcune agevolazioni per le app minori e accordi preferenziali con gli sviluppatori più importanti. Secondo quanto riportato da The Verge, i nuovi accordi prevedono inoltre una trattenuta aggiuntiva del 5% per i pagamenti effettuati tramite il sistema Play Billing, inoltre Google si manterrebbe aperta la possibilità di imporre costi di servizio ai meccanismi di fatturazione alternativi al suo.
Restano dunque diversi margini di ambiguità e interpretazione che il giudice Donato potrebbe chiedere di chiarire in modo più puntuale. Tuttavia, è la prima volta dall’inizio di questa disputa – risalente ormai al lontano 2020 – che le due aziende sembrano essere entrambe soddisfatte da una soluzione condivisa. È opportuno chiarire che non ci troviamo davanti a una battaglia “Davide contro Golia”, nel 2022 Epic Games era stata valutata per 32 miliardi di dollari, tuttavia un’applicazione coerente e trasparente di questi principi potrebbe davvero modificare l’approccio degli sviluppatori al mercato delle app, stimolando reazioni anche in altri settori. Con una trattenuta Android ridotta al 9%, anche Apple potrebbe trovarsi costretta ad abbassare le proprie richieste finanziarie, mentre Sony, Microsoft, Valve e Nintendo – che controllano ampie fette del mercato videoludico – potrebbero essere spinte a loro volta a rivedere le proprie politiche di distribuzione.
L’UE verso un nuovo allargamento: Montenegro e Albania i prossimi, poi Moldavia e (forse) Ucraina
Bruxelles accelera sull’allargamento e guarda ai Balcani occidentali come alla prossima frontiera dell’Unione. Montenegro e Albania sono ormai a un passo dall’adesione, Moldavia e Ucraina restano in corsa, tra progressi e incognite politiche, mentre la Georgia arretra e la Turchia resta bloccata, con i negoziati di adesione fermi dal 2018. Dopo anni di promesse e rinvii, l’Unione Europea, nell’Enlargement Summit organizzato da Euronews a Bruxelles, indica per la prima volta un orizzonte concreto: il 2026-2027 come finestra temporale per l’ingresso dei due Paesi balcanici. Un segnale politico forte, che traduce la strategia europea di stabilizzare il suo “vicinato” e contenere le influenze di Mosca e Pechino. Dietro l’entusiasmo diplomatico restano, però, nodi strutturali ancora irrisolti: il rafforzamento dello stato di diritto, la lotta alla corruzione e la capacità dell’UE di accogliere nuovi membri senza compromettere la propria coesione interna.
La Commissione europea ha indicato Montenegro e Albania come i Paesi più prossimi all’ingresso, con negoziati avanzati e un percorso di riforme quasi completato, ma devono accelerare le riforme per non perdere il treno dell’adesione, secondo il nuovo pacchetto dell’esecutivo europeo. «Nel complesso, il 2025 è stato un anno di progressi significativi per l’allargamento dell’UE», è il bilancio tracciato da Marta Kos, commissaria per l’Allargamento. «Montenegro, Albania, Ucraina e Moldavia si distinguono» per ragioni diverse, ma in comune hanno il fatto di «essere stati loro a compiere i maggiori progressi nelle riforme nell’ultimo anno». Il Montenegro, capofila del gruppo, ha chiuso buona parte dei capitoli negoziali, mostrando un allineamento crescente alle politiche europee. L’Albania segue a ruota, spinta dal sostegno politico della Commissione e da progressi tangibili nella magistratura e nella lotta alla criminalità organizzata. L’obiettivo, dichiarato dai funzionari europei, è di arrivare a una piena adesione entro la fine del decennio, a condizione che i due Paesi mantengano la rotta sulle riforme. L’allargamento ai Balcani rappresenta per Bruxelles una scelta strategica: consolidare la propria influenza in un’area storicamente instabile e oggi cruciale per la sicurezza e l’energia del continente.
Più complesso il quadro per Moldavia e Ucraina. La Moldavia resta un partner privilegiato, ma deve ancora completare l’apertura di tutti i capitoli negoziali e rafforzare la sua tenuta istituzionale. Per l’Ucraina, la Commissione europea ha riconosciuto “progressi notevoli” verso l’adesione, ma ha messo in guardia contro “tendenze negative” legate alla corruzione e all’indipendenza della magistratura. La Commissione si dice pronta a sostenere Kiev, che continua a spingere per un’accelerazione politica del processo entro fine 2028, ma avverte: «È necessaria un’accelerazione del ritmo delle riforme, in particolare per quanto riguarda i princìpi fondamentali, in particolare lo stato di diritto». A porre un freno alle ambizioni dell’Ucraina è il veto dell’Ungheria al suo status di candidato: Viktor Orbán ha bloccato l’avvio formale dei negoziati, poiché ritiene che l’ingresso di Kiev metterebbe in pericolo l’Europa. La reazione di Volodymyr Zelensky, non si è fatta attendere e ieri, in videocollegamento al summit sull’allargamento, ha ribadito che il veto al suo Paese rappresenta un favore diretto al Cremlino: «Non vorremmo che Orbán sostenesse la Russia, perché bloccare il nostro ingresso nell’UE rappresenta un sostegno specifico a Putin», ha insinuato il leader ucraino. L’Unione si trova così di fronte a un bivio: sostenere Kiev come segnale geopolitico, ma senza compromettere i propri criteri interni di adesione.
L’accelerazione sull’allargamento segna per l’Unione Europea una svolta strategica, ma il cammino resta irto di ostacoli. Bruxelles punta a consolidare unità e stabilità nel continente, ma deve confrontarsi con i propri limiti e con le fragilità dei Paesi candidati, sotto osservazione per lo stato di diritto, l’indipendenza della magistratura, la corruzione e la lentezza delle riforme. È soprattutto Kiev a rappresentare la prova più complessa: pur avendo compiuto passi avanti significativi, continua a essere osservata speciale per la persistenza di fenomeni corruttivi, pressioni politiche e lentezza nelle riforme, aggravate dal contesto bellico. Anche Serbia e Bosnia-Erzegovina faticano a garantire efficienza e affidabilità delle istituzioni. L’Europa guarda a Est con ambizione, ma l’integrazione potrà compiersi solo se le promesse si tradurranno in riforme reali. L’allargamento è ormai una prova di credibilità, non solo di geopolitica.
USA-Cina, tregua commerciale: stop ai dazi aggiuntivi del 24%
Gli Stati Uniti e la Cina hanno stipulato un’intesa che segna un’importante deviazione nella loro guerra commerciale: la Cina estenderà per un anno la sospensione dei dazi aggiuntivi pari al 24% applicati sulle importazioni statunitensi, mantenendo però un’aliquota base del 10%. Contemporaneamente, gli USA ridurranno le tariffe “reciproche” sulle merci cinesi all’10%, in vigore dal 10 novembre. L’accordo, firmato dopo il vertice tra Donald Trump e Xi Jinping, mira a riequilibrare gli scambi e riattivare forniture strategiche, come soia e minerali critici, alleviando le tensioni che pesavano sulle catene globali.










