domenica 9 Novembre 2025
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Avellino, la terra trema: 8 scosse in poco più di un giorno

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Da venerdì pomeriggio a ieri sera si sono registrate 8 scosse con epicentro nella provincia di Avellino e avvertite in tutta la Campania. Ieri alle 21.49 il terremoto più forte, di magnitudo 4.0, che ha portato gli abitanti a scendere in strada. «Siamo in una soglia di attenzione molto elevata perché è un’area molto sensibile, ad alta pericolosità sismica», ha dichiarato Maurizio Pignone, sismologo dell’Osservatorio nazionale terremoti dell’INGV, precisando che «quella di questi giorni non è la stessa area che ha generato i terremoti dell’Irpinia, ma a circa 30 km più a nord dell’epicentro del 1980».

L’Ex Ilva di Taranto minaccia la salute: 7 associazioni fanno ricorso al TAR

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Sette associazioni ambientaliste e civiche e un sindacato hanno depositato al TAR di Lecce un ricorso che contesta l’Autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata per la prosecuzione dell’attività siderurgica a combustione fossile nell’ex Ilva di Taranto. Il documento denuncia non solo vizi procedurali ma l’«inadeguatezza rispetto al contesto ambientale e sociale» della città, definita dall’Onu «zona di sacrificio» e «peso sulla coscienza collettiva dell’umanità». Le associazioni chiedono l’annullamento dell’AIA o, comunque, una pronuncia che apra la strada a un intervento di risanamento ambientale e sanitario definitivo.

A firmare il ricorso sono Medici per l’Ambiente ISDE Italia, Genitori Tarantini, Giustizia per Taranto, PeaceLink, Ambiente e Salute per Taranto, Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, Lavoratori Metalmeccanici Organizzati e il sindacato LMO. Le associazioni evidenziano come questa sia la prima AIA concessa in Italia a un impianto fossile dopo la dichiarazione ufficiale di emergenza climatica da parte dell’Unione Europea e della Regione Puglia, avvenuta nel 2019. Secondo i ricorrenti, l’autorizzazione «ignora volutamente il mutato quadro giuridico internazionale e le decisioni delle corti europee e nazionali», che negli ultimi anni hanno individuato parametri stringenti per la compatibilità tra attività industriale e tutela dei diritti umani e ambientali. In particolare, il provvedimento governativo non terrebbe conto delle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) e della Corte di Giustizia dell’Ue, che impongono agli Stati membri di rispettare criteri specifici prima di autorizzare attività industriali inquinanti, alla luce degli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi del 2015.

Il ricorso, redatto dagli avvocati Ascanio Amenduni, Michele Macrì e Maurizio Rizzo Striano, con il supporto scientifico del professor Michele Carducci, docente di Diritto climatico comparato all’Università del Salento, elenca sei profili di illegittimità. Nello specifico, si parla infatti del «mancato rispetto dei requisiti stabiliti dalla Corte europea dei diritti umani per le decisioni sulla decarbonizzazione», della «errata rappresentazione dell’emergenza climatica e ambientale senza analisi preventiva dei rischi e benefici», della «violazione dei contenuti vincolanti indicati dalla Corte di giustizia Ue per l’impianto di Taranto», dell’«elusione delle Bat (Best available techniques) per la tutela ambientale e sanitaria» e «del pubblico tarantino dal processo decisionale, in violazione della Convenzione di Aarhus», nonché della «violazione del Codice dell’Ambiente che impone l’adeguamento alle nuove condizioni climatiche e normative».

Secondo i ricorrenti, inoltre, il documento autorizzativo non farebbe alcun riferimento alle emissioni di CO2, alle norme internazionali di riduzione degli inquinanti, né alla Valutazione di Impatto Sanitario e alla tutela della salute delle generazioni future, nonostante la riforma costituzionale del 2022 abbia introdotto l’obbligo di tutela ambientale in chiave intergenerazionale. L’AIA permette ad Acciaierie d’Italia di produrre fino a 6 milioni di tonnellate di acciaio l’anno fino al 2038, utilizzando gli altoforni a carbon coke. Una decisione che si scontra con i drammatici dati sanitari del territorio: stando all’ultima consulenza della Procura, le diagnosi di cancro a Taranto sono state 2.679 nel 2020, 2.101 nel 2021 e 2.345 nel 2022.

«Se il Tar dovesse accogliere questa eccezione, la vicenda potrebbe approdare alla Corte costituzionale», avvertono i firmatari; e, qualora la giustizia nazionale non dia risposta, «il ricorso è già strutturato per arrivare alla Corte europea dei diritti umani». Le associazioni chiedono una sentenza che imponga all’esecutivo «un intervento definitivo per il risanamento ambientale della città» e che riconosca che la tutela della salute non può essere sacrificata sull’altare dell’interesse economico.

Roma, CGIL in piazza per salari e pensioni

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La CGIL è scesa in pizza a Roma, insieme ad alcune sigle politiche tra le quali PD e AVS, per protestare a favore di aumenti di salari e pensioni, oltre che degli investimenti nella sanità e nella scuola e per dire no al riarmo. Dalla piazza, Landini lascia intendere che potrebbero essere convocate le piazze contro la Manovra di Bilancio del governo Meloni, ma che per oggi “ vogliamo dimostrare che c’è una parte molto importante di questo Paese che chiede dei cambiamenti”. In piazza anche il giornalista Sigfrido Ranucci, al quale è stata espressa solidarietà per l’attentato recentemente subito.

Ultra fast fashion: mentre in Francia sbarca Shein, l’Italia cerca di mettere un freno

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L’ultra fast fashion non ha intenzione di rallentare, né tantomeno di fermare la sua corsa. Il colosso cinese Shein, ignorando qualsiasi tipo di opposizione, si appresta a sbarcare in Francia con negozi fisici. Non in un posto qualunque. Il primo esperimento di vendita al pubblico avverrà a partire da novembre all’interno del BVH, storico grande magazzino nel cuore del Marais, in un edificio fondato nel 1856. Un ingresso fatto non a caso, ma per “onorare” il ruolo centrale della Francia, e Parigi nello specifico, come storica città della moda. Le parole del presidente esecutivo di Shein, Donald Tang, in merito alla questione, stridono un po’: «Scegliendo la Francia come luogo per sperimentare il retail fisico, onoriamo la sua posizione di capitale chiave della moda e abbracciamo il suo spirito di creatività ed eccellenza». E hanno fatto storcere la bocca a numerosissimi marchi, alcuni dei quali hanno deciso di abbandonare il grande magazzino. Anche i sindacati locali non hanno gradito la novità, mettendo in guardia su probabili ripercussioni sulla sopravvivenza del negozio stesso.

L’avvento di Shein e simili è stato un duro colpo per il mondo della moda, che sta mettendo in seria crisi tutto il comparto. Incrementare la sua presenza sul territorio francese (si prevedono altre aperture, ovviamente, presso i grandi magazzini Galeries Lafayette nelle città di Digione, Reims, Grenoble, Angers e Limoges), aggiunge ulteriori minacce ravvicinate a decine di negozi e marchi che si vedono spiazzati dalla concorrenza. Oltre al fatto che potrebbe contribuire ad inondare il mercato europeo più velocemente di capi usa & getta, con le conseguenze del caso nella gestione dei rifiuti tessili europei.

Questa apertura, che sembra quasi un affronto, anche alla luce delle politiche intraprese dalla Francia per ostacolare il fast fashion introducendo nuove tasse, si inserisce perfettamente nel piano di Tang per per diventare un marchio “rispettabile”, saltare gli ostacoli imposti dall’Europa ed agevolare la sua quotazione in borsa. La Francia è quindi il posto giusto: primo perché è il suo secondo mercato più grande in Europa, dopo solo la Germania; secondo perché aprire negli Stati Uniti, principale mercato globale di Shein, con le ostilità manifestate da Trump, sarebbe decisamente più complicato. 

Più fattibile sbarcare in Europa, nonostante la Commissione Europea stia indagando attualmente su Shein per rischi legati a prodotti illegali, ed il mese scorso sia stata approvata  una legislazione per tentare di arginare l’impatto ambientale del fast fashion

Un’onda sulla quale si sta muovendo anche il governo italiano che, dopo un incontro con le associazioni del settore (Camera della Moda, Federmoda Cna e Federazione Moda Confartigianato Imprese), ha manifestato urgenza di prendere misure contro il fast fashion e fronteggiare l’arrivo massiccio di prodotti a basso costo e di scarsa qualità. Negli ultimi anni il numero degli acquisti su piattaforme di e-commerce estere e dirette verso i paesi europei è aumentata esponenzialmente (spesso si tratta di prodotti di piccole dimensioni per articoli che non superano mai i 150€).  Solo nel 2024 sono stati importati 4,6 miliardi di articoli di basso valore, quasi il doppio rispetto ai 2,3 miliardi del 2023 e agli 1,4 miliardi del 2022. Stiamo parlando di quasi 12 milioni di pacchi al giorno, con Temu e Shein a dominare la classifica. I prodotti di queste aziende fanno gola anche da questa parte del globo: si può trovare di tutto di più, perfettamente in linea con le tendenze del momento (ma non solo), orientate a fasce di consumatori di tutte le età (giovani, giovanissimi, adulti,…) con prezzi concorrenziali al limite dell’incredibile. Girare su questi siti è come entrare in un moderno Paese dei Balocchi, dove ogni desiderio può trovare il suo corrispondente in un oggetto fisico che può raggiungere ogni luogo a distanza di pochi click. Difficile resistere. Difficile pensare agli aspetti etici (i prodotti sono realizzati da manodopera sfruttata), a quelli ambientali (molto spesso non rispettano le norme UE in materia di sicurezza, soprattutto per quanto riguarda l’uso delle sostanze chimiche), e ai possibili rischi per la salute umana, mentre si surfa tra milioni di oggetti dal design non certo “eco” ma indubbiamente attuale ed accattivante. 

Una concorrenza spietata e sleale che sta facendo drizzare le orecchie tutte le associazioni di categoria, per cui si stanno cercando di prendere provvedimenti, sia in termine di tassazione, sia sull’introduzione di requisiti da rispettare per la gestione dei rifiuti derivanti dagli articoli messi in vendita (seguendo la scia della responsabilità estesa del produttore, EPR). 

Omicidio Mattarella, svolta dopo 45 anni: arrestato l’ex prefetto Piritore per depistaggio

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Nella giornata di ieri, è arrivata una possibile svolta storica nell’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Siciliana ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980: l’ex prefetto Filippo Piritore, 74 anni, allora funzionario della Squadra mobile e successivamente prefetto del capoluogo siciliano, è stato posto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver depistato le indagini facendo sparire il guanto del killer, la “prova regina” citata dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni in Parlamento. Per i pm di Palermo, Piritore avrebbe nel tempo «reso dichiarazioni rivelatesi del tutto prive di riscontro, con cui ha contribuito a sviare le indagini» anche funzionali «al rinvenimento del guanto (mai ritrovato)», in un’operazione che ha «gravemente inquinato e compromesso» le investigazioni.

Il presunto depistaggio

Come si legge nelle carte, quel guanto di pelle marrone – lasciato sul pianale dell’auto guidata dai sicari – «già nell’immediatezza dei fatti, rappresentava per gli inquirenti dell’epoca una fonte di prova privilegiata essendo, appunto, ‘l’unico oggetto’ che avrebbe potuto condurre all’identificazione dell’assassino». Della sua esistenza restano solo una fotografia e alcuni riferimenti negli atti, tra cui una relazione della Squadra mobile con un appunto a mano dello stesso Piritore: «Consegnato 7-1-80 alla guardia Di Natale, Scientifica, per il dottor Grasso (allora sostituto procuratore responsabile delle indagini, ndr)». Interrogato come testimone a settembre 2024, l’ex prefetto ha confermato questa versione, affermando: «Sono certo di avere dato il guanto al Di Natale… Posso dire con certezza che la direttiva di consegna del guanto al dottor Grasso proveniva da lui, non ricordo se impartita direttamente o mi fu riferita». Per i magistrati, però, si tratta di un racconto «inverosimile e illogico». Sia l’agente Di Natale che l’allora pm Pietro Grasso lo hanno infatti smentito categoricamente: il primo ha dichiarato di non aver mai conosciuto personalmente Grasso e di non aver ricevuto il guanto; il secondo ha affermato: «Nulla ho mai saputo del ritrovamento di un guanto, apprendo solo ora tale circostanza», escludendo «di avere impartito disposizioni al fine di farmi personalmente consegnare il guanto in questione». Secondo l’accusa, il «falso recapito» a Grasso, a sua insaputa, è stato «il modo ingannevole consono per la definitiva dispersione del reperto».

A gettare ombre sulla figura di Piritore sarebbero anche i contenuti di alcune conversazioni intercettate in cui l’ex prefetto, non sapendo di essere ascoltato, confidava alla consorte il proprio stress dopo l’interrogatorio del 17 settembre: «”Figura di merda, non ricordavo un cazzo…. Io poi gliel’ho detto… ‘guardi secondo me… dico saranno sparite negli anni ’90 perché dico prima nell”80 servivano da solo… non potevano servire solo per le impronte digitali…e dopo è venuto il Dna…quindi sono sparite da…se sono state occultate negli anni ’90…quando si è scoperto il Dna” ». E ancora, il 22 settembre: «Rompere i coglioni dopo quarantacinque anni… Qualche cosa fanno», con la moglie che gli risponde: «Ma che fanno…! Non fanno un cazzo… dopo quarant’anni che cazzo devono fare… sei tu che sei tipo uccello del malaugurio». Dalle intercettazioni, secondo il giudice che ha convalidato l’arresto, «emergeva nuovamente la profonda preoccupazione del Piritore per la possibilità di venire coinvolto in iniziative giudiziarie […], atteggiamento questo incompatibile con la posizione di un funzionario che ha compiuto il proprio dovere pur non ricordando i dettagli delle operazioni svolte a causa del tempo decorso».

La giudice delle indagini preliminari ha condiviso la ricostruzione della Procura, motivando gli arresti domiciliari affermando che «nella delineata condotta posta in essere dal Piritore, vi è manifesta la volontà di reiterazione al fine di inquinare le acquisende prove». Secondo la gip, infatti, «Piritore ha voluto fornire indicazioni ulteriormente fuorvianti sulle sorti della prova regina dell’omicidio in Pregiudizio di Piersanti Mattarella», e «chi opera in tal modo manifesta una pervicacia nella volontà delittuosa che collide con qualsivoglia prognosi favorevole circa il suo futuro comportamento consentendo un giudizio di concreta possibilità che egli possa commettere delitti della stessa natura di quello per il quale si procede. Cosa che – conclude la giudice – ha fatto dal 1980 giovane poliziotto ed in continuità ha continuato a fare ad oggi, sempre tacendo, occultando e quando necessario depistando, chiaramente andando al di là della tutela di sé stesso e della sua posizione».

Ombre nere su Palermo

Nell’inchiesta spunta anche il nome di Bruno Contrada, all’epoca dirigente della Mobile e poi numero due del Sisde, arrestato il 24 dicembre 1992 e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi appurati legami con Cosa Nostra. Secondo le carte, Contrada – di cui una sentenza irrevocabile (di cui la CEDU annullò successivamente gli effetti penali per ragioni giuridiche) ha accertato i rapporti con i boss Michele Greco e Totò Riina proprio nel 1980, anno in cui venne assassinato Mattarella – sarebbe stato informato da Piritore del ritrovamento del guanto. Lo stesso Piritore ha ammesso: «Avvisai subito il dirigente della Mobile, nella persona di Contrada, che evidentemente mi disse di avvisare il dottor Grasso». I due, secondo gli inquirenti, erano legati da amicizia: Contrada, almeno secondo quanto riportato nelle agende di quest’ultimo, partecipò al battesimo della figlia di Piritore un mese dopo il delitto. Come hanno testimoniato numerosi amici e collaboratori di Giovanni Falcone, quest’ultimo si diceva convinto che dietro il fallito attentato all’Addaura – ordito ai suoi danni nel giugno del 1989 – aleggiasse proprio la figura di Contrada.

L’omicidio Mattarella presentò da subito elementi che fecero supporre una convergenza tra mafia ed eversione neofascista. Fu proprio Giovanni Falcone a ipotizzare che gli esecutori materiali del delitto potessero essere Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). A supporto di questa tesi, Falcone citò in Commissione Antimafia (1988) la dichiarazione di Cristiano Fioravanti, che accusò il fratello Valerio di essere uno degli esecutori. In un’audizione del 1990, Falcone parlò di «mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni», lasciando intendere una possibile compenetrazione delle due piste. Tuttavia, le indagini non raccolsero prove conclusive e la pista fu archiviata. Un nuovo fascicolo indica oggi come possibili esecutori due mafiosi: Antonino Madonia (già ergastolano per numerosi omicidi eccellenti) e Giuseppe Lucchese. Secondo questa ricostruzione, sarebbe stato Madonia a sparare. Con la svolta dell’arresto di Piritore, però, potrebbe riaprirsi uno scenario ben più ampio e problematico.

Torino, poliziotti caricano manifestanti pro-pal: un ferito

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Circa 300 manifestanti hanno marciato stamattina a Torino da piazza Castello in un corteo non autorizzato verso il Teatro Carignano, dove si svolgevano gli Stati Generali della Casa con i ministri Tajani, Bernini, Zangrillo e Pichetto Fratin. Nell’annuncio si leggeva «Bloccheremo il ministro Tajani». Le forze dell’ordine hanno deviato le linee Gtt e impedito l’accesso; il corteo si è concluso con scontri, lancio di bottiglie e fumogeni davanti al Museo Egizio, presso cui la polizia ha caricato violentemente i manifestanti. Si registra un ferito alla testa tra i partecipanti.

“Il salice”, una poesia di Anna Achmatova (1940)

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Io crebbi in un silenzio arabescato,
in un’ariosa stanza del nuovo secolo.
Non mi era cara la voce dell’uomo,
ma comprendevo quella del vento.
Amavo la lappola e l’ortica,
e più di ogni altro un salice d’argento.
Riconoscente, lui visse con me
la vita intera, alitando di sogni
con i rami piangenti la mia insonnia.
Strana cosa, ora gli sopravvivo
Lì sporge il ceppo, e con voci estranee
parlano di qualcosa gli altri salici
sotto quel cielo, sotto il nostro cielo.
Io taccio...come se fosse morto un fratello.

Se qualcuno ti ascolta tutto diventa dicibile. Il tuo discorso prende la veste del teatro, dell’immaginario, c’è magari una minuscola platea davanti a te, di sconosciuti per il momento, che poi, a differenza degli spettatori, potranno a loro volta partecipare prendendo la parola.

E tu diventerai uditore, destinatario di espressioni, soggetto di scambi, di chiacchiere o di confessioni, di moti d’animo e di valutazioni, ironiche o sorridenti.

Le voci e il loro tono hanno un carattere prima che un significato, sono vento non corpo, mostrano un modo d’essere, fanno parte di un canto senza musica, di un dirsi come fenomeno umano.

Non sto descrivendo un’utopia ma una sensazione, l’idea che qualcuno si interessi a te, al tuo modo di vedere e di sentire, senza giudicarti, senza commentare, qualcuno che sia semplicemente disponibile. Come disponibile è in natura il salice pronto a volgersi verso di te.

Il filo del discorso allora si dipana, le parole, i tuoi sguardi diventano significativi.

Tu non hai particolari ruoli, non sei importante ma lo diventi se trovi anche uno solo, un ‘fratello’, che ti sta a sentire, che non ti dà ragione o torto ma che prende parte per capire e per dire la sua.

Nel mondo della tradizione russa, slovo, la parola è vento, come ànemos, vento, è per i greci l’anima. E il salice, come la betulla, sono alberi che impersonano la giovinezza e i moti dell’animo, quelli che Anna chiama gli arabeschi del nuovo secolo. Così questa poesia della grande Anna Andreevna Achmatova, che ho ripreso per tematizzare illusionisticamente l’ascolto, dà voce a nuove forme dell’intendersi e del tacere. In ascolto dei tempi nuovi che risorgono come alberi sensibili sui vecchi ceppi del tempo.

Thailandia, morta a 93 anni la regina madre Sirikit

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È morta a 93 anni a Bangkok la regina madre Sirikit, moglie del defunto re Bhumibol Adulyadej (Rama IX) e madre dell’attuale sovrano della Thailandia Maha Vajiralongkorn (Rama X). Ricoverata dal 2019 per problemi di salute, aveva contratto un’infezione il 17 ottobre. Nata nel 1932 in una famiglia aristocratica, era considerata una figura amatissima e simbolica: il 12 agosto, giorno del suo compleanno, è la festa della mamma in Thailandia. Durante i 70 anni di regno del marito sostenne progetti sociali e ambientali, difese le tradizioni artigianali e mantenne un ruolo influente anche nei periodi di turbolenza politica.

Tre raffinerie europee che lavorano petrolio russo sono “misteriosamente” saltate in aria

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Tre esplosioni in tre giorni hanno colpito altrettante raffinerie europee legate al petrolio russo: Ploiesti in Romania, Százhalombatta in Ungheria e Bratislava in Slovacchia. Un filo rosso collega i tre episodi: tutte e tre dipendono dal greggio di Mosca e sono state colpite in un momento cruciale della guerra energetica in atto. Mentre Washington vara nuove sanzioni contro i colossi energetici russi, Rosneft e Lukoil – “un atto ostile” secondo il presidente Putin – e l’UE approva lo stop al gas russo e il diciannovesimo pacchetto di misure punitive contro Mosca ma frena sull’uso degli asset russi congelati, le infrastrutture che ancora garantivano all’Europa un minimo margine di autonomia energetica vengono spazzate via da fiamme “inspiegabili”.

La stampa ufficiale liquida gli eventi come “incidenti tecnici”, ma l’impressione è che dietro ci sia molto di più: una strategia di sabotaggio sistematico, la stessa che tre anni fa fece saltare i gasdotti Nord Stream nel Baltico. Una guerra silenziosa, parallela a quella che avviene sul campo, che non mira solo a colpire Mosca, ma a piegare chi mantiene canali di approvvigionamento con Mosca e a ridisegnare gli equilibri di potere del Vecchio continente. Ricapitolando: il 20 ottobre un’esplosione ha devastato la raffineria di Ploiesti, in Romania, di proprietà di Lukoil Europe, filiale del colosso russo, ora sottoposto a sanzioni da parte di Washington. Poche ore dopo, un incendio ha colpito l’impianto ungherese di Százhalombatta, il più grande del Paese, sul Danubio a meno di 20 chilometri da Budapest, alimentato dal petrolio che arriva dal Druzhba. Due giorni più tardi, a Bratislava, in Slovacchia, una terza deflagrazione ha investito un altro impianto del gruppo MOL, della stessa compagnia ungherese colpita a Szazhalombatta, anche questa alimentata dal petrolio russo del Druzhba. Proprio con i dirigenti MOL si è confrontato il premier ungherese Viktor Orbán, che, in un’intervista alla radio Kossut, ha spiegato che l’Ungheria sta lavorando a un modo per “aggirare” le sanzioni USA contro le compagnie petrolifere russe. Budapest e Bratislava si sono imposte contro lo stop alle importazioni di gas russo. Entrambi i Paesi dipendono fortemente dalle forniture di Mosca e temono gravi ripercussioni economiche e sociali. Budapest ha definito il piano una minaccia alla sicurezza energetica nazionale, mentre Bratislava ha chiesto più tempo per adattarsi.

Tre episodi in 72 ore, nello stesso corridoio energetico che trasporta il greggio russo verso l’Europa centrale. I tre impianti hanno in comune che raffinano petrolio di fornitura russa e, ulteriore coincidenza, hanno registrato incidenti in una fase in cui i droni ucraini stanno intensificando gli attacchi alle raffinerie sul territorio russo. Se, citando Arthur Conan Doyle, «uUn indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», quanto accaduto pare troppo perfetto per essere casuale. Gli episodi coincidono, infatti, con l’annuncio delle nuove sanzioni statunitensi e con l’aumento del prezzo del Brent: un tempismo talmente preciso da sollevare sospetti sulla reale dinamica di quanto accaduto. Anche i droni che in passato hanno colpito il ramo meridionale dell’oleodotto Druzhba – quello che rifornisce Ungheria e Slovacchia – evitano accuratamente il tratto diretto in Polonia, fedele alleata atlantica. Se si trattasse di sabotaggio, come sempre più osservatori ipotizzano, allora questi atti non sarebbero indirizzati soltanto contro la Russia – che ne soffre solo marginalmente – ma contro l’Europa, che perde ogni residuo di autonomia energetica e politica. La linea di frattura è sempre la stessa: punire i Paesi europei che tentano una politica energetica autonoma, colpire chi ancora mantiene legami con Mosca, costringere tutti gli altri a riallinearsi sotto il controllo di Washington.

A consolidare questa ipotesi, c’è come osserva Gianandrea Gaiani, quella che potremmo chiamare la “Dottrina Tusk-Sikorski”, dal nome del primo ministro e del ministro degli Esteri polacchi, che hanno di fatto sdoganato la legittimità degli attacchi terroristici a infrastrutture che rappresentino anche indirettamente interessi russi in Europa. Parafrasando il loro pensiero, infatti, sabotare infrastrutture legate alla Russia non sarebbe un crimine, ma un atto legittimo di difesa. Una teoria che giustifica atti di terrorismo sul suolo europeo, purché abbiano come bersaglio interessi russi – anche se quei bersagli coincidono con infrastrutture strategiche di Paesi dell’Unione. Sono esplicative, in questo senso, le dichiarazioni del premier polacco Donald Tusk: «Il problema con Nord Stream 2 non è che sia stato fatto saltare in aria. Il problema è che è stato costruito». Varsavia, che già nel 2022 aveva celebrato tramite un tweet di Radoslaw Sikorski, poi cancellato, la distruzione del Nord Stream con un eloquente «Grazie USA!», oggi legittima di fatto nuovi attentati. Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri polacco ha pubblicamente incoraggiato gli ucraini a distruggere l’oleodotto Druzhba, esprimendo in un post su X la speranza che il comandante delle forze di sistema senza pilota delle Forze armate ucraine, Robert Brovdi, disabilitasse l’oleodotto Druzhba, dopodiché l’Ungheria avrebbe ricevuto petrolio via Croazia. Il messaggio è chiaro: colpire raffinerie, oleodotti o gasdotti legati agli interessi russi non solo è tollerabile, ma auspicabile. Una posizione che apre la porta a ogni arbitrio e mette l’Europa su un crinale pericoloso, dove la sicurezza energetica diventa strumento di guerra politica.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il vero intento delle sanzioni contro il petrolio russo è ridisegnare il continente e produrre un vantaggio economico per il petrolio USA. Non a caso, l’energia in Europa costa tre volte e mezzo più che negli Stati Uniti, le industrie chiudono o delocalizzano e la dipendenza dal gas e dal petrolio “alleato” cresce ogni giorno. Le raffinerie esplose non sono semplici infrastrutture danneggiate, ma simboli di un equilibrio che si vuole distruggere. Se le esplosioni in Romania, Ungheria e Slovacchia non sono state accidentali ma frutto di sabotaggio, vanno annoverate nella stessa categoria degli attentati ai gasdotti Nord Stream e vanno intese come tentativi di riorientare gli equilibri del continente attraverso una ridefinizione delle sue politiche energetiche: ridurre l’influenza dei Paesi fondatori, a cominciare dalla Germania – un tempo collegata direttamente alla Russia tramite il Nord Stream – e aumentare, invece, il peso dei Paesi di più recente adesione, quelli più strettamente legati agli Stati Uniti. In questa guerra energetica senza dichiarazioni né fronti ufficiali, l’Europa rischia di restare non un attore, ma il campo di battaglia.

USA sanzionano presidente colombiano Petro per accuse di traffico di droga

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L’amministrazione Trump ha imposto sanzioni al presidente colombiano Gustavo Petro, alla moglie Veronica Alcocer, al figlio Nicolás Petro Burgos e al ministro dell’Interno Armando Benedetti, accusandoli di favorire il traffico internazionale di droga. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha affermato che Petro avrebbe permesso ai cartelli di prosperare, annunciando “misure forti” per proteggere gli Stati Uniti. Le sanzioni aggravano le tensioni tra Washington e Bogotá, già in aumento dopo gli attacchi americani contro imbarcazioni sospettate di trasportare stupefacenti al largo del Sud America, e segnano un duro colpo ai rapporti con l’alleato colombiano.