Il Giappone ha concluso un accordo dal valore di 6,5 miliardi di dollari per la costruzione di navi da guerra di nuova generazione per l’Australia. L’accordo segna la più importante vendita di armamenti da parte di Tokyo dal 2014; esso prevede la costruzione di tre fregate multiruolo di classe Mogami, da consegnare a Canberra a partire dal 2029. Tale mezzo è progettato per dare la caccia ai sottomarini, colpire navi di superficie e fornire difesa aerea e richiede un equipaggio di circa 90 uomini, meno della metà di quello richiesto dalle navi attualmente in uso in Australia; l’Australia prevede di impiegare le nuove navi per difendere le proprie rotte commerciali marittime.
Fonti del governo israeliano: “Decisione presa, occuperemo Gaza e Trump è con noi”
Secondo diverse fonti del governo israeliano, riprese da giornali ed emittenti di tutto il Paese, Israele avrebbe deciso di occupare Gaza. La scelta, che avrebbe ottenuto il beneplacito di Trump, sarebbe arrivata a margine di una riunione del governo e dovrebbe essere ratificata a partire da oggi dal gabinetto di sicurezza. Il contenuto del presunto piano non risulta ancora chiaro, ma pare che esso partirebbe da una intensificazione degli attacchi nelle aree centrali della Striscia di Gaza. Altrettanto nebbiosa appare la durata dell’occupazione militare, la quale tuttavia potrebbe portare alla più volte suggerita annessione dell’intera Striscia in via definitiva. Pare inoltre che, in sede di discussione, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, si sia opposto al piano e abbia annullato una visita con i vertici del Pentagono proprio a causa della sua approvazione; «Se non è d’accordo dovrebbe dimettersi», avrebbe detto Netanyahu, riferendosi a Zamir.
L’indiscrezione sulla presunta approvazione del piano di occupazione totale di Gaza ha iniziato a comparire sui giornali israeliani nella sera di ieri, lunedì 4 agosto. Da allora non è arrivata alcuna conferma ufficiale, ma la notizia è stata ripresa da numerosi quotidiani ed emittenti del Paese, tra cui spiccano nomi di corrispondenti e giornalisti generalmente considerati affidabili e autorevoli in Israele. Tra questi, figura Yaakov Bardugo, giornalista di Channel 14 e avvocato particolarmente vicino a Netanyahu, spesso definito dai quotidiani israeliani «confidente» e «stretto collaboratore» del primo ministro. «Il governo si riunirà questa settimana per decidere se sottomettere e occupare la Striscia di Gaza», scriveva ieri Bardugo per la sua emittente. Secondo Bardugo, «una volta interrotti i negoziati e impedita la possibilità di restituire gli ostaggi attraverso un accordo parziale o globale, l’IDF riceverà l’ordine di occupare la Striscia di Gaza e sottomettere la sanguinaria organizzazione terroristica Hamas». L’obiettivo dichiarato, insomma, è sempre quello di uccidere i vertici di Hamas, che, secondo Bardugo, verrebbero presi di mira anche se si trovassero fuori dai territori palestinesi; altro fine sarebbe quello di liberare gli ostaggi, nonostante lo stesso capo dell’esercito Zamir abbia a più riprese affermato che la messa in sicurezza degli ostaggi non sia conciliabile con l’occupazione militare della Striscia.
Diversi media del Paese hanno riportato presunti attriti tra Zamir e Netanyahu, che sarebbero sorti proprio a causa dell’approvazione del piano. Lo scontro ai vertici è stato confermato da Itay Blumenthal, noto corrispondente di guerra di Channel 11. «Il capo di Stato Maggiore Zamir ha annullato un viaggio di lavoro negli Stati Uniti per incontrare alti funzionari del Pentagono, che prevedeva la sua partecipazione a una cerimonia di scambio», scrive Blumenthal. Zamir avrebbe dovuto viaggiare verso gli Stati Uniti proprio ieri sera, ma, da quanto riporta il giornalista, il vertice militare avrebbe «condizionato il suo viaggio all’esistenza di un cessate il fuoco» e deciso di annullarlo per il mancato raggiungimento di un accordo; oggi, scrive Blumenthal, sarebbe prevista una riunione di gabinetto per parlare del piano. Nel caso dovesse venire approvato, riporta il sito di informazione Ynet, esso avrebbe l’appoggio di Trump.
Il contenuto del presunto piano di occupazione è ancora vago. Secondo Channel 14, esso prevedrebbe in prima battuta l’entrata diretta delle forze terrestri a Gaza City, Deir al Balah e Nuseirat (campo profughi situato nello stesso governatorato di Deir al Balah), nell’ottica di un’invasione dell’intera area centrale della Striscia – dove si ritiene che si trovino gli ostaggi; se dovesse venire approvato, Israele aumenterebbe il numero di soldati presenti a Gaza. Zamir, invece, pare preferire un approccio meno diretto, che prevedrebbe l’accerchiamento delle medesime aree nell’ottica di una guerra di logoramento e l’effettuazione di incursioni mirate. Secondo l’emittente Channel 12, nel quadro proposto da Zamir, la fanteria israeliana circonderebbe le medesime aree elencate da Channel 14, per poi penetrare in attacchi temporanei «anche in luoghi che riteneva protetti». Sotto il piano di Zamir, il numero di soldati presenti nella Striscia diminuirebbe per essere concentrato in punti strategici, e «qualsiasi mossa delle IDF nella zona avverrebbe in pieno coordinamento con gli americani»; che prenda piede la proposta di Zamir o quella di Netanyahu, insomma, Israele intensificherebbe le aggressioni, e gli USA sarebbero coinvolti.
Brasile, arresti domiciliari per l’ex presidente Bolsonaro
La Corte Suprema brasiliana ha disposto gli arresti domiciliari per l’ex presidente del Paese, Jair Bolsonaro. Il provvedimento è stato preso da Alexandre de Moraes, che ha riconosciuto a Bolsonaro la violazione delle misure cautelari precedentemente impostegli dalla Corte. Bolsonaro ha infatti utilizzato i propri canali social per condividere messaggi col pubblico, cosa che, secondo quanto stabilito dalla Corte, non gli era concessa. Bolsonaro è sotto processo con l’accusa di avere architettato un colpo di Stato; successivamente, a tale accusa si è aggiunta anche quella di avere favorito ingerenze da parte di Trump, a cui avrebbe chiesto di interferire nel suo processo.
Brasile e India disobbediscono agli USA e ribadiscono la difesa della propria sovranità
Non esiste un solo modo per reagire alla geopolitica della forza messa in piedi a suon di dazi e minacce da Donald Trump per tentare di ristabilire l’egemonia americana. Dopo che l’Unione Europea ha accettato di aprire le porte ai prodotti americani e promettere centinaia di miliardi in importazioni di gas e investimenti di aziende europee negli USA per ammorbidire i dazi, i Paesi BRICS dimostrano ancora una volta di non sottostare ai diktat statunitensi. In Brasile il presidente Lula, dopo l’annuncio di Trump di dazi al 50%, ha ribadito che risponderà colpo su colpo alla guerra commerciale per proteggere «l’economia, le imprese e i lavoratori», precisando che «sono solo i brasiliani a determinare le politiche del Brasile». Allo stesso modo il governo indiano – Paese già sottoposto a dazi del 25% – ha reagito alla minaccia di Trump di intensificare le sanzioni nel caso in cui non interrompesse le importazioni di armi ed energia dalla Russia ribadendo di non accettare minacce e che le relazioni commerciali con Mosca non saranno interrotte.
Trump ha rilasciato l’annuncio sui dazi sui beni importati dal Brasile lo scorso 9 luglio, in un comunicato in cui parla di relazioni commerciali «ben lontane dalla reciprocità», alludendo, come già fatto in molti altri casi, a una presunta bilancia commerciale in negativo per Washington. Lula ha messo subito le cose in chiaro: «L’affermazione secondo cui gli Stati Uniti avrebbero un deficit commerciale nei loro rapporti con il Brasile è inesatta. Le statistiche del governo statunitense stesso mostrano un surplus di 410 miliardi di dollari negli scambi di beni e servizi con il Brasile negli ultimi 15 anni», si legge in un comunicato governativo. Non è chiaro da dove il governo brasiliano abbia ottenuto i dati sulla bilancia commerciale con gli Stati Uniti, ma consultando l’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti (l’ente governativo di statistica del Paese, una sorta di equivalente statunitense del nostro ISTAT) è possibile confermare che, malgrado i numeri forniti dal Brasile sembrino eccessivi, la bilancia commerciale tra i due Paesi pende notevolmente a favore di Washington (con un surplus di circa 150 miliardi in 15 anni).
A spiegare meglio le reali ragioni dietro i dazi statunitensi è arrivato il rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Jamieson Gree, in una intervista all’emittente statunitense CBS: «Abbiamo emesso una tariffa del 10%» di natura commerciale, «e poi c’è una tariffa del 40% per questioni geopolitiche», imposta come una sorta di sanzione. «Una cosa normale», sostiene il funzionario, che Trump si sarebbe visto costretto a fare dopo avere registrato «violazioni dei principi democratici» da parte del Brasile. Secondo Gree, il presidente sarebbe stato addirittura clemente: «In verità le tariffe sono più leggere delle sanzioni», afferma infatti il funzionario. Le ragioni dietro l’uso politico di uno strumento commerciale come i dazi nei confronti del Brasile risiedono nel rapporto tra Trump e l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, accusato di colpo di Stato. Già il 9 luglio, Trump elencava tra le motivazioni dell’imposizione dei dazi a Brasilia la «caccia alle streghe» del Paese nei confronti del suo vecchio alleato. A rincarare la dose sono arrivate anche le sanzioni emesse da Trump nei confronti di Alexadre de Moraes, giudice della Corte Suprema brasiliana che segue i casi in cui è coinvolto Bolsonaro.
I fatti per cui è accusato Bolsonaro risalgono all’8 gennaio 2023, quando un gruppo di suoi sostenitori ha assaltato i palazzi istituzionali della capitale nel momento dell’insediamento di Lula. Bolsonaro è stato sin dall’inizio accusato dai ministri dell’esecutivo di essere dietro l’insurrezione e nel febbraio del 2024 la Corte Suprema brasiliana ha pubblicato un documento che mostrava un presunto piano di golpe architettato dall’ex presidente. Nel frattempo, Eduardo Bolsonaro, terzo figlio di Jair, ha svolto attività lobbistica negli Stati Uniti avvicinandosi alla sfera repubblicana trumpiana, intensificandola dopo la sua elezione. Lo scorso mese alle accuse all’ex presidente si è aggiunta quella di aver favorito interferenze straniere; anche a causa dell’attività del figlio, che secondo le indagini avrebbe fatto da tramite per conto del padre per far sì che Trump intervenisse nel suo processo.
Tra Brasile e USA, insomma, è in corso un vero e proprio braccio di ferro politico in cui i dazi risultano solo uno strumento per esercitare pressione. Non stupisce in tal senso la risposta forte di Lula, che ha affermato che il Paese non intende piegarsi alle ingerenze statunitensi: «Il presidente Trump non si deve dimenticare che è stato eletto per governare gli Stati Uniti, non per essere l’imperatore del mondo», ha detto Lula in un’intervista all’emittente statunitense CNN. Lula ha affermato che se Trump non ritira i dazi, presenterà ricorso davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio, proverà a coinvolgere altri Paesi nell’iniziativa, e sfrutterà la “Legge di Reciprocità Economica” approvata nei mesi scorsi proprio per rispondere a eventuali dazi statunitensi. «Il commercio del Brasile con gli Stati Uniti rappresenta l’1,7% del nostro PIL totale», ha ricordato Lula; «non è che non possiamo sopravvivere senza gli Stati Uniti».
Come il Brasile, anche l’India. Sebbene le tensioni con nuova Delhi siano meno evidenti, le frizioni tra i due Paesi iniziano a farsi sentire. Anche nel caso dell’India, Trump ha annunciato dazi al 25% più una non meglio precisata «misura aggiuntiva», per il fatto che il Paese acquista la maggior parte delle proprie componenti militari e del proprio petrolio dalla Russia e, dunque, per ragioni politiche. Dei funzionari indiani, tuttavia, hanno dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che il Paese non intende diminuire le proprie importazioni di idrocarburi dalla Russia; tale notizia è stata confermata da altri funzionari al New York Times, che avrebbero detto al quotidiano statunitense che «le nostre relazioni bilaterali con i vari Paesi si basano sui loro meriti e non dovrebbero essere viste dal prisma di un Paese terzo», confermando che l’esecutivo non prevede di mutare le proprie relazioni su pressioni statunitensi. Poco dopo è arrivato il primo commento indiretto da parte del primo ministro indiano Narendra Modi: malgrado non abbia fatto esplicito riferimento ai dazi, Modi ha parlato di una situazione globale «instabile», in cui i Paesi sono «focalizzati sui propri reciproci interessi»; ha dunque invitato la popolazione a consumare e acquistare solo beni prodotti in India, annunciando nuove misure per potenziare il Made in India, e investimenti nel settore agricolo. Oggi, lunedì 4 agosto, Trump ha deciso di rincarare la dose su Nuova Delhi, affermando che, visto che l’India non intende disallinearsi dalla Russia, aumenterà ulteriormente i dazi contro il Paese, senza tuttavia specificare di quanto.
Dietro i riflettori del lusso, la vera moda italiana è quasi scomparsa
Il Made in Italy se la sta passando male. Talmente male che il presidente della Camera della Moda, Carlo Capasa, alla presentazione dei Sustainable Fashion Awards, che andranno in scena il prossimo 27 settembre alla Scala di Milano, ha affermato: «È in atto una campagna contro il Made in Italy che sta spingendo l’esportazione cinese a basso costo nel nostro Paese. Demonizzare il lusso e i suoi prezzi è un attacco al sistema Italia e al valore della filiera». Sindrome del complotto o no, gli ultimi fatti di cronaca hanno evidenziato che dei problemi all’interno del sistema ci sono, a cominciare dai frequenti casi di sfruttamento riportati dalle cronache giudiziarie. per cui è urgente mettere la verità sul tavolo, prendere atto dello stato di salute attuale e correre ai ripari concreti. Il Made in Italy non è solo un’etichetta di provenienza apposta sui capi prodotti, in toto o in parte, nel nostro Paese. Il Made in Italy, dal dopoguerra in poi (fino ad allora erano i couturier francesi a essere considerati il massimo in fatto di moda), è diventato una garanzia di stile, dove il design studiato dei primi stilisti, unito all’ottima qualità dei materiali e alla sapiente costruzione dei capi, ha fatto decollare la moda italiana oltreoceano, rendendola poi famosa in tutto il mondo.
In mezzo allo scomodo New Look di Dior, negli anni ’50 i designer e le case di moda italiane si sono affermati con creazioni allora rivoluzionarie e innovative: forme semplici, comode, ottima vestibilità e qualità superiore dei tessuti realizzati in loco (ricordiamo il distretto pratese, quello di Biella per le lane e Como per la seta, tra gli altri).
La moda italiana, nel tempo, è diventata sempre più popolare tra le star di Hollywood e le celebrità: basta ricordare l’abito di Valentino indossato da Jacqueline Kennedy al matrimonio con Onassis, le scarpe rosse di Salvatore Ferragamo realizzate per Marilyn Monroe e il Borsalino di Michael Jackson…
Il Made in Italy non è mai stato solo una denominazione del Paese di origine: era sinonimo di stile e qualità. E di un saper fare, prettamente artigianale, fortemente radicato nella nostra storia e nella nostra cultura. Disegnatori e stilisti, sì, ma anche tessitori, ricamatori, pellettieri e maestri artigiani dalle mani d’oro. Tecnici specializzati, architetti di quelle creazioni che hanno fatto il giro del mondo, e che oggi è difficilissimo trovare (complice una narrazione e un’offerta formativa incentrata sui direttori creativi a discapito di competenze e professioni tecniche).
Così com’è altrettanto difficile trovare un Made in Italy fatto 100% in Italia, in condizioni di lavoro eque e giuste.
«Il comparto impiega 600mila lavoratori, di cui solo 30mila irregolari secondo i dati Istat. Siamo tra i settori con l’incidenza più bassa. La vera filiera illegale è molto limitata. I fornitori che non rispettano le regole rappresentano meno del 2% della produzione totale di un brand», continua Capasa.
Un 2% — quello uscito allo scoperto al momento attuale — che ha scoperchiato un vaso di Pandora e che sta mettendo in discussione un intero settore produttivo. Un 2% che ha svelato una tendenza ormai in voga da decenni: pagare meno per garantire più margini ai brand in questione.
Marchi che, nonostante portino ancora i loro nomi originari, sono stati inglobati o venduti a grandi holding straniere (che sono legate ai profitti più che ai prodotti): sono nell’orbita LVMH Pucci, Fendi, Bulgari e le essenze di Acqua di Parma; altro padrone del lusso mondiale, Kering, ha in scuderia Gucci, Bottega Veneta, Brioni e Pomellato; Valentino è nelle mani del fondo del Qatar Mayhoola; Krizia è stata comprata dai cinesi di Marisfrolg e anche la moda 4.0 è emigrata, da quando Federico Marchetti ha venduto Yoox-Net-à-Porter agli svizzeri di Richemont. E si potrebbe andare ancora avanti…
Viene dunque da chiedersi: da cosa è costituito il settore tessile/moda in Italia, ad oggi?
Il settore manifatturiero (produzione tessile, confezione ed accessori – dati Infocamere al 31 dicembre 2024) è costituito da circa 68.000 imprese; l’83% sono micro-imprese fino a 9 dipendenti; un 15% è rappresentato da piccole imprese; l’1,7% sono medie imprese (dai 50 ai 149 dipendenti, che arrivano a fatturare anche 50 milioni di euro) e le grandi imprese rappresentano lo 0,3% (circa 143 in tutta Italia).
Dati alla mano, se parliamo di Made in Italy oggi, dobbiamo parlare di micro-imprese. Eppure, gli sguardi di chi propone leggi e riforme sono sempre orientati alla salvaguardia e tutela di quello 0,3% (nonostante tra il 2021 e il 2024 l’Italia abbia perso 9.000 imprese – circa 3.000 all’anno), ignorando completamente le esigenze di quel 98% che, se incentivato e protetto, potrebbe riportare in auge un intero comparto in maniera trasparente e sostenibile.
Certificare la filiera, sapere dove/quando e come vengono prodotti i capi, organizzare verifiche preventive in modo da esonerare il titolare del marchio in caso di subappalti illeciti. Sono queste le misure ipotizzate dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che più che a una serie di protocolli, sta promuovendo una normativa vera e propria che possa garantire trasparenza e certificare interamente la catena produttiva.
Ad oggi esiste un commissario che viene insediato per aumentare i controlli; con la Legge sulla Legalità, tutta la filiera dovrà essere garantita. Questa misura, unita all’impegno europeo per temi come l’eco-design, il passaporto digitale e il fine vita dei prodotti (per cui è già stato fondato un consorzio), rappresenta alcune delle attività intraprese per sostenere il Made in Italy e riportarlo in auge con un certo stile, che non sta più nei tagli e nei colori, ma nel rispetto e nell’etica.
Il cammino si prospetta lungo e a tratti utopico, ma o così o tra vent’anni il Made in Italy, e tutto ciò che rappresenta, potrebbe sparire del tutto.
Antitrust: multa di 1 milione di euro a Shein per comunicazione ingannevole
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) ha multato Shein per 1 milione di euro per comunicazione ingannevole. L’accusa riguarda la collezione “evoluSHEIN by Design”, in cui il marchio avrebbe diffuso informazioni false, facendo credere ai consumatori che i vestiti fossero realizzati con materiali ecosostenibili e riciclabili, senza fornire prove concrete. Inoltre, Shein ha pubblicato dichiarazioni vaghe sugli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. A giugno, l’Organizzazione europea dei consumatori aveva già denunciato pratiche commerciali ingannevoli per spingere all’acquisto.
Come Israele usa YouTube per migliorare la propria immagine e negare il genocidio
La guerra sul campo di battaglia non è l’unica forma di guerra esistente né la più importante: se non si ha il controllo della narrazione e dell’opinione pubblica, nessuna guerra può davvero essere vinta. Lo sa bene Israele che, per ripulire la propria immagine – fortemente incrinata dal massacro che sta portando avanti a Gaza e dai continui attacchi contro diversi Paesi del Medio Oriente – ha avviato una vera e propria campagna propagandistica rivolta ai cittadini europei utilizzando YouTube come principale canale divulgativo. La campagna è stata condotta dall’Agenzia Pubblicitaria del Governo israeliano che, a partire dallo scorso 13 giugno, ha pagato decine di milioni di inserzioni pubblicitarie solo su YouTube. Il ministero degli Esteri dello Stato ebraico, invece, per promuovere l’immagine d’Israele nell’ambito di quella che viene chiamata “diplomazia pubblica”, ha ricevuto 150 milioni di dollari, vale a dire una somma venti volte superiore a quanto stanziato negli anni passati. Inutile dire che tale iniziativa mediatica arriva in un momento in cui l’immagine di Israele agli occhi del mondo è fortemente compromessa e non solo i cittadini, ma anche alcuni governi stanno iniziando a prendere le distanze dalle azioni israeliane. Da qui la necessità di promuovere lo Stato ebraico dipingendolo letteralmente negli spot come un benefattore del popolo palestinese e un difensore della civiltà occidentale, sconfinando nel campo della cosiddetta guerra cognitiva.
Le nazioni a cui è stata principalmente rivolta la campagna propagandistica di Israele sono Regno Unito, Francia, Italia, Germania e Grecia. Lo Stato ebraico ha scelto, invece, di trascurare le opinioni pubbliche di quei Paesi i cui governi hanno formalmente condannato le sue azioni, come la Spagna e l’Irlanda. Nell’ultimo mese, i video caricati su YouTube dal ministero degli Affari Esteri israeliano hanno raggiunto 45 milioni di visualizzazioni solo sulla piattaforma multimediale controllata da Google. Gli spot vertono principalmente sulla questione degli aiuti umanitari a Gaza da parte di Israele e sulla presunta “minaccia iraniana”. In uno di questi, Israele si presenta come benefattore della popolazione palestinese, sostenendo che a Gaza sta conducendo «una delle più vaste operazioni umanitarie attualmente in corso nel mondo» e che tutto ciò avverrebbe «in linea con il diritto internazionale umanitario». Il video si conclude con la voce fuoricampo che afferma: «il vero aiuto si vede. I sorrisi non mentono. Hamas mente». Relativamente all’attacco all’Iran, invece, lo Stato ebraico giustifica ancora una volta se stesso sostenendo che si sia trattato di un «attacco necessario per impedire che il regime più pericoloso al mondo ottenesse l’arma più pericolosa al mondo». Inoltre, il video propagandistico sottolinea che mentre l’Iran avrebbe preso di mira i civili, lo Stato sionista avrebbe colpito solo siti militari e figure di alto rango dell’apparato militare iraniano. I numeri però raccontano tutta un’altra realtà: negli attacchi israeliani a Teheran, 935 civili iraniani sono stati uccisi, a fronte di soli 28 civili israeliani da parte dei missili degli Ayatollah.
A smentire le dichiarazioni e gli slogan a effetto della propaganda israeliana ci sono i fatti e i dati: nonostante Tel Aviv sostenga nella sua campagna mediatica di distribuire milioni di pasti ogni giorno, la penuria alimentare e la carestia nella Striscia di Gaza è sempre più grave. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che i palestinesi stanno morendo a causa di una «carestia di massa causata dall’uomo», e oltre 100 ONG hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui avvertono del sempre più imminente rischio di «carestia di massa». Allo stesso tempo, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha condotto un’indagine interna sui presunti furti di cibo da parte di Hamas e non ha trovato alcuna prova a riguardo. Lo riporta in esclusiva l’agenzia di stampa Reuters, secondo cui «non è emersa alcuna segnalazione che affermi che Hamas abbia beneficiato di forniture finanziate dagli Stati Uniti». Inoltre, l’OMS e i medici dell’enclave segnalano diversi morti per malnutrizione negli ultimi giorni, mentre le Nazioni Unite stimano che le forze israeliane abbiano ucciso più di 1.000 persone in cerca di rifornimenti alimentari, la maggior parte delle quali nei pressi dei siti di distribuzione.
Si nota, dunque, come gli spot promossi da Israele effettuino un vero e proprio ribaltamento della realtà, mettendo in atto le tecniche standard della cosiddetta guerra cognitiva che è una versione rafforzata della guerra dell’informazione. Secondo la definizione data dall’Alleanza Atlantica, infatti, “Nella guerra cognitiva, la mente umana diventa il campo di battaglia. L’obiettivo è cambiare non solo ciò che le persone pensano, ma anche il modo in cui pensano e agiscono”. Tale definizione sembra corrispondere agli obiettivi di Israele di influenzare le convinzioni dell’opinione pubblica circa il suo operato, necessitando di ripulire la sua immagine in questo momento più che in ogni altro periodo della sua storia. In ciò, lo Stato ebraico è enormemente facilitato dalle relazioni privilegiate che intrattiene con i giganti della Silicon Valley, tra cui Google. Secondo il Times of Israel, “il sostegno internazionale a Israele è diminuito drasticamente”.
Se da un lato, non sembra che al momento la campagna mediatica lanciata da Israele abbia sortito gli effetti desiderati, dall’altra, l’operazione dello Stato ebraico conferma l’importanza del controllo dell’opinione pubblica e della manipolazione e il grave danno d’immagine che sta subendo Israele a livello internazionale. In altre parole, anche le democrazie, vere o presunte, sono maestre nell’arte della propaganda.
Cosa dice davvero lo studio sulle 2,5 milioni di vite salvate dai vaccini Covid
Titoli clickbait, speculazioni giornalistiche e articoli privi del necessario contesto e dei condizionali tipici della corretta divulgazione scientifica, i quali sembrano aver già acceso numerose polemiche social e rinvigorito la ormai storica diatriba tra cosiddetti “novax” e “provax”: si possono riassumere così gli effetti che ha avuto nel mondo dell’informazione un recente studio condotto da un team internazionale di scienziati, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Health Forum. Se da una parte numerosi articoli hanno divulgato la notizia trattando i vaccini come «cruciali» e descrivendoli come origine di «risultati straordinari», dall’altra vi sono i dati dello stesso studio spesso completamente omessi e descritti dagli autori in ben due pagine di limitazioni, in cui gli autori ribadiscono che si tratta di stime approssimative, basate su ipotesi tutt’altro che solide, che l’efficacia è decine di volte inferiore rispetto a stime precedenti e ad altri vaccini e che il rapporto rischio-beneficio per i giovani andrebbe attentamente valutato, visto che costituirebbero solo lo 0,01% sul totale delle vite “salvate”. «Si tratta di uno studio epidemiologico basato su assunti a dir poco arbitrari, tra i quali uno dei più discutibili è proprio quello relativo all’efficacia dei vaccini nella prevenzione dei decessi da Covid», commenta il medico e farmacologo Marco Cosentino in esclusiva per L’Indipendente.
I risultati dello studio
«I vaccini hanno salvato 2,5 milioni di vite anche dopo la pandemia», «impatto gigantesco», «Il ruolo cruciale dei vaccini nella Salute Pubblica», «risultati straordinari»: sono queste alcune frasi e locuzioni usate per descrivere lo studio o che addirittura sono state inserite nei titoli di diversi articoli usciti nei giorni scorsi. Tuttavia, basta analizzare i dati e le stesse affermazioni degli autori per rendersi conto che – sensazionalismo a parte – lo studio dice ben altro. Gli esperti hanno esaminato i dati della popolazione mondiale applicando una serie di metodi statistici per scoprire chi, tra le persone che si sono ammalate di Covid, lo ha fatto prima o dopo la vaccinazione, prima o dopo il periodo Omicron, e quanti di loro sono deceduti. Come sottolineato dagli autori – ma non dalla maggior parte degli articoli che trattano la notizia – al contrario di quanto stimato da ricerche precedenti – come quella finanziata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che calcolava circa 1,4 milioni di decessi in meno solo in Europa o quella pubblicata su The Lancet che attestava tale numero a circa 20 milioni nel mondo – sarebbero stati prevenuti circa 2,5 milioni di decessi nel periodo 2020-2024 a livello globale, corrispondenti a circa l’1% della mortalità totale di quel periodo. Di questi, l’82% ha riguardato persone inoculate prima di incontrare il virus, il 90% ultrasessantenni e pochi punti percentuali per i giovani: 0,01% per bambini ed adolescenti e 0,07% per giovani adulti di età compresa tra 20 e 29 anni. In totale, concludono gli autori, la campagna vaccinale avrebbe evitato un decesso ogni 5.400 dosi somministrate e garantito 14,8 milioni di anni di vita, corrispondente ad un anno di vita salvato ogni 900 dosi.
Cosa dice davvero e limitazioni
Oltre a questi dati, però, gli autori avvertono per ben due pagine di possibili limitazioni e problematiche relative ai calcoli effettuati, ribadendo che si tratta di stime basate su ipotesi tutt’altro che incontrovertibili. Per quanto riguarda i metodi, viene ipotizzato che diverse fasce di popolazione abbiano ricevuto almeno una dose precedente a qualsiasi infezione prima della variante Omicron, mentre d’altra parte il restante della popolazione globale non infettata entro novembre 2021 abbia contratto il virus almeno una volta fino ad ottobre 2024. Tale ipotesi risulta tutt’altro che scientificamente rigorosa. Basti pensare che, pur ammettendo che molti casi non siano stati rilevati (soprattutto nei paesi a basso reddito), rispetto alla popolazione mondiale di oltre 8 miliardi di persone, i casi segnalati di infezione sono attestati a meno di 780 milioni fino al 31 dicembre 2024, che potrebbero inoltre includere persone infettate più volte. Sostanzialmente, come sottolineato dagli stessi autori, viene ipotizzato che in assenza di vaccinazione prima o poi si sarebbe contratta l’infezione durante il periodo Omicron. Inoltre, un’assunzione che certamente non sarebbe condivisa da ogni ricercatore sul tema riguarda l’efficacia vaccinale: gli autori hanno ipotizzato una efficacia relativa pari al 75% prima della variante Omicron e al 50% successivamente. «Si tratta di numeri enormi che nessuno studio autorizzativo avalla in alcun modo. I vaccini a RNA nei loro studi autorizzativi non pare abbiano effetto sui decessi (Pfizer anzi ha più decessi nei vaccinati) mentre un minimo di effetto favorevole ce l’ha AstraZeneca. Ma certo non con le percentuali usate in questa ricerca», commenta in esclusiva per L’Indipendente il medico e farmacologo Marco Cosentino.
Infine, gli autori concludono con una serie di avvertenze e osservazioni che hanno trovato decisamente poco spazio all’interno degli articoli a riguardo: «La falsa percezione di una prevenzione altamente efficace della trasmissione potrebbe essersi ritorta contro di noi», scrivono, alludendo al fatto che molti vaccinati potrebbero aver ridotto le precauzioni facilitando la circolazione del virus. Inoltre, «il contributo relativo di bambini, adolescenti e giovani adulti alle vite e agli anni di vita salvati appare minimo» e ciò richiederebbe «un’attenta valutazione dei potenziali benefici aggiuntivi derivanti da esiti non letali ed effetti avversi. I rapporti costo-efficacia dovrebbero essere valutati attentamente in queste fasce d’età per valutare se la vaccinazione sia stata utile per loro». In aggiunta, c’è anche il fattore relativo all’organizzazione dei servizi sanitari che, in quei casi dove l’assistenza non era ottimale, potrebbe aver contribuito all’aumento dell’indice di mortalità, mentre non è da escludere nemmeno la variabile geografica: «La maggior parte dei dati provengono da Paesi ad alto reddito mentre nazioni come Cina e India presentano notevoli incertezze» sia sulle stime degli indici da utilizzare sia per quelli relativi ai benefici dei vaccini, continuano. Inoltre, gli autori sottolineano che è fondamentale considerare le modalità con cui sono stati segnalati i decessi e il nesso di causalità: viene stimato che in una scala da 0 a 1 – dove 0 indica che non ha contribuito affatto e 1 indica una causa dominante su tutte le altre, tipo una bomba atomica – il Covid avrebbe un peso medio di 0,5 il che, sommato al fatto che secondo i dati la maggior parte dei decessi è avvenuto in persone anziane e con almeno una o più patologie pregresse, sembrerebbe minare ulteriormente la solidità dei modelli considerati.
In conclusione, al contrario da quanto “divulgato” recentemente da numerose testate mainstream e siti di informazione italiani, non si tratta di uno studio «gigantesco» e «straordinario», ma di una analisi che, come sottolineato dagli autori, mira a fornire stime approssimative utili per ricerche successive e modelli sui cui potrebbero basarsi ulteriori studi futuri.
Corte dei Conti: PNRR in linea, ma permangono criticità
La Corte dei conti ha esaminato l’attuazione del PNRR e PNC nel primo semestre 2025, riscontrando che, pur in linea con gli obiettivi europei, persistono alcune criticità. Tra le problematiche, si segnalano ritardi nelle opere più complesse, come le infrastrutture penitenziarie e il potenziamento ferroviario. Le difficoltà principali riguardano la rimodulazione degli interventi, la rendicontazione frammentata, carenze di personale, un monitoraggio finanziario insufficiente e l’aggiornamento non tempestivo delle piattaforme digitali, come ReGiS, per il controllo dei fondi.