Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato la legge che pone fine al più lungo shutdown della storia americana, durato 43 giorni. Il provvedimento, approvato dal Congresso grazie all’appoggio bipartisan di otto democratici, conferma i fondi governativi fino al 30 gennaio e non prevede l’estensione dei sussidi per la sanità legati alla Affordable Care Act (Obamacare). Trump ha ringraziato i membri democratici che hanno aiutato a superare lo stallo e ha promesso «che non accada mai più». Con la riapertura, si prevede un graduale ritorno alla normalità: i controllori del traffico aereo rientreranno e saranno eliminati i limiti al traffico nei principali scali statunitensi; inoltre riprenderanno i pagamenti dei buoni pasto per circa 42 milioni di americani.
Libia, incidente in imbarcazione di migranti: 42 dispersi
Un gommone con a bordo 49 persone migranti è cappottato nei pressi del giacimento petrolifero di Al Buri, una struttura offshore a nord-nord-ovest della costa libica. A dare la notizia è l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che ha affermato che l’incidente è avvenuto lo scorso 3 novembre e che a oggi 42 dei passeggeri risultano ancora dispersi; l’OIM li dà ormai per deceduti. Il gommone era partito dalla città portuale di Zuwara; secondo quanto raccontato dai 7 sopravvissuti, soccorsi dalle autorità libiche lo scorso 8 novembre, si sarebbe capovolto dopo circa sei ore di navigazione. Dall’inizio dell’anno nella rotta del Mediterraneo Centrale sono morte oltre mille persone migranti.
Milano, inchiesta sul turismo di guerra in Bosnia: «pagavano per sparare ai civili»
La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta su un gruppo di cittadini italiani sospettati di aver partecipato, negli anni Novanta, all’assedio di Sarajevo come “turisti della guerra”. Avrebbero pagato somme ingenti per unirsi ai reparti serbo-bosniaci e sparare sui civili intrappolati nella capitale assediata. L’indagine, coordinata dal pm Alessandro Gobbis per omicidio volontario plurimo aggravato da crudeltà e motivi abietti, punta a far luce su una delle pagine più rimosse del conflitto balcanico: quella di uomini partiti dall’Italia per comprare un posto accanto ai cecchini e trasformare l’orrore di Sarajevo – in cui furono uccise oltre 11.500 persone, tra cui 1.601 bambini – in un sinistro gioco di morte.
L’inchiesta della Procura di Milano nasce da un esposto presentato lo scorso 28 gennaio dal giornalista, fotografo e regista Ezio Gavazzeni, da anni impegnato su temi di mafia e terrorismo, insieme all’ex giudice Guido Salvini. Il documento, lungo 17 pagine, raccoglie testimonianze e contatti con fonti bosniache che, agli inizi degli anni Novanta, avevano segnalato la presenza di cittadini italiani nei dintorni di Sarajevo. Gavazzeni ha allegato anche la trascrizione di uno scambio con Edin Subašić, un ex agente dei servizi di intelligence militare bosniaci, che confermerebbe l’esistenza di un presunto giro di “finti soldati” provenienti da Torino, Milano e Trieste, che avrebbero pagato per ottenere un “pass” utile a muoversi tra le linee e raggiungere le postazioni dei cecchini sulle colline della capitale. Protetti da ufficiali serbo-bosniaci, i 5 italiani avrebbero preso parte a vere e proprie “sessioni di tiro” contro civili disarmati, ambulanze e persino bambini. I “clienti”, ha raccontato l’ex 007, erano «persone molto ricche e probabilmente influenti nelle loro comunità», con coperture politiche, che potevano «permettersi economicamente una sfida così adrenalinica», tra cui appassionati di caccia e armi, vicini all’estrema destra. La «copertura dell’attività venatoria serviva per portare, senza sospetti, i gruppi a destinazione a Belgrado». L’ex funzionario dei servizi segreti della Serbia Jovica Stanišić, condannato per crimini di guerra, avrebbe svolto «un ruolo chiave in questo servizio». Nell’esposto si fa riferimento anche al tariffario dell’orrore: «I bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis». Tra i “turisti della guerra” figurerebbe un triestino di mezza età, ex militare con legami nell’estrema destra europea e un imprenditore lombardo, titolare di una clinica privata di medicina estetica, che negli anni successivi avrebbe raccontato di “aver visto la guerra da vicino”. La Procura di Milano, in collaborazione con l’Interpol e le autorità di Sarajevo, sta ora ricostruendo flussi di denaro e i contatti tra intermediari serbi e italiani.
La vicenda era già stata raccontata nel 2014 da Luca Leone nel libro I bastardi di Sarajevo, in cui descriveva il fenomeno dei cecchini paganti come un vero “pacchetto turistico” di guerra. Lo scrittore, esperto di Balcani, confermò che giornalisti e cittadini di Sarajevo conoscevano quei casi: «Stranieri da tutta Europa – c’erano anche italiani – pagavano ai checkpoint gestiti dai paramilitari serbi sia in Croazia sia in Bosnia per poi passare un fine settimana a sparare sui civili» sopra Sarajevo. Una vicenda tanto macabra da sembrare la trama di un film e che ha ispirato, infatti, il documentario Sarajevo Safari – oggi tra i materiali dell’esposto – del regista sloveno Miran Zupanič. Presentato nel 2022 all’Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival, attraverso testimonianze di ex agenti e civili, la pellicola indaga il fenomeno dei cosiddetti “turisti della guerra”, provenienti da diversi Paesi europei. Benjamina Karic, ex sindaca di Sarajevo e oggi docente universitaria, ha chiesto ufficialmente di essere ascoltata dalla Procura di Milano. L’ex sindaca sostiene che «un’intera squadra di persone instancabili sta lottando affinché la denuncia non rimanga lettera morta».
Già negli anni Novanta il Sismi aveva ricevuto segnalazioni su presunti viaggi organizzati dall’Italia verso i Balcani. Alcuni dossier, rimasti secretati per decenni, indicavano che l’intelligence italiana aveva intercettato movimenti sospetti di cittadini diretti in Serbia e in Bosnia attraverso la Slovenia. L’inchiesta milanese è al momento a carico di ignoti. Gli inquirenti cercano di capire se i presunti “turisti della guerra” italiani possano rispondere anche di crimini di guerra e violazione delle convenzioni internazionali e restano da chiarire i nodi della prescrizione e della competenza territoriale. Non si esclude che dietro i viaggi si muovessero gruppi di mercenari europei già attivi nei Balcani. A trent’anni di distanza, la Bosnia chiede giustizia e verità. Le indagini proseguono tra rogatorie internazionali e l’esame degli archivi italiani, alla ricerca di segnalazioni rimaste per troppo tempo inascoltate.
Le distorsioni statistiche che avrebbero gonfiato efficacia e sicurezza dei vaccini Covid
Insieme al Dr. Marco Alessandria, al Dr. Giovanni Trambusti, al Dr. Giovanni M. Malatesta e al Dr. Alberto Donzelli, abbiamo recentemente pubblicato uno studio scientifico di grandissima importanza, il quale è stato sottoposto a revisione paritaria, intitolato Classification bias and impact of COVID-19 vaccination on all-cause mortality: the case of the Italian Region Emilia-Romagna, nel quale dimostriamo come alcune distorsioni statistiche abbiano causato una sovrastima dell’efficacia e della sicurezza dei vaccini contro la COVID-19.
Lo studio ha analizzato i dati di mortalità per stato vaccinale in Emilia-Romagna tra dicembre 2020 e dicembre 2021, utilizzando dati ufficiali dell’ISTAT e dati ottenuti dall’Anagrafe Nazionale Vaccini e dalla Regione Emilia-Romagna. Quest’ultima fonte è stata resa accessibile grazie a una richiesta FOIA presentata dall’avvocato Lorenzo Melacarne e rilasciata ai sensi dell’art. 5, comma 2 del Decreto Legislativo n. 33/2013. I dati, completamente anonimizzati alla fonte, riguardano l’intera popolazione, suddivisa per età, e distinguono tra vaccinati (con almeno una dose) e non vaccinati. Sono state infine selezionate specifiche finestre temporali per analizzare l’andamento della mortalità in relazione alla campagna vaccinale nelle fasce d’età 50-59, 60-69 e 70-79 anni.
Analizzando i dati abbiamo individuato una distorsione statistica che può alterare in modo sostanziale le valutazioni reali di efficacia e sicurezza vaccinale, nota come “distorsione della finestra di conteggio dei casi” (dall’inglese case-counting window bias). Questa distorsione, teorizzata da Fung e coautori, si verifica perché le persone vengono classificate come “non vaccinate” nei primi 14 giorni dopo la vaccinazione (periodo considerato necessario per lo sviluppo completo della risposta immunitaria). Di conseguenza, eventuali eventi avversi (eccezion fatta per casi di shock anafilattico, che è stato tendenzialmente attribuito alla vaccinazione) e i decessi per le più varie cause che si possono verificare in questa finestra di tempo, vengono erroneamente attribuiti al gruppo dei non vaccinati, aumentando artificialmente il loro tasso di mortalità e sottostimando contemporaneamente la mortalità tra i vaccinati. In particolare, analizzando i dati giornalieri sulla mortalità per tutte le cause e sulla somministrazione dei vaccini nella Regione Emilia-Romagna, abbiamo riscontrato una chiara coincidenza temporale tra le campagne vaccinali e i picchi di decessi tra coloro classificati erroneamente come non vaccinati durante questa finestra temporale critica (Figura 1).
La nostra analisi ha evidenziato differenze significative nella mortalità tra i gruppi vaccinati e non vaccinati durante i 14 giorni post-vaccinazione durante i quali avviene la classificazione errata. È importante sottolineare che queste differenze non possono essere spiegate solo dai decessi per COVID-19, che rappresentavano circa il 9% di tutti i decessi in Italia nel 2021. Escludendo i decessi legati alla COVID-19, la disparità tra i gruppi rimane significativa, indicando una classificazione errata sistematica, piuttosto che un reale beneficio vaccinale. Anche se questo effetto è stato rilevato in tutte le fasce analizzate, abbiamo osservato che la differenza diminuisce con l’età, probabilmente a causa dell’aumento delle comorbilità negli anziani, che influenzano il rischio complessivo di mortalità (per ulteriori dettagli si rimanda all’articolo, pubblicato in modalità open access e liberamente consultabile).
I nostri risultati suggeriscono un effetto “mietitura”, per cui individui vulnerabili muoiono poco dopo la vaccinazione, ma i loro decessi vengono erroneamente conteggiati fra i non vaccinati. Questa errata classificazione nasconde potenziali eventi avversi gravi correlati alla vaccinazione che si verificano nel breve periodo, come reazioni allergiche gravi, eventi cardiovascolari o risposte autoimmuni.
Questa distorsione è potenzialmente diffusa a livello internazionale e interessa tutti i paesi che hanno adottato una finestra temporale simile per classificare gli individui come vaccinati o non vaccinati. Ad esempio, le pratiche sanitarie britanniche hanno considerato le persone come non vaccinate nei primi 14-21 giorni dopo la vaccinazione. Tale distorsione sistemica altera i profili di sicurezza vaccinale, escludendo gli eventi avversi precoci dal gruppo dei vaccinati.
La distorsione della finestra di conteggio dei casi è collegata a un altro fenomeno ben noto nella ricerca osservazionale, la distorsione del tempo immortale (dall’inglese immortal time bias). I Professori Norman Fenton e Martin Neil furono tra i primi a identificare come queste distorsioni spostino casi e decessi in modo da esagerare l’efficacia e la sicurezza apparente dei vaccini, creando categorizzazioni temporali fuorvianti. Lo stesso Prof. Fenton ha definito queste manipolazioni un “trucco a buon mercato” (dall’inglese cheap trick) – un’illusione statistica che aumenta artificialmente la percezione dell’efficacia vaccinale.
In conclusione, il nostro studio rappresenta il primo studio pubblicato nella letteratura scientifica sottoposta a revisione paritaria, che analizza dati di mortalità reali per stato vaccinale, evidenziando chiaramente come non correggere queste cruciali distorsioni statistiche, come quella della finestra di conteggio dei casi e del tempo immortale, porta a una sovrastima dei benefici e a una sottovalutazione delle reazioni avverse legate ai vaccini. Di conseguenza, per garantire valutazioni accurate e decisioni sulla salute pubblica affidabili, è essenziale correggere queste distorsioni e disporre di dati aggiornati e precisi sullo stato vaccinale degli individui. Infine, sulla base di queste prove, tutti gli studi sull’efficacia vaccinale dovrebbero essere rivalutati tenendo conto di questi aspetti per assicurare una valutazione trasparente e realistica della sicurezza e dell’efficacia dei vaccini.
India: pacchetto da 4 miliardi in aiuto alle imprese colpite dai dazi
Il governo indiano ha approvato un pacchetto da 4,3 miliardi di euro per sostenere gli esportatori. Il piano prevede lo stanziamento di circa 2 miliardi sotto forma di garanzie di credito sui prestiti bancari e di altri 2,3 miliardi in finanziamenti commerciali ai piccoli esportatori, al settore della logistica e in supporto al mercato. La misura vuole contribuire a compensare l’impatto dei dazi statunitensi sul Paese. Gli USA hanno imposto all’India tariffe del 50% come forma di ritorsione per gli acquisti di petrolio russo da parte di Nuova Delhi.
La raccolta delle olive in Palestina: quando lavorare la terra è un atto di resistenza
SINJIL, PALESTINA OCCUPATA – «Questa terra l’ho ereditata da mio nonno,» dice Souad, lo sguardo triste, ma non rassegnato mentre osserva la collina piena di ulivi davanti a noi. «Sono 45 anni che la lavoro, fino ad oggi. Non era così prima. Erano pietre, rocce… ho speso molti soldi per questa terra. Per questo la vedi così.» Scuote la testa. «Questo è il primo anno che non posso raccogliere. I militari l’hanno dichiarata zona militare chiusa, e hai visto cosa è successo.» Souad è di Sinjil, un paesino palestinese a 15 km da Ramallah. Qui è nato circa 65 anni fa; i campi, gli uliveti, sono da sempre stati parte della sua vita, così come lo sono per decine di migliaia di famiglie palestinesi in Cisgiordania occupata. L’olio è l’oro verde della terra per i palestinesi, una risorsa economica ancora più importante dal 7ottobre 2023 a causa dell’aumento dei prezzi in Cisgiordania e della difficoltà economiche che toccano molte famiglie, rimaste senza lavoro.
La stagione delle olive sta volgendo al termine e quest’anno si sta caratterizzando come uno dei più violenti per i raccoglitori palestinesi. Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti (la Wall and Settlement Resistance Commission), l’esercito israeliano e i coloni hanno compiuto un totale di 259 attacchi contro i raccoglitori di olive dall’inizio della stagione, ossia dai primi di ottobre fino al 28 del mese. Limitazioni di movimento per gli agricoltori, minacce, aggressioni fisiche, furti di olive, incendi e distruzione di alberi; tutte modalità che vengono utilizzate da anni per allontanare i palestinesi dalla propria terra, impedirgli la raccolta e lasciare i coloni prendersi sempre più terre.
Ad accompagnare Souad c’erano una decina di palestinesi e una ventina di attivisti internazionali venuti da tutto il mondo proprio a sostenere le comunità della Cisgiordania in questo delicato momento dell’anno. Appena arrivati, abbiamo trovato il cancello – uno dei 916 cancelli e barriere di metallo installate dagli israeliani in questi ultimi anni per aprire e chiudere a piacimento le strade e i villaggi palestinesi – di Sinjil chiuso. L’ordine che rendeva la zona una “closed military zone” l’abbiamo ricevuto mentre già camminavamo per gli uliveti. Questi ordini militari sono una delle forme per impedire la raccolta agli agricoltori: la forza occupante dichiara temporaneamente la zona “chiusa” ai civili, tendenzialmente proprio i giorni in cui la famiglia si appresta a raccogliere. È così che il 16 ottobre hanno arrestato 32 attivisti internazionali, la maggior parte israeliani, mentre partecipavano alla raccolta delle olive in uno dei villaggi che più subiscono la violenza dei coloni, Burin. Gli internazionali, che sostenevano la UAWC (Union of Agricultural Work Committees), una organizzazione palestinese senza scopo di lucro che si occupa di sviluppo agricolo – etichettata da Israele come organizzazione terroristica nel 2021 – dopo 72 ore di detenzione sono stati espulsi dal territorio. E alle famiglie palestinesi è stata impedita la raccolta.
La famiglia di Souad e gli attivisti, rastrelli in pugno, iniziano a tirare già le olive dai rami: non passa nemmeno mezz’ora che si presentano tre coloni a disturbare gli agricoltori, telefoni in mano filmando ogni volto. A qualche centinaio di metri, una colona israeliana pascola delle pecore.
Quasi immediatamente si presentano due militari, mitra in pugno e volto semi-coperto. Intimano di fermare il lavoro e andare via, quella è una zona militare chiusa e non sono autorizzati a raccogliere. Dietro, i coloni attendono le contrattazioni, le discussioni, e infine la raccolta dei materiali e l’abbandono del campo.
L’esercito israeliano e i coloni fanno parte dello stesso disegno di colonizzazione della Cisgiordania: la violenza dei secondi è spinta e sostenuta da buona parte della classe politica israeliana, che non solo ha regalato decine di migliaia di M-16 ai circa 700mila coloni illegali che abitano in almeno 270 colonie e avamposti, ma ne ha di fatto assicurato l’impunità davanti alla legge per eventuali crimini contro i palestinesi. Spesso si trovano coloni armati di bastoni, pietre, ma anche armi, minacciare o aggredire palestinesi con dietro i militari israeliani che osservano la scena senza intervenire se non per arrestare qualche palestinese. O per lanciare gas lacrimogeni e bombe stordenti per mandare via tutti.
Beita, una storia di resistenza
Beita è un paesino di 12mila abitanti a pochi chilometri da Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata. Circondato da tre colonie e outpost, è un territorio in resistenza dall’inizio dell’occupazione sionista. La proteste si sono intensificate quando nel 2021 la popolazione del paese ha scoperto che il monte Sabih, accanto al villaggio, sarebbe diventato una nuova colonia. Settlers israeliani in pochi giorni iniziarono a portare caravan e a occupare la terra, costruendo l’avamposto di Evyatar. I cittadini di Beita risposero con una forte resistenza, durata senza interruzioni per tre mesi, nel tentativo – poi riuscito – di mandare via i nuovi coloni. Ma la zona rimase occupata dagli israeliani, che proposero di farne una base militare, e da anni tutti i venerdì dopo la preghiera gli abitanti si muovono in protesta per la cittadina. Di fatto i coloni tornarono e nel 2024, sfruttando l’ondata di occupazioni illegali post 7 ottobre, il governo ha comunque legalizzato l’outpost, dichiarando Evyatar una nuova colonia ufficiale, rubando 66 dunams di terra dai villaggi di Beita e Qabalans. È in una delle proteste del venerdì contro la nuova colonia che l’anno scorso, il 6 settembre 2024 Ayşenur Eygi è stata uccisa con un proiettile da un cecchino israeliano. L’attivista turco-americana era membro di ISM, il movimento di solidarietà internazionale che da anni sta accanto ai palestinesi in Cisgiordania. Ayşenur è così diventata la 18esima vittima uccisa dai soldati di Tel Aviv dal 2020 a Beita.

Anche qui la raccolta delle olive sta diventando ogni anno più complicata: sembra un film già visto, ma che si ripete a velocità e intensità ogni volta più forte. Coloni armati, incendi, furti e violenze di vario tipo contro la popolazione palestinese del villaggio, mentre sempre più terreni vengono raggiunti da ordini di chiusura militare e agli agricoltori viene impedita la raccolta.
Il 1° novembre una cinquantina di persone tra attivisti internazionali e palestinesi, si sono recati negli uliveti tra Beita e Osarin per raccogliere le olive. Nel gruppo erano presenti anche vari membri della Mezzaluna rossa, il pronto intervento nel caso ci fossero persone ferite. La normalità a Beita: ogni manifestazione finiva con qualche ferito, che fosse per proiettili, gas lacrimogeni, o altro. Un film già visto.

Nemmeno si era iniziato a raccogliere che tre macchine di militari e Border Police arrivano verso il gruppo e si avvicinano, armi in pugno. Ci riprendono coi telefonini, iniziano a chiedere documenti a vari attivisti e ai giornalisti palestinesi. Non vogliono che si raccolga in una certa zona, il perché, è oscuro. Di fatto ci circondano, e ci seguono per ore.
«La resistenza è anche questo» dice Kamal (nome di fantasia), abitante di Beita e membro della Mezzaluna rossa. «Stare qui, su questa terra, bere un caffè e fumare una sigaretta è una forma di resistenza». Sorride, mentre seduto a terra fuma una Capital e guarda i militari intorno a noi. «Hanno ucciso e ferito molte persone qui. Ma continuiamo a resistere. Non andremo via da questa terra.» Però, aggiunge, la situazione peggiora. Il pezzo di terra che i militari non ci lasciano raggiungere era sempre stato lavorato gli anni precedenti. «E’ la prima volta che non possiamo raccogliere lì» dice, indicando gli alberi poco lontano, oltre i militari.
Lungo la strada, a poche decine di metri da dove eravamo, una macchina giace carbonizzata. È ciò che resta di uno dei più recenti attacchi dei coloni, una ventina di giorni prima, quando in 70 hanno aggredito i palestinesi impegnati nella raccolta. Almeno 7 i feriti, tre le macchine in fiamme. I soldati israeliani, presenti sulla scena, hanno lasciato fare, impegnandosi solo a lanciare bombe stordenti e lacrimogeni contro i palestinesi che già provavano a sottrarsi alla violenza dei coloni. Gli attacchi si sono ripetuti in tutto il territorio della Cisgiordania, soprattutto nelle zone di Ramallah e Nablus, ma anche nel governatorato di Hebron, Jenin e Betlemme.

Mentre stavamo andando via, ci siamo fermati a mangiare al bordo della strada che riporta al paese di Osarin. Erano appena arrivati i falafel quando è scattato l’allarme: i coloni stanno scendendo dal settlement per attaccarci. Immediatamente si inizia la ritirata e il gruppo comincia a correre sopra la collina verso il villaggio. Appena in tempo. A poche decine di metri, spuntano una quindicina di coloni mascherati, bastoni in mano, alcuni lanciano pietre, ma siamo già lontani e sopra di loro, in posizione favorevole. Vari giovani palestinesi si tengono pronti a ricacciarli indietro, pietre in mano e una frombola, la memoria ancora vivida dell’ultimo sanguinoso attacco subito. I settlers rimangono lontani e poi si allontanano verso la colonia. Da non si sa bene dove vengono sparati due lacrimogeni contro di noi; nulla invece cerca di dissuadere i coloni dall’aggredirci.
La violenza dei coloni
Dal 7 ottobre 2023, i coloni hanno compiuto un totale di 7.154 attacchi contro cittadini palestinesi e le loro proprietà, causando la morte di 33 palestinesi in Cisgiordania. 14 solo dall’inizio dell’anno. Sommati alle morti causate dai militari di Tel Aviv, secondo l’agenzia di stampa Anadolu Ajansi in poco più di due anni sono stati uccisi 1.066 palestinesi in Cisgiordania, e oltre 10.300 i feriti. Mentre le aggressioni contro i palestinesi, le loro proprietà e le loro terre -agite da militari e coloni – supera le 38mila unità.
Sgomberi, demolizioni, arresti arbitrari e raid sono all’ordine del giorno. Almeno 33 le comunità beduine sgomberate con la forza.
Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti, gli attacchi dell’occupazione israeliana e dei coloni hanno anche sradicato, distrutto o danneggiato un totale di 48.728 alberi, tra cui 37.237 ulivi.

Una violenza che sembra aumentare ogni anno, in perfetta linea con i progetto di occupazione e annessione territoriale sempre più esplicito di Tel Aviv. Mentre i coloni provano a scacciare con la violenza le comunità palestinesi e occupano nuove terre, il governo israeliano continua con la legalizzazione degli avamposti e la “statalizzazione” di ettari di terreni intorno alle colonie esistenti, la distruzione di proprietà palestinesi, gli arresti e l’occupazione di interi campi profughi nel nord del paese.
Il 19 ottobre, una quarantina di coloni ha aggredito un numeroso gruppo di palestinesi e internazionali impegnato nella raccolta delle ulive a Turmus Ayya, nei pressi di Nablus, dando fuoco a due macchine e ferendo almeno tre persone.
Due attivisti internazionali, Omar e Robin, erano parte de gruppo che è stato aggredito. «Domenica 19 ottobre siamo arrivati nell’uliveto, di proprietà di diverse famiglie palestinesi di Turmus Ayya. Questa comunità è a rischio a causa di una colonia che ormai già da tempo è sorta al limite della città, sopra una collina, e di nuovi insediamenti molto più recenti, di meno di un anno. A causa di questi ultimi il numero di aggressioni verso i palestinesi che si recano a fare attività nei loro uliveti da generazioni è estremamente a rischio. I coloni infatti spesso attaccano in massa, come questa volta,» racconta Omar, attivista italiano di ISM (International Solidarity Movement) a L’Indipendente.
«Due giorni prima c’era stato un attacco minore dei settlers durante la raccolta delle olive. Ma quel giorno fu ancora più violento,» continua Robin, anche lui attivista – svedese – parte di ISM.
«Non abbiamo fatto in tempo a raccogliere nemmeno un oliva. Di fatto appena siamo arrivati è iniziata l’aggressione; tutti hanno cominciato a scappare, ma c’era una donna che era rimasta indietro e non era riuscita a salire sulle macchine in partenza. I settlers l’hanno a raggiunta e uno ha iniziato a colpirla con un bastone in testa. La donna è caduta a terra, priva di sensi, ma il colono continuava a bastonarla brutalmente. Ci siamo messi in mezzo, cercando di attirare l’attenzione dei coloni su di noi; ha funzionato.» Nel video si vede uno dei due internazionali venire colpito ripetutamente da tre coloni. È Omar, che si era anche lui messo di traverso dopo che Robin era caduto a terra, colpito da pietre e bastonate.
La donna, sopra i cinquant’anni, è stata poi trasportata in ospedale con una emorragia cerebrale. Le hanno messo 25 punti.

«Questa donna è stata attaccata solo per essere una donna palestinese, e la sua unica colpa è di essere stata con la sua famiglia, a raccogliere le olive sulla sua terra. E per questo, è quasi morta.» continua Robin. L’attivista ha avuto una frattura al braccio destro, ferite in testa, sulle mani e sulle gambe. «Ma la violenza usata contro di noi non è equiparabile rispetto alla violenza agita contro i palestinesi, come verso quella donna». Robin è la terza volta che viene in Palestina; secondo la sua esperienza, ogni volta la violenza agita dagli israeliani di cui è testimone non fa che aumentare.
«Nel momento in cui i coloni israeliani se ne sono andati, è comparsa una camionetta militare della polizia di frontiera, la border police. In questi giorni di attivismo ho potuto notare come soldati, polizia di frontiera e coloni siano coordinati. Quindi come nel momento in cui i soldati non ci sono i coloni iniziano ad aggredire, e invece quando arrivano i militari – che sia la border police o i soldati dell’esercito- sono loro a cercare di allontanare i palestinesi dai campi, tramite la minaccia di arresti, lacrimogeni e bombe stordenti. In entrambi i casi le azioni che intraprendono sono tutte mirate verso l’intimidazione e l’aggressione alle comunità palestinesi,» conclude Omar.
Anche lui ha subito varie contusioni, e una ferita in testa. Ma non ha smesso di raccogliere insieme alle famiglie che chiedono una presenza internazionale nella speranza che la violenza dei coloni e dei militari si abbassi. «Dobbiamo stare al fianco dei palestinesi. Qui, come nei nostri paesi. Lottare l’occupazione. Stare al loro fianco, nella resistenza quotidiana», conclude Robin. «Finché la Palestina non sarà libera».










