venerdì 28 Novembre 2025
Home Blog Pagina 21

Trump firma per la fine dello shutdown più lungo della storia USA

0

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato la legge che pone fine al più lungo shutdown della storia americana, durato 43 giorni. Il provvedimento, approvato dal Congresso grazie all’appoggio bipartisan di otto democratici, conferma i fondi governativi fino al 30 gennaio e non prevede l’estensione dei sussidi per la sanità legati alla Affordable Care Act (Obamacare). Trump ha ringraziato i membri democratici che hanno aiutato a superare lo stallo e ha promesso «che non accada mai più». Con la riapertura, si prevede un graduale ritorno alla normalità: i controllori del traffico aereo rientreranno e saranno eliminati i limiti al traffico nei principali scali statunitensi; inoltre riprenderanno i pagamenti dei buoni pasto per circa 42 milioni di americani.

In 20 anni le morti legate a gravidanza e parto sono diminuite del 41% nel mondo

0

Negli ultimi vent’anni, la maternità è diventata più sicura per milioni di donne. Secondo i dati provenienti da 195 Paesi e territori, analizzati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e da importanti università, tra il 2000 e il 2023, i decessi legati alla gravidanza e al parto sono diminuiti del 41%, passando da circa 443.000 a 260.000 all’anno. Il miglioramento è dovuto in larga parte ai progressi della scienza e delle conoscenze in campo medico, ma anche alla riduzione della fertilità e alla possibilità di accedere ad aborti più sicuri. 
Si parla di mortalità materna quando una do...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

Libia, incidente in imbarcazione di migranti: 42 dispersi

0

Un gommone con a bordo 49 persone migranti è cappottato nei pressi del giacimento petrolifero di Al Buri, una struttura offshore a nord-nord-ovest della costa libica. A dare la notizia è l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che ha affermato che l’incidente è avvenuto lo scorso 3 novembre e che a oggi 42 dei passeggeri risultano ancora dispersi; l’OIM li dà ormai per deceduti. Il gommone era partito dalla città portuale di Zuwara; secondo quanto raccontato dai 7 sopravvissuti, soccorsi dalle autorità libiche lo scorso 8 novembre, si sarebbe capovolto dopo circa sei ore di navigazione. Dall’inizio dell’anno nella rotta del Mediterraneo Centrale sono morte oltre mille persone migranti.

Amnesty: a Udine la polizia ha violato i diritti umani durante il corteo pro-Palestina

3

Il 14 ottobre, in occasione della manifestazione tenutasi a Udine contro lo svolgimento della partita di calcio Italia-Israele, la polizia ha commesso violazioni dei diritti umani. A certificarlo è Amnesty, che era presente alla manifestazione con sei osservatori specializzati «nel monitoraggio di situazioni pubbliche a rischio». L’ONG ha denunciato un uso massiccio e indiscriminato di gas lacrimogeni, tentativi di «fermare indistintamente» le persone, e l’impiego illegittimo dei manganelli, che dovrebbero essere sfoderati solo per difesa.

La manifestazione tenutasi il 14 ottobre faceva parte della campagna Show Israel the Red Card che punta a escludere la nazionale e le squadre di club israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali. In occasione del corteo, la città era stata militarizzata, con cecchini sui tetti e posti di blocco per le strade. La marcia è iniziata alle 17:30, con persone provenienti da tutta Italia. Amnesty riporta che alla fine della manifestazione la maggior parte dei dimostranti è confluita in Piazza I Maggio, l’area concordata per la fine del corteo; attorno alle 20:15, un «piccolo gruppo di manifestanti, composto da svariate decine di persone», ha provato a sfondare il cordone della polizia in Viale della Vittoria, venendo colpito – «senza preavviso» – da due cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e manganelli.

«L’osservazione della task force e i video visionati da Amnesty International hanno rilevato un utilizzo massiccio e indiscriminato di munizioni e granate contenenti gas lacrimogeni; la stessa Questura di Udine riporta di averne utilizzate circa 150», scrive Amnesty. I lanci di lacrimogeni sono andati avanti per circa un’ora e mezza e hanno raggiunto anche Piazza I Maggio, dove i dimostranti erano riuniti pacificamente. Le forze dell’ordine hanno inoltre colpito con i manganelli persone «con le mani alzate»; una di queste era un giornalista. «Le forze di polizia possono legittimamente usare i gas lacrimogeni solo in caso di violenza diffusa, ma mai possono ricorrervi nel caso di atti isolati di violenza e tantomeno per disperdere un’assemblea pacifica», specifica Amnesty. La quantità di gas lanciata deve essere ridotta, e il suo impiego deve essere posto «sotto il comando e il controllo di un ufficiale con funzioni di comando». Come i lacrimogeni, anche gli idranti: «Secondo gli standard internazionali, l’utilizzo dei cannoni ad acqua deve essere limitato a situazioni in cui la violenza è così grave e diffusa che non è più possibile affrontare individualmente le persone violente e gli stessi non dovrebbero essere utilizzati su persone troppo vicine»; infine, per i manganelli, Amnesty ricorda che questi possono essere usati solo dopo avere avvertito i manifestanti, e per difendersi da eventuali attacchi.

Dalla ricostruzione di Amnesty, insomma, le forze dell’ordine hanno violato tutte le disposizioni sull’uso della forza; tuttavia, l’uso della violenza non è l’unica violazione dei diritti che la polizia avrebbe commesso lo scorso 14 ottobre. Dopo scontri e cariche, riporta Amnesty, attorno alle 21:45, 13 persone sono state portate in Questura. Dieci di loro sono state fermate a un chilometro da Piazza I Maggio, e hanno affermato di essere state «afferrate bruscamente dalle forze di polizia, perquisite e poi portate in Questura a sirene spiegate per la loro identificazione». Le persone sono state trattenute in Questura cinque ore senza che venisse fornito loro il motivo del fermo, e contro dieci di esse è stato emesso un foglio di via; uno di questi ultimi lavora a Udine, e un altro stava per firmare un contratto di lavoro in città. In generale, secondo le testimonianze raccolte, Amnesty ha espresso preoccupazione che «i fogli di via obbligatori siano stati emessi illegittimamente contro persone che erano state fermate in maniera casuale e la cui “pericolosità sociale” non era stata valutata». Amnesty denuncia da tempo l’uso sproporzionato del daspo, affermando che spesso «misure amministrative del genere violano i principi di legalità e della presunzione di innocenza, sono in contrasto con le garanzie di un processo equo e possono anche violare i diritti alla libertà della persona e alla libertà di movimento».

Milano, inchiesta sul turismo di guerra in Bosnia: «pagavano per sparare ai civili»

3

La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta su un gruppo di cittadini italiani sospettati di aver partecipato, negli anni Novanta, all’assedio di Sarajevo come “turisti della guerra”. Avrebbero pagato somme ingenti per unirsi ai reparti serbo-bosniaci e sparare sui civili intrappolati nella capitale assediata. L’indagine, coordinata dal pm Alessandro Gobbis per omicidio volontario plurimo aggravato da crudeltà e motivi abietti, punta a far luce su una delle pagine più rimosse del conflitto balcanico: quella di uomini partiti dall’Italia per comprare un posto accanto ai cecchini e trasformare l’orrore di Sarajevo – in cui furono uccise oltre 11.500 persone, tra cui 1.601 bambini – in un sinistro gioco di morte.

L’inchiesta della Procura di Milano nasce da un esposto presentato lo scorso 28 gennaio dal giornalista, fotografo e regista Ezio Gavazzeni, da anni impegnato su temi di mafia e terrorismo, insieme all’ex giudice Guido Salvini. Il documento, lungo 17 pagine, raccoglie testimonianze e contatti con fonti bosniache che, agli inizi degli anni Novanta, avevano segnalato la presenza di cittadini italiani nei dintorni di Sarajevo. Gavazzeni ha allegato anche la trascrizione di uno scambio con Edin Subašić, un ex agente dei servizi di intelligence militare bosniaci, che confermerebbe l’esistenza di un presunto giro di “finti soldati” provenienti da Torino, Milano e Trieste, che avrebbero pagato per ottenere un “pass” utile a muoversi tra le linee e raggiungere le postazioni dei cecchini sulle colline della capitale. Protetti da ufficiali serbo-bosniaci, i 5 italiani avrebbero preso parte a vere e proprie “sessioni di tiro” contro civili disarmati, ambulanze e persino bambini. I “clienti”, ha raccontato l’ex 007, erano «persone molto ricche e probabilmente influenti nelle loro comunità», con coperture politiche, che potevano «permettersi economicamente una sfida così adrenalinica», tra cui appassionati di caccia e armi, vicini all’estrema destra. La «copertura dell’attività venatoria serviva per portare, senza sospetti, i gruppi a destinazione a Belgrado». L’ex funzionario dei servizi segreti della Serbia Jovica Stanišić, condannato per crimini di guerra, avrebbe svolto «un ruolo chiave in questo servizio». Nell’esposto si fa riferimento anche al tariffario dell’orrore: «I bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis». Tra i “turisti della guerra” figurerebbe un triestino di mezza età, ex militare con legami nell’estrema destra europea e un imprenditore lombardo, titolare di una clinica privata di medicina estetica, che negli anni successivi avrebbe raccontato di “aver visto la guerra da vicino”. La Procura di Milano, in collaborazione con l’Interpol e le autorità di Sarajevo, sta ora ricostruendo flussi di denaro e i contatti tra intermediari serbi e italiani.

La vicenda era già stata raccontata nel 2014 da Luca Leone nel libro I bastardi di Sarajevo, in cui descriveva il fenomeno dei cecchini paganti come un vero “pacchetto turistico” di guerra. Lo scrittore, esperto di Balcani, confermò che giornalisti e cittadini di Sarajevo conoscevano quei casi: «Stranieri da tutta Europa – c’erano anche italiani – pagavano ai checkpoint gestiti dai paramilitari serbi sia in Croazia sia in Bosnia per poi passare un fine settimana a sparare sui civili» sopra Sarajevo. Una vicenda tanto macabra da sembrare la trama di un film e che ha ispirato, infatti, il documentario Sarajevo Safari – oggi tra i materiali dell’esposto – del regista sloveno Miran Zupanič. Presentato nel 2022 all’Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival, attraverso testimonianze di ex agenti e civili, la pellicola indaga il fenomeno dei cosiddetti “turisti della guerra”, provenienti da diversi Paesi europei. Benjamina Karic, ex sindaca di Sarajevo e oggi docente universitaria, ha chiesto ufficialmente di essere ascoltata dalla Procura di Milano. L’ex sindaca sostiene che «un’intera squadra di persone instancabili sta lottando affinché la denuncia non rimanga lettera morta».

Già negli anni Novanta il Sismi aveva ricevuto segnalazioni su presunti viaggi organizzati dall’Italia verso i Balcani. Alcuni dossier, rimasti secretati per decenni, indicavano che l’intelligence italiana aveva intercettato movimenti sospetti di cittadini diretti in Serbia e in Bosnia attraverso la Slovenia. L’inchiesta milanese è al momento a carico di ignoti. Gli inquirenti cercano di capire se i presunti “turisti della guerra” italiani possano rispondere anche di crimini di guerra e violazione delle convenzioni internazionali e restano da chiarire i nodi della prescrizione e della competenza territoriale. Non si esclude che dietro i viaggi si muovessero gruppi di mercenari europei già attivi nei Balcani. A trent’anni di distanza, la Bosnia chiede giustizia e verità. Le indagini proseguono tra rogatorie internazionali e l’esame degli archivi italiani, alla ricerca di segnalazioni rimaste per troppo tempo inascoltate.

Le distorsioni statistiche che avrebbero gonfiato efficacia e sicurezza dei vaccini Covid

2

Insieme al Dr. Marco Alessandria, al Dr. Giovanni Trambusti, al Dr. Giovanni M. Malatesta e al Dr. Alberto Donzelli, abbiamo recentemente pubblicato uno studio scientifico di grandissima importanza, il quale è stato sottoposto a revisione paritaria, intitolato Classification bias and impact of COVID-19 vaccination on all-cause mortality: the case of the Italian Region Emilia-Romagna, nel quale dimostriamo come alcune distorsioni statistiche abbiano causato una sovrastima dell’efficacia e della sicurezza dei vaccini contro la COVID-19.

Lo studio ha analizzato i dati di mortalità per stato vaccinale in Emilia-Romagna tra dicembre 2020 e dicembre 2021, utilizzando dati ufficiali dell’ISTAT e dati ottenuti dall’Anagrafe Nazionale Vaccini e dalla Regione Emilia-Romagna. Quest’ultima fonte è stata resa accessibile grazie a una richiesta FOIA presentata dall’avvocato Lorenzo Melacarne e rilasciata ai sensi dell’art. 5, comma 2 del Decreto Legislativo n. 33/2013. I dati, completamente anonimizzati alla fonte, riguardano l’intera popolazione, suddivisa per età, e distinguono tra vaccinati (con almeno una dose) e non vaccinati. Sono state infine selezionate specifiche finestre temporali per analizzare l’andamento della mortalità in relazione alla campagna vaccinale nelle fasce d’età 50-59, 60-69 e 70-79 anni. 

Analizzando i dati abbiamo individuato una distorsione statistica che può alterare in modo sostanziale le valutazioni reali di efficacia e sicurezza vaccinale, nota come “distorsione della finestra di conteggio dei casi” (dall’inglese case-counting window bias). Questa distorsione, teorizzata da Fung e coautori, si verifica perché le persone vengono classificate come “non vaccinate” nei primi 14 giorni dopo la vaccinazione (periodo considerato necessario per lo sviluppo completo della risposta immunitaria). Di conseguenza, eventuali eventi avversi (eccezion fatta per casi di shock anafilattico, che è stato tendenzialmente attribuito alla vaccinazione) e i decessi per le più varie cause che si possono verificare in questa finestra di tempo, vengono erroneamente attribuiti al gruppo dei non vaccinati, aumentando artificialmente il loro tasso di mortalità e sottostimando contemporaneamente la mortalità tra i vaccinati. In particolare, analizzando i dati giornalieri sulla mortalità per tutte le cause e sulla somministrazione dei vaccini nella Regione Emilia-Romagna, abbiamo riscontrato una chiara coincidenza temporale tra le campagne vaccinali e i picchi di decessi tra coloro classificati erroneamente come non vaccinati durante questa finestra temporale critica (Figura 1).

Figura 1. Il grafico mostra il tasso di mortalità giornaliero per 100.000 persone nella fascia d’età 70-79 anni, confrontando i vaccinati (linea rossa continua) con i non vaccinati (linea verde continua) e il numero cumulativo di vaccinazioni con almeno una dose (linea rossa tratteggiata) [tratto da Alessandria et al., Autoimmunity, 2025].

La nostra analisi ha evidenziato differenze significative nella mortalità tra i gruppi vaccinati e non vaccinati durante i 14 giorni post-vaccinazione durante i quali avviene la classificazione errata. È importante sottolineare che queste differenze non possono essere spiegate solo dai decessi per COVID-19, che rappresentavano circa il 9% di tutti i decessi in Italia nel 2021. Escludendo i decessi legati alla COVID-19, la disparità tra i gruppi rimane significativa, indicando una classificazione errata sistematica, piuttosto che un reale beneficio vaccinale. Anche se questo effetto è stato rilevato in tutte le fasce analizzate, abbiamo osservato che la differenza diminuisce con l’età, probabilmente a causa dell’aumento delle comorbilità negli anziani, che influenzano il rischio complessivo di mortalità (per ulteriori dettagli si rimanda all’articolo, pubblicato in modalità open access e liberamente consultabile).

I nostri risultati suggeriscono un effetto “mietitura”, per cui individui vulnerabili muoiono poco dopo la vaccinazione, ma i loro decessi vengono erroneamente conteggiati fra i non vaccinati. Questa errata classificazione nasconde potenziali eventi avversi gravi correlati alla vaccinazione che si verificano nel breve periodo, come reazioni allergiche gravi, eventi cardiovascolari o risposte autoimmuni.

Questa distorsione è potenzialmente diffusa a livello internazionale e interessa tutti i paesi che hanno adottato una finestra temporale simile per classificare gli individui come vaccinati o non vaccinati. Ad esempio, le pratiche sanitarie britanniche hanno considerato le persone come non vaccinate nei primi 14-21 giorni dopo la vaccinazione. Tale distorsione sistemica altera i profili di sicurezza vaccinale, escludendo gli eventi avversi precoci dal gruppo dei vaccinati.

La distorsione della finestra di conteggio dei casi è collegata a un altro fenomeno ben noto nella ricerca osservazionale, la distorsione del tempo immortale (dall’inglese immortal time bias). I Professori Norman Fenton e Martin Neil furono tra i primi a identificare come queste distorsioni spostino casi e decessi in modo da esagerare l’efficacia e la sicurezza apparente dei vaccini, creando categorizzazioni temporali fuorvianti. Lo stesso Prof. Fenton ha definito queste manipolazioni un “trucco a buon mercato” (dall’inglese cheap trick) – un’illusione statistica che aumenta artificialmente la percezione dell’efficacia vaccinale.

In conclusione, il nostro studio rappresenta il primo studio pubblicato nella letteratura scientifica sottoposta a revisione paritaria, che analizza dati di mortalità reali per stato vaccinale, evidenziando chiaramente come non correggere queste cruciali distorsioni statistiche, come quella della finestra di conteggio dei casi e del tempo immortale, porta a una sovrastima dei benefici e a una sottovalutazione delle reazioni avverse legate ai vaccini. Di conseguenza, per garantire valutazioni accurate e decisioni sulla salute pubblica affidabili, è essenziale correggere queste distorsioni e disporre di dati aggiornati e precisi sullo stato vaccinale degli individui. Infine, sulla base di queste prove, tutti gli studi sull’efficacia vaccinale dovrebbero essere rivalutati tenendo conto di questi aspetti per assicurare una valutazione trasparente e realistica della sicurezza e dell’efficacia dei vaccini. 

India: pacchetto da 4 miliardi in aiuto alle imprese colpite dai dazi

0

Il governo indiano ha approvato un pacchetto da 4,3 miliardi di euro per sostenere gli esportatori. Il piano prevede lo stanziamento di circa 2 miliardi sotto forma di garanzie di credito sui prestiti bancari e di altri 2,3 miliardi in finanziamenti commerciali ai piccoli esportatori, al settore della logistica e in supporto al mercato. La misura vuole contribuire a compensare l’impatto dei dazi statunitensi sul Paese. Gli USA hanno imposto all’India tariffe del 50% come forma di ritorsione per gli acquisti di petrolio russo da parte di Nuova Delhi.

La guerra italiana alla canapa finisce davanti alla Corte di giustizia europea

0

Sarà la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilire se il mercato delle infiorescenze di canapa, inventato in Italia nel 2017 ed oggi legale in diversi Paesi europei, sia lecito, come sostenuto da aziende e associazioni da anni facendo riferimento ai regolamenti europei, a sentenze italiane ed internazionali e agli studi scientifici ad oggi disponibili, o non lo sia, come sostiene il governo che ha fatto una legge per criminalizzare il fiore di canapa. È l’epilogo di una storia iniziata nel 2022 quando, durante il governo Draghi, la Conferenza Stato-Regioni approvò un decreto che inseriva la canapa tra le piante officinali, limitandone però l’utilizzo a fibra e semi, e vietando dunque il fiore. È in quel momento che le associazioni di settore come Canapa Sativa Italia, Federcanapa, Sardinia Cannabis e Resistenza Italia onlus, si unirono per fare ricorso al Tar, affidandosi allo studio legale Legance di Roma e all’avvocato di settore Giacomo Bulleri.

La risposta del Tribunale amministrativo arriva un ano dopo, nel febbraio del 2023, ed è chiara: il decreto viene annullato perché non si possono limitare gli usi della canapa ad alcune parti per un generico principio precauzionale che va invece motivato con dati scientifici. Il Tar però non si è limitato ad annullare il comma incriminato del decreto, ma ha espressamente citato sia  una precedente sentenza del Consiglio di stato francese, che ha di fatto reso legale il commercio di CBD e cannabis light in Francia, sia la sentenza della Corte di Giustizia europea del 2020 che sottolineava che i prodotti legali a base di CBD di uno stato membro devono poter circolare liberamente in tutta Europa. Nonostante questo i Ministeri dell’Agricoltura, dell’Ambiente e della Salute – a questo punto in Italia è in carica il governo Meloni – hanno deciso di impugnare tali sentenze, presentando ricorso al Consiglio di Stato. Nel frattempo c’è stato l’emendamento al decreto Sicurezza, con il fiore di canapa industriale considerato come uno stupefacente a prescindere, mentre la pronuncia del Consiglio di Stato è arrivata ieri, con un’importante ordinanza che, nel rimettere la decisione alla Corte di Giustizia europea, sottolinea però degli aspetti fondamentali.

Cosa dice il Consiglio di Stato

Innanzitutto richiama la sentenza del Tar del 2023, spiegando che l’Unione Europea “non opera alcuna distinzione tra le varie parti della pianta”.  Poi chiede alla Corte europea se le regole agricole europee (PAC e TFUE) ostino a una normativa nazionale che vieta coltivazione e uso delle infiorescenze e relativi derivati (CBD) da varietà ammesse. Fa poi notare che le limitazioni italiane a foglie e infiorescenze e derivati “danno luogo” a restrizioni a import/export non giustificabili per questioni di salute e ordine pubblico, dato che il THC è “estremamente contenuto”. Poi sottolinea che la produzione di cannabidiolo “sembra essere legale in altri Stati membri”, con effetti sulle restrizioni italiane al commercio intra-UE. Insomma, il Consiglio di Stato chiede alla Corte di Giustizia europea di chiarire se la normativa che prevede la legge sulla canapa, la 242 del 2016, per come è stata modificata da decreto Sicurezza, e il fatto che nel testo unico sugli stupefacenti siano inseriti fiori, foglie, oli e resine senza indicare le percentuali di THC, “sia compatibile con la normativa dell’Unione Europea”.

Addirittura mette nero su bianco che: “Il Collegio considera che dal quadro normativo europeo sopra tracciato emerge, sia pure implicitamente, la liceità della coltivazione delle varietà di cannabis sativa iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, il cui tenore di THC non superi determinati limiti; emerge inoltre la liceità di alcuni prodotti traibili dalle coltivazioni medesime: tali coltivazioni sono infatti ammesse a fruire degli aiuti della PAC, e le fibre ed i semi tratti dalle relative piante sono ammesse alla importazione.

Canapa: prodotto agricolo o stupefacente?

“Credo che questa ordinanza abbia colto in pieno le criticità emerse negli ultimi 10 anni e che continuano a creare confusione attorno alla canapa”, sottolinea l’avvocato Bulleri. “La questione in realtà è molto semplice: la pianta di canapa nella sua interezza (proveniente da varietà certificate e con basso tenore di THC) è un prodotto agricolo, per cui la legge sugli stupefacenti non può trovare applicazione. Mi auguro che il giudizio dinanzi alla Corte Europea sia l’occasione per introdurre un doveroso discrimine in modo da cambiare definitivamente approccio alla questione, cioè smettere di criminalizzare una pianta e concentrarsi sulla qualità e sicurezza dei prodotti ottenuti in modo da poter sviluppare l’intero potenziale della filiera”.

Cosa accade ora?

A livello giuridico il giudizio del Consiglio di Stato, dopo il rinvio alla Corte europea, è sospeso. E questa sospensione intanto si rifletterà sui processi in corso. È infatti molto probabile che, vista la pronuncia del massimo organo amministrativo italiano, i giudici di merito dei processi in corso si “accodino” alla decisione, sospendendo il giudizio in attesa della pronuncia. “È un passaggio decisivo”, conclude Mattia Cusani, presidente di Canapa Sativa Italia: “il Consiglio di Stato fotografa l’anomalia italiana e chiede alla CGUE se si possa davvero colpire solo le infiorescenze quando l’UE non distingue tra parti della pianta e il THC è minimo. Per le imprese e i negozi significa una prospettiva concreta di serenità legale e di tutela della filiera, nel rispetto delle regole europee.”

La situazione in Europa

Nel frattempo il Parlamento europeo ha approvato ad ottobre un emendamento proposto dall’eurodeputata di AVS Cristina Guarda per inserire i fiori e le foglie di canapa tra i prodotti agricoli regolamentati dall’Organizzazione Comune di Mercato (OCM). “L’ordinanza del Consiglio di Stato”, sottolinea proprio Cristina Guarda, “va nella stessa direzione dell’emendamento che ho promosso a Bruxelles per dare regole certe e non discriminatorie a tutta la filiera, anticipando al 2026 ciò che la nuova PAC prevederebbe solo dal 2028. Con il voto di ottobre, il Parlamento europeo ha riconosciuto l’intera pianta di canapa come prodotto agricolo, se proveniente da varietà a ridotto contenuto di THC: un segnale concreto di attenzione verso un settore che da anni chiede dignità e chiarezza.”

“La filiera italiana della canapa conta oltre 3mila imprese e 30mila lavoratori, molti dei quali giovani e donne. È una realtà innovativa per l’agricoltura italiana, capace di creare occupazione, reddito e prodotti sostenibili in linea con il Green Deal europeo. Eppure, il governo Meloni continua a discriminarla con norme anacronistiche, ideologiche e contrarie al diritto europeo. Ora abbiamo l’occasione di voltare pagina,” conclude.

Iscrizione a un registro e obblighi di trasparenza: l’AGCOM regola gli “influencer rilevanti”

2

Con l’inizio di novembre, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha inaugurato l’“elenco degli influencer rilevanti”, un registro che impone nuovi obblighi per i creatori di contenuti più seguiti in Italia. Non un albo professionale, bensì di un intervento amministrativo volto a mettere ordine in una categoria lavorativa ancora non recepita in tutte le sue complessità. L’iniziativa prende le mosse dalla Delibera 197/25/CONS, pubblicata il 5 agosto 2025, la quale ha definito un codice di condotta destinato agli influencer con almeno 500.000 follower o un milione di visualizzazioni medie mensili su di una singola piattaforma. La misura è stata spesso descritta come una forma di “albo”, ma è in realtà lontana dalle logiche che regolano professioni come quella di medici, avvocati o giornalisti: l’elenco non è gestito da un ordine, non richiede competenze specifiche, né prevede esami di ingresso. L’unico “adempimento” previsto consiste in un’autosegnalazione tramite il modulo telematico lanciato lo scorso 6 novembre.

L’iscrizione, dunque, non limita l’attività di chi desidera intraprendere la carriera dell’influencer — obiettivo che sarebbe, di fatto, impraticabile —, ma mira a stabilire principi generali: correttezza dell’informazione, divieto di incitamento alla violenza, trasparenza nei contenuti commerciali, segnalazione esplicita della presenza di filtri o modifiche sostanziali alle immagini pubblicate. L’idea di fondo è che le figure seguite da centinaia di migliaia di persone, spesso più influenti dei protagonisti della stampa e dei mezzibusti televisivi, debbano rispondere pubblicamente delle proprie dichiarazioni e rispettare standard comunicativi analoghi a quelli dei media tradizionali, evitando pubblicità occulte e pratiche commerciali torbide.

Coloro che rientrano nei parametri fissati dalla Delibera dovrà comunicare all’AGCOM i propri dati anagrafici, il nom de plume, i link alle piattaforme social, le metriche aggiornate delle stesse e i recapiti dei referenti ufficiali, così da consentire un contatto diretto in caso di necessità. L’Autorità, dal canto suo, pubblicherà ogni sei mesi un elenco aggiornato degli influencer “rilevanti”, includendo anche soggetti che non hanno provveduto a compilare il web form, i quali potranno però chiedere entro 15 giorni rettifiche o contestare la loro inclusione nella lista. Il provvedimento prevede sanzioni fino a 600.000 euro per le violazioni più gravi — in particolare quelle dannose per i minori o che incitano all’odio — anche se, nella maggior parte dei casi, le multe difficilmente supereranno i 250.000 euro, soglia prevista per la mancanza di trasparenza nei contenuti commerciali. L’AGCOM potrà inoltre sospendere i canali dei soggetti iscritti per un periodo massimo di sei mesi.

Nel complesso, l’iniziativa rappresenta un primo passo verso la normalizzazione di una categoria che, pur avendo conquistato un peso sociale crescente, continua a muoversi in un contesto normativo frammentario e incerto. Quanto al timore di derive censorie, va sottolineato che solo una minoranza di creator italiani raggiunge le soglie previste — si parla di circa duemila soggetti — e che la definizione di “influencer” adottata dall’Autorità riguarda esclusivamente chi utilizza i social media per finalità commerciali. Un dettaglio non irrilevante, che lascia un’ampia zona grigia nella classificazione di personaggi pubblici attivi online e dell’intera classe politica e dirigenziale.

La raccolta delle olive in Palestina: quando lavorare la terra è un atto di resistenza

0

SINJIL, PALESTINA OCCUPATA – «Questa terra l’ho ereditata da mio nonno,» dice Souad, lo sguardo triste, ma non rassegnato mentre osserva la collina piena di ulivi davanti a noi. «Sono 45 anni che la lavoro, fino ad oggi. Non era così prima. Erano pietre, rocce… ho speso molti soldi per questa terra. Per questo la vedi così.» Scuote la testa. «Questo è il primo anno che non posso raccogliere. I militari l’hanno dichiarata zona militare chiusa, e hai visto cosa è successo.» Souad è di Sinjil, un paesino palestinese a 15 km da Ramallah. Qui è nato circa 65 anni fa; i campi, gli uliveti, sono da sempre stati parte della sua vita, così come lo sono per decine di migliaia di famiglie palestinesi in Cisgiordania occupata. L’olio è l’oro verde della terra per i palestinesi, una risorsa economica ancora più importante dal 7ottobre 2023 a causa dell’aumento dei prezzi in Cisgiordania e della difficoltà economiche che toccano molte famiglie, rimaste senza lavoro.

La stagione delle olive sta volgendo al termine e quest’anno si sta caratterizzando come uno dei più violenti per i raccoglitori palestinesi. Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti (la Wall and Settlement Resistance Commission), l’esercito israeliano e i coloni hanno compiuto un totale di 259 attacchi contro i raccoglitori di olive dall’inizio della stagione, ossia dai primi di ottobre fino al 28 del mese. Limitazioni di movimento per gli agricoltori, minacce, aggressioni fisiche, furti di olive, incendi e distruzione di alberi; tutte modalità che vengono utilizzate da anni per allontanare i palestinesi dalla propria terra, impedirgli la raccolta e lasciare i coloni prendersi sempre più terre.

Ad accompagnare Souad c’erano una decina di palestinesi e una ventina di attivisti internazionali venuti da tutto il mondo proprio a sostenere le comunità della Cisgiordania in questo delicato momento dell’anno. Appena arrivati, abbiamo trovato il cancello – uno dei 916 cancelli e barriere di metallo installate dagli israeliani in questi ultimi anni per aprire e chiudere a piacimento le strade e i villaggi palestinesi – di Sinjil chiuso. L’ordine che rendeva la zona una “closed military zone” l’abbiamo ricevuto mentre già camminavamo per gli uliveti. Questi ordini militari sono una delle forme per impedire la raccolta agli agricoltori: la forza occupante dichiara temporaneamente la zona “chiusa” ai civili, tendenzialmente proprio i giorni in cui la famiglia si appresta a raccogliere. È così che il 16 ottobre hanno arrestato 32 attivisti internazionali, la maggior parte israeliani, mentre partecipavano alla raccolta delle olive in uno dei villaggi che più subiscono la violenza dei coloni, Burin. Gli internazionali, che sostenevano la UAWC (Union of Agricultural Work Committees), una organizzazione palestinese senza scopo di lucro che si occupa di sviluppo agricolo – etichettata da Israele come organizzazione terroristica nel 2021 – dopo 72 ore di detenzione sono stati espulsi dal territorio. E alle famiglie palestinesi è stata impedita la raccolta.

La famiglia di Souad e gli attivisti, rastrelli in pugno, iniziano a tirare già le olive dai rami: non passa nemmeno mezz’ora che si presentano tre coloni a disturbare gli agricoltori, telefoni in mano filmando ogni volto. A qualche centinaio di metri, una colona israeliana pascola delle pecore.

Quasi immediatamente si presentano due militari, mitra in pugno e volto semi-coperto. Intimano di fermare il lavoro e andare via, quella è una zona militare chiusa e non sono autorizzati a raccogliere. Dietro, i coloni attendono le contrattazioni, le discussioni, e infine la raccolta dei materiali e l’abbandono del campo.

L’esercito israeliano e i coloni fanno parte dello stesso disegno di colonizzazione della Cisgiordania: la violenza dei secondi è spinta e sostenuta da buona parte della classe politica israeliana, che non solo ha regalato decine di migliaia di M-16 ai circa 700mila coloni illegali che abitano in almeno 270 colonie e avamposti, ma ne ha di fatto assicurato l’impunità davanti alla legge per eventuali crimini contro i palestinesi. Spesso si trovano coloni armati di bastoni, pietre, ma anche armi, minacciare o aggredire palestinesi con dietro i militari israeliani che osservano la scena senza intervenire se non per arrestare qualche palestinese. O per lanciare gas lacrimogeni e bombe stordenti per mandare via tutti.

Beita, una storia di resistenza

Beita è un paesino di 12mila abitanti a pochi chilometri da Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata. Circondato da tre colonie e outpost, è un territorio in resistenza dall’inizio dell’occupazione sionista. La proteste si sono intensificate quando nel 2021 la popolazione del paese ha scoperto che il monte Sabih, accanto al villaggio, sarebbe diventato una nuova colonia. Settlers israeliani in pochi giorni iniziarono a portare caravan e a occupare la terra, costruendo l’avamposto di Evyatar. I cittadini di Beita risposero con una forte resistenza, durata senza interruzioni per tre mesi, nel tentativo – poi riuscito – di mandare via i nuovi coloni. Ma la zona rimase occupata dagli israeliani, che proposero di farne una base militare, e da anni tutti i venerdì dopo la preghiera gli abitanti si muovono in protesta per la cittadina. Di fatto i coloni tornarono e nel 2024, sfruttando l’ondata di occupazioni illegali post 7 ottobre, il governo ha comunque legalizzato l’outpost, dichiarando Evyatar una nuova colonia ufficiale, rubando 66 dunams di terra dai villaggi di Beita e Qabalans. È in una delle proteste del venerdì contro la nuova colonia che l’anno scorso, il 6 settembre 2024 Ayşenur Eygi è stata uccisa con un proiettile da un cecchino israeliano. L’attivista turco-americana era membro di ISM, il movimento di solidarietà internazionale che da anni sta accanto ai palestinesi in Cisgiordania. Ayşenur è così diventata la 18esima vittima uccisa dai soldati di Tel Aviv dal 2020 a Beita.

Foto di Moira Amargi

Anche qui la raccolta delle olive sta diventando ogni anno più complicata: sembra un film già visto, ma che si ripete a velocità e intensità ogni volta più forte. Coloni armati, incendi, furti e violenze di vario tipo contro la popolazione palestinese del villaggio, mentre sempre più terreni vengono raggiunti da ordini di chiusura militare e agli agricoltori viene impedita la raccolta.

Il 1° novembre una cinquantina di persone tra attivisti internazionali e palestinesi, si sono recati negli uliveti tra Beita e Osarin per raccogliere le olive. Nel gruppo erano presenti anche vari membri della Mezzaluna rossa, il pronto intervento nel caso ci fossero persone ferite. La normalità a Beita: ogni manifestazione finiva con qualche ferito, che fosse per proiettili, gas lacrimogeni, o altro. Un film già visto.

Foto di Moira Amargi

Nemmeno si era iniziato a raccogliere che tre macchine di militari e Border Police arrivano verso il gruppo e si avvicinano, armi in pugno. Ci riprendono coi telefonini, iniziano a chiedere documenti a vari attivisti e ai giornalisti palestinesi. Non vogliono che si raccolga in una certa zona, il perché, è oscuro. Di fatto ci circondano, e ci seguono per ore.
«La resistenza è anche questo» dice Kamal (nome di fantasia), abitante di Beita e membro della Mezzaluna rossa. «Stare qui, su questa terra, bere un caffè e fumare una sigaretta è una forma di resistenza». Sorride, mentre seduto a terra fuma una Capital e guarda i militari intorno a noi. «Hanno ucciso e ferito molte persone qui. Ma continuiamo a resistere. Non andremo via da questa terra.» Però, aggiunge, la situazione peggiora. Il pezzo di terra che i militari non ci lasciano raggiungere era sempre stato lavorato gli anni precedenti. «E’ la prima volta che non possiamo raccogliere lì» dice, indicando gli alberi poco lontano, oltre i militari.

Lungo la strada, a poche decine di metri da dove eravamo, una macchina giace carbonizzata. È ciò che resta di uno dei più recenti attacchi dei coloni, una ventina di giorni prima, quando in 70 hanno aggredito i palestinesi impegnati nella raccolta. Almeno 7 i feriti, tre le macchine in fiamme. I soldati israeliani, presenti sulla scena, hanno lasciato fare, impegnandosi solo a lanciare bombe stordenti e lacrimogeni contro i palestinesi che già provavano a sottrarsi alla violenza dei coloni. Gli attacchi si sono ripetuti in tutto il territorio della Cisgiordania, soprattutto nelle zone di Ramallah e Nablus, ma anche nel governatorato di Hebron, Jenin e Betlemme.

L’auto carbonizzata, testimone dei recenti attacchi dei coloni. Foto di Moira Amargi

Mentre stavamo andando via, ci siamo fermati a mangiare al bordo della strada che riporta al paese di Osarin. Erano appena arrivati i falafel quando è scattato l’allarme: i coloni stanno scendendo dal settlement per attaccarci. Immediatamente si inizia la ritirata e il gruppo comincia a correre sopra la collina verso il villaggio. Appena in tempo. A poche decine di metri, spuntano una quindicina di coloni mascherati, bastoni in mano, alcuni lanciano pietre, ma siamo già lontani e sopra di loro, in posizione favorevole. Vari giovani palestinesi si tengono pronti a ricacciarli indietro, pietre in mano e una frombola, la memoria ancora vivida dell’ultimo sanguinoso attacco subito. I settlers rimangono lontani e poi si allontanano verso la colonia. Da non si sa bene dove vengono sparati due lacrimogeni contro di noi; nulla invece cerca di dissuadere i coloni dall’aggredirci.

La violenza dei coloni

Dal 7 ottobre 2023, i coloni hanno compiuto un totale di 7.154 attacchi contro cittadini palestinesi e le loro proprietà, causando la morte di 33 palestinesi in Cisgiordania. 14 solo dall’inizio dell’anno. Sommati alle morti causate dai militari di Tel Aviv, secondo l’agenzia di stampa Anadolu Ajansi in poco più di due anni sono stati uccisi 1.066 palestinesi in Cisgiordania, e oltre 10.300 i feriti. Mentre le aggressioni contro i palestinesi, le loro proprietà e le loro terre -agite da militari e coloni – supera le 38mila unità.
Sgomberi, demolizioni, arresti arbitrari e raid sono all’ordine del giorno. Almeno 33 le comunità beduine sgomberate con la forza.

Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti, gli attacchi dell’occupazione israeliana e dei coloni hanno anche sradicato, distrutto o danneggiato un totale di 48.728 alberi, tra cui 37.237 ulivi.

Foto di Moira Amargi

Una violenza che sembra aumentare ogni anno, in perfetta linea con i progetto di occupazione e annessione territoriale sempre più esplicito di Tel Aviv. Mentre i coloni provano a scacciare con la violenza le comunità palestinesi e occupano nuove terre, il governo israeliano continua con la legalizzazione degli avamposti e la “statalizzazione” di ettari di terreni intorno alle colonie esistenti, la distruzione di proprietà palestinesi, gli arresti e l’occupazione di interi campi profughi nel nord del paese.

Il 19 ottobre, una quarantina di coloni ha aggredito un numeroso gruppo di palestinesi e internazionali impegnato nella raccolta delle ulive a Turmus Ayya, nei pressi di Nablus, dando fuoco a due macchine e ferendo almeno tre persone.

Due attivisti internazionali, Omar e Robin, erano parte de gruppo che è stato aggredito. «Domenica 19 ottobre siamo arrivati nell’uliveto, di proprietà di diverse famiglie palestinesi di Turmus Ayya. Questa comunità è a rischio a causa di una colonia che ormai già da tempo è sorta al limite della città, sopra una collina, e di nuovi insediamenti molto più recenti, di meno di un anno. A causa di questi ultimi il numero di aggressioni verso i palestinesi che si recano a fare attività nei loro uliveti da generazioni è estremamente a rischio. I coloni infatti spesso attaccano in massa, come questa volta,» racconta Omar, attivista italiano di ISM (International Solidarity Movement) a L’Indipendente.

«Due giorni prima c’era stato un attacco minore dei settlers durante la raccolta delle olive. Ma quel giorno fu ancora più violento,» continua Robin, anche lui attivista – svedese – parte di ISM.

«Non abbiamo fatto in tempo a raccogliere nemmeno un oliva. Di fatto appena siamo arrivati è iniziata l’aggressione; tutti hanno cominciato a scappare, ma c’era una donna che era rimasta indietro e non era riuscita a salire sulle macchine in partenza. I settlers l’hanno a raggiunta e uno ha iniziato a colpirla con un bastone in testa. La donna è caduta a terra, priva di sensi, ma il colono continuava a bastonarla brutalmente. Ci siamo messi in mezzo, cercando di attirare l’attenzione dei coloni su di noi; ha funzionato.» Nel video si vede uno dei due internazionali venire colpito ripetutamente da tre coloni. È Omar, che si era anche lui messo di traverso dopo che Robin era caduto a terra, colpito da pietre e bastonate.
La donna, sopra i cinquant’anni, è stata poi trasportata in ospedale con una emorragia cerebrale. Le hanno messo 25 punti.

Foto di Moira Amargi

«Questa donna è stata attaccata solo per essere una donna palestinese, e la sua unica colpa è di essere stata con la sua famiglia, a raccogliere le olive sulla sua terra. E per questo, è quasi morta.» continua Robin. L’attivista ha avuto una frattura al braccio destro, ferite in testa, sulle mani e sulle gambe. «Ma la violenza usata contro di noi non è equiparabile rispetto alla violenza agita contro i palestinesi, come verso quella donna». Robin è la terza volta che viene in Palestina; secondo la sua esperienza, ogni volta la violenza agita dagli israeliani di cui è testimone non fa che aumentare.

«Nel momento in cui i coloni israeliani se ne sono andati, è comparsa una camionetta militare della polizia di frontiera, la border police. In questi giorni di attivismo ho potuto notare come soldati, polizia di frontiera e coloni siano coordinati. Quindi come nel momento in cui i soldati non ci sono i coloni iniziano ad aggredire, e invece quando arrivano i militari – che sia la border police o i soldati dell’esercito- sono loro a cercare di allontanare i palestinesi dai campi, tramite la minaccia di arresti, lacrimogeni e bombe stordenti. In entrambi i casi le azioni che intraprendono sono tutte mirate verso l’intimidazione e l’aggressione alle comunità palestinesi,» conclude Omar.

Anche lui ha subito varie contusioni, e una ferita in testa. Ma non ha smesso di raccogliere insieme alle famiglie che chiedono una presenza internazionale nella speranza che la violenza dei coloni e dei militari si abbassi. «Dobbiamo stare al fianco dei palestinesi. Qui, come nei nostri paesi. Lottare l’occupazione. Stare al loro fianco, nella resistenza quotidiana», conclude Robin. «Finché la Palestina non sarà libera».