Un’ondata di inondazioni causata da piogge torrenziali ha travolto la città costiera di Safi, in Marocco, provocando la morte di almeno 21 persone e il ferimento di una trentina di abitanti. Le forti precipitazioni hanno sommerso strade, case e attività commerciali, allagando una settantina di edifici e danneggiando infrastrutture viarie, con ripercussioni sulla circolazione verso e dalla città portuale a circa 300 chilometri a sud di Rabat. Immagini condivise sui social mostrano flussi d’acqua mista a fango che travolgono veicoli e detriti, mentre le operazioni di soccorso continuano e le squadre cercano eventuali dispersi tra i resti delle abitazioni colpite.
Cile, il nuovo presidente è José Antonio Kast: ultraliberista e nostalgico di Pinochet
Il risultato delle elezioni svoltesi ieri, domenica 14 dicembre, ha visto definitivamente tramontare la possibilità del Cile di vedere realizzata la svolta socialista promessa cinque anni fa dall’uscente Gabriel Boric e di vedere in carica la prima presidente comunista del Paese. A vincere il ballottaggio per le presidenziali, con ampio margine, è stato infatti José Antonio Kast: 59 anni, membro del Partito Repubblicano del Cile, figlio di un nazista rifugiatosi nel Paese dopo la seconda guerra mondiale e sostenitore di Pinochet, la sua campagna politica ha fatto interamente perno sul tema della sicurezza sociale e dell’appoggio alle forze armate e di polizia. Con lui, in Cile sale in carica il governo più di destra dalla fine della dittatura.
Il Paese è ormai lontano dal 2019, quando la rabbia popolare scosse il Paese con un’ondata di proteste senza precedenti, divenute note con il nome estallido social. Al centro delle contestazioni vi era il governo conservatore e corrotto dell’ex presidente Sebastián Piñera (già ministro del Lavoro durante la dittatura Pinochet): repressione e rimpasti di governo non riuscirono a domare il popolo, che meno di due anni dopo scelse come proprio presidente Gabriel Boric, 32enne proveniente dall’estremo sud patagonico protagonista a capo delle rivolte studentesche del 2011 e in prima linea durante l’estallido social. Con Boric, che promise un Paese di orientamento socialista, il Cile aveva potuto sperare in un futuro di giustizia sociale, dove non fossero gli interessi privati a farla da padrone. E proprio il “tradimento” di Boric, secondo molti, è stato un fattore determinante nel consegnare il Paese all’ultradestra. Se alcuni dei punti chiave del suo programma sono rimasti irrealizzati anche grazie al massiccio sforzo dei fondi privati, come la modifica alla Costituzione (che mirava a sostituire quella attuale, redatta durante la dittatura di Pinochet), molti altri sono rimasti in sospeso, mentre venivano approvati provvedimenti di matrice fortemente di destra, come la controferma legge Nain-Retamal, che punta a garantire un maggior grado di impunità alle forze di polizia. Le poche vittorie ottenute dal suo governo, come la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento del salario minimo interprofessionale, non sono servite a far guadagnare a Jara (ex ministra del Lavoro sotto il governo Boric) la maggioranza delle preferenze. Nonostante Boric avesse inoltre promesso il riconoscimento e la tutela delle popolazioni native, minacciate in Cile dagli interessi finanziari delle aziende, queste sono forse le maggiormente deluse dal suo operato. Nella Macrozona Sur (regione del Paese a sud di Santiago), dove il popolo mapuche è in lotta contro Stato e aziende che ogni giorno si impossessano illegalmente delle loro terre, lo Stato di emergenza introdotto da Piñera è infatti stato prolungato per tutto il periodo della presidenza Boric e ora rischia di dover fare i conti con un ulteriore peggioramento della repressione.
Dal canto suo, Kast ha fatto della minaccia dell’insicurezza sociale il perno della propria campagna politica, dominata da promesse di lotta alla criminalità e alla migrazione illegale. Chiusura delle frontiere, espulsione indiscriminata dei migranti «illegali», costruzione di nuove carceri ad alta sicurezza e l’utilizzo della tecnologia per perseguire il crimine, oltre a un totale e indiscusso appoggio a polizia e forze armate sono punti chiave del suo discorso politico che hanno dominato il dibattito in queste settimane – usato sapientemente per sviare domande scomode, come quelle riguardanti i programmi per la ripresa economica del Cile e l’impiego delle finanze statali. A questi si aggiunge la promessa di contrastare il «terrorismo» nella Macrozona Sur. E nel contesto di un Paese dove a muovere le fila sono pochi grandi gruppi economici, il programma di Jeannette Jara non è bastato a risvegliare nei cileni quella scintilla di speranza e fiducia nel cambiamento accesa dalle proteste di sei anni fa. Se da un lato il suo partito non prendeva parte alla corsa per le presidenziali dai tempi di Allende, è anche vero che questo poco ha saputo fare per guadagnarsi la fiducia dell’elettorato.
Fatto sta che il senso di disillusione nel Paese era palpabile già nelle settimane, se non nei mesi che hanno preceduto le elezioni. Buona parte della popolazione ritiene infatti che la bandiera con la quale si avvolge il presidente faccia poca differenza, in un Paese dove le oligarchie determinano l’esito delle politiche statali e sociali. Anche Jara, per convincere gli indecisi a votare per lei, aveva dovuto fare propria una retorica che puntava sulla sicurezza, sul controllo tecnologico delle frontiere e sul controllo della migrazione, un programma elettorale certo molto distante da uno che possa dirsi comunista, quantomeno in senso classico.
Hong Kong: Jimmy Lai condannato, rischia ergastolo
Un tribunale di Hong Kong ha dichiarato colpevole Jimmy Lai, il 78enne magnate dei media e noto sostenitore della democrazia, di due capi di collusione con forze straniere e sedizione ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nel 2020. Lai, fondatore del tabloid Apple Daily, ora chiuso, è accusato di aver usato il suo giornale per “materiale sedizioso” e di aver cercato di coinvolgere governi esteri contro le autorità di Hong Kong e della Cina. La sentenza, emessa da giudici del tribunale di West Kowloon, può portare a una pena fino all’ergastolo. Gruppi per i diritti umani hanno definito il verdetto un duro colpo alla libertà di stampa e di espressione.
Israele ha ucciso un vertice del ramo armato di Hamas
Israele ha ucciso Raed Saad, vicecapo di stato maggiore delle Brigate di Al Qassam (il braccio armato di Hamas), comandante delle Brigate gazawi, e capo della produzione degli armamenti. La notizia è stata confermata dai media ufficiali di Hamas, che riportano un discorso di Khalil al-Hayya, leader di Hamas nella Striscia di Gaza. Raed Saad ha ricoperto il ruolo di comandante della Brigata di Gaza nei primi anni 2000. Negli anni ’10 del ventunesimo secolo ha fondato e guidato la Forza Navale di Al Qassam. È stato ucciso assieme ad altri membri del gruppo ieri, mentre viaggiava in automobile sulla strada al-Rashid – arteria costiera della Striscia – all’altezza di Gaza City.
Australia, attentato a Sydney: 12 morti
Ostaggi anche da morti: i corpi dei palestinesi trattenuti da Israele
RAMALLAH, PALESTINA OCCUPATA – Sono almeno 2200 i corpi palestinesi che sono trattenuti da Israele: 762 cadaveri rubati all’interno della Cisgiordania occupata, circa 1500 sottratti alle famiglie di Gaza. Nelle politiche brutali condotte da Israele anche i corpi dei palestinesi morti diventano e il loro sequestro si trasforma in una ulteriore forma di tortura e di “punizione collettiva” per le famiglie palestinesi. Molti sono tenuti nei famosi “cimiteri dei numeri”, distese di terra senza lapide e senza nome. Solo una placca di metallo con un numero sopra, piantata nella nuda terra. Questi cimiteri sono zone militari, nessuno vi può accedere. Distribuiti tra i dintorni di Gerico, il deserto del Negev e le alture del Golan, sono sei quelli di cui si è a conoscenza. Gli altri cadaveri sono trattenuti in celle frigorifere nell’Abu Kabir Forense Institute di Tel Aviv, altri ancora in container refrigerati fuori dal centro di detenzione di Sde Teiman. «È dal 1967 che Israele sequestra sistematicamente i corpi di palestinesi che ha ucciso» dice a L’Indipendente il dott. Hussein Shejaeya, membro di Jlac, una organizzazione umanitaria palestinese che dal 2008 ha attivato una campagna per la restituzione dei corpi trattenuti dalle autorità israeliane.
«Una pratica che utilizzano dall’inizio dell’occupazione, gradualmente istituzionalizzata e integrata nella legislazione israeliana». Jlac si occupa dei 762 corpi dei palestinesi uccisi in Cisgiordania; di tutti gli altri non ha, di fatto, nessuna notizia. Il sequestro dei corpi è una pratica coloniale antica, che i palestinesi hanno sofferto anche durante l’occupazione britannica. La campagna di Jlac, attiva da 18 anni, è riuscita a liberare 121 corpi dai cimiteri dei numeri e circa 300 dalle celle frigo. «La prima vittoria è stata il ritorno del corpo di Mashhoor Al-Arouri, il cui corpo era trattenuto da 34 anni da Israele», specifica Shaiaeya. Dei cadaveri trattenuti su cui Jlac ha informazioni, 75 sono corpi di bambini, 89 di prigionieri morti in carcere, e 10 di donne.
La necropolitica israeliana, uno strumento di oppressione

Il sequestro dei corpi fa parte di ciò che gli studiosi descrivono come necropolitica: l’uso della morte come mezzo di potere e dominio. Negando ai palestinesi il diritto di piangere apertamente i propri morti, l’occupazione israeliana controlla anche le espressioni più intime del lutto. Il rifiuto di Israele di restituire i corpi è un’estensione sistematica del dominio coloniale, che punisce i palestinesi due volte: nella vita e nella morte. Trasformando i cadaveri in merce di scambio e negando alle famiglie il diritto di piangere i propri cari, Israele cerca di cancellare la memoria e controllare i rituali sacri.
Sebbene una direttiva del 2004 abbia limitato brevemente questa politica, essa è stata ripristinata nel 2015 con il pretesto del regolamento 133(3) del Mandato britannico. Nel 2017, la Corte Suprema ha stabilito che gli organismi di trattenuta non avevano base giuridica, ma ha sospeso la sua decisione, dando al governo il tempo di legiferare. La Knesset ha risposto con un emendamento del 2018 alla cosiddetta “legge antiterrorismo”, autorizzando esplicitamente la pratica. Nel 2019, la Corte ha ribaltato la propria decisione, consentendo la trattenuta per “negoziazione” – ossia come merce di scambio – se il defunto era affiliato ad Hamas o aveva commesso un’“operazione significativa”. Nel 2020 la politica è stata estesa a tutti i palestinesi accusati di presunti attacchi. Queste condizioni, comunque – conferma Shajaeya – non si applicano a molti dei martiri i cui corpi rimangono trattenuti. «Dal 2019», dice, «sembra semplicemente che prelevino i cadaveri di quasi tutti quelli che riescono.»

«Il sequestro dei corpi è un ulteriore forma per controllarci, oltre i cancelli, i muri, le prigioni, le demolizioni delle case etc. Il messaggio, è chiaro: chiunque faccia qualcosa contro Israele verrà ucciso e il suo corpo diventerà un numero, diventerà nulla», continua Shajaeya. Sono almeno 470 i corpi trattenuti dal 2015, dati che mostrano un incremento della pratica negli ultimi anni. In alcuni casi, l’esercito israeliano ha anche fatto irruzione negli ospedali in Cisgiordania dove i cadaveri dei martiri erano tenuti in attesa del funerale e li ha portati via. «Inoltre, seppelliscono i corpi contro ogni diritto umano», dice ancora Shejaeya. «Nei cimiteri li sotterrano a pochi centimetri sotto la superficie, facilmente prede di animali o delle piogge invernali. Nei frighi li mettono a temperature bassissime: se normalmente un corpo dovrebbe stare a – 6/10°, nelle celle frigo d’Israele i palestinesi sono tenuti a -30°». Quando le famiglie ottengono di recuperare i resti dei propri cari, i cadaveri sono in condizioni terribili, o congelati così solidamente che bisogna aspettare giorni per farli scongelare; in molti casi le autopsie sono impossibili da fare, rendendo difficile perfino la determinazione della causa di morte.
«Anche quando le famiglie ottengono indietro il corpo del proprio caro, Israele impone delle condizioni punitive per il funerale. Il rituale funebre deve avvenire di notte, in meno di 22/25 persone. Non sono ammesse foto né video. E la famiglia deve pagare una tassa agli stessi israeliani». A Gerusalemme, specifica, «vengono dati dei braccialetti per le 22 persone a cui è permesso di partecipare al funerale, affinché il numero possa essere tenuto sotto controllo sia dai droni – spesso utilizzati in queste occasioni – sia dalle guardie all’ingesso del cimitero». Una ulteriore forma di vendetta verso le famiglie che dopo anni di attesa non possono nemmeno celebrare il rito funebre come impone la tradizione. «I corpi dei palestinesi sono come degli ostaggi. Vengono utilizzati negli scambi. Ad oggi, tutta l’attenzione è focalizzata sul corpo dell’ultimo israeliano a Gaza, ma nessuno parla degli almeno 2000 corpi dei palestinesi trattenuti da Israele.» I quali, sottolinea, potrebbero essere molti di più. Non si hanno numeri precisi dei cadaveri rubati nella Striscia: le uniche informazioni arrivano dai canali israeliani, che parlano di 1500 corpi trattenuti a Sde Teiman. Anche i corpi di almeno un canadese, un americano-marocchino, un giordano e due libanesi risultano trattenuti in Israele.
Le famiglie dei martiri sono state in prima linea, protestando nelle strade e insistendo sul diritto di seppellire i propri figli. Le loro voci mettono in luce la posta in gioco personale e collettiva di questa lotta: la pace per i familiari in lutto, la dignità per i defunti e la conservazione della memoria per la comunità. La campagna di Jlac insiste sul fatto che questa questione non è marginale, ma centrale per la resistenza palestinese contro la pulizia etnica.
La paura del furto di organi dai corpi-ostaggio
Un’altra delle questioni che affligge le famiglie dei martiri riguarda gli organi rubati: non ci sono prove forensi che negli ultimi due decenni Israele abbia sottratto organi o pelle dai corpi dei palestinesi in Cisgiordania, ma la questione rimane aperta, anche proprio per la difficoltà a volte di effettuare autopsie. È provato che il furto di pelle, cornee, e organi interni fosse una pratica consolidata nell’Abu Kabir Forense Institute di Tel Aviv almeno fino quando è esploso il caso mediatico che metteva la luce sul traffico di organi in Israele. Erano decenni che le famiglie palestinesi denunciavano chiari segni di espiantazione di organi dai corpi di alcuni martiri restituiti, ma i casi sono rimasti inascoltati fino all’inchiesta portata avanti dall’antropologa americana Scheper-Hughes e poi dal giornalista svedese Donald Boström. Fu lo stesso direttore dell’istituto di Abu Kabir, il Dr. Yehuda Hiss, ad ammettere i furti sistematici di organi in un’intervista con l’antropologa nel 2000, e poi nel 2005 nell’inchiesta successivamente aperta dalla polizia. I furti ai corpi – le cui parti venivano rivendute in istituti di ricerca, all’esercito, e ad acquirenti in tutto il mondo – venivano effettuati anche su israeliani deceduti, ma probabilmente in misura minore, data la facilità di accesso ai corpi dei palestinesi e al fatto che nessuno avrebbe creduto alle loro denunce. «Bisogna ricordare che Israele detiene la banca di pelle più grande al mondo», ricorda Hussein Shejaeya.

Oggi è il chirurgo britannico-palestinese Dr. Ghassan Abu Sitta, insieme ad altri medici, a denunciare la rimozione sistematica di organi dai corpi restituiti recentemente dei palestinesi uccisi a Gaza. Abu Sitta descrive «prove di un furto sistematico di organi», indicando come molti dei cadaveri presentano cuori, polmoni, reni e cornee mancanti, con tagli chirurgici e punti di sutura dal torace all’addome, incisioni realizzate con seghe mediche e tracce di sostanze chimiche conservanti sulla pelle. Per Abu Sitta si tratta di segni inequivocabili di estrazioni professionali per trapianti avvenuti sotto la supervisione di medici israeliani.
A seguito dei rapporti di professionisti medici che a Gaza hanno esaminato alcuni corpi, il gruppo per i diritti umani Euro-Med Human Rights Monitor ha chiesto l’apertura di una indagine internazionale indipendente. L’ONG ha anche documentato le forze israeliane mentre riesumano e confiscano decine di cadaveri dagli ospedali della Striscia di Gaza, tra cui quello di Al-Shifa. Il problema, confermato dagli stessi medici palestinesi, è che il furto di organi non può essere dimostrato o confutato esclusivamente da visite mediche forensi, poiché più corpi sono stati sottoposti a procedure chirurgiche prima della morte e molti di quelli restituiti sono in pessime condizioni. Ma sono diversi i segni che portano a pensare a un possibile furto di organi da parte dell’esercito israeliano, per la quale è necessario indagare più a fondo.
Questi dati non fanno che aumentare le paure delle famiglie palestinesi, che temono che i corpi dei loro cari vengano abusati per gli interessi economici d’Israele. Contro, ancora una volta, tutti i trattati internazionali sui diritti umani. E contro l’umanità stessa.
Milano, blackout in carcere: 250 detenuti trasferiti
Nella notte tra ieri e oggi, 14 dicembre, presso il carcere di San Vittore, a Milano, c’è stato un grosso cortocircuito elettrico che ha costretto a trasferire circa 250 detenuti in un’altra struttura. Di preciso, il blackout ha interessato il III Raggio, ed è arrivato qualche ora dopo lo spegnimento di alcuni incendi scoppiati nei seminterrati che non hanno fatto feriti, ma hanno danneggiato il quadro elettrico. Non sono note le cause degli incendi, ma sono state escluse ipotesi dolose. I detenuti sono stati trasferiti nel carcere di Bollate.








