Secondo il Ministero della Salute, almeno 11 persone sono state uccise negli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza dalle prime ore di lunedì mattina. Tra questi, come riferisce l’emittente Al Jazeera, un raid di droni che ha ucciso due bambini a est di Rafah, nella Striscia di Gaza meridionale, e un attacco contro una tenda per sfollati presso l’Al Jazeera Sports Club nel centro di Gaza City, dove sono rimasti uccisi tre palestinesi e feriti molti altri. Secondo il Ministero, almeno 1.864 persone sono state uccise e 4.890 sono rimaste ferite da quando Israele ha ripreso l’offensiva, ponendo fine al cessate il fuoco il 18 marzo.
Ponte sullo Stretto, il governo chiede il permesso all’UE: “Serve per truppe e NATO”
Il Ponte sullo Stretto di Messina non è solo un’opera infrastrutturale destinata a unire la Sicilia al continente: ora diventa anche una questione di sicurezza continentale. O almeno è quanto sostiene il governo italiano all’interno di un documento inviato alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen. La realizzazione del ponte viene definita dall’esecutivo «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» non soltanto per ragioni economiche o di protezione civile, ma anche e soprattutto per motivazioni geopolitiche e militari, fondamentali in caso di scenari di guerra per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO».
È questo il passaggio centrale del dossier con cui il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini stanno cercando di aggirare i ferrei vincoli ambientali europei. La strategia è infatti quella di inserire il ponte nel Military Mobility Action Plan dell’UE, il piano continentale per facilitare il movimento rapido delle forze armate, contando così sull’etichetta di “opera strategica militare” al fine di ottenere le indispensabili deroghe ambientali. Se la Commissione europea darà l’ok, il Ponte sullo Stretto potrebbe perfino rientrare nel novero delle spese militari utili a far crescere il rapporto spesa-difesa/Pil, come auspicato dall’Alleanza Atlantica. Nella relazione allegata alla richiesta, l’esecutivo ha enucleato le ragioni della scelta: «L’aumentata connettività della Sicilia rispetto al resto del Paese e dell’Europa ha delle chiare implicazioni geopolitiche e, quindi, per la difesa del territorio», si legge, in particolare per la vicinanza con importanti basi NATO come quelle di Sigonella, Trapani, Augusta e Catania. Il ponte, una volta operativo, «potrebbe elevare notevolmente i livelli di efficienza dei processi di safety e security». Esprimendo preoccupazione, il Comitato No Ponte ha pubblicato un comunicato in cui ha evidenziato come, nel caso in cui scoppiasse un conflitto, «il ponte sarebbe un facile obiettivo/bersaglio da colpire e distruggere».
Il documento del governo cita anche i recenti scenari internazionali di instabilità, dai Balcani al Medio Oriente, come fattori che rendono ancora più urgente e necessaria la costruzione dell’opera. Non mancano altri argomenti a sostegno dell’infrastruttura, come lo sviluppo economico regionale, il miglioramento della risposta in caso di calamità naturali e il superamento delle «limitazioni operative del trasporto marittimo» tra Sicilia e Calabria. Si menziona anche la possibilità di trasportare più rapidamente mezzi e personale di protezione civile, con tempi di intervento che, secondo il governo, si ridurrebbero significativamente.
Il vicepremier Salvini, da sempre promotore della realizzazione del ponte, si dice «determinato ad andare fino in fondo», promettendo 120mila nuovi posti di lavoro e uno sviluppo economico di lungo periodo per il Meridione. Sulle barricate le forze di opposizione. Il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, punta il dito contro i membri del governo, accusandoli di essersi «inventati l’interesse militare per superare i vincoli ambientali europei» e annunciando che produrrà una diffida formale al Cipess, il Comitato interministeriale per la programmazione economica. «Si sono inventati l’interesse militare – attacca – per superare la verifica di impatto ambientale». Duro anche il Partito Democratico, che per bocca di Annalisa Corrado parla di uno scenario «comico, se non fosse tragico», mentre Agostino Santillo del Movimento 5 Stelle ha evidenziato le contraddizioni della Lega, facendo notare che «Salvini è contrario al piano di riarmo europeo, ma ora vuole infilare lì dentro il Ponte sullo Stretto».
Attualmente, l’iter per l’approvazione del Ponte sullo Stretto è in stallo. Nonostante gli annunci del Ministero delle Infrastrutture, il progetto non ha infatti ancora ottenuto l’autorizzazione ambientale e non può essere approvato dal Cipess. Il problema principale riguarda tre siti di interesse comunitario, per cui le compensazioni ambientali previste sono insufficienti: serve una deroga della Commissione Europea, che richiede una risposta formale, allungando i tempi. L’amministratore delegato di Stretto di Messina, Pietro Ciucci, ha confermato che i lavori potrebbero iniziare solo nel 2026, partendo con opere complementari. A gennaio, inoltre, è arrivato un nuovo ostacolo per il progetto del Ponte, avendo Il TAR del Lazio accolto il ricorso dei comuni di Reggio Calabria e Villa San Giovanni – i quali avevano contestato che i loro pareri non fossero stati considerati nel processo decisionale – contro l’ok del Ministero dell’Ambiente all’opera. Ai Comuni è stato infatti consentito di presentare nuovi documenti sui possibili impatti ambientali dell’opera. Il Ministero dei Trasporti e la società Stretto di Messina avevano chiesto l’inammissibilità del ricorso, ma il TAR ha deciso di esaminarlo nel merito.
La Cina ha iniziato a rispedire aerei Boeing negli USA
Le compagnie aeree della Cina hanno cominciato a rispedire gli aerei Boeing negli USA, con un 737Max atterrato nel fine settimana a Seattle presso l’hub del gruppo. Lo ha riportato l’emittente americana Fox, citando Reuters, secondo cui il primo rientro è avvenuto nel quadro delle ritorsioni della Cina contro i dazi statunitensi, saliti al 145% sull’import dei beni. Bloomberg News ha riferito all’inizio di questa settimana che la Boeing si è trovata ad affrontare un divieto di importazione imposto dalla Cina. Reuters ha scritto che Boeing ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni.
Acqua, il bene comune tradito
A quattordici anni dal referendum sull’acqua pubblica Napoli è stata l’unica tra città, regioni e parlamento ad attuare la volontà unanime del popolo italiano. L’Italia si unì sul primo bene comune dell’umanità. Ma si è realizzato un tradimento enorme da parte di tutte le forze politiche.
Divenni sindaco di Napoli dieci giorni prima del referendum e dopo pochi mesi avevamo già trasformato la società per azioni che gestiva l’acqua in città in un’azienda speciale pubblica sottraendo l’acqua dal mercato e dalla perversa logica del profitto. Non è stato facile. Difficile anche trovare un notaio che volesse redigere lo statuto, arduo rassicurare i sindacati, complicato gestire complesse questioni economiche, finanziarie e di bilancio, per non parlare delle tortuosità giuridiche. Ci siamo sempre mossi in una logica costituzionalmente orientata. Un lavoro enorme, fatto insieme dalla politica cittadina e dai movimenti, nelle reciproche autonomie. Con l’azienda speciale si possono produrre utili e non profitti e tutti gli utili vanno obbligatoriamente investiti nel ciclo delle acque. Ai vertici dell’azienda un consiglio di amministrazione con cinque componenti scelti dal sindaco a seguito di una manifestazione di interesse pubblica. Due dei cinque vanno obbligatoriamente selezionati su nominativi proposti da associazioni ambientaliste. Il comitato di sorveglianza è composto da lavoratori e lavoratrici che partecipano all’organizzazione dell’azienda, in attuazione dell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione.
L’azienda, che abbiamo chiamato ABC (acqua bene comune), negli anni è divenuta sempre più solida, un vero e proprio modello. Abbiamo attratto nelle competenze di ABC anche fogne e depurazione. L’azienda con gli anni ha fatto utili, è stata quindi in attivo, gestita con correttezza e trasparenza. Le tariffe sono tra le più basse d’Italia e di gran lunga più economiche rispetto alle città in cui operano in una logica privatistica le multinazionali. L’acqua è buona e tra le più controllate d’Europa. Con gli utili si sono fatti investimenti sulle nuove tecnologie di digitalizzazione per il monitoraggio dell’acqua, su infrastrutture per ridurre la dispersone di acqua, per migliorare i servizi. Si è operato su progetti per garantire acqua alle fontane, ai beverini pubblici in città e per i più fragili, a cominciare dai campi rom. Abbiamo aperto, in progetti di cooperazione internazionale decentrata, due fonti di acqua: una in Palestina e l’altra in Siria. Con gli anni abbiamo anche assunto centinaia di persone e stabilizzato tutti i lavoratori del settore. Nello statuto della città di Napoli abbiamo introdotto l’acqua come bene comune e quando sono divenuto sindaco della città metropolitana ho esteso il progetto dell’acqua pubblica anche lì.
Tutte le istituzioni ci hanno ostacolato, nonostante fossimo gli unici ad aver rispettato la volontà referendaria. La Regione Campania che gestisce le sorgenti di acqua ci ha sempre ostacolato perché agisce con le multinazionali. I governi nazionali tutti ostili. Soprattutto il governo Draghi, sostenuto praticamente da tutto l’arco parlamentare dei partiti, quando fu approvato il disegno di legge sicurezza in cui si costringevano gli enti locali a privatizzare i servizi pubblici, acqua compresa. Ricordo anche quando non approvarono un nostro progetto di finanziamento con il PNRR sostenendo che un’azienda speciale pubblica non poteva ottenere i fondi del piano europeo e invece ne potevano beneficiare le multinazionali.
Da oltre tre anni Napoli è guidata da un sindaco e da una giunta sostenuta da tutto il centro-sinistra che sta smantellando l’azienda pubblica perché vuole ritornare alla società per azioni, al profitto, all’occupazione partitocratica. Un doppio tradimento perché si tradisce non solo il referendum ma si distrugge l’unica applicazione che c’è stata in Italia del referendum. Traditori e ipocriti, perché la maggioranza politica che li sostiene continua a fare post e comizi in cui si dicono per l’acqua pubblica. Predicano bene e razzolano malissimo, il contrario della coerenza. Ecco perché quello che è stato durante il mio mandato di sindaco il laboratorio Napoli dei beni comuni va difeso perché è sotto attacco da un accordo trasversale centro-destra/centro-sinistra con il collante dei poteri forti e con il ritorno di una gigantesca questione morale.
Papa Francesco è morto
La comunità cattolica ha perso questa mattina il suo punto di riferimento: Jorge Mario Bergoglio. Papa Francesco si è spento all’età di 88 anni, a poche ore di distanza dalla celebrazione della Pasqua. Il 24 marzo era tornato nella residenza di Santa Marta dopo 37 giorni di ricovero presso l’Ospedale Gemelli di Roma. La salute dell’ottavo sovrano della Città del Vaticano era peggiorata negli ultimi anni, aggravata a inizio 2025 da una polmonite bilaterale. Nei dodici anni di pontificato, Francesco ha più volte diviso la comunità ecclesiastica, tra strappi col passato e prove di continuità.
L’impatto mediatico di Papa Francesco
Nonostante la laicità della Repubblica Italiana – sancita dall’articolo 7 della Costituzione – l’impatto della religione cattolica e dunque dei suoi esponenti spirituali non può essere trascurato, in un Paese che per oltre 40 anni è stato guidato dalla Democrazia Cristiana e ancora oggi conserva nella sua cultura il sostrato religioso. A dispetto della secolarizzazione e della crescente quota di atei e agnostici, in Italia si contano circa 40 milioni di cattolici. Alla luce di ciò si comprende l’attenzione costante rivolta dai media al ricovero prima e alla riabilitazione poi di Papa Francesco, ma la loro agenda non è la sola entità influenzata dalle pratiche vaticane; esiste appunto una comunità di decine di milioni di fedeli che trova nel pontefice una guida spirituale verso cui orientare la propria quotidianità.
Il pontificato di Papa Francesco ha coperto un arco temporale che passerà alla storia come una delle fasi cruciali della rivoluzione digitale. Dal 2013 ad oggi l’uso di internet e dei social media – veicoli di informazioni – è cresciuto in modo esponenziale, aprendo nuovi mondi alle parole e alle azioni del Papa. Nel 2020 hanno fatto il giro del mondo gli scatti ritraenti Francesco celebrare, da solo, la Via Crucis in una Roma deserta, durante la pandemia di coronavirus.

Francesco ha poi ereditato su Twitter il profilo inaugurato dal suo predecessore, Benedetto XVI, trasformandolo in un mezzo attraverso cui diffondere non solo pillole religiose ma anche prese di posizioni che hanno generato una divisione profonda lungo tutta la gerarchia cattolica.
I temi caldi del pontificato
Tra i primi messaggi che Jorge Mario Bergoglio ha lanciato figura l’appello all’austerità, al cambio di paradigma interno ed esterno al Vaticano volto alla difesa degli ultimi. L’invito alla solidarietà e alla semplicità – ben sintetizzato dalla scelta dell’abbigliamento, in netto contrasto col suo predecessore – ha scosso le fondamenta del Vaticano, già minate dai diversi casi di corruzione, sfarzo e lusso che hanno travolto i suoi massimi esponenti. Per la Giornata mondiale della pace, celebrata il 1° gennaio 2015, Francesco chiese di «non acquistare prodotti realizzati sfruttando le persone». Dieci anni dopo, il Papa si è rivolto ai giovani economisti invitandoli a proporre un nuovo modello, «che ami concretamente i lavoratori, i poveri, privilegiando le situazioni di maggiore sofferenza». Le nuove prospettive economiche – legate alla critica al capitalismo e alla globalizzazione – si legano all’auspicio di una rinnovata sensibilità ecologista da parte dell’uomo e a un’attenzione particolare verso i migranti, tra i soggetti più deboli e suscettibili di finire nella rete dello sfruttamento.

Sulla migrazione si registrano forse le prese di posizioni più dure, rivolte ai governi di tutto il mondo. «In quei mari e in quei deserti mortali, i migranti di oggi non dovrebbero esserci, e ce ne sono purtroppo. Ma non è attraverso leggi più restrittive, non è con la militarizzazione delle frontiere, non è con i respingimenti che otterremo questo risultato», ha dichiarato Francesco nell’agosto scorso. Una critica al governo italiano, alle politiche europee e anche a quelle americane – il cui emblema è dato dal “Muro della vergogna” tra Messico e Stati Uniti potenziato da Donald Trump durante il primo mandato. Il secondo insediamento alla Casa Bianca è stato “salutato” da Francesco con una dura lettera inviata ai vescovi presenti in terra americana: «un autentico Stato di diritto si verifica proprio nel trattamento dignitoso che meritano tutte le persone, soprattutto quelle più povere ed emarginate» – ha scritto Bergoglio, ricordando che «l’atto di deportare persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, ferisce la dignità umana».
I governi di tutto il mondo sono finiti sotto accusa anche per il loro bellicismo, soprattutto alla luce della «Terza guerra mondiale a pezzi» apparsa negli ultimi tempi. Durante il suo pontificato, Bergoglio ha più volte rilanciato la necessità di fermare le armi, bloccarne produzione e commercio, affidandosi piuttosto alla politica e alla diplomazia per risolvere i conflitti. «La pacificazione degli animi e dei cuori» è stata più volte posta da Francesco come la condizione necessaria affinché tale cambiamento pacifista avvenga. Certo, in questi frequenti e generici appelli si trascura la complessità geopolitica, così come si perdono le ragioni sostanziali dei conflitti. La lotta palestinese ricorda, ad esempio, che la pace non esiste senza giustizia o sotto occupazione. Sfumature che, da un lato, avrebbero fornito alle invettive di Papa Francesco una professionalizzazione politica che oggi manca anche a chi il politico lo fa di mestiere e che, dall’altro, avrebbero generato spaccature ancora più profonde, tanto all’interno del Vaticano quanto all’esterno. Si pensi, ad esempio, alle relazioni con Israele, peggiorate durante il pontificato di Francesco che ne ha criticato la condotta criminale verso i palestinesi. Nell’ultimo messaggio Urbi et Orbi, Francesco ha ricordato Gaza, «una situazione ignobile», e ha ribadito il suo no al riarmo globale.
A bilanciare in una qualche misura gli strappi degli ultimi tredici anni all’ombra di Piazza San Pietro ci sono diversi punti di continuità e vicinanza con l’ala più conservatrice del Vaticano. Bergoglio ha più volte definito la gestazione per altri (GPA) un’aberrazione, chiedendo un divieto globale e sostenendo che le donne e i bambini coinvolti siano vittime di sfruttamento. In linea col governo Meloni – come visto criticato per le politiche migratorie – Papa Francesco si è schierato contro l'”ideologia gender”, quel vago contenitore costruito dalle destre e accusato dal pontefice di «cancellare le differenze tra uomini e donne». Relativamente ai diritti di queste ultime, il massimo esponente della Chiesa cattolica ha definito l’aborto un omicidio. Durante i suoi tredici anni di pontificato, Francesco ha poi assunto una posizione ambigua verso la comunità LGBTQ+, bilanciando la dottrina cattolica con un approccio sicuramente più inclusivo rispetto ai suoi predecessori. Bergoglio ha criticato le discriminazioni e la criminalizzazione dell’omosessualità, invitando la Chiesa a essere più accogliente e aprendo, nel 2023, alle benedizioni per le coppie omosessuali, ma allo stesso tempo ha ribadito che il matrimonio sacramentale debba essere esclusivo per coppie formate da uomini e donne.
Con la morte di Papa Francesco si conclude un pontificato estremamente divisivo per gli ambienti ecclesiastici, che ha visto l’ala conservatrice soffrire e non poco le uscite di Bergoglio. Tra i vari malumori si registra l’accusa di scisma verso il monsignor Carlo Viganò, tra i più critici dell’operato di Francesco. Vedremo se dall’imminente conclave usciranno trionfanti i sostenitori della Chiesa bergogliana oppure i suoi detrattori.
[di Salvatore Toscano]
Trump chiede alla Siria di deportare i combattenti palestinesi e manda altre bombe a Israele
Gli Stati Uniti hanno imposto alla Siria post-Assad le proprie condizioni per rinnovare le relazioni diplomatiche: attuare misure per ricostruire l’economia siriana, combattere le “organizzazioni terroristiche” ed espellere i combattenti palestinesi dal suolo siriano. La notizia arriva sullo sfondo di una nuova spedizione di armi a Israele, approvata la scorsa settimana dall’amministrazione statunitense. Quest’ultima consegna prevede l’invio di oltre 3.000 munizioni statunitensi da destinare all’aeronautica militare dello Stato ebraico, alle quali si aggiungono ulteriori 10.000 munizioni, congelate dal memorandum di Biden. Nel frattempo, continua il genocidio palestinese a Gaza, dove, nelle ultime 24 ore, Israele ha ucciso almeno 31 persone.
Le condizioni di Trump alla Siria sono state esposte da un articolo del Wall Street Journal, uscito sul quotidiano statunitense giovedì 17 aprile. Gli Stati Uniti hanno avanzato diverse richieste alla Siria in cambio di un parziale allentamento delle sanzioni, del rinnovamento delle relazioni diplomatiche e dell’invio di aiuti umanitari nel Paese. In particolare, l’amministrazione Trump ha chiesto al nuovo governo siriano di mettere in sicurezza le scorte di armi chimiche del Paese e collaborare con l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, attuare misure per ricostruire l’economia siriana e sostenere il ritorno dei rifugiati, combattere «gli estremisti» attivi sul territorio e rilasciare una dichiarazione pubblica contro di essi. Riguardo a quest’ultimo punto, le richieste statunitensi riguardano principalmente l’ISIS e gruppi palestinesi armati. Trump ha chiesto alla Siria di adottare misure per impedire che il Paese diventi una roccaforte di Daesh, e di espellere i militanti palestinesi presenti sul territorio e di impedire loro di raccogliere fondi in Siria. L’amministrazione siriana non sembra aver ancora risposto all’appello.
Nel frattempo, l’amministrazione statunitense ha approvato un’ulteriore spedizione di munizioni pesanti verso Israele. La notizia è stata rivelata dal quotidiano israeliano Ynet, che in un articolo datato 14 aprile scrive che «le IDF riceveranno un’ingente fornitura di armi dagli Stati Uniti nelle prossime settimane». Quest’ultimo carico di armi intende integrare un accordo siglato l’anno scorso per l’acquisto di bombe ad alto impatto distruttivo, inizialmente congelato da Biden. L’amministrazione Biden aveva infatti diffuso un memorandum in cui ricordava gli obblighi legali degli USA, che impediscono al Paese di trasferire armi quando è «più probabile di quanto non lo sia» che esse vengano utilizzate per commettere o facilitare il compimento di atti che violano i diritti umanitari. Contrariamente a quanto sostenuto da molti media, non si trattava di un «embargo parziale», tuttavia il documento aveva sortito qualche effetto limitato, bloccando indirettamente alcune vendite, proprio come quella di fucili potenzialmente utilizzabili dai coloni o quella di bombe ad alto impatto distruttivo. Non appena salito al potere, Trump ha revocato l’ordine di Biden.
Intanto continua il genocidio a Gaza. Israele ha affermato che la strage dei 15 operatori sanitari, comprovata da video, è stata frutto di un semplice «malinteso operativo», aggravato da «carenze professionali», liquidando la vicenda con la scusa di un errore circostanziale. In totale, dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 51.201 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia. Dalla ripresa delle aggressioni su larga scala del 18 marzo, invece, Israele ha ucciso almeno 1.827 persone.
USA Filippine, test militari “di combattimento completo”
Oltre 14.000 soldati filippini e statunitensi hanno dato il via alle esercitazioni militari annuali “Balikatan”, inaugurando quello che è stato definito un «test di combattimento completo». Le esercitazioni si svolgeranno da oggi fino al 9 maggio, e sono pensate, sostiene il comandante statunitense James Glynn per «affrontare tutte le sfide alla sicurezza regionale che ci troviamo ad affrontare oggi, a partire dal Mar Cinese Meridionale». Balikatan vedrà l’impiego di sistemi missilistici statunitensi, tra cui il sistema antinave NMESIS e i lanciarazzi HIMARS. All’esercitazione partecipano circa 9.000 soldati statunitensi e 5.000 militari filippini, che verranno raggiunti da piccoli contingenti provenienti da Australia, Giappone, Gran Bretagna, Francia e Canada. Altri 16 Paesi si sono iscritti come osservatori.
Gli USA bombardano lo Yemen: 12 uccisi
Continuano i raid aerei statunitensi contro l’area dello Yemen sotto controllo degli Houthi. Ieri, due attacchi aerei statunitensi hanno preso di mira l’area di Attan, controllata dal movimento ribelle dal 2014, e diverse zone della capitale, tra cui un mercato popolare situato nel distretto di Shoub. Oggi, il movimento ribelle ha annunciato che in seguito ai bombardamenti sono state uccise 12 persone, e ferite altre 30. Nella notte, inoltre, gli aerei da guerra statunitensi hanno lanciato 4 attacchi aerei su Saada e Amran, a nord della capitale Sana’a.
Repubblica Democratica Congo, sospeso il partito dell’ex presidente
La Repubblica Democratica del Congo ha sospeso il partito politico dell’ex presidente Joseph Kabila e ne ha ordinato il sequestro dei beni, accusandolo di alto tradimento. L’ordine arriva dal ministero dell’Interno del Paese, che ha dichiarato che il partito di Kabila è stato sospeso per presunti legami con i ribelli dell’M23. Da quello che comunica il ministero, i pubblici ministeri hanno ricevuto l’ordine di aprire un procedimento contro di lui e altri leader del partit, ma, oltre al capo di imputazione, non sono stati forniti dettagli sulle accuse. Kabila non ha ancora risposto alle accuse.
Tunisia, condannati 40 oppositori politici
Un tribunale tunisino ha inflitto pene detentive dai 13 ai 66 anni a 40 oppositori politici del presidente Kaïs Saïed. Tra le persone condannate sono presenti leader dell’opposizione, avvocati, imprenditori, ma anche giornalisti e attivisti. Circa la metà delle persone accusate è fuggita dal Paese subito dopo l’inizio del processo, lo scorso marzo. Un avvocato degli imputati ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che la pena massima è stata inflitta all’imprenditore Kamel Ltaif, condannato a 66 anni, mentre il politico dell’opposizione Khyam Turki è stato condannato a 48 anni. Il tribunale ha inoltre condannato a 18 anni di carcere importanti figure dell’opposizione, tra cui Ghazi Chaouachi, Issam Chebbi, Jawahar Ben Mbrak e Ridha Belhaj.