mercoledì 17 Settembre 2025
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Corea del Sud: interrotta una trasmissione militare verso la Corea del Nord

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La Corea del Sud ha sospeso una trasmissione radiofonica militare indirizzata alla Corea del Nord. L’annuncio è arrivato dal ministero della Difesa di Seoul, che ha spiegato che la mossa arriva in un contesto di alleggerimento delle tensioni con Pyongyang. La trasmissione interrotta, chiamata “Voce della Libertà”, trasmetteva notizie sul regime del Nord, sullo sviluppo economico della Corea del Sud e sulla cultura della musica K-pop. È la prima volta in quindici anni che la Corea del Sud interrompe un programma di propaganda verso la Corea del Nord.

Israele ha annunciato l’intenzione di “stabilire la propria sovranità” sulla Cisgiordania

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Israele vuole estendere la propria sovranità sulla Cisgiordania. La notizia ha iniziato a circolare timidamente la scorsa settimana, dopo il misterioso vertice tenutosi a Washington tra Trump, Rubio, l’ex premier britannico Tony Blair e due ministri israeliani, ed è poi emersa con sempre maggiore intensità. Secondo i funzionari israeliani, l’annuncio dovrebbe arrivare entro settembre e sarebbe una risposta alle dichiarazioni di intenti da parte degli Stati europei di riconoscere la Palestina. Dentro il governo, si sta ancora discutendo su cosa e quanto dichiarare territorio israeliano, quando farlo e come comunicarlo all’esterno: Netanyahu vuole annettere circa un terzo del territorio, mentre i più estremisti, come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, puntano all’annessione completa. Quello che è certo è che le annessioni ci saranno, e che tutto il governo è d’accordo sulla questione.

La discussione sull’annessione della Cisgiordania è emersa dopo l’incontro tra il Segretario di Stato statunitense Marco Rubio e il ministro Sa’ar tenutosi a Washington la scorsa settimana, tanto che c’è chi ritiene che sia stata lanciata proprio nel corso del vertice. È stata tuttavia ripresa con maggiore vigore ieri, domenica 31 agosto, dopo un vertice del gabinetto di sicurezza israeliano. Le ricostruzioni dei media, che sostengono di aver parlato con diversi funzionari statunitensi e israeliani, sono diverse. Secondo il sito di informazione israeliano Walla, il governo starebbe ancora discutendo sull’estensione della porzione di Cisgiordania da annettere: c’è chi ritiene che Israele debba limitarsi a riconoscere gli insediamenti già costruiti e le strade che li collegano (che costituiscono circa il 10% della Cisgiordania); chi, come Netanyahu, vuole estendere la sovranità anche alla Valle del Giordano (circa il 30% della Cisgiordania); chi, come il ministro degli Affari Strategici Ron Dermer, vuole annettere l’intera area C (quella che secondo gli accordi di Oslo sarebbe sotto controllo israeliano e costituisce il 60% circa del territorio); e chi invece pensa che la sovranità vada estesa a tutta la Cisgiordania, come il ministro Smotrich. Rispondendo alla proposta di Netanyahu, emersa pubblicamente, Smotrich ha affermato: «Non stiamo facendo un lavoro a metà o per un quarto; stiamo applicando la sovranità israeliana all’intera area. Semplicemente perché questo è il nostro Paese».

Il sito di informazione statunitense Axios ha raggiunto l’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, che ha affermato di non sapere quanto l’annessione pianificata sia estesa e che gli USA non hanno ancora una posizione a riguardo. I funzionari israeliani sentiti da Axios, tuttavia, sono sicuri che troveranno l’appoggio di Trump. Huckabee ha spiegato che il dibattito sarebbe emerso in risposta agli annunci europei sul riconoscimento della Palestina, ipotesi appoggiata anche da altri funzionari israeliani e da testimonianze apparse sul quotidiano israeliano Maariv, uno dei maggiori del Paese. Sebbene le modalità dell’annuncio e la porzione di territorio da annettere siano ancora in discussione, tutte le fonti concordano sul fatto che il governo è d’accordo nel ritenere che le annessioni vadano fatte.

Diretta – Terremoto in Afghanistan: oltre 800 morti e 3.000 feriti

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Nella serata di domenica 31 agosto un terremoto di magnitudo 6 si è verificato in Asfghanistan, nella regione nordorientale di Kunar, seguito da numerose scosse di assestamento. I nostri aggiornamenti in diretta.


Secondo l’agenzia statunitense USGS, almeno 1,2 milioni di persone hanno percepito il terremoto e almeno cinque delle successive nove scosse di assestamento in maniera forte o molto forte. L’OCHA ha dichiarato che almeno 12 mila persone subiranno conseguenze dirette dall’evento, a causa di fattori quali il crollo delle loro abitazioni e i danni alle infrastrutture.


Un portavoce del governo ha confermato ad Al Jazeera che la conta dei morti è arrivata a 812, mentre sono oltre 3.000 i feriti. Nelle scorse ore, l’UNICEF ha riferito di aver messo a disposizione i propri team medici per portare soccorso. Un messaggio di cordoglio è arrivato dal Segretario Generale dell’ONU, Antionio Guterres, che ha espresso «le più sentite condoglianze» ai parenti delle vittime. Secondo la BBC, le strutture sanitarie sono in sofferenza anche a causa dei tagli ai fondi dell’agenzia americana USAID disposti dall’amministrazione Trump.


I soccorsi stanno arrivando con ogni mezzo a disposizione per trasportare i civili in ospedale, velivoli compresi, facendosi aiutare dalla popolazione locale. Sui media, circolano video di persone che cercano i dispersi in mezzo alle macerie, di elicotteri in volo e di camionette militari in corsa. Gli ospedali stanno accogliendo a fatica i feriti, mentre le Nazioni Unite e i gruppi di aiuto umanitario hanno mobilitato cibo, forniture mediche e rifugi.


L’Afghanistan è un Paese particolarmente soggetto ai terremoti, in particolare attorno alla catena montuosa indù Kush, dove si incontrano le placche tettoniche indiane ed eurasiatiche.

L’ultimo tra i più disastrosi risale all’ottobre del 2023, quando venne colpita la provincia occidentale di Herat. Il sisma, di magnitudo 6,3, provocò la morte di oltre 2.000 persone e il fermineto di altre 9.000. Vennero danneggiate oltre 1.300 case. Nel 2022 un sisma di abbatté nell’Afghanistan orientale, uccidendo oltre 1.500 persone; nel 2002, un terremoto nel nord del Paese provocò la morte di circa 1.000 persone; nel 1998 ne scoppiò uno a nordest, causando circa 4.500 morti.


Il ministro dell’Interno del Paese ha accertato che almeno 622 persone sono morte nel corso dei terremoti, mentre almeno 1.500 sono i feriti. Si attende un aumento del bilancio nelle prossime ore. La Afghan Red Crescent Society sta cercando di portare soccorso alle zone interessate dal sisma.


La regione nella quale si è verificato il terremoto è montuosa e remota, motivo per il quale per i soccorsi è complicato raggiungere tutti i villaggi che sono rimasti coinvolti dai terremoti. Per questo motivo, riferisce il governo, ci si aspetta che il bilancio delle vittime aumenti rapidamente con il trascorrere delle ore.


L’epicentro della prima scossa. è stato localizzato a 27 chilometri a est-nordest della città di Jalalabad, nella provincia di Nangarhar. La profondità era tra gli 8 e i 10 chilometri. Successivamente, numerose altre scosse di assestamento sono state registrate durante la notte nella provincia. Secondo quanto si apprende dai media, le scosse sono state avvertite anche in Tajikistan, Uzbekistan, Pakistan e India. Danni ingenti a strade, edifici e infrastrutture di vario genere sono stati registrati in tutta la regione. La regione di Kunar è stata oggetto negli scorsi giorni anche di una violenta alluvione.

Afghanistan terremoto a est del Paese: circa 250 morti

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Nella notte tra ieri e oggi è scoppiato un terremoto di magnitudo 6.0 nella regione afghana nordorientale di Kunar, vicina al confine con il Pakistan. L’epicentro è stato localizzato a 27 chilometri a est-nordest della città di Jalalabad, nella provincia di Nangarhar. La profondità era tra gli 8 e i 10 chilometri. L’Autorità per la gestione dei disastri di Kunar ha rilasciato una prima stima sostenendo che dopo la scossa sarebbero morte almeno 250 persone e che altre 500 sarebbero rimaste ferite nei distretti di Nur Gul, Soki, Watpur, Manogi e Chapadare.

Messico, Guatemala e Belize creeranno una riserva per proteggere la foresta Maya

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Messico, Guatemala e Belize hanno annunciato la creazione di una riserva transnazionale con l'obiettivo di proteggere la foresta pluviale Maya, un'area ricca di biodiversità e di siti storici e casa di comunità indigene. La presidente messicana Claudia Sheinabum ha parlato di un accordo storico, che realizzerà la seconda riserva naturale più grande dell'America Latina, alle spalle della Foresta Amazzonica. La protezione della giungla Maya bilancia in parte i danni ambientali arrecati dal Messico con la costruzione, nel 2023, di un treno che collega la penisola caraibica dello Yucatan e la giun...

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Carceri, il tasso di sovraffollamento arriva al 134,9%

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«Con 63.019 detenuti presenti è stata sforata la soglia simbolica delle 63 mila presenze in carcere, a fronte di soli 46.705 posti disponibili, con un sovraffollamento reale del 134,93%». Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria UILPA, che contestualmente ha diffuso la notizia di altri due suicidi dietro le sbarre, arrivati così a 58 dall’inizio del 2025.  Al bilancio si aggiungono 32 decessi per cause ancora da accertare.

Gaza, Israele uccide 13 palestinesi in fila per gli aiuti

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Sono almeno 18 le persone uccise dall’alba negli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza. 13 palestinesi erano in fila per gli aiuti, quando l’IDF ha aperto il fuoco sulla folla, come riportato da Al Jazeera. A causa dei blocchi israeliani all’ingresso degli aiuti umanitari, nella Striscia si continua a morire di fame: 7 vittime soltanto nelle ultime 24 ore. Il bilancio totale di decessi correlati alla malnutrizione arriva a 339, tra cui 124 bambini. Nel frattempo si intensifica l’assedio alla periferia di Gaza City, dove vivono oltre un milione di palestinesi.

La protesta per Gaza invade Genova e Venezia mentre sta per salpare la Global Flotilla

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In cinquantamila hanno salutato ieri a Genova la partenza della Global Sumud Flotilla, la più grande iniziativa umanitaria organizzata finora per rompere l’assedio israeliano su Gaza.  La solidarietà dei cittadini è stata senza precedenti: l’obiettivo era raccogliere 40 tonnellate di aiuti umanitari da portare nella Striscia di Gaza. Si è invece arrivati a quota 300 in pochi giorni. Mentre a Genova una fiaccolata senza fine si snodava per le vie della città, cinquemila persone accorse da tutto il Nord Est si davano appuntamento a Venezia per chiedere la fine del genocidio del popolo palestinese e denunciare le complicità internazionali verso Israele. Non a caso la meta scelta dal corteo veneziano è stata il Lido, sede della Mostra del Cinema, i cui protagonisti hanno mantenuto una posizione ambigua sulla causa palestinese. A fare da contraltare è stato il collettivo Venice4Palestine, che ha riunito attori, produttori e registi disposti a vivere il festival in modo critico, sfruttando la propria posizione per denunciare i crimini israeliani.

Una fiaccolata chilometrica ha attraversato Genova, passando per la sopraelevata fino al Porto Antico. Cinquantamila persone hanno accompagnato l’avvio della Global Sumud Flotilla: decine di imbarcazioni con a bordo «persone comuni (organizzatori, operatori umanitari, medici, artisti, sacerdoti, avvocati e marinai), che credono nella dignità umana e nel potere dell’azione non violenta», tenteranno di rompere l’assedio israeliano su Gaza via mare. Aprire un corridoio umanitario e porre fine al genocidio in corso del popolo palestinese sono le bussole di questa missione internazionale, che da Genova ha visto salpare oggi quattro barche a vela, in direzione Sicilia. «In una città medaglia d’oro per la Resistenza, si aiuta gli altri a resistere», ha detto ieri sera la sindaca di Genova Silvia Salis, sul palco allestito nel Porto Antico. Qui ha poi preso la parola il Collettivo di lavoratori Portuali (CALP) che, dopo aver bloccato a suon di scioperi e presidi diversi carichi di armi diretti a Israele, ha deciso di far parte dell’equipaggio dell’iniziativa umanitaria, avvertendo: «non appena perderemo il contatto con i nostri compagni sulle barche bloccheremo tutto».

Il 4 settembre, in Sicilia, le barche a vela salpate da Genova si incontreranno con le imbarcazioni in partenza oggi dalla Spagna, dal porto di Barcellona. Giungeranno navi anche dalla Tunisia e tutte insieme si dirigeranno verso la Striscia di Gaza. «Dopo 22 mesi di genocidio, l’aspettativa di vita alla nascita nell’enclave assediata è diminuita di 35 anni. Ecco perché stiamo navigando per Gaza: per rompere l’assedio», ha dichiarato Melanie Schweizer, membro del comitato direttivo della Global Sumud Flotilla. Schweizer ha sottolineato la natura lecita della missione, ai sensi del diritto internazionale e in particolare del diritto del mare. Nonostante ciò, i timori sono alti, vista la repressione con cui Israele ha storicamente bloccato iniziative simili. Nel 2010 una nave della Freedom Flotilla — una delle tre sigle che oggi dà vita alla Global Sumud Flotilla, insieme a Global March to Gaza e Sumud Convoy — venne attaccata dall’esercito israeliano, che uccise 10 membri dell’equipaggio. Quest’anno la Freedom Flotilla ha tentato nuovamente la strada marittima, mentre la Global March to Gaza e il Sumud Convoy quella terrestre. Tutte e tre hanno però trovato la repressione, di fronte alla quale hanno deciso di unire le forze e mettere in piedi un’unica grande flotta pacifica per fermare il genocidio in Palestina.

La Global Sumud Flotilla è stata salutata anche da Venezia, a 400 km da Genova, durante un collegamento avvenuto alla fine del corteo che ha soltanto sfiorato i luoghi della Mostra, presidiati da un imponente schieramento delle forze dell’ordine. «Le voci sono unite per dire stop al genocidio e per denunciare le complicità internazionali», dice Martina Vergnano, portavoce del comitato Venice4Palestine che ha chiesto alla Biennale di prendere una posizione contro Israele e di escludere dall’evento Gal Gadot e Gerard Butler, due attori israeliani accusati di supportare attivamente l’esercito nel conflitto in corso a Gaza.

Cina, al via vertice su cooperazione in Asia: attesi Modi e Putin

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Al via oggi a Tianjin, in Cina, il 25esimo vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), nata nel 2001 con l’obiettivo di promuovere sicurezza e cooperazione nella regione eurasiatica. Parteciperanno, tra gli altri, il presidente cinese Xi Jinping, il presidente russo Putin e il premier indiano Narendra Modi, che sarà in Cina 7 anni dopo l’ultima volta. I due Paesi «sono partner di cooperazione, non rivali, e rappresentano reciprocamente opportunità di sviluppo, piuttosto che minacce», ha detto Xi Jinping. Il tentativo di rilancio delle relazioni diplomatiche avviene in un contesto di crescenti tensioni globali e rapporti tesi con gli Stati Uniti.

Gli USA schierano navi da guerra ed esercito al largo del Venezuela

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Negli ultimi giorni, le acque caraibiche sono diventate teatro di una nuova prova di forza tra Stati Uniti e Venezuela che richiama dinamiche da guerra fredda e strategie di pressione che sembravano appartenere al passato. Washington ha schierato un imponente dispositivo militare composto da cacciatorpediniere, navi anfibie, due sottomarini nucleari, elicotteri, aerei da ricognizione e oltre ottomila uomini. L’operazione è stata presentata come parte della lotta al narcotraffico, con l’obiettivo di bloccare le rotte della cocaina e del fentanyl verso il Nordamerica. Resta da capire se la manovra americana sia solo un atto dimostrativo o il preludio a una nuova e più ampia escalation contro il Paese. Questa scelta ha alimentato il timore di un nuovo possibile golpe (dopo il tentativo fallito nel 2020, appoggiato dalla prima amministrazione Trump). Così, Caracas ha risposto convocando un vertice straordinario dell’ALBA, l’alleanza regionale di sinistra, con i leader di Paesi come Cuba, Nicaragua e Bolivia, e schierando esercitazioni militari spettacolari, con la mobilitazione di migliaia di uomini

Un’esibizione di forza orchestrata dal presidente Nicolás Maduro, assistita con entusiasmo da alti vertici militari e politici, in risposta a quella che è stata definita una «aggressione imperialista». «Se un giorno toccheranno il Venezuela, tutta l’America si solleverà per noi, per il popolo di Bolívar», ha dichiarato Maduro. Le immagini trasmesse dalla televisione di Stato mostrano parate, esplosioni simulate e droni in volo. È uno spettacolo coreografico che ha soprattutto una funzione psicologica: cementare l’idea di un Paese assediato ma compatto e trasformare l’aggressione esterna in collante nazionale. In realtà, il numero di miliziani dichiarato appare improbabile in un Paese svuotato da anni di emigrazione e segnato da una profonda crisi demografica ed economica. Il Venezuela non dispone della forza militare per un vero confronto con Washington. La mossa di Maduro sembrerebbe dunque soprattutto simbolica: la costruzione di un immaginario eroico di resistenza antimperialista per mostrarsi forte davanti al popolo e a rispondere con la retorica patriottica a un nemico che gode di una schiacciante superiorità militare. 

L’amministrazione Trump (che solamente poche settimane fa ha aumentato la taglia sulla testa di Maduro a 50 milioni di dollari) ha ordinato il dispiegamento di otto navi da guerra nelle acque caraibiche e del Pacifico, supportate da sottomarini d’attacco nucleari e aerei Poseidon per la sorveglianza. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha dato il via all’operazione inviando il Gruppo Anfibio di Dispiegamento Immediato Iwo Jima (Iwo Jima Amphibious Ready Group) della Marina statunitense, composto dalla nave d’assalto anfibio USS Iwo Jima, dalla nave da trasporto anfibio USS San Antonio e dalla nave da sbarco USS Fort Lauderdale. A bordo dei cacciatorpediniere, dotati di missili Tomahawk e sistemi di combattimento Aegis, si trovano anche reparti della Guardia Costiera incaricati di arresti legati al traffico di droga. L’entità di questa mobilitazione è anomala. Per contrastare il narcotraffico, in passato Washington ha utilizzato pattugliamenti della Guardia Costiera o missioni mirate. Oggi, invece, mette in campo risorse paragonabili a quelle di una campagna militare. È evidente che la finalità non si esaurisce nella lotta al crimine organizzato: la pressione è diretta contro Maduro e il suo governo, accusati di essere alla guida del cosiddetto Cártel de los Soles e di utilizzare il Paese come hub per i traffici illeciti. La domanda cruciale è se l’attuale mobilitazione preluda a un intervento militare o se si tratti solo di una dimostrazione di forza. La storia americana conosce precedenti di invasioni “mirate”, come quella di Panama del 1989, condotte con la giustificazione della lotta al narcotraffico e culminate in un cambio di regime.

Entrambe le parti hanno interessi politici interni. Trump utilizza la crisi venezuelana per rafforzare la propria immagine di leader deciso e intransigente, capace di difendere i confini americani dal traffico di droga e di riaffermare la supremazia militare statunitense. Maduro, dal canto suo, sfrutta la minaccia esterna per consolidare il proprio potere, delegittimato da accuse di brogli elettorali e indebolito dal collasso economico. La posta in gioco è duplice: da un lato la stabilità del regime chavista, dall’altro la capacità degli Stati Uniti di riaffermarsi come potenza egemone nel proprio emisfero. Tuttavia, oggi il contesto internazionale è più complesso. Il Venezuela non è isolato: mantiene rapporti con Russia, Cina e Iran, potenze pronte a sostenere Caracas almeno a livello diplomatico. Un’eventuale invasione potrebbe aprire scenari imprevisti e destabilizzare l’intera regione. D’altra parte, gli Stati Uniti devono misurarsi con priorità strategiche globali, dall’Indo-Pacifico al Medio Oriente, che rendono rischioso aprire un nuovo fronte. L’attuale dispiegamento potrebbe, quindi, rivelarsi una manovra intimidatoria, destinata a mettere Maduro sotto pressione senza arrivare  a un vero conflitto. Nel mezzo, il popolo venezuelano continua a vivere una crisi economica e sociale senza precedenti, mentre l’intera regione rischia di essere travolta da una nuova escalation. Ciò che appare evidente è che, ancora una volta, l’America Latina diventa il palcoscenico di un conflitto che non è solo locale, ma globale: una nuova “diplomazia delle cannoniere” che segna il ritorno della forza militare come linguaggio privilegiato nelle relazioni internazionali.