mercoledì 12 Novembre 2025
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Pfizergate: chiusi i conti corrente a Frédéric Baldan, l’uomo che ha denunciato von der Leyen

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«Le banche si sono arrogate il diritto di chiudermi i conti bancari senza alcuna motivazione». Frédéric Baldan, autore del saggio Ursula Gates. La von der Leyen e il potere delle lobby a Bruxelles, si è visto chiudere tutti i conti bancari, personali e aziendali, compreso il conto di risparmio del figlio di cinque anni. Le banche belghe Nagelmackers e ING hanno comunicato la rescissione dei rapporti senza motivazioni plausibili, chiedendogli la restituzione delle carte di credito. Un caso di “debanking” politico che colpisce chi ha osato toccare il cuore opaco del potere europeo: il cosiddetto caso Pfizergate. Baldan, ex lobbista accreditato presso la Commissione UE, è l’uomo che ha denunciato Ursula von der Leyen per gli SMS, inviati tra gennaio 2021 e maggio 2022, mai resi pubblici con l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla. Ora, oltre all’isolamento istituzionale, subisce l’esclusione finanziaria.

Raggiunto da noi telefonicamente, Baldan ci ha spiegato che «le banche hanno iniziato a crearmi problemi simultaneamente, pur non comunicando tra loro. L’unica spiegazione plausibile è che esista un elemento scatenante: penso si tratti di un ordine impartito dai servizi segreti dello Stato belga, su pressione dell’Unione Europea, di trasmettere tutte le mie transazioni finanziarie». Al contempo, Baldan ha espresso la sua determinazione a non lasciarsi intimidire: «Sul mio account X, l’annuncio di questa informazione è stato visualizzato 600.000 volte in 24 ore. Ho ricevuto molti messaggi di sostegno e ringrazio il pubblico internazionale per questo. Forse l’obiettivo è quello di delegittimarmi, ma in realtà sta accadendo l’opposto. Sarò semplicemente temporaneamente impossibilitato a ricevere i diritti d’autore, ma il mio editore italiano, Guerini, potrà continuare a diffondere le verità contenute in questo libro, ed è questo l’aspetto essenziale per me». Baldan è un tecnico del sistema che ha deciso di testimoniarne pubblicamente la degenerazione e il suo atto d’accusa parte dall’“SMSgate”, i messaggi tra von der Leyen e Bourla sui contratti Pfizer, mai consegnati alla magistratura europea. L’indagine della Procura di Liegi, cui ha depositato querela, è stata ostacolata dal muro di gomma delle istituzioni comunitarie. Nonostante l’ostracismo, a maggio di quest’anno, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha condannato la Commissione Europea, stabilendo che la Commissione europea ha agito in modo illegittimo rifiutando di pubblicare gli SMS, in quanto tali comunicazioni rientrano nei documenti ufficiali dell’Unione e devono essere accessibili al pubblico. La Commissione europea ha successivamente lasciato scadere il termine per impugnare la sentenza: un’ammissione implicita di responsabilità politica.

Nel suo libro, pubblicato in Italia da Guerini Edizioni nella collana Scintille diretta dal giornalista ed ex Presidente RAI Marcello Foa, Baldan descrive da insider i meccanismi e le tecniche di manipolazione delle lobby che, secondo lui, hanno colonizzato Bruxelles. Nel libro non racconta soltanto la genesi del caso Pfizergate, ma ricostruisce la struttura profonda che lo ha reso possibile: una rete di interessi, fondazioni e lobby che dominano Bruxelles e che si dipana tra le istituzioni UE, le multinazionali farmaceutiche e i think tank legati al World Economic Forum. L’autore spiega come durante la crisi sanitaria il confine tra pubblico e privato sia stato cancellato, e come l’“affare Pfizer” rappresenti il simbolo di una Commissione che ha agito al di fuori del mandato democratico. Nella sua prefazione, Foa definisce Baldan «un testimone scomodo» che paga il prezzo del suo coraggio e lo descrive come «un uomo che ha rotto il tabù del suo mestiere», scegliendo di non chiudere gli occhi davanti all’abuso di potere. Un gesto di ribellione che gli è costato caro: la Commissione gli ha revocato l’accredito di lobbista nel 2023 e ora due banche gli hanno chiuso i conti bancari. Una sanzione economica e simbolica insieme, quest’ultima, che sa di vendetta e di messaggio a chiunque volesse seguire le sue orme. La rappresaglia economica è la versione finanziaria della censura: il “debanking” è divenuto, infatti, il nuovo strumento di esclusione sociale dei dissidenti. Non servono più scomuniche o tribunali, basta un algoritmo di compliance o una decisione del “risk management”. In nome di qualche codice etico si eliminano le voci fuori dal coro o fastidiose per il Sistema. Baldan lo scrive con amara ironia: «Il diritto di resistere agli abusi del potere, oggi, passa per il diritto di avere un conto corrente». Dietro la freddezza burocratica delle lettere bancarie che precedono la chiusura dei conti si intravede il messaggio politico: chi accusa la Commissione rischia di essere cancellato anche come cittadino economico.

La chiusura dei conti bancari non è un dettaglio: in Belgio, come altrove, la libertà economica è precondizione della libertà d’opinione. Quando il sistema bancario decide chi può operare e chi no, la democrazia diventa condizionata. Le prime avvisaglie le abbiamo avute in Canada, quando il governo Trudeau ha congelato i conti dei camionisti del Freedom Convoy durante le proteste anti-Green Pass. Nel Regno Unito il “debanking” è ormai una realtà: la chiusura di conti correnti per motivi ideologici colpisce cittadini, imprese e giornalisti. Il caso più noto è quello di Nigel Farage, a cui la banca Coutts – controllata in parte dal governo – ha chiuso il conto non per ragioni economiche, ma per le sue opinioni sulla Brexit e i legami con Trump. Secondo un’inchiesta del Daily Mail, nel Paese vengono chiusi circa mille conti al giorno. Le banche giustificano le decisioni con l’“etica aziendale” o con la definizione di “politically exposed person”, ma di fatto esercitano un potere censorio che limita la libertà individuale. Non solo privati, ma anche aziende, enti di beneficenza e giornalisti vengono colpiti per il reato di opinione. Tra le vittime figurano il giornalista Simon Heffer e il blogger scozzese Stuart Campbell. Questa deriva, aggravata dalla progressiva eliminazione del contante, mette a rischio la democrazia, trasformando le banche in arbitri delle opinioni politiche e strumenti di censura economica. In Germania è accaduto ad Alina Lipp, giornalista divergente e corrispondente dal Donbass, in Italia la scure finanziaria ha colpito l’emittente Visione TV e l’associazione Vento dell’est con l’accusa di “filoputinismo”.

La reazione delle istituzioni finanziarie nei confronti di Baldan non può che suscitare preoccupazioni tra coloro che vedono in questo comportamento un tentativo di silenziare le voci divergenti. La chiusura dei conti e le ritorsioni subite dall’autore sono state interpretate come un segnale di come le lobby possano influenzare non solo le politiche, ma anche la vita privata e professionale di chi osa sfidarle. Il caso Baldan mette a nudo un cortocircuito tra potere finanziario e governance europea. L’autore di Ursula Gates aveva invocato la trasparenza sui contratti Pfizer e sulla catena di decisioni che, dal World Economic Forum all’OMS, hanno condizionato le politiche sanitarie dell’Unione. Oggi viene trattato come un paria. Nel suo ultimo messaggio su X scrive: «L’intimidazione non funziona. Rafforza solo il nostro impegno». La solidarietà che chiede non è ideologica ma civile: acquistare il libro, diffondere la notizia, rompere il silenzio. Perché la libertà d’espressione, privata di mezzi e voce, si spegne nell’indifferenza. Il Pfizergate non è soltanto uno scandalo di contratti segreti, ma il simbolo di un nuovo ordine in cui le istituzioni che predicano l’inclusione praticano, invece, l’esclusione. Baldan diventa così il volto di una resistenza che attraversa l’Europa: quella di chi rifiuta di essere silenziato per via bancaria e che pretende verità e trasparenza. La vicenda belga dimostra che questa battaglia non è finita: è appena iniziata. E si combatte oggi sul terreno più fragile, quello della libertà economica, ultimo baluardo della libertà politica e civile.

La nazionale femminile afghana torna a giocare a calcio dopo 4 anni di silenzio forzato

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calcio afghanistan femminile

Dopo quattro anni di assenza e un esilio forzato seguito alla presa del potere da parte dei talebani, la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan è tornata a giocare. La squadra, ribattezzata Afghan Women United, ha debuttato il 26 ottobre a Berrechid, in Marocco, nella prima edizione del torneo FIFA Unites: Women’s Series 2025, organizzato dalla FIFA per offrire visibilità alle nazionali escluse dai circuiti ufficiali. La partita inaugurale contro il Ciad è finita 6-1, con l’attaccante Manozh Noori autrice del primo gol per la squadra afghana. Ma il risultato conta poco. Per queste calc...

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Nordstream: estradizione per il cittadino ucraino arrestato

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La Corte d’Appello di Bologna ha disposto l’estradizione verso la Germania per Serhii Kuznetsov, cittadino ucraino accusato di avere manomesso i gasdotti Nordstream 1 e Nordstream 2 nel 2022. La decisione della Corte d’Appello segue una analoga disposizione adottata lo scorso settembre, fermata dalla Cassazione. Kuznetsov è stato arrestato a Rimini lo scorso 21 agosto, su mandato d’arresto europeo emanato dalla Germania. Nord Stream 1 e Nord Stream 2 (che non entrò mai in funzione) erano due gasdotti sottomarini situati nel Baltico usati dall’agenzia energetica russa Gazprom per trasportare gas russo verso la Germania. Nel 2022, i due gasdotti furono oggetto di un attentato che le indagini valutarono come un atto di sabotaggio. Nessuno ha reclamato l’attacco.

Un boss pentito ha rivelato come funziona la mafia in Lombardia

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«Il Consorzio lombardo tra le tre mafie esiste, è stato creato nel 2019 e nasce per gestire il tesoro e gli affari di Matteo Messina Denaro». Con questa dichiarazione, William Alfonso Cerbo, noto come “Scarface”, ha deciso di collaborare con la giustizia, confermando l’esistenza di un’alleanza criminale in Lombardia tra Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra nel capoluogo meneghino. Il boss pentito, ritenuto uno dei vertici di questo “sistema mafioso lombardo” indagato dall’inchiesta Hydra, ha cominciato a parlare dal 22 settembre scorso, fornendo alla Procura di Milano dettagli inediti sulla nascita e il funzionamento del Consorzio, che a suo dire sarebbe nato per gestire il patrimonio del superlatitante e creare una “camera di compensazione” al fine di risolvere i conflitti interni.

Cerbo, catanese di 43 anni organicamente inserito nel clan Mazzei dei “carcagnusi”, ha depositato quasi mille pagine di verbali che i pm Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane hanno presentato al gup Emanuele Mancini durante l’udienza preliminare nell’aula bunker di San Vittore. Le sue rivelazioni blindano l’impianto accusatorio e offrono per la prima volta uno sguardo dall’interno della macchina criminale. «Intendo rispondere e ribadisco l’intenzione di collaborare pienamente con la giustizia, riferendo tutto quanto è a mia conoscenza», ha esordito il pentito il 22 settembre, aggiungendo: «Ammetto la partecipazione al reato associativo quale affiliato e collettore economico a Milano del clan Mazzei di Catania. Ho deciso di collaborare per i miei figli e la mia famiglia, cambiare vita e dare loro un futuro migliore».

Secondo la ricostruzione di Cerbo, il Consorzio – da lui chiamato «unione» – si è formato nel 2019 principalmente per due scopi: gestire unitariamente il tesoro di Messina Denaro e dirimere le controversie tra i clan. «Il cardine di tutto è l’aspetto economico», ha spiegato il pentito, sottolineando come le mafie si siano consorziate proprio per massimizzare gli affari illeciti, lasciando invece alla discrezionalità di ogni componente il traffico di droga. Il suo ruolo all’interno dell’organizzazione era di primo piano: gli vengono contestati «compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni da compiere, conducendo attività illecite in ordine alla sfera delle attività economico-finanziarie illecite e delle intestazioni fittizie, contribuendo all’alimentazione della cassa comune, acquisendo il controllo di attività economiche, in particolare nel settore logistico e della ristorazione». Inoltre «mettendo a disposizione dell’associazione la propria sfera relazionale, accrescendo il cosiddetto capitale sociale, mirando all’infiltrazione del tessuto economico/sociale lombardo».

Cerbo ha partecipato personalmente al primo summit del Consorzio monitorato dalle forze dell’ordine, il 3 giugno 2020 al ristorante Sardinia di Inveruno. All’incontro – uno dei venti poi documentati – erano presenti anche Vincenzo Senese, figlio del boss della camorra romana Michele Senese, Gioacchino Amico e Giancarlo Vestiti, manager di vertice della nuova “Mafia Spa”. In un’intercettazione, lo stesso Amico sintetizzò la portata del sistema affermando: «Abbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano passando dalla Calabria, da Napoli, ovunque». Cerbo ha inoltre raccontato di essere stato avvertito delle indagini a suo carico da un carabiniere corrotto: «Un mio amico, nonché personaggio molto inserito, mi disse che aveva un carabiniere in servizio corrotto che poteva darmi tutte le informazioni possibili su eventuali indagini in corso su me. Così un giorno organizzammo un fermo in strada». L’agente gli riferì «che avevo la Dda milanese addosso. Sapeva tutto, mi avvertì che a breve ci sarebbe stata un’operazione per 416 bis».

Le dichiarazioni di Cerbo non solo confermano l’esistenza del Consorzio, ma aprono nuovi fronti investigativi, anche grazie al rinvenimento di intercettazioni della Procura di Catanzaro in cui si fa esplicito riferimento a una “cupola” mafiosa in Lombardia. Come ha spiegato un inquirente, «quando iniziamo l’indagine fotografiamo una macchina in corsa. Una macchina nuova che ha appena iniziato a muoversi. Le parole di Cerbo ci aiutano a capire come è stata costruita questa macchina e quali sono gli strumenti che la comandano». Un vaso di Pandora che potrebbe cambiare per sempre la comprensione delle infiltrazioni mafiose al Nord.

Lo scorso ottobre, i giudici del tribunale del Riesame avevano ufficialmente riconosciuto la presenza di un’alleanza tra le tre grandi consorterie mafiose dello Stivale in Lombardia, che era stata ampiamente documentata dalle ricostruzioni dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano in merito agli incontri tra i loro esponenti, interamente confluite nell’inchiesta Hydra. Al centro del “patto”, hanno attestato i giudici, vi sarebbero stati la gestione del traffico di droga, l’infiltrazione del tessuto economico e imprenditoriale della regione, il riciclaggio e le estorsioni. Accogliendo le tesi dei pm, che un anno prima non erano state avallate dal GIP, il Riesame ha ritenuto «ampiamente dimostrato che il sodalizio contestato abbia fatto effettivo, concreto, attuale e percepibile uso, anche con metodi violenti o minacciosi, della forza di intimidazione nella commissione di delitti come nella acquisizione del controllo e gestione di attività economiche», ovvero degli «ambiti di attività che, secondo il parametro normativo, tipizzano la natura mafiosa del gruppo».

Lituania: chiuso il confine con la Bielorussia

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La Lituania ha deciso di chiudere temporaneamente tutti i confini con la Bielorussia dopo che diversi palloni aerostatici sarebbero entrati nel territorio del Paese con il fine di contrabbandare sigarette. La decisione di chiudere i confini segue l’analoga chiusura dell’aeroporto di Vilnius avvenuta ieri; il prossimo mercoledì 29 ottobre è stata fissata una riunione di governo per confermare la misura. La Lituania ha anche detto che si riserva il diritto di abbattere eventuali palloni aerostatici che entrano nel proprio territorio, accusando la Bielorussia di agevolarne il transito come forma di «guerra ibrida». Minsk ha condannato la mossa della Lituania.

L’intelligenza artificiale è sempre più protagonista delle truffe sulle fatture

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Molte aziende che avevano accolto l’arrivo dell’intelligenza artificiale con l’obiettivo di sfoltire i costi e aumentare vertiginosamente la produttività si trovano ora ad affrontare un uso imprevisto, ma estremamente comune, dello strumento: la frode. Negli ultimi mesi, sempre più imprese hanno segnalato la circolazione di note spese, fatture e ricevute contraffatte generate con strumenti di IA per la creazione di immagini che, complice la rapida evoluzione tecnologica, sono sempre più in grado di produrre falsificazioni sofisticate quasi indistinguibili dai documenti autentici.

Piattaforme di controllo delle spese come AppZen e Ramp hanno registrato un’impennata di casi sospetti: AppZen ha rilevato che a settembre 2025 circa il 14% dei documenti fraudolenti individuati era generato da sistemi di intelligenza artificiale, mentre solo l’anno precedente la percentuale era prossima allo zero. Ramp, dal canto suo, ha intercettato oltre un milione di dollari di fatture false in appena un trimestre. Questi numeri indicano una diffusione capillare della falsificazione digitale, anche perché le nuove ricevute sintetiche non sono più semplici immagini grossolane bensì riproduzioni accurate di documenti autentici, complete di loghi, codici a barre, numeri fiscali coerenti, subtotali aritmeticamente corretti e persino texture e pieghe della carta. La qualità è tale che anche revisori esperti e addetti ai controlli faticano a distinguere con certezza un documento reale da uno generato da un algoritmo.

I dati, riportati inizialmente dal Financial Times, evidenziano come l’intelligenza artificiale abbia reso estremamente semplice e rapida la creazione di contenuti visivi realistici, abbattendo in maniera sensibile la necessità da parte dei truffatori di padroneggiare competenze grafiche o di avere accesso a strumenti professionali. Bastano pochi comandi testuali per generare ricevute credibili, mentre i sistemi di controllo tradizionali basati su verifiche visive o riconciliazioni manuali faticano a individuare le manipolazioni prodotte da modelli avanzati. Inoltre, le immagini sintetiche possono eludere facilmente i controlli digitali rimuovendo i metadati o trasformando i file in screenshot, il che rende quasi impossibile risalire alla loro origine.

Il problema si inserisce in un quadro più ampio di crescita generale delle frodi digitali. Secondo quanto divulgato da UK Finance del Regno Unito, nel primo semestre del 2025, le perdite totali per attività fraudolente hanno superato i 629 milioni di sterline, con un incremento del 3% rispetto all’anno precedente. Tra le forme più diffuse si segnalano truffe sugli investimenti e frodi legate alle criptovalute, spesso alimentate da deepfake o da falsi endorsement digitali. Secondo la Polizia Postale, nel 2024, in Italia, le segnalazioni di truffe online sono aumentate del 15% rispetto il campione dell’anno precedente, mentre le somme sottratte sono passate da 137 milioni di euro a 181 milioni, un incremento di circa il 32%. Nella maggior parte questi casi sono caratterizzati da tecniche ben note – phishing, raggiri, schemi piramidali –, tuttavia un report di Experian Italia avvisa che il 73% degli esperti intervistati in Italia e all’estero ritiene che l’IA generativa abbia modificato in modo permanente il panorama delle frodi.

Uno spaccato più ampio era stato offerto nel maggio 2024 da Deloitte, la quale stimava che l’impatto complessivo delle frodi basate su intelligenza artificiale nel settore finanziario potrebbe arrivare a toccare i 40 miliardi di dollari entro il 2027, qualora non vengano adottate misure di contenimento efficaci. La stessa Deloitte ha poi prodotto per il governo australiano un rapporto che, appoggiandosi sui modelli di intelligenza artificiale, conteneva al suo interno numerose citazioni inventate di sana pianta. Colta in flagrante, il gigante della consulenza fiscale ha rimborsato in parte i costi della sua commissione.

Il fenomeno delle ricevute generate dall’IA è la punta dell’iceberg di una trasformazione più ampia e contrastare questa ondata di frodi richiederà una revisione profonda dei meccanismi di controllo e delle strategie di sicurezza aziendale. Le difese devono includere soluzioni tecnologiche avanzate, magari basate a loro volta sull’IA, ma anche cambiamenti organizzativi profondi: aggiornamento delle policy interne, controlli incrociati sistematici, formazione mirata del personale e l’adozione di una cultura del controllo continuo. Le aziende devono promuovere un maggiore grado di attenzione e di spirito critico, valori che si muovo in antitesi a quella fantasia manageriale che vorrebbe scaricare sulle macchine funzioni cognitive al fine di aumentare il carico di lavoro pro capite dei singoli dipendenti.

Libano: l’UNIFIL abbatte un drone israeliano

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La Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) hanno annunciato di avere abbattuto un drone israeliano. Il drone è stato abbattuto ieri pomeriggio attorno alle 17:45, nei pressi della zona di Kfarkila, nel sud del Libano, perché il velivolo si era avvicinato a una pattuglia ONU e aveva sganciato una granata. «Pochi istanti dopo», comunica l’UNIFIL, «un carro armato israeliano ha sparato contro le forze di peacekeeping». Non sono stati registrati feriti. Israele ha commentato la vicenda sostenendo che il drone stesse svolgendo una missione di ricognizione. L’episodio di ieri segue diverse altre aggressioni lanciate da Israele nei confronti dei militari dell’ONU, una delle quali nella medesima area.

Napoli: arrestati per aver protestato contro la multinazionale del farmaco israeliana Teva

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Tre attivisti sono stati arrestati dalla Polizia di Stato durante una protesta contro la multinazionale farmaceutica israeliana Teva, svoltasi sabato 25 ottobre all’interno del Pharmexpo, la fiera ospitata nella Mostra d’Oltremare di Fuorigrotta, a Napoli. La contestazione dei manifestanti, circa cinquanta, riuniti sotto le sigle della rete BDS, Rete Napoli per la Palestina e Centro Culturale Handala Al, aveva come obiettivo lo stand dell’azienda, accusata di essere «storicamente complice dell’occupazione in Palestina». Secondo la Questura, l’intervento delle forze dell’ordine è scattato dopo «il lancio di transenne all’esterno della Mostra d’Oltremare» e aggressioni ai danni degli agenti; una ricostruzione contestata fermamente dagli attivisti, che parlano di un presidio pacifico e di una «improvvisa e gratuita la carica delle forze dell’ordine», denunciando una brutale repressione.

I tre arrestati – due uomini e una donna, di 22, 33 e 46 anni – sono accusati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. La ricostruzione ufficiale della Questura, riportata dai media, afferma che «un gruppo di manifestanti ha tentato di entrare nel padiglione 5 della Mostra d’Oltremare, hanno divelto le transenne e le hanno scagliate contro i poliziotti e li hanno aggrediti fisicamente». L’esito dello scontro avrebbe causato infortuni a tre agenti. La versione degli attivisti dipinge invece una realtà completamente diversa. «I tre attivisti napoletani arrestati per avere contestato la presenza dell’azienda israeliana Teva al Pharma Expo di Napoli hanno subito minacce, una carica gratuita, aggressioni fisiche e violenza da parte delle forze dell’ordine», recita un comunicato diramato dai gruppi. I manifestanti raccontano di un presidio esterno, di un flash mob davanti allo stand in cui sono state lette accuse sulla complicità dell’azienda con le politiche del governo israeliano, e di ingressi successivi attraverso passaggi laterali non presidiati; poi, dicono, «all’uscita, improvvisa e gratuita è scattata la rappresaglia delle forze dell’ordine e i fermi tramutati in arresti».

«Per le giornate di venerdì e sabato erano state convocate iniziative di mobilitazione in solidarietà col popolo palestinese in occasione della Mostra d’Oltremare, dove si trovava lo stand di Teva», racconta Walter Iannuzzi, attivista presente alla manifestazione, a L’Indipendente. Per sabato era stato convocato un presidio pubblico a uno degli ingressi della Mostra d’Oltremare, che si è svolto con grande tranquillità nel corso della mattina. «C’era anche una contrattazione aperta con le forze dell’ordine per poter fare entrare una delegazione per leggere un comunicato prodotto dagli organizzatori rispetto all’iniziativa che si stava svolgendo – spiega Iannuzzi –. Dopo un’iniziale apertura, c’è stato un diniego immotivato da parte della Questura di Napoli, nonostante fosse arrivato dal presidente dell’ente Mostra in beneplacito per fare entrare qualcuno all’interno. La Questura ha dunque affermato che per motivi di ordine pubblico non potevamo accedere dal lato di viale Kennedy». A quel punto, il presidio si sarebbe sciolto senza tensioni. «Dopo di che – prosegue l’attivista – siamo entrati alla mostra da altri ingressi non vietati, pagando regolarmente il ticket previsto di 1 euro, e ritrovati in gran parte entrando nel padiglione in cui si svolgeva l’evento. Lì abbiamo aperto uno striscione ed effettuato una contestazione mostrandolo insieme alle bandiere».

La Questura contesta proprio in questo frangente un’aggressione da parte degli attivisti, che però la rispediscono al mittente: «La Polizia parla di lanci di transenne: transenne che, come dimostrano i video che abbiamo fatto circolare in rete, nemmeno c’erano», dice Iannuzzi. L’iniziativa è durata non più di 15 minuti. «Subito dopo, alla presenza delle Forze dell’ordine, concordiamo un’uscita dal padiglione in tranquillità». Gli attivisti sono dunque usciti di fronte all’entrata da cui avevano fatto ingresso pagando il biglietto. «Qui l’uscita ci viene sbarrata da plotoni delle forze dell’ordine. “Vi facciamo andare via, ma qualcuno deve venire con noi”, ci dicono gli operatori della Questura, indicando persone che a loro dire devono essere fermate. Alla nostra richiesta di spiegazioni, hanno chiamato i plotoni lì presenti, che ci hanno circondato e spintonato con gli scudi. Hanno buttato la gente a terra, procedendo con intimidazioni, calci, schiaffi». A quel punto, secondo il racconto dell’attivista, sarebbero state prese due persone e portate via, poi la polizia avrebbe identificato uno ad uno i manifestanti con ripresa video e richiesta del documento (anche a persone molto note che sovente si rapportano con le forze dell’ordine per richiedere l’autorizzazione ad organizzare iniziative pubbliche). «Il clima è stato fortemente intimidatorio e le persone sono state invitate a uscire uno alla volta, con l’indicazione per ognuna di un’uscita diversa – conclude Iannuzzi –. Contandoci, scopriamo che le persone portate via erano 4. Una di loro è stata rilasciata, mentre le altre tre sono state tradotte in arresto».

Il motivo della protesta è sempre stato esplicito: gli organizzatori accusano Teva, leader nel settore dei farmaci generici, di avere un ruolo non secondario nell’occupazione in Palestina, portando avanti quello che la campagna BDS chiama “apartheid sanitario” a causa delle «rivendite a prezzo maggiorato di prodotti farmaceutici sul territorio palestinese e di inaccessibilità ai vaccini per i bimbi palestinesi». L’azienda è oggetto di una campagna internazionale di boicottaggio che invita medici, farmacisti, pazienti e istituzioni ad astenersi dalla prescrizione, dall’acquisto e dalla rivendita dei suoi prodotti.

L’Argentina non si è stancata del liberismo: Milei vince le elezioni di metà mandato

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«Oggi è una giornata storica»: così il presidente argentino Javier Milei ha celebrato la sorprendente vittoria alle elezioni legislative di metà mandato di ieri, domenica 26 ottobre. Con la promessa all’elettorato di proseguire con le riforme economiche intraprese, ha inoltre annunciato che l’Argentina avrà il parlamento «più riformista della storia». Si votava per rinnovare circa la metà dei seggi della Camera dei Deputati e un terzo di quelli del Senato: il partito di Milei, La Libertad Avanza (LLA), ha ottenuto quasi il 41% dei voti e ha vinto nelle sei più grandi province del Paese, tra cui quella di Buenos Aires, dove aveva subito una pesante sconfitta nelle elezioni provinciali del 7 settembre scorso. La principale forza di opposizione, la coalizione peronista di centrosinistra, si è fermata al 31%. L’affluenza è stata del 67,85%, un dato record dal ritorno della democrazia nel 1983, che conferma un calo della partecipazione degli elettori. La vittoria, che ribalta tutti i pronostici, è stata celebrata sui social dal presidente statunitense Donald Trump, che è intervenuto direttamente nella campagna elettorale con un piano di aiuti all’economia argentina e ha più volte minacciato di interromperlo nel caso in cui il suo alleato Milei fosse uscito sconfitto dalle urne.

L’Argentina, invece di archiviare la stagione delle ricette ultraliberiste, sembra volerla rilanciare, come se il dolore economico fosse solo un effetto collaterale necessario della “cura Milei”. Una cura che molti economisti definiscono “tossica”, ma che l’elettorato ha deciso di confermare, scommettendo ancora una volta sul presidente argentino, nonostante il calo di popolarità. Alcuni scandali, infatti, lo hanno coinvolto personalmente, a partire dal caso del meme-coin “Libra”, una cripto-moneta che Milei aveva promosso sui social, poi tracollata in borsa rovinando centinaia di investitori. Negli ultimi sei mesi, era sembrato che La Libertad Avanza dovesse ridimensionare i suoi obiettivi in queste elezioni, abbandonando le speranze di cambiare radicalmente la situazione in parlamento, controllato dalle opposizioni. Nell’ultimo comizio che si è tenuto giovedì nella città di Rosario, Milei già non brandiva più l’iconica motosega e ha chiamato gli elettori a «non arrendersi» e a «cambiare l’Argentina sul serio», promettendo per la seconda parte del mandato «le riforme di cui il Paese ha bisogno».

Dietro la narrazione trionfalista, l’Argentina resta un Paese lacerato. Dal suo insediamento nel dicembre 2023, Javier Milei ha promesso una “rivoluzione libertaria” fondata su drastici tagli allo Stato, deregolamentazione e più potere al mercato. Con il decreto urgente 70/2023 ha smantellato numerose leggi sociali e liberalizzato settori strategici come affitti, sanità, commercio estero e ambiente. In pochi mesi, l’inflazione – pur ridottasi rispetto ai picchi del 2023 – ha continuato a erodere i redditi, mentre i salari pubblici sono stati congelati e le sovvenzioni energetiche cancellate. Il deficit ha superato i tre miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2025, aggravando la crisi sociale. Le classi medie si sono impoverite, i ceti popolari sono precipitati nella precarietà e le proteste sono tornate a moltiplicarsi nelle strade di Buenos Aires e nelle province. In questo scenario, gli Stati Uniti sono intervenuti con una linea di credito da 20 miliardi di dollari per sostenere le riserve della banca centrale argentina, un salvataggio politico che somiglia a un guinzaglio: l’Argentina, ancora una volta, si ritrova legata agli interessi geopolitici e finanziari degli Stati Uniti, che non regalano denaro, ma comprano influenza. Il prestito prevede nuove privatizzazioni, ulteriori tagli e un’apertura ancora più ampia al capitale straniero, accentuando la dipendenza del Paese da interessi esterni e riducendo la sua autonomia politica. L’appoggio plateale di Donald Trump alla campagna di Milei, culminato in un endorsement entusiasta, è il segnale più chiaro di questa convergenza: due populismi, due volti dello stesso capitalismo selvaggio.

Eppure, molti argentini hanno visto in Milei l’unico uomo disposto a “fare piazza pulita”. Il linguaggio della rottura, della rabbia contro “la casta”, ha funzionato meglio di qualsiasi programma economico. Le sue comparsate in televisione, i discorsi infuocati, il richiamo all’ordine e alla libertà assoluta hanno sedotto un elettorato esasperato, disposto a sacrificare persino le tutele sociali pur di punire il sistema politico tradizionale. Oggi, l’Argentina si risveglia con un governo più forte e un popolo più fragile. Milei può vantarsi di aver vinto la battaglia politica, ma la guerra economica è tutt’altro che conclusa: la sua “motosega” non ha tagliato gli sprechi, ha tagliato semmai il tessuto sociale. Dietro i sorrisi delle piazze e i tweet di congratulazioni americani, si intravede una nazione che rischia di essere svenduta a pezzi, tra shock economico e dipendenza estera. La sua vittoria non è la prova che l’Argentina crede nel neoliberismo: è la prova che non riesce più a immaginare un’alternativa. Milei potrà contare ora su un Parlamento più favorevole, ma il suo programma resta divisivo e incerto nei risultati. Il prezzo della fedeltà dell’Argentina al liberismo rischia di essere altissimo: un Paese più disciplinato nei conti, ma più diseguale, più vulnerabile e meno sovrano. E finché la libertà verrà confusa con la legge del più forte, la motosega continuerà a ronzare, scavando solchi sempre più profondi tra chi ha tutto e chi non ha più nulla.

Elezioni in Camerun: almeno 4 morti nelle proteste contro il governo

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A Douala, in Camerun, almeno quattro persone sono morte durante le proteste scoppiate prima dell’annuncio ufficiale dei risultati delle elezioni presidenziali del 12 ottobre. I dati provvisori indicano la vittoria del presidente uscente Paul Biya, al potere dal 1982 e ora verso l’ottavo mandato. Le manifestazioni, guidate dai sostenitori dell’oppositore Issa Tchiroma Bakary, denunciano brogli e mancanza di trasparenza. Nonostante il divieto del governo, centinaia di persone sono scese in piazza in varie città. A Douala si sono verificati violenti scontri con la polizia, che ha usato lacrimogeni e idranti. Le autorità affermano che i manifestanti hanno attaccato gli agenti.