martedì 1 Luglio 2025
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Palermo: riaperte dopo 36 anni le indagini sull’omicidio di Michele Reina, ex segretario della DC

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La Procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio di Michele Reina, l’ex segretario provinciale della Democrazia Cristiana ucciso a Palermo il 9 marzo 1979. A 46 anni da quel delitto eccellente, considerato uno dei primi nella lunga stagione degli omicidi “politico-mafiosi” in Sicilia, la DDA Palermitana ha infatti disposto una nuova attività istruttoria, delegando alla Direzione Investigativa Antimafia l’acquisizione di video e fotografie del luogo dell’agguato. La riapertura dell’inchiesta, a 36 anni dall’ultima chiusura, avviene in parallelo a quella sull’omicidio di Piersanti Mattarella, le cui indagini hanno ripreso impulso dallo scorso gennaio, mirando a verificare – attraverso tecnologie più avanzate – l’ipotesi di un “filo unico” che collegherebbe i delitti Reina, Mattarella e La Torre.

La sera del 9 marzo 1979 Michele Reina, 47 anni, saliva sulla sua Alfetta 2000 insieme alla moglie Marina e a una coppia di amici quando, in via Principe di Paternò, fu raggiunto da un commando a bordo di una Fiat Ritmo rubata. Dopo essere scesi dall’auto, due giovani killer a volto scoperto gli spararono tre colpi di calibro 38. Il politico morì sul colpo, i membri del commando riuscirono a scappare. Il delitto venne rivendicato quella stessa notte con due telefonate anonime: la prima al Giornale di Sicilia da parte di un sedicente militante di “Prima Linea”, la seconda al quotidiano L’Ora da chi diceva di agire in nome delle Brigate Rosse. Entrambe le rivendicazioni furono però successivamente smentite dagli stessi gruppi chiamati in causa. La svolta nelle indagini arrivò nel 1984, quando il superpentito Tommaso Buscetta indicò nel capo di Cosa Nostra Totò Riina il mandante dell’omicidio Reina. Nel 1999 la Cassazione confermò le condanne all’ergastolo per i componenti della Commissione di Cosa Nostra: Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci. Gli esecutori materiali, però, non sono mai stati identificati.

Il magistrato Giovanni Falcone, che morirà nella strage di Capaci il 23 maggio 1992, già tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta aveva dichiarato dinanzi alla Commissione Antimafia di credere all’esistenza di un filo unico che avrebbe collegato gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre (politico e sindacalista italiano, dirigente del Partito Comunista, ucciso il 30 aprile 1982 a Palermo), inserendo i tre delitti in una trama comune in cui convergevano interessi mafiosi ed eversione nera. Un progetto che avrebbe avuto la primaria finalità di bloccare il rinnovamento politico in Sicilia. Esattamente come Piersanti Mattarella, l’ex segretario della DC Reina era stato tra i principali sostenitori dell’apertura del partito democristiano alla sinistra, in nome di quel “compromesso storico” cui, negli anni precedenti, avevano lavorato il presidente della DC Aldo Moro e il segretario del PCI Enrico Berlinguer. Negli anni successivi all’omicidio, la vedova di Michele Reina, Marina Pipitone, affermò di avere rilevato una «fortissima somiglianza» tra il killer del marito nel terrorista nero Valerio Fioravanti. Lo stesso fece Irma Chiazzese, vedova di Piersanti Mattarella, che disse di aver riconosciuto in Fioravanti l’uomo «dagli occhi di ghiaccio» che aveva freddato il marito. Nonostante ciò, la magistratura non è mai riuscita a confermare tale coinvolgimento, archiviando questa pista.

A gennaio, la Procura di Palermo ha riaperto le indagini sull’omicidio Mattarella, a quanto pare svincolandosi dalla linea tracciata da Falcone. Per il delitto, infatti, risultano ora indagati come possibili autori materiali due sicari di Cosa Nostra, Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese. L’inchiesta è però nel suo pieno svolgimento: nei giorni scorsi sono stati notificati gli avvisi per un accertamento tecnico irripetibile nell’ambito della nuova inchiesta. Proprio oggi sarà conferito l’incarico ai periti per una comparazione biologica su una vecchia impronta rinvenuta sull’auto utilizzata dai killer per la fuga dopo l’omicidio, da cui si vuole estrarre il dna grazie alle nuove tecnologie disponibili. Anche con la riapertura dell’inchiesta su Reina, la Procura mira a riesaminare prove e testimonianze alla luce delle nuove tecnologie e delle nuove conoscenze investigative. Come per il caso Mattarella, si procederà con accertamenti tecnici avanzati, tra cui l’analisi di reperti d’epoca alla ricerca di eventuali profili genetici utili.

L’Egitto espelle centinaia di attivisti della Marcia per Gaza, tra loro diversi italiani

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EGITTO – Il ritrovo era oggi al Cairo per i partecipanti alla Global March to Gaza, il movimento dal basso che ha radunato cittadini di oltre 54 Paesi per rompere l’assedio israeliano a Gaza e pretendere l’ingresso degli aiuti umanitari bloccati ormai da mesi fuori il valico di Rafah. L’Egitto, che solo ieri ha parzialmente risposto alle richieste di permesso delle delegazioni internazionali, ripetendo che i partecipanti necessitano autorizzazioni, si è schierato: tra ieri e oggi, almeno 170 attivisti sbarcati al Cairo (tra i quali anche numerosi italiani) sono stati fermati in aeroporto, interrogati, e molti di loro rimpatriati.

«E’ stata una notte difficile» ha dichiarato la portavoce italiana Antonietta Chiodo, parlando dei rimpatri dei partecipanti internazionali alla marcia, a cui sono stati sequestrati documenti e i telefoni e che sono stati lasciati per ore seduti in terra in uno stanzino, per poi essere rimandati nei loro Paesi con voli diretti. Numerosi sarebbero anche gli italiani bloccati dalle autorità: due di loro, in particolare (i torinesi Vittoria Antonioli Arduini e Andrea Usala) si troverebbero in condizioni di fermo senza che sia stato loro comunicato il motivo. Nel frattempo, alcuni cittadini turchi sarebbero stati prelevati dagli hotel al Cairo e deportati per aver esposto una bandiera palestinese. «Chiediamo che venga presa una responsabilità collettiva in merito a quello che sta accadendo, perché è inaccettabile ed è una totale violazione del diritto internazionale» dichiara Chiodo.

L’obiettivo della mobilitazione internazionale è agire pacificamente per sostenere il popolo palestinese, dato che i governi occidentali hanno scelto di non rompere i legami con Israele e si sono resi complici del genocidio in corso. In questo contesto, la Farnesina ha fatto sapere in un comunicato che non potrà garantire ai nostri concittadini nessuna assistenza consolare in ragione della situazione geo-politica egiziana.

La carovana diretta a Rafah dovrebbe partire il prossimo 14 giugno dal Cairo per arrivare ad Al-Arish. Il 15, invece, si partirà a piedi per raggiungere il valico. Ai 3-5000 attivisti provenienti da mezzo mondo che arriveranno in queste ore in aereo si dovrebbero aggiungere altre migliaia di solidali in viaggio via terra dal Nord Africa. Una carovana di macchine e pullman con almeno 1000 persone è partita dalla Tunisia lunedì ed è arrivata in Libia, ma sta aspettando i permessi necessari per attraversare il nord del Paese ed entrare in Egitto. Sembra invece che invece siano già decine – almeno 50 – le persone partite dall’Algeria e dal Marocco in areo che sono state deportate in queste ore. Ma sono migliaia le persone da tutto il Nordafrica in marcia per raggiungere Rafah.

«Sono due mesi che abbiamo chiesto i permessi formali al ministro degli Affari Esteri e alle autorità locali e ci siamo coordinati con le ambasciate egiziane in più di 15 Paesi» dichiarano con un comunicato i referenti della Global March to Gaza. «Il nostro intento è sempre stato chiaro: camminare pacificamente in supporto dell’accesso umanitario a Gaza, nel rispetto della sovranità egiziana». E continuano: «esortiamo le autorità egiziane a rilasciare le persone detenute e a permettere l’ingresso dei partecipanti della marcia.»
«L’Egitto ha ripetutamente espresso preoccupazione per la crisi umanitaria a Gaza e le sue insostenibili condizioni al valico di Rafah. Supportando questo globale, pacifico movimento mondiale rinforzerebbe la posizione dell’Egitto come attore chiave nel promuovere l’accesso agli aiuti umanitari».

L’Egitto è da molti anni uno degli stati che da un lato dichiara di essere al fianco del popolo palestinese, ma dall’altro ha strettissimi legami con Israele e tutti gli interessi di tenere buoni rapporti con il “vicino” sionista. Una marcia -anche se molto più ridotta e meno internazionale- con gli stessi obbiettivi di quella che dovrebbe tenersi nei prossimi giorni era stata bloccata e duramente repressa già un anno fa. Decine gli attivisti arrestati e deportati. E per i cittadini egiziani, la repressione è stata molto più dura.
Antonietta Chiodo sottolinea come probabilmente le azioni della autorità egiziane siano un imposizione di Israele. «Ricordiamo le dichiarazioni di ieri del ministro Katz che ha dichiarato che non ci saranno linee rosse e che utilizzeranno qualsiasi arma possibile. Io chiedo a tutti, alla collettività, di prendere una posizione in merito perché ci sarà un massacro al confine, un massacro di arabi. Stanno portando via gli occidentali per non creare degli incidenti diplomatici con gli stati che li sostengono, ma noi stiamo dalla parte del popolo palestinese. Molte persone anche sapendo quello che sta succedendo hanno deciso di partire ugualmente. Prendetevi la vostra responsabilità»

Sudafrica, violente inondazioni nel sud-est: almeno 49 morti

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Almeno 49 persone sono morte a causa delle violente inondazioni che hanno colpito la provincia del Capo Orientale, in Sudafrica, dove un violento sistema meteorologico ha portato piogge torrenziali, forti venti e neve. La città di Mthatha è tra le aree più colpite: qui un bus scolastico è stato travolto dalle acque, causando la morte di sei studenti e due adulti, mentre altri quattro studenti risultano ancora dispersi. Le autorità temono un aumento del bilancio delle vittime. Centinaia di famiglie sono state sfollate e molte scuole e ospedali hanno subito gravi danni.

USA-Iran, cresce la tensione: Washington ordina parziale ritiro del personale in Medioriente

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Continua a crescere la tensione tra Iran e Stati Uniti, le cui discussioni per raggiungere un accordo sul nucleare sono accompagnate da mesi da una escalation di minacce da ambo le parti. A seguito delle dichiarazioni rilasciate ieri dal ministro della Difesa iraniano, Aziz Nasirzadeh, il quale ha detto alla stampa che Teheran avrebbe preso di mira le basi militari USA in Medioriente in caso di fallimento dei colloqui ed eventuali attacchi esterni contro obiettivi nel Paese, Washington ha ordinato un parziale ritiro del personale governativo statunitense la cui presenza nella Regione non sia urgente.

In particolare, il Dipartimento di Stato ha ordinato l’immediato ritiro di tutti i dipendenti goventativi in Iraq, giustificando la decisione con «l’acuirsi delle tensioni regionali» e vietando loro di usare l’aeroporto internazionale di Baghdad. La popolazione statunitense è invece invitata a «non recarsi in Iraq per nessun motivo», in quanto esposta a «rischi elevati, tra cui violenza e rapimenti» dalle «milizie anti-statunitensi». Secondo il Dipartimento, nel Paese esiste «il rischio di violenza terroristica». I cittadini sono anche invitati a non attraversare l’Iraq per «partecipare a un conflitto armato in Siria», in quanto anche qui rischierebbero lesioni o la morte, oltre che l’arresto e l’espulsione. Un ufficiale del Dipartimento di Stato ha inoltre riferito a Fox News che il segretario della Difesa, Pete Heghseth, ha autorizzato la partenza volontaria dei militari di stanza in varie parti del Medioriente tra le quali Iraq, Siria, Bahrain, Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, aggiungendo che il Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) sta monitorando gli sviluppi nell’area. La decisione, ha riferito l’ufficiale, riguarderà principalmente coloro che vivono in Bahrein (dove si trovano la maggior parte dei dipendenti di Washington) vicino alla base militare USA. Il presidente Trump ha dichiarato che il ritiro parziale del personale statunitense dalla regione dipende dal fatto che questa «può essere un posto pericoloso», aggiungendo che «vedremo cosa succederà».

«Alcuni funzionari dall’altra parte minacciano un conflitto se i negoziati non andranno a buon fine – aveva riferito alla stampa Nasirzadeh ieri, mercoledì 11 giugno, – e se ci verrà imposto un conflitto… tutte le basi statunitensi sono a portata di mano e le prenderemo ampiamente di mira nei Paesi che le ospitano». Le minacce seguono a loro volta le dichiarazioni di Trump il quale, a causa dello stallo dei collqui sul nucleare, aveva affermato che avrebbe colpito con bombardamenti e tariffe secondarie il Paese in caso di fallimento dei negoziati. «Non possono avere un’arma nucleare, è molto semplice: non lo permetteremo» ha sottolineato Trump nelle recenti dichiarazioni. Secondo alcune indiscrezioni emerse a mezzo stampa sui media americani, tuttavia, una minaccia di un possibile attacco diretto a obiettivi iraniani proverrebbe in realtà da Israele. Secondo la NBC, l’attacco potrebbe infatti avvenire nei prossimi giorni senza l’appoggio degli Stati Uniti e costituirebbe una forte rottura con la linea dell’amministrazione statunitense.

La situazione si inserisce in un contesto di crescenti tensioni tra Iran e Stati Uniti: nel 2017, durante il suo primo mandato, Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran siglato nel 2015, che introduceva limitazioni sulle attività nucleari del Paese in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Trump ha così reintrodotto sanzioni economiche contro Teheran, che ha ripreso le attività di arricchimento dell’uranio oltre i limiti stabiliti dall’accordo. Nell’aprile di quest’anno sono ripresi in Oman i colloqui tra le due parti, con l’obiettivo di trovare un accordo che contenga l’espansione del programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi. Il prossimo round è previsto per questa settimana, nella giornata di domenica.

Il ministro degli Esteri iraniano, Seyed Abbas Araghchi, ha riferito ieri in un post su X che l’idea di Trump per la quale l’Iran non dovrebbe possedere armi nucleari «è in linea con la nostra dottrina e potrebbe diventare il fondamento principale per un accordo». «Con la ripresa dei colloqui domenica, è chiaro che un accordo in grado di garantire il mantenimento della natura pacifica del programma nucleare iraniano è a portata di mano e potrebbe essere raggiunto rapidamente».

India, aereo si schianta ad Ahmedabad: almeno 204 morti

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Aggiornamento delle 17.16: Il capo della polizia di Ahmedabad, G.S. Malik, ha dichiarato che finora sono stati rinvenuti 204 cadaveri e sono stati trasferiti in ospedale almeno 50 studenti di medicina che alloggiavano in un dormitorio su cui si è schiantato il velivolo. La polizia ha trovato anche due sopravvissuti al disastro aereo: uno si trova già in ospedale e sta ricevendo le cure.

Un aereo dell’Air India si è schiantato all’aeroporto della città occidentale indiana di Ahmedabad. Lo rende noto l’agenzia Reuters, riportando quanto hanno riferito i canali televisivi. L’aereo era diretto a Birmingham, ha riferito una fonte dell’aviazione. L’incidente è avvenuto mentre l’aereo stava decollando. Le immagini mostrano detriti in fiamme, con un denso fumo nero che si alza nel cielo vicino all’aeroporto. Secondo fonti locali, a bordo ci sarebbero state oltre 200 persone. Le autorità non hanno ancora confermato la causa dell’incidente e non si ha ancora contezza del numero dei feriti e delle eventuali vittime.

 

Il governatore della Calabria Roberto Occhiuto è indagato per corruzione

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«Per la prima volta nella mia vita ho ricevuto un avviso di garanzia, mi dicono nell’ambito di un’inchiesta più ampia, che coinvolgerebbe più persone». Con queste parole, in un video pubblicato su Instagram, il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto ha annunciato di essere indagato per corruzione dalla Procura di Catanzaro. Dopo giorni di voci e smentite, il governatore ha scelto di confermare personalmente l’indagine a suo carico, affermando: «Solitamente si dice “sono sereno, confido nella magistratura”. Sono sereno un piffero. Non sono sereno, perché essere iscritto nel registro degli indagati, anche a mia tutela, come mi dicono, per me è una cosa infamante: è come se mi avessero accusato di omicidio». L’atto nasce da una serie di accertamenti sui rapporti personali, politici e di affari che Occhiuto avrebbe intrattenuto con alcuni collaboratori e imprenditori locali.

L’avviso di garanzia porta la firma del procuratore Salvatore Curcio. Le informazioni sul contenuto dell’indagine sono ancora scarse, ma alcune indiscrezioni fanno risalire l’origine dell’inchiesta a una serie di articoli pubblicati dal quotidiano Domani, che aveva messo in luce una fitta rete di relazioni tra Occhiuto, l’imprenditoria locale e alcuni uomini delle istituzioni. In particolare, sotto i riflettori ci sarebbe Paolo Posteraro, ex socio di Occhiuto, consulente di Ferrovie della Calabria fino al 2024 e attualmente capo della segreteria della sottosegretaria Matilde Siracusano, compagna del governatore. Secondo quanto riportato dal quotidiano, Posteraro sarebbe anch’egli indagato per concorso in corruzione. I legami economici tra i due risalirebbero a prima dell’elezione di Occhiuto, in un contesto in cui, sempre secondo le indiscrezioni, l’Antiriciclaggio di Bankitalia avrebbe già acceso un faro su alcuni flussi finanziari: tra questi, un pagamento da 21mila euro proveniente da una società all’epoca gestita da Posteraro e un prestito pubblico da 350mila euro ricevuto da un’altra azienda dello stesso gruppo.

Occhiuto si difende con fermezza: «Indagate, indagate, indagate col massimo rigore, controllatemi tutto, perché io non ho fatto nulla di male». Il governatore ha chiesto di essere interrogato «al più presto» per chiarire la propria posizione, dichiarando di non essere a conoscenza dei fatti di cui viene accusato. Intanto, la vicenda scuote la politica nazionale. Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, ha espresso il suo sostegno: «Conosco Roberto Occhiuto da moltissimi anni. È una persona perbene e onesta. Sono certo della sua innocenza, non ho alcun dubbio sulla sua estraneità ai fatti contestati».

La Corea del Sud manda segnali distensivi al Nord dopo lunghe tensioni

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L’esercito sudcoreano ha annunciato la sospensione delle trasmissioni propagandistiche attraverso altoparlanti lungo il confine con la Corea del Nord. Le trasmissioni, che includevano messaggi politici e canzoni pop sudcoreane, erano state riattivate circa un anno fa in un clima di crescente tensione. La decisione rientra nelle promesse elettorali del nuovo presidente Lee Jae-myung, entrato in carica questo mese, che ha dichiarato l’intenzione di riaprire il dialogo con il Nord e ripristinare un patto militare precedentemente congelato con Pyongyang. La sospensione degli altoparlanti potrebbe rappresentare un primo passo verso una ripresa del dialogo intercoreano, sebbene le relazioni tra le due Coree restino fragili e soggette a rapidi deterioramenti.

California, la tribù Yurok riottiene 189 chilometri quadrati di foreste ancestrali

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La tribù Yurok, uno dei più numerosi gruppi indigeni della California, ha riacquisito ufficialmente 189 chilometri quadrati di foreste ancestrali lungo il tratto inferiore del fiume Klamath, nel nord dello Stato. La restituzione del territorio, frutto di una collaborazione con la Western Rivers Conservancy, un'organizzazione non profit statunitense dedicata alla protezione e conservazione dei fiumi e degli ecosistemi fluviali, segna un punto di svolta per la comunità Yurok, che potrà più che raddoppiare la superficie attualmente sotto la propria gestione. La terra riconquistata include Blue Cr...

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Musica: è morto Brian Wilson, voce dei Beach Boys

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Brian Wilson, co‑fondatore e voce dei Beach Boys, è morto oggi all’età di 82 anni. Lo ha annunciato la famiglia. Wilson lascia un catalogo di successi come California Girls, Good Vibrations e Don’t Worry Baby, che hanno reso il complesso californiano uno dei più popolari del rock statunitense. Dal 2024 era affetto da un grave disturbo neurocognitivo e viveva sotto tutela dopo la scomparsa della moglie Melinda.

Uno studio svela la sorprendente struttura sotterranea dell’Etna

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Sotto l’Etna, il vulcano più grande e attivo d’Europa, si nasconde una struttura mai osservata prima con tale precisione: una rete di fratture piene di magma, disposte in modo radiale tra i 6 e i 16 chilometri di profondità. È quanto emerge da uno studio condotto dal Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment, che ha permesso per la prima volta di ricostruire l’orientamento delle fratture e lo stato di stress – cioè le spinte a cui sono sottoposte le rocce – nel cuore del vulcano. Il tutto grazie all’analisi di oltre 37.000 segnali sismici raccolti in dieci anni, riuscendo a ottenere una sorta di “TAC” del sottosuolo. «Lo studio apre la strada a nuove ricostruzioni dello stress crostale», spiega il coautore Gianmarco Del Piccolo, aggiungendo che i risultati mostrano che il magma non risale in modo casuale, ma segue dei percorsi preferenziali che potrebbero aiutare a capire – e un giorno forse prevedere – le future eruzioni.

Per capire meglio cosa succede sotto un vulcano come l’Etna, gli scienziati si affidano alla sismologia, cioè allo studio delle onde che attraversano il sottosuolo quando la Terra trema. Proprio come una radiografia usa i raggi X per osservare l’interno del corpo umano, così le onde sismiche – registrate durante i terremoti – possono essere utilizzate per “vedere” dentro la crosta terrestre. Le onde viaggiano più lentamente o più velocemente a seconda dei materiali attraversati e, se incontrano magma o fratture aperte, il loro comportamento cambia. Si tratta di un effetto che si chiama “anisotropia elastica”, ovvero una variazione della velocità delle onde in base alla direzione, e può rivelare informazioni preziose sullo stato delle rocce e sul movimento dei fluidi sotterranei. Il metodo usato dal team di Padova ha permesso di stimare con grande precisione l’orientamento delle fratture e le forze in gioco, tenendo anche conto del margine di incertezza: un aspetto essenziale per rendere i risultati più affidabili.

In particolare, secondo i risultati ottenuti, lo studio ha rivelato che sotto il fianco sud-orientale dell’Etna esiste una zona in cui il magma si accumula a pressione elevata, creando un sistema di fratture verticali – chiamate dicchi – che si diramano come i raggi di una ruota. Si tratta di strutture che formano dei veri e propri canali sotterranei e che guidano la risalita del magma verso i crateri sommitali e verso le bocche laterali, contribuendo così all’attività eruttiva. Secondo le osservazioni, la zona è caratterizzata da un sistema di stress molto eterogeneo e stabile, rimasto invariato per almeno un decennio. «Riteniamo che il metodo sviluppato possa avere un forte impatto sulla predicibilità delle vie preferenziali di migrazione del magma e dei fluidi in crosta, oltre che su una generale comprensione dell’effetto dello stress in ambienti crostali come zone sismogenetiche, campi geotermici, campi petroliferi e molti altri», conclude il coautore Manuele Faccenda, aggiungendo che questa tecnica potrebbe essere applicata anche in altri contesti geologici attivi – come aree sismiche, geotermiche o petrolifere – contribuendo così ad una migliore comprensione del comportamento della crosta terrestre e, nel caso dei vulcani, a una gestione più consapevole del rischio.