martedì 1 Luglio 2025
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Uno studio svela la sorprendente struttura sotterranea dell’Etna

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Sotto l’Etna, il vulcano più grande e attivo d’Europa, si nasconde una struttura mai osservata prima con tale precisione: una rete di fratture piene di magma, disposte in modo radiale tra i 6 e i 16 chilometri di profondità. È quanto emerge da uno studio condotto dal Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment, che ha permesso per la prima volta di ricostruire l’orientamento delle fratture e lo stato di stress – cioè le spinte a cui sono sottoposte le rocce – nel cuore del vulcano. Il tutto grazie all’analisi di oltre 37.000 segnali sismici raccolti in dieci anni, riuscendo a ottenere una sorta di “TAC” del sottosuolo. «Lo studio apre la strada a nuove ricostruzioni dello stress crostale», spiega il coautore Gianmarco Del Piccolo, aggiungendo che i risultati mostrano che il magma non risale in modo casuale, ma segue dei percorsi preferenziali che potrebbero aiutare a capire – e un giorno forse prevedere – le future eruzioni.

Per capire meglio cosa succede sotto un vulcano come l’Etna, gli scienziati si affidano alla sismologia, cioè allo studio delle onde che attraversano il sottosuolo quando la Terra trema. Proprio come una radiografia usa i raggi X per osservare l’interno del corpo umano, così le onde sismiche – registrate durante i terremoti – possono essere utilizzate per “vedere” dentro la crosta terrestre. Le onde viaggiano più lentamente o più velocemente a seconda dei materiali attraversati e, se incontrano magma o fratture aperte, il loro comportamento cambia. Si tratta di un effetto che si chiama “anisotropia elastica”, ovvero una variazione della velocità delle onde in base alla direzione, e può rivelare informazioni preziose sullo stato delle rocce e sul movimento dei fluidi sotterranei. Il metodo usato dal team di Padova ha permesso di stimare con grande precisione l’orientamento delle fratture e le forze in gioco, tenendo anche conto del margine di incertezza: un aspetto essenziale per rendere i risultati più affidabili.

In particolare, secondo i risultati ottenuti, lo studio ha rivelato che sotto il fianco sud-orientale dell’Etna esiste una zona in cui il magma si accumula a pressione elevata, creando un sistema di fratture verticali – chiamate dicchi – che si diramano come i raggi di una ruota. Si tratta di strutture che formano dei veri e propri canali sotterranei e che guidano la risalita del magma verso i crateri sommitali e verso le bocche laterali, contribuendo così all’attività eruttiva. Secondo le osservazioni, la zona è caratterizzata da un sistema di stress molto eterogeneo e stabile, rimasto invariato per almeno un decennio. «Riteniamo che il metodo sviluppato possa avere un forte impatto sulla predicibilità delle vie preferenziali di migrazione del magma e dei fluidi in crosta, oltre che su una generale comprensione dell’effetto dello stress in ambienti crostali come zone sismogenetiche, campi geotermici, campi petroliferi e molti altri», conclude il coautore Manuele Faccenda, aggiungendo che questa tecnica potrebbe essere applicata anche in altri contesti geologici attivi – come aree sismiche, geotermiche o petrolifere – contribuendo così ad una migliore comprensione del comportamento della crosta terrestre e, nel caso dei vulcani, a una gestione più consapevole del rischio.

Iran, incendio in impianto petrolchimico: almeno 3 morti

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In Iran un incendio presso l’impianto petrolchimico di metanolo di Kaveh a Bandar Dayyer, nella provincia di Bushehr, ha provocato 3 morti e una decina di feriti, con il bilancio delle vittime in aggiornamento. Stando alle prime ricostruzioni delle autorità iraniane, l’incendio avrebbe fatto seguito a un’esplosione avvenuta a bordo di una nave che trasportava metanolo mentre si trovava nei pressi del molo della fabbrica.

Los Angeles: Trump invia 700 marines e 4.000 soldati per placare le proteste

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A cinque giorni dall’inizio delle proteste contro le politiche migratorie, la situazione a Los Angeles sembra infiammarsi ogni ora che passa. Ieri, martedì 10 giugno, la sindaca Karen Bass ha introdotto il coprifuoco nel centro cittadino, dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha inviato ulteriori 2 mila membri della Guardia Nazionale nella città californiana, insieme a 700 marines, portando così a 4.700 il numero di militari che ora presidiano la città – teoricamente, col solo compito di proteggere gli uffici governativi, non di svolgere azioni di polizia. Questi dovrebbero contribuire a sedare le rivolte esplose nella seconda città più popolosa degli Stati Uniti contro le politiche migratorie dell’esecutivo, che hanno portato all’arresto di centinaia di persone teoricamente presenti irregolarmente sul territorio statunitense – tra queste, molti bambini, anziani e donne incinte. D’altronde, la promessa di deportare centinaia di migranti era una parte centrale della campagna elettorale di Trump. La politica muscolare del presidente, che non sta risparmiando nessun ambito – dalla repressione all’interno degli atenei all’atteggiamento in materia di politica estera, passando per le politiche economiche e la soppressione dei diritti civili – trova qui una dimostrazione plastica di cosa il potere possa arrivare a fare contro i suoi stessi cittadini per dimostrare la propria forza.

«Generazioni di eroi dell’esercito non hanno versato il loro sangue su coste lontane solo per vedere il nostro Paese distrutto dalle invasioni e dalla mancanza di leggi del Terzo Mondo qui in casa, come sta succedendo in California» scrive senza mezzi termini il presidente degli Stati Uniti sul proprio social media Truth. In questo contesto, la Guardia Nazionale e i marines, afferma Trump, hanno il compito di «liberare» la città dalla violenza dei manifestanti, nonostante la sindaca Bass e il governatore dello Stato David Newsom (chiamato da Trump Newscum nei suoi post su X, ovvero letteralmente “nuovo schifo”) abbiano più volte ribadito che le forze di polizia fossero più che sufficienti per placare la rivolta. Nel criticare la mossa del presidente, Bass ha ricordato che, invece di perseguire spacciatori e criminali violenti, Trump se la sta prendendo con «famiglie e bambini».

Le proteste dei cittadini sono iniziate lo scorso venerdì 6 giugno, dopo che sei agenti dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) avevano arrestato oltre 40 persone per presunta violazione delle leggi sull’immigrazione, per poi fermarne oltre un centinaio nelle ore successive. I cittadini, di fronte a quello che ritengono l’ennesimo abuso da parte dell’amministrazione del presidente, hanno deciso di ribellarsi, dando vita a vere e proprie scene di guerriglia urbana, con lanci di pietre verso i poliziotti, barricate di fortuna e sabotaggi. L’intero centro città è stato sgomberato e ogni assembramento dichiarato illegale, mentre i manifestanti hanno bloccato arterie stradali cruciali come l’autostrata 101 e Figueroa Street. Decine sono le persone arrestate, mentre alcuni agenti sono stati feriti e, insieme ad essi, anche alcuni giornalisti, raggiunti da proiettili di gomma sparati direttamente dalle forze dell’ordine.

Gavin Newsom, governatore della California, ha detto che l’ordine di Trump di schierare 2 mila membri della Guardia Nazionale nelle strade dello Stato è stato dato «senza consultare i responsabili delle forze dell’ordine della California», «illegalmente e senza motivo». «Questo sfacciato abuso di potere da parte di un presidente in carica ha innescato una situazione esplosiva, mettendo a rischio il nostro popolo, i nostri ufficiali e la Guardia Nazionale». E mette in guardia: «La California potrebbe non essere l’ultimo Stato» nel quale Trump manderà ordini simili, dal momento che «quando Donald Trump ha chiesto l’autorizzazione generale per comandare la Guardia Nazionale, ha fatto in modo che quell’ordine si applicasse a tutti gli Stati del Paese».

Nella serata del 10 giugno, a partire dalle ore 20, Bass ha istituito un coprifuoco nel centro di Los Angeles, per «fermare i malintenzionati che stanno approfittando della caotica escalation voluta dal presidente», consigliando a chi non sia residente di «evitare la zona». Nonostante ciò, molti sono stati gli arresti di massa causati dalle diverse violazioni del coprifuoco. Intanto, i governatori degli Stati a guida democratica hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale affermano che «La decisione del presidente Trump di schierare la Guardia Nazionale della California è un allarmante abuso di potere» che interferisce con il legittimo lavoro dei governatori.

Nel frattempo, la protesta ha esondato i confini californiani e si prepara a dilagare in altri Stati. Per tale motivo, in Stati come il Texas (a guida repubblicana) il governatore si sta preparando a schierare la Guardia Nazionale per le strade dello Stato, dopo che lunedì 9 giugno sono stati registrati scontri tra cittadini e forze dell’ordine nella città di Austin. Abbott ha anche dichiarato che firmerà una legge per permettere alle forze dell’ordine di «utilizzare tutti gli strumenti disponibili per combattere i criminali senza essere presi di mira da procuratori disonesti». Intanto, manifestazioni sono già state registrate nelle città di New York, Chicago e Atalanta.

Dopo 26 mesi torna a salire la produzione industriale in Italia: + 0,3%

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Dopo 26 mesi consecutivi di contrazione, la produzione industriale italiana torna a crescere lievemente. I dati Istat di aprile 2025 mostrano un aumento tendenziale dello 0,3% rispetto allo stesso mese del 2024. Su base mensile, l’indice destagionalizzato segna un +1,0% rispetto a marzo, con una crescita trimestrale dello 0,4%. I settori di attività economica che registrano gli incrementi tendenziali maggiori sono l’industria del legno, della carta e la stampa (+4,7%), la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+4,3%) e la fabbricazione di computer e prodotti di elettronica (+3,3%). Ma a guidare il rimbalzo della produzione italiana è in particolare il settore delle armi e delle munizioni, con una produzione raddoppiata, considerati gli obiettivi di riarmo dell’Unione Europea e il contesto geopolitico. Di contro, le flessioni più ampie si registrano nella produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (-11,0%), nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-9,5%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-5,0%). Ma a segnare i risultati peggiori è l’industria automobilistica, con i veicoli che cedono in termini di produzione il 30% su base annua.

Come spiega Il Sole 24 Ore, i dati di aprile pubblicati dall’Istat modificano di poco le performance del 2025, caratterizzate da un calo dell’1,2% della produzione industriale nel primo quadrimestre, discesa che raddoppia considerando la sola manifattura: escludendo, infatti, dal calcolo attività estrattiva ed energia c’è ancora una volta un calo annuo, una frenata dello 0,1% determinata in particolare dalla farmaceutica e dai mezzi di trasporto. Secondo Prometeia e Intesa San Paolo, il 2025 sarà un anno di transizione: “se in valori correnti i ricavi della manifattura potranno crescere dell’1,8%, una ventina di miliardi oltre i livelli 2024 (1143 miliardi), si tratta comunque di un valore inferiore rispetto ai picchi (1163) del biennio 2022-2023”. I principali enti di previsione, tra cui Istat, Ocse e Bankitalia, stimano un progresso dello 0,6% per il Pil italiano nel 2025. Tenendo conto di una crescita acquisita dello 0,5% nel primo trimestre (stima Istat), ciò significa che i trimestri successivi saranno a crescita quasi zero.

Il rimbalzo della produzione potrebbe essere dovuto alla ricostituzione delle scorte, dopo che molte aziende hanno esportato materiali oltreoceano per anticipare i dazi imposti dal presidente statunitense Donald Trump. Tuttavia, l’industria automobilistica risulta ancora debole: in quattro mesi il comparto auto ha visto una produzione di 1,45 milioni di vetture, l’1% oltre quanto realizzato nello stesso periodo 2024. Poco brillante è anche l’export, in discesa del 2,1%. L’energia risulta stabile, mentre settori chiave come i trasporti e i farmaceutici richiedono attenzione. Si tratta di capire, dunque, se sia solo un rimbalzo temporaneo o un fenomeno destinato a consolidarsi: per una ripresa strutturale, infatti, occorre affrontare il nodo energetico e la collocazione dell’Italia nel contesto economico globale.

L’aumento dei costi energetici, da un lato, e il complicato contesto commerciale causato dai dazi di Trump, dall’altro, rendono meno competitiva la produzione industriale del Belpaese, così come quella del resto d’Europa, a partire dalla Germania. Occorre, dunque, agire in direzione degli interessi nazionali cercando fonti energetiche convenienti e sostenibili e agendo sul piano diplomatico per poter mitigare i dazi voluti da Washington. In tale contesto, l’abbandono del gas russo e l’importazione di gas naturale liquefatto americano più costoso non ha giocato a favore delle industrie italiane, in particolare quelle automobilistiche. Proprio alla luce di tale scenario, l’UE – Italia compresa – sta cercando di riconvertire la produzione industriale verso il comparto bellico, soprattutto per “salvare” la disastrosa economia di Berlino. Infatti, anche se il Pil del primo trimestre è stato rivisto al rialzo a +0,4%, oltre le attese, anche la locomotiva tedesca stenta a ripartire, mentre in Francia la produzione manifatturiera ad aprile arretra dello 0,6% rispetto al mese precedente e dell’1% su base annua. Considerato il contesto generale europeo e internazionale, occorrerà aspettare i prossimi dati per capire se l’Italia si è realmente ripresa dalla crisi della produzione industriale.

PFAS nei materiali: nuovi dati allarmano per la salute dei Vigili del Fuoco

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Nuovi dati presentati alla Camera dei deputati evidenziano la presenza di Pfas, sostanze tossiche e persistenti, nel sangue e nei dispositivi di protezione dei Vigili del Fuoco di diverse città italiane. Le analisi indipendenti, condotte da USB e Greenpeace, rilevano valori superiori alla soglia di rischio, con particolare attenzione a un composto prodotto nello stabilimento di Alessandria. Gli Pfas sono risultati presenti anche nelle tute antifiamma e nelle schiume antincendio. USB chiede mappatura dei siti contaminati, sorveglianza sanitaria e una transizione verso materiali privi di Pfas, oltre al riconoscimento della categoria come esposta a potenziali malattie professionali.

Il Regno Unito e altri quattro Paesi hanno imposto sanzioni contro membri del governo israeliano

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Il Regno Unito, insieme a altre quattro nazioni, ha imposto ieri sanzioni contro due ministri del governo Netanyahu, accusandoli di aver ripetutamente incitato alla violenza contro i palestinesi in Cisgiordania. I ministri in questione sono il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Yoel Smotrich, entrambi coloni della Cisgiordania occupata. Le misure, imposte oltre che dalla Gran Bretagna, anche da Canada, Australia, Nuova Zelanda e Norvegia, includono restrizioni finanziarie mirate, divieti di viaggio nei Paesi che hanno disposto le sanzioni e il congelamento dei beni. Il ministro degli Esteri britannico David Lammy, in una dichiarazione congiunta con i ministri degli Esteri degli altri quattro Paesi, ha dichiarato che Ben-Gvir e Smotrich hanno «incitato alla violenza estremista e a gravi violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Queste azioni sono inaccettabili», aggiungendo che per questa ragione «abbiamo preso provvedimenti ora per assicurare alla giustizia i responsabili». È arrivata immediatamente la replica del ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, il quale ha dichiarato che l’azione dei cinque paesi è «scandalosa» e che il governo israeliano terrà una riunione speciale all’inizio della prossima settimana per decidere come reagire.

Nella dichiarazione congiunta rilasciata dei ministri degli esteri che hanno imposto le sanzioni si spiega che l’azione è mirata a limitare la violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania e che è rivolta esclusivamente a individui che «minano la sicurezza di Israele». Si sottolinea allo stesso tempo che le misure non potevano essere considerate isolatamente rispetto agli eventi di Gaza, dove Israele è tenuto a rispettare il diritto internazionale umanitario: «Continuiamo a essere sconvolti dall’immensa sofferenza dei civili, compresa la negazione di aiuti essenziali», ha affermato il ministro degli esteri inglese, aggiungendo che «Non deve esserci alcun trasferimento illegale di palestinesi da Gaza o all’interno della Cisgiordania, né alcuna riduzione del territorio della Striscia di Gaza». Nella dichiarazione si legge anche che «Siamo fermamente impegnati nella soluzione dei due Stati e continueremo a collaborare con i nostri partner per la sua attuazione. È l’unico modo per garantire sicurezza e dignità a israeliani e palestinesi e assicurare una stabilità a lungo termine nella regione, ma è messo a repentaglio dalla violenza dei coloni estremisti e dall’espansione degli insediamenti».

Ben-Gvir e Smotrich sono considerati due membri estremisti del governo Netanyahu, sebbene l’anima del Likud – il partito del primo ministro israeliano – sia sostanzialmente in linea con le posizioni dei due ministri. Entrambi hanno chiesto la conquista permanente di Gaza e il ripristino degli insediamenti ebraici abbandonati da Israele nel 2005. Inoltre, ritengono fondamentale espandere gli insediamenti in Cisgiordania per una questione di «sicurezza nazionale». Smotrich, intervenendo all’inaugurazione di un nuovo insediamento ebraico in Cisgiordania sulle colline di Hebron, ha parlato di «disprezzo» per la decisione della Gran Bretagna, affermando che «Siamo determinati, se Dio vuole, a continuare a costruire». Da parte sua Netanyahu ha accusato i ministri degli esteri di voler aiutare Hamas e di «essere dalla parte sbagliata della storia».

Da quasi due anni Gaza è sotto l’attacco dell’esercito israeliano, le condizioni umanitarie nella Striscia sono disperate: Israele ha posto un blocco sull’enclave palestinese, dove gli aiuti umanitari e i beni primari arrivano centellinati, creando così una grave carenza alimentare. Le strutture civili, compresi gli ospedali, sono i target principali dei bombardamenti delle IDF (Forze di difesa israeliane) con il pretesto di colpire i militanti nascosti di Hamas. Nonostante le molteplici condanne da parte dell’ONU e il disappunto di una parte consistente di nazioni, alcuni Paesi occidentali solo recentemente hanno preso parzialmente le distanze dai crimini di guerra commessi dal governo israeliano, probabilmente anche con l’obiettivo di placare il risentimento delle rispettive opinioni pubbliche. Il mese scorso, i capi di Gran Bretagna, Francia e Canada hanno fatto pressione sul governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu affinché ponesse fine al blocco degli aiuti a Gaza e Londra ha anche sospeso i colloqui di libero scambio con lo Stato ebraico per aver perseguito «politiche scandalose» nella Cisgiordania occupata e a Gaza. Proprio in questi giorni, una commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha accusato Israele di atti di «sterminio» contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza. Sebbene si tratti di provvedimenti insufficienti e tardivi, le sanzioni imposte dai Paesi occidentali segnano un cambio di rotta quasi obbligato – dati i gravissimi crimini commessi in Palestina – da parte di quelli che possono essere considerati gli alleati storici e più fedeli di Israele.

 

Dazi, Cina e USA trovano un accordo

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Stati Uniti e Cina hanno annunciato di aver trovato un accordo su un “quadro generale” nell’ambito delle discussioni sui dazi. Secondo quanto dichiarato dal viceministro del Commercio cinese Li Chenggang ai media, l’accordo sarebbe stato raggiunto “in linea di principio”. Tuttavia, poche indicazioni sono state date in merito a una risoluzione duratura delle controversie. Le due parti hanno ora tempo fino al 10 agosto per distendere le tensioni commerciali ed evitare che le aliquote tariffarie tornino a salire al 145% per gli USA e al 125% per la Cina.

I Bad Boys di Detroit: contro tutto e tutti

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Il graduale smantellamento delle fabbriche di General Motors portò, nella popolazione della Detroit anni ’70, sempre più sola e senza alternative, un sentimento di rabbia nei confronti dell’establishment statunitense. Nello stesso momento, la squadra di basket della città, i Detroit Pistons, viveva un periodo di grave difficoltà, dimostrando svogliatezza e ottenendo scarsi risultati. Il punto più basso coincise con la stagione disastrosa del 1979-80, durante la quale la squadra fece un record di sole 16 vittorie su 82 partite. 

A scuotere la situazione fu il cambio dirigenziale avvenuto nel 1979, quando l’ex giocatore e allenatore Jack McCloskey divenne direttore generale del franchise. Per iniziare la trasformazione, necessitava di un giocatore giovane che potesse rappresentare alla perfezione il progetto e sul quale costruire la fiducia della squadra e della città stessa. La possibilità di scovare questa figura si presentò con il Draft del 1982; i Pistons ebbero l’opportunità di seconda scelta tra i giovani del circuito collegiale e selezionarono il ventenne di Chicago Isiah Thomas.

Abbandonato in tenera età dal padre e cresciuto in ristrettezze economiche, Thomas si avvicinò al basket a soli tre anni. Alto poco più di un metro e ottanta, dotato di una velocità e una capacità di manipolare la palla fuori dal comune, Thomas riuscì rapidamente a prendere il comando di una squadra rimasta per troppo tempo allo sbando. Per strutturarne la spina dorsale, venne inserito come centro Bill Laimbeer, ex membro dei Cleveland Cavaliers. Anche lui di Chicago, dopo aver giocato anche nella Basket Brescia, Laimbeer avrebbe messo in atto il “lavoro sporco” in difesa. Duro, scorretto e provocatore, il nuovo centro lavorava sotto canestro per intimorire gli avversari ed elevare i giri della difesa della squadra. Per dare vita a un progetto strutturato e duraturo, però, serviva un direttore d’orchestra: nel 1983 il testimone venne raccolto da Chuck Daly, che riuscì nell’impresa di portare i Pistons ai playoff per due anni di fila, dove persero prima contro i New York Knicks e poi contro i Boston Celtics.

Il quintetto di partenza vide aggiungersi due ulteriori giocatori essenziali per il franchise: la guardia tiratrice Joe Dumars e l’aggressivo Rick Mahorn. I due, caratterialmente opposti, rappresentarono l’intenzione di raggiungere i playoff e questa volta ambire ai piani alti del campionato. Nonostante ciò, gli Atlanta Hawks infransero rapidamente i sogni di gloria, sconfiggendo i Pistons al primo turno.

L’arrivo della matricola Dennis Rodman, miglior rimbalzista della storia ed eccentrico personaggio dentro e fuori dal campo, permise di impostare un gioco ancora più duro, finalizzato all’annichilimento degli avversari. La nuova squadra, che venne presto soprannominata “Bad Boys”, raggiunse in quell’annata le prime finali di Conference della sua storia. In una serie avvincente contro i Boston Celtics, campioni in carica, i Pistons dimostrarono di potersela giocare contro chiunque, grazie a uno stile di gioco mai visto prima, dove la fisicità, la tensione e l’utilizzo di scorrettezze scuotevano anche le squadre con più qualità. La serie, conclusa a gara 7, vide la vittoria dei Celtics, trainati dai 37 punti di Larry Bird. 

L’anno successivo furono i Pistons ad avere la meglio e approdarono alle finali NBA per affrontare le stelle dei Los Angeles Lakers. Gli stili di gioco delle due squadre non potevano essere più diversi: lo showtime dei losangelini, diretto dalla qualità di Magic Johnson, contro la fisicità e l’orgoglio di Detroit. La serie si fece rapidamente avvincente e tesa, tanto da rompere il legame di amicizia che univa Johnson e Thomas. Fu quest’ultimo a compiere una delle prestazioni più leggendarie della storia del basket mondiale: durante gara 6 e sotto 3-2, Isiah Thomas, nell’atterraggio da un salto, si procurò una grave distorsione alla caviglia aprendo così la possibilità per i Lakers di chiudere la pratica e vincere il titolo. Dopo essere stato fasciato e ancora zoppicante, il leader di Detroit restò in campo e segnò 25 punti in soli 12 minuti, trascinando la sua squadra verso la vittoria e il pareggio nella serie. Nonostante lo sforzo compiuto, in gara 7 furono i Lakers ad avere la meglio, vincendo così il titolo.

Nel 1989 non ci furono rivali. Grazie all’aggiunta nel roster di Mark Aguirre, la squadra dominò la stagione, vinse le finali di Conference contro i Chicago Bulls di Michael Jordan e si prese la rivincita contro i Lakers. I Bad Boys sradicarono il dominio patinato delle squadre protagoniste del gioco per un decennio. Nel 1990 la squadra consolidò la propria supremazia, vincendo ancora una volta contro un incontenibile Michael Jordan e riconfermandosi campioni contro i Portland Trail Blazers. La magia terminò con quel titolo. Dopo le finali di conference del 1991, che videro lo schiacciante 4-0 dei Bulls e la scelta di abbandonare il campo a sette secondi dalla fine senza salutare gli avversari, i Bad Boys svanirono. Chuck Daly passò a New Jersey, il manager McCloskey a New York, Dennis Rodman finì ai San Antonio Spurs, dopo una rissa in allenamento contro l’amico Isiah, Bill Laimbeer decise per il ritiro e il leader Isiah Thomas si ritirò dopo la rottura del tendine d’Achille. 

Ebbe così fine l’era del gioco duro. Il successo di questo gruppo non fu significativo solo per la NBA, ma rappresentò il sogno di rivalsa di un’intera città. Davanti alle squadre più pettinate e opulente, i Pistons furono il simbolo dell’orgoglio e della fiducia di squadra: duri, scorretti e cattivi, i Bad Boys furono il bastone tra le ruote dell’establishment e della ricchezza.

A Panama continuano le proteste di massa contro multinazionali e governo neoliberista

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Sono almeno 34 gli agenti gravemente feriti nelle proteste che stanno attraversando Panama da oltre un mese e mezzo. Alle radici della protesta vi è l’approvazione del disegno di legge di sicurezza sociale 462, la quale introduce modifiche al fondo di previdenza sociale che potrebbero portare a una riduzione delle pensioni. Gli scioperi e le proteste dei lavoratori hanno spinto la multinazionale Chiquita a licenziare circa 7 mila dipendenti delle piantagioni, dopo aver dichiarato che le proteste hanno causato un danno all’azienda di almeno 75 milioni di dollari. Nel frattempo, le comunità indigene hanno dato il via a una protesta contro l’intenzione del governo di riaprire la miniera a cielo aperto più grande del Centroamerica, situata nel territorio di Ngäbe-Buglé. A ciò si aggiunge il malcontento per il memorandum siglato con gli Stati Uniti, che autorizza una maggior presenza di militari statunitensi nell’isola. Le profonde spaccature tra il governo e la società civile stanno causando, da oltre un mese e mezzo, alcune delle proteste più intense che abbiano attraversato il piccolo Stato da molti decenni a questa parte.

Le rivolte più intense si sono registrate nella provincia di Bocas del Toro e nella Comunità Arimae, nella Regione di Darién. Qui, il Difensore Civico ha denunciato ieri, martedì 10 giugno, l’uso eccessivo di gas lacrimogeni contro la comunità, la stessa dove un membro del Servizio Nazionale della Frontiera è stato ferito gravemente. Qui, come a Bocas del Toro, la comunità aveva sbarrato le vie d’accesso al centro cittadino per impedire il passaggio degli agenti, ma queste sono state mano a mano rimosse, tanto che il Difensore ha invitato la polizia ad astenersi dal fare irruzione nella comunità, oltre ad invitare la popolazione a diffidare delle informazioni dei media in quanto potrebbero riportare informazioni errate su morti e feriti – scatenando così nuove proteste.

Nell’arco dell’ultimo mese, i manifestanti hanno messo in atto blocchi stradali, disertato il lavoro nei campi e dato il via a lunghe marce di protesta, con danni significativi ai trasporti e all’approvvigionamento di beni, contro la legge che riforma il funzionamento della Cassa di Previdenza Sociale (CSS) panamense. Secondo alcuni imprenditori, l’impatto economico e sociale delle proteste sta portando la provincia di Bocas “sull’orlo del collasso”, con un forte impatto economico e sociale sulla popolazione locale. L’economia del luogo dipende infatti in larga parte dall’industria bananiera e dal turismo, entrambe messi sotto grave minaccia dalle rivolte. La Camera del Commercio ha annunciato il rischio di “collasso” dell’intera attività economica di Bocas.

Eppure, le proteste non si fermano. Ad essere contestata è, in particolare, la legge 462, che riforma il sistema pensionistico “garantendo la pensione a tutti”. Secondo il governo, infatti, misure urgenti erano necessarie dal momento che la CSS si trova sull’orlo del “collasso finanziario”, necessitando quindi iniziative contro l’evasione fiscale e per una gestione “efficiente e trasparente” che, assicura il governo, non altererà alcuna pensione e “non privatizzerà” la Cassa. Nell’annunciare l’approvazione della misura, lo scorso 18 marzo, Mulino ha dichiarato un piano di riattivazione di opere a livello nazionale e di nuovi investimenti, che avrebbero dovuto generare 10 mila posti di lavoro rafforzando la base contributiva alla CSS (secondo quanto riferisce il governo, infatti, circa la metà della popolazione panamense in età adulta non pagherebbe i contributi). La legge, che intende mantenere l’età pensionabile a 62 anni per gli uomini e 57 per le donne, garantisce anche che i fondi per l’istruzione non verranno privatizzati (il 90% sarà gestito dalla Banca Nazionale, il restante 10% da altre banche).

Eppure, secondo i critici della riforma, ci sono alte probabilità che questa vada a impattare negativamente sulle pensioni, col rischio di aumentare l’età pensionabile dei lavoratori. A ribellarsi, in particolar modo, sono stati i dipendenti della multinazionale Chiquita, la quale ha annunciato il licenziamento di migliaia di lavoratori delle piantagioni (7 mila, secondo i media) a seguito di un danno di almeno 75 milioni di dollari causato dalle proteste. Ieri, 10 giugno, è iniziato il primo round di colloqui con il Sindacato dei Lavoratori dell’Industria Bananiera (Sitraibana) all’interno dell’Assemblea Nazionale.

In questo contesto di forte tensione sociale, Panama e gli Stati Uniti hanno siglato un memorandum che autorizza Washington a inviare contingenti di forze di sicurezza, che saranno libere di realizzare “attività umanitarie” o di altro tipo, secondo la necessità. Un accordo che sembra giungere giusto in tempo per assicurare la tutela degli interessi del governo e delle multinazionali, a fronte del profondo scontento sociale che smuove lo Stato. Proprio nelle scorse settimane, infatti, la possibile riapertura della miniera di proprietà della canadese First Quantum Minerals ha messo in allarme la comunità di Ngäbe-Buglé, dove si concentra la maggior parte della popolazione indigena dell’isola.

Il Congo ha concluso con successo una storica reintroduzione di gorilla in natura

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Quattro femmine di gorilla di pianura orientale, salvate da piccole dal commercio illegale e riabilitate per anni, sono state rilasciate con successo nel Parco nazionale Virunga nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), e, a meno di un anno dal trasferimento, si sono integrate spontaneamente con un gruppo di gorilla selvatici, dando vita a quella che viene considerata la più ampia reintroduzione mai tentata per questa sottospecie in grave pericolo di estinzione. Lo rivelano i conservazionisti del centro GRACE – il Gorilla Rehabilitation and Conservation Education Center, dedicato alla cura...

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