martedì 1 Luglio 2025
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Il Regno Unito e altri quattro Paesi hanno imposto sanzioni contro membri del governo israeliano

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Il Regno Unito, insieme a altre quattro nazioni, ha imposto ieri sanzioni contro due ministri del governo Netanyahu, accusandoli di aver ripetutamente incitato alla violenza contro i palestinesi in Cisgiordania. I ministri in questione sono il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Yoel Smotrich, entrambi coloni della Cisgiordania occupata. Le misure, imposte oltre che dalla Gran Bretagna, anche da Canada, Australia, Nuova Zelanda e Norvegia, includono restrizioni finanziarie mirate, divieti di viaggio nei Paesi che hanno disposto le sanzioni e il congelamento dei beni. Il ministro degli Esteri britannico David Lammy, in una dichiarazione congiunta con i ministri degli Esteri degli altri quattro Paesi, ha dichiarato che Ben-Gvir e Smotrich hanno «incitato alla violenza estremista e a gravi violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Queste azioni sono inaccettabili», aggiungendo che per questa ragione «abbiamo preso provvedimenti ora per assicurare alla giustizia i responsabili». È arrivata immediatamente la replica del ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, il quale ha dichiarato che l’azione dei cinque paesi è «scandalosa» e che il governo israeliano terrà una riunione speciale all’inizio della prossima settimana per decidere come reagire.

Nella dichiarazione congiunta rilasciata dei ministri degli esteri che hanno imposto le sanzioni si spiega che l’azione è mirata a limitare la violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania e che è rivolta esclusivamente a individui che «minano la sicurezza di Israele». Si sottolinea allo stesso tempo che le misure non potevano essere considerate isolatamente rispetto agli eventi di Gaza, dove Israele è tenuto a rispettare il diritto internazionale umanitario: «Continuiamo a essere sconvolti dall’immensa sofferenza dei civili, compresa la negazione di aiuti essenziali», ha affermato il ministro degli esteri inglese, aggiungendo che «Non deve esserci alcun trasferimento illegale di palestinesi da Gaza o all’interno della Cisgiordania, né alcuna riduzione del territorio della Striscia di Gaza». Nella dichiarazione si legge anche che «Siamo fermamente impegnati nella soluzione dei due Stati e continueremo a collaborare con i nostri partner per la sua attuazione. È l’unico modo per garantire sicurezza e dignità a israeliani e palestinesi e assicurare una stabilità a lungo termine nella regione, ma è messo a repentaglio dalla violenza dei coloni estremisti e dall’espansione degli insediamenti».

Ben-Gvir e Smotrich sono considerati due membri estremisti del governo Netanyahu, sebbene l’anima del Likud – il partito del primo ministro israeliano – sia sostanzialmente in linea con le posizioni dei due ministri. Entrambi hanno chiesto la conquista permanente di Gaza e il ripristino degli insediamenti ebraici abbandonati da Israele nel 2005. Inoltre, ritengono fondamentale espandere gli insediamenti in Cisgiordania per una questione di «sicurezza nazionale». Smotrich, intervenendo all’inaugurazione di un nuovo insediamento ebraico in Cisgiordania sulle colline di Hebron, ha parlato di «disprezzo» per la decisione della Gran Bretagna, affermando che «Siamo determinati, se Dio vuole, a continuare a costruire». Da parte sua Netanyahu ha accusato i ministri degli esteri di voler aiutare Hamas e di «essere dalla parte sbagliata della storia».

Da quasi due anni Gaza è sotto l’attacco dell’esercito israeliano, le condizioni umanitarie nella Striscia sono disperate: Israele ha posto un blocco sull’enclave palestinese, dove gli aiuti umanitari e i beni primari arrivano centellinati, creando così una grave carenza alimentare. Le strutture civili, compresi gli ospedali, sono i target principali dei bombardamenti delle IDF (Forze di difesa israeliane) con il pretesto di colpire i militanti nascosti di Hamas. Nonostante le molteplici condanne da parte dell’ONU e il disappunto di una parte consistente di nazioni, alcuni Paesi occidentali solo recentemente hanno preso parzialmente le distanze dai crimini di guerra commessi dal governo israeliano, probabilmente anche con l’obiettivo di placare il risentimento delle rispettive opinioni pubbliche. Il mese scorso, i capi di Gran Bretagna, Francia e Canada hanno fatto pressione sul governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu affinché ponesse fine al blocco degli aiuti a Gaza e Londra ha anche sospeso i colloqui di libero scambio con lo Stato ebraico per aver perseguito «politiche scandalose» nella Cisgiordania occupata e a Gaza. Proprio in questi giorni, una commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha accusato Israele di atti di «sterminio» contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza. Sebbene si tratti di provvedimenti insufficienti e tardivi, le sanzioni imposte dai Paesi occidentali segnano un cambio di rotta quasi obbligato – dati i gravissimi crimini commessi in Palestina – da parte di quelli che possono essere considerati gli alleati storici e più fedeli di Israele.

 

Dazi, Cina e USA trovano un accordo

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Stati Uniti e Cina hanno annunciato di aver trovato un accordo su un “quadro generale” nell’ambito delle discussioni sui dazi. Secondo quanto dichiarato dal viceministro del Commercio cinese Li Chenggang ai media, l’accordo sarebbe stato raggiunto “in linea di principio”. Tuttavia, poche indicazioni sono state date in merito a una risoluzione duratura delle controversie. Le due parti hanno ora tempo fino al 10 agosto per distendere le tensioni commerciali ed evitare che le aliquote tariffarie tornino a salire al 145% per gli USA e al 125% per la Cina.

I Bad Boys di Detroit: contro tutto e tutti

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Il graduale smantellamento delle fabbriche di General Motors portò, nella popolazione della Detroit anni ’70, sempre più sola e senza alternative, un sentimento di rabbia nei confronti dell’establishment statunitense. Nello stesso momento, la squadra di basket della città, i Detroit Pistons, viveva un periodo di grave difficoltà, dimostrando svogliatezza e ottenendo scarsi risultati. Il punto più basso coincise con la stagione disastrosa del 1979-80, durante la quale la squadra fece un record di sole 16 vittorie su 82 partite. 

A scuotere la situazione fu il cambio dirigenziale avvenuto nel 1979, quando l’ex giocatore e allenatore Jack McCloskey divenne direttore generale del franchise. Per iniziare la trasformazione, necessitava di un giocatore giovane che potesse rappresentare alla perfezione il progetto e sul quale costruire la fiducia della squadra e della città stessa. La possibilità di scovare questa figura si presentò con il Draft del 1982; i Pistons ebbero l’opportunità di seconda scelta tra i giovani del circuito collegiale e selezionarono il ventenne di Chicago Isiah Thomas.

Abbandonato in tenera età dal padre e cresciuto in ristrettezze economiche, Thomas si avvicinò al basket a soli tre anni. Alto poco più di un metro e ottanta, dotato di una velocità e una capacità di manipolare la palla fuori dal comune, Thomas riuscì rapidamente a prendere il comando di una squadra rimasta per troppo tempo allo sbando. Per strutturarne la spina dorsale, venne inserito come centro Bill Laimbeer, ex membro dei Cleveland Cavaliers. Anche lui di Chicago, dopo aver giocato anche nella Basket Brescia, Laimbeer avrebbe messo in atto il “lavoro sporco” in difesa. Duro, scorretto e provocatore, il nuovo centro lavorava sotto canestro per intimorire gli avversari ed elevare i giri della difesa della squadra. Per dare vita a un progetto strutturato e duraturo, però, serviva un direttore d’orchestra: nel 1983 il testimone venne raccolto da Chuck Daly, che riuscì nell’impresa di portare i Pistons ai playoff per due anni di fila, dove persero prima contro i New York Knicks e poi contro i Boston Celtics.

Il quintetto di partenza vide aggiungersi due ulteriori giocatori essenziali per il franchise: la guardia tiratrice Joe Dumars e l’aggressivo Rick Mahorn. I due, caratterialmente opposti, rappresentarono l’intenzione di raggiungere i playoff e questa volta ambire ai piani alti del campionato. Nonostante ciò, gli Atlanta Hawks infransero rapidamente i sogni di gloria, sconfiggendo i Pistons al primo turno.

L’arrivo della matricola Dennis Rodman, miglior rimbalzista della storia ed eccentrico personaggio dentro e fuori dal campo, permise di impostare un gioco ancora più duro, finalizzato all’annichilimento degli avversari. La nuova squadra, che venne presto soprannominata “Bad Boys”, raggiunse in quell’annata le prime finali di Conference della sua storia. In una serie avvincente contro i Boston Celtics, campioni in carica, i Pistons dimostrarono di potersela giocare contro chiunque, grazie a uno stile di gioco mai visto prima, dove la fisicità, la tensione e l’utilizzo di scorrettezze scuotevano anche le squadre con più qualità. La serie, conclusa a gara 7, vide la vittoria dei Celtics, trainati dai 37 punti di Larry Bird. 

L’anno successivo furono i Pistons ad avere la meglio e approdarono alle finali NBA per affrontare le stelle dei Los Angeles Lakers. Gli stili di gioco delle due squadre non potevano essere più diversi: lo showtime dei losangelini, diretto dalla qualità di Magic Johnson, contro la fisicità e l’orgoglio di Detroit. La serie si fece rapidamente avvincente e tesa, tanto da rompere il legame di amicizia che univa Johnson e Thomas. Fu quest’ultimo a compiere una delle prestazioni più leggendarie della storia del basket mondiale: durante gara 6 e sotto 3-2, Isiah Thomas, nell’atterraggio da un salto, si procurò una grave distorsione alla caviglia aprendo così la possibilità per i Lakers di chiudere la pratica e vincere il titolo. Dopo essere stato fasciato e ancora zoppicante, il leader di Detroit restò in campo e segnò 25 punti in soli 12 minuti, trascinando la sua squadra verso la vittoria e il pareggio nella serie. Nonostante lo sforzo compiuto, in gara 7 furono i Lakers ad avere la meglio, vincendo così il titolo.

Nel 1989 non ci furono rivali. Grazie all’aggiunta nel roster di Mark Aguirre, la squadra dominò la stagione, vinse le finali di Conference contro i Chicago Bulls di Michael Jordan e si prese la rivincita contro i Lakers. I Bad Boys sradicarono il dominio patinato delle squadre protagoniste del gioco per un decennio. Nel 1990 la squadra consolidò la propria supremazia, vincendo ancora una volta contro un incontenibile Michael Jordan e riconfermandosi campioni contro i Portland Trail Blazers. La magia terminò con quel titolo. Dopo le finali di conference del 1991, che videro lo schiacciante 4-0 dei Bulls e la scelta di abbandonare il campo a sette secondi dalla fine senza salutare gli avversari, i Bad Boys svanirono. Chuck Daly passò a New Jersey, il manager McCloskey a New York, Dennis Rodman finì ai San Antonio Spurs, dopo una rissa in allenamento contro l’amico Isiah, Bill Laimbeer decise per il ritiro e il leader Isiah Thomas si ritirò dopo la rottura del tendine d’Achille. 

Ebbe così fine l’era del gioco duro. Il successo di questo gruppo non fu significativo solo per la NBA, ma rappresentò il sogno di rivalsa di un’intera città. Davanti alle squadre più pettinate e opulente, i Pistons furono il simbolo dell’orgoglio e della fiducia di squadra: duri, scorretti e cattivi, i Bad Boys furono il bastone tra le ruote dell’establishment e della ricchezza.

A Panama continuano le proteste di massa contro multinazionali e governo neoliberista

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Sono almeno 34 gli agenti gravemente feriti nelle proteste che stanno attraversando Panama da oltre un mese e mezzo. Alle radici della protesta vi è l’approvazione del disegno di legge di sicurezza sociale 462, la quale introduce modifiche al fondo di previdenza sociale che potrebbero portare a una riduzione delle pensioni. Gli scioperi e le proteste dei lavoratori hanno spinto la multinazionale Chiquita a licenziare circa 7 mila dipendenti delle piantagioni, dopo aver dichiarato che le proteste hanno causato un danno all’azienda di almeno 75 milioni di dollari. Nel frattempo, le comunità indigene hanno dato il via a una protesta contro l’intenzione del governo di riaprire la miniera a cielo aperto più grande del Centroamerica, situata nel territorio di Ngäbe-Buglé. A ciò si aggiunge il malcontento per il memorandum siglato con gli Stati Uniti, che autorizza una maggior presenza di militari statunitensi nell’isola. Le profonde spaccature tra il governo e la società civile stanno causando, da oltre un mese e mezzo, alcune delle proteste più intense che abbiano attraversato il piccolo Stato da molti decenni a questa parte.

Le rivolte più intense si sono registrate nella provincia di Bocas del Toro e nella Comunità Arimae, nella Regione di Darién. Qui, il Difensore Civico ha denunciato ieri, martedì 10 giugno, l’uso eccessivo di gas lacrimogeni contro la comunità, la stessa dove un membro del Servizio Nazionale della Frontiera è stato ferito gravemente. Qui, come a Bocas del Toro, la comunità aveva sbarrato le vie d’accesso al centro cittadino per impedire il passaggio degli agenti, ma queste sono state mano a mano rimosse, tanto che il Difensore ha invitato la polizia ad astenersi dal fare irruzione nella comunità, oltre ad invitare la popolazione a diffidare delle informazioni dei media in quanto potrebbero riportare informazioni errate su morti e feriti – scatenando così nuove proteste.

Nell’arco dell’ultimo mese, i manifestanti hanno messo in atto blocchi stradali, disertato il lavoro nei campi e dato il via a lunghe marce di protesta, con danni significativi ai trasporti e all’approvvigionamento di beni, contro la legge che riforma il funzionamento della Cassa di Previdenza Sociale (CSS) panamense. Secondo alcuni imprenditori, l’impatto economico e sociale delle proteste sta portando la provincia di Bocas “sull’orlo del collasso”, con un forte impatto economico e sociale sulla popolazione locale. L’economia del luogo dipende infatti in larga parte dall’industria bananiera e dal turismo, entrambe messi sotto grave minaccia dalle rivolte. La Camera del Commercio ha annunciato il rischio di “collasso” dell’intera attività economica di Bocas.

Eppure, le proteste non si fermano. Ad essere contestata è, in particolare, la legge 462, che riforma il sistema pensionistico “garantendo la pensione a tutti”. Secondo il governo, infatti, misure urgenti erano necessarie dal momento che la CSS si trova sull’orlo del “collasso finanziario”, necessitando quindi iniziative contro l’evasione fiscale e per una gestione “efficiente e trasparente” che, assicura il governo, non altererà alcuna pensione e “non privatizzerà” la Cassa. Nell’annunciare l’approvazione della misura, lo scorso 18 marzo, Mulino ha dichiarato un piano di riattivazione di opere a livello nazionale e di nuovi investimenti, che avrebbero dovuto generare 10 mila posti di lavoro rafforzando la base contributiva alla CSS (secondo quanto riferisce il governo, infatti, circa la metà della popolazione panamense in età adulta non pagherebbe i contributi). La legge, che intende mantenere l’età pensionabile a 62 anni per gli uomini e 57 per le donne, garantisce anche che i fondi per l’istruzione non verranno privatizzati (il 90% sarà gestito dalla Banca Nazionale, il restante 10% da altre banche).

Eppure, secondo i critici della riforma, ci sono alte probabilità che questa vada a impattare negativamente sulle pensioni, col rischio di aumentare l’età pensionabile dei lavoratori. A ribellarsi, in particolar modo, sono stati i dipendenti della multinazionale Chiquita, la quale ha annunciato il licenziamento di migliaia di lavoratori delle piantagioni (7 mila, secondo i media) a seguito di un danno di almeno 75 milioni di dollari causato dalle proteste. Ieri, 10 giugno, è iniziato il primo round di colloqui con il Sindacato dei Lavoratori dell’Industria Bananiera (Sitraibana) all’interno dell’Assemblea Nazionale.

In questo contesto di forte tensione sociale, Panama e gli Stati Uniti hanno siglato un memorandum che autorizza Washington a inviare contingenti di forze di sicurezza, che saranno libere di realizzare “attività umanitarie” o di altro tipo, secondo la necessità. Un accordo che sembra giungere giusto in tempo per assicurare la tutela degli interessi del governo e delle multinazionali, a fronte del profondo scontento sociale che smuove lo Stato. Proprio nelle scorse settimane, infatti, la possibile riapertura della miniera di proprietà della canadese First Quantum Minerals ha messo in allarme la comunità di Ngäbe-Buglé, dove si concentra la maggior parte della popolazione indigena dell’isola.

Il Congo ha concluso con successo una storica reintroduzione di gorilla in natura

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Quattro femmine di gorilla di pianura orientale, salvate da piccole dal commercio illegale e riabilitate per anni, sono state rilasciate con successo nel Parco nazionale Virunga nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), e, a meno di un anno dal trasferimento, si sono integrate spontaneamente con un gruppo di gorilla selvatici, dando vita a quella che viene considerata la più ampia reintroduzione mai tentata per questa sottospecie in grave pericolo di estinzione. Lo rivelano i conservazionisti del centro GRACE – il Gorilla Rehabilitation and Conservation Education Center, dedicato alla cura...

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Trump ha ufficialmente riaperto la corsa delle trivelle nella natura dell’Alaska

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L’amministrazione Trump ha annunciato la revoca del divieto di trivellazione su oltre 9 milioni di ettari nella Riserva Petrolifera Nazionale in Alaska, imposto da Joe Biden nel 2023. Il segretario degli Interni, omologo del nostro Ministro dell’Ambiente, Doug Burgum, ha dichiarato che l’energia nazionale è prioritaria rispetto alla conservazione ambientale. Il provvedimento riapre così vasti territori ad attività estrattive, sia petrolifere che minerarie, suscitando dure critiche da gruppi ambientalisti e comunità indigene, i quali temono danni permanenti a biodiversità e risorse vitali. L’area interessata, tra le più selvagge degli Stati Uniti, è habitat di caribù, orsi polari e uccelli migratori ed è storicamente centrale per la sussistenza delle popolazioni locali.

La decisione è stata resa pubblica durante una visita ufficiale in Alaska, dove Burgum – affiancato dall’amministratore dell’Agenzia per la protezione ambientale Lee Zeldin e dal segretario all’Energia Chris Wright – ha ribadito l’impegno della nuova amministrazione a “rimuovere ostacoli regolatori” e a “sbloccare il potenziale energetico nazionale”. «L’America ha bisogno di energia, non di ostruzionismo burocratico», ha affermato Burgum, in linea con il ritorno alla Casa Bianca del presidente Trump, che già nei primi giorni del suo secondo mandato ha dichiarato una “emergenza energetica nazionale” e firmato una serie di ordini esecutivi a favore dell’industria dei combustibili fossili. Tra questi, figura proprio l’annullamento di uno dei principali provvedimenti ambientali adottati sotto l’amministrazione Biden: il blocco delle trivellazioni su oltre 13 milioni di ettari della National Petroleum Reserve-Alaska e la negazione del permesso per la costruzione di una strada industriale di 340 chilometri attraverso il Gates of the Arctic National Park, richiesta per l’accesso a un giacimento di rame dal valore stimato di 7,5 miliardi di dollari. L’annuncio faceva parte di un pacchetto di misure con cui Biden intendeva rafforzare la propria eredità in materia di clima e conservazione, dopo le critiche ricevute per l’approvazione del contestato progetto petrolifero Willow. «Le terre e le acque dell’Alaska sono tra i paesaggi più straordinari e sani del pianeta», aveva dichiarato Biden all’epoca. «Sostengono un’economia di sussistenza vitale per le comunità native».

Ora, l’inversione di rotta dell’esecutivo Trump riporta tutto al punto di partenza. Ma la risposta delle organizzazioni ambientaliste non si è fatta attendere. «Questo è l’ennesimo tentativo oltraggioso di svendere terre pubbliche ai miliardari dell’industria petrolifera, sacrificando una delle ultime regioni veramente selvagge degli Stati Uniti», ha affermato Kristen Miller, direttrice dell’Alaska Wilderness League. «Queste terre sono fondamentali per la sopravvivenza di specie minacciate e per le comunità indigene che da generazioni ne dipendono. Non resteremo in silenzio mentre vengono smantellate le tutele conquistate». Tuttavia, nonostante l’aggressiva strategia pro-estrazioni, i mercati non sembrano reagire con entusiasmo. L’asta per le concessioni nell’Arctic National Wildlife Refuge, altro territorio simbolo del nord estremo, è rimasta senza offerte all’inizio dell’anno. «Ci sono luoghi troppo preziosi per essere trivellati», aveva commentato allora Laura Daniel-Davis, vice segretaria ad interim del Dipartimento degli Interni. Già nel 2021 un’asta nello stesso territorio aveva raccolto offerte soltanto per 12 dei 22 blocchi resi disponibili, circa la metà della superficie totale. Assenti le maggiori compagnie e gruppi petroliferi, solo alcune le società private che avevano mostrato interesse nelle concessioni acquisendo due blocchi. I 9 restanti erano stati vinti dallo stesso governo dell’Alaska a nome di un’agenzia statale molto criticata dagli ambientalisti, l’Alaska Industrial Development and Export Authority. I blocchi invenduti erano quindi stati ritirati dall’asta, che si era conclusa con una vendita di appena 14,4 milioni di dollari, un risultato ben lontano dalle cifre previste. Le ragioni di un tale disinteresse da parte dell’industria petrolifera potrebbero essere diverse, tra cui minori guadagni, rifiuto di finanziamenti in trivellazioni dalle banche, opposizioni ambientaliste e civili e timori per una politica più restrittiva nel settore.

La mossa dell’amministrazione Trump è destinata comunque ad aprire un fronte legale complesso, con probabili ricorsi da parte di ONG, comunità indigene e stati guidati dai democratici. Lo scontro tra interessi economici e tutela ambientale, in Alaska, è appena ricominciato. La linea dell’attuale governo è però chiara: si punta sull’espansione della produzione energetica interna, ignorando completamente le ripercussioni sul sistema socio-economico che deriverebbero dalla compromissione di ecosistemi e biodiversità.

Gaza, Regno Unito sanziona due ministri israeliani: “Incitano a violenza”

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Il Regno Unito ha imposto sanzioni ai ministri israeliani Itamar Ben-Gvir (Sicurezza nazionale) e Bezalel Smotrich (Finanze), accusandoli di aver incitato a «violenze estremiste e gravi abusi dei diritti umani» contro i palestinesi. Le misure includono il divieto di ingresso nel paese e il congelamento di eventuali beni. Ben-Gvir ha più volte sostenuto l’espulsione dei civili da Gaza e si è opposto a un cessate il fuoco. Smotrich promuove l’annessione di fatto della Cisgiordania, sostenendo che Gaza vada «distrutta completamente» e i civili trasferiti altrove. Israele ha definito «vergognosa» la decisione britannica, che arriva mentre le tensioni nella regione restano altissime.

Palestine Action: la mobilitazione dal basso che fa tremare l’occupazione

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Nulla sembra scalfire il sostegno occidentale all’alleato sionista, dimostrato con il reiterato invio di armi e il mancato rispetto del mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale ai danni del premier israeliano Netanyahu. Eppure, la pressione popolare ha portato, nell’ultimo anno, molti Stati europei a riconoscere lo Stato di Palestina, tante istituzioni e università a cessare gli accordi di cooperazione con Israele e decine di aziende multinazionali ad abbandonare i propri rapporti con l’occupazione. Le azioni di boicottaggio sono infatti state talmente incisive da farne vacil...

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Grecia, tribunale revoca seggio a 3 parlamentari di estrema destra

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Un tribunale greco ha revocato i seggi parlamentari a tre deputati dell’estrema destra (partito Spartans), eletti nel 2023, accusandoli di aver ingannato gli elettori. La sentenza riduce i seggi in Parlamento da 300 a 297, abbassando a 149 la maggioranza assoluta. Il tribunale ha stabilito che il partito era guidato indirettamente da un condannato – ex leader di Alba Dorata, partito dal 2020 considerato fuorilegge -, violando la legge greca che vieta a partiti con leader condannati per gravi reati di partecipare alle elezioni. Non saranno necessarie nuove elezioni. Il governo conservatore, con 155 seggi, mantiene la maggioranza.

Attivisti sorvegliati e giornalisti spiati dallo Stato italiano: le versioni non tornano

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Il Copasir ha pubblicato la relazione finale sul cosiddetto “caso Paragon”, fornendo la versione ufficiale del Governo circa i rapporti tra lo Stato italiano e lo spyware Graphite, utilizzato per spiare illegalmente giornalisti e attivisti. Il documento offre alcune risposte, tuttavia lascia ampi margini di ambiguità, i quali sono ulteriormente acuiti dal fatto che, a pochi giorni dalla pubblicazione, la stessa azienda produttrice del software – Paragon Solutions – ha diffuso una nota che non combacia con la narrazione fornita da Roma.

Da che, a inizio anno, il direttore di Fanpage Francesco Cancellato ha scoperto di essere stato sorvegliato tramite un programma a uso esclusivo dei governi, lo Stato italiano ha gestito questa crisi adottando un atteggiamento contraddittorio e poco trasparente, spendendo più energie nello scagionarsi piuttosto che nel fare chiarezza su chi abbia effettivamente messo sotto controllo le vittime. A indagare è stato infine il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), il quale ha condotto un’istruttoria a porte chiuse.

Gli esiti dell’inchiesta hanno rivelato che Paragon Solutions aveva stipulato un contratto di fornitura con i servizi segreti italiani, autorizzando l’uso di Graphite all’AISE (per le operazioni all’estero) e all’AISI (per quelle interne), con la clausola esplicita che ne vietava l’impiego “contro giornalisti e attivisti per i diritti umani”. Secondo quanto ricostruito nella relazione, il 14 febbraio 2025, “a seguito del clamore mediatico”, il Governo avrebbe dunque deciso di sospendere temporaneamente il contratto con Paragon, per poi rescinderlo in via definitiva il 12 aprile.

Il Copasir esplicita nero su bianco che figure chiave dell’ONG Mediterranea Saving Humans, quali Luca Casarini e Beppe Caccia, sono sotto intercettazione ormai da anni. Le prime attività di sorveglianza risalgono al 2019 e sono state autorizzate dal Governo Conte, queste sono state seguite da un secondo ciclo “di natura più ampia” che si è protratto dal maggio 2020 al maggio 2024. L’impiego di Graphite è stato autorizzato il 5 settembre 2024 dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Secondo il Copasir, tale utilizzo sarebbe legittimo, poiché “tali soggetti sono stati sottoposti ad attività intercettiva non in qualità di attivisti per i diritti umani, ma in riferimento alle loro attività potenzialmente relative all’immigrazione irregolare”.

Il Governo, quindi, ammette di aver monitorato alcuni attivisti, ma rivendica la legittimità dell’operazione. Al contempo, nega di aver mai spiato Cancellato, dando a intendere che il suo telefono possa essere stato compromesso da entità straniere. Tuttavia, la relazione precisa che non è possibile stabilire con certezza chi abbia spiato il giornalista, poiché Paragon Solutions “non avrebbe accesso e non sarebbe a conoscenza dell’identità dei soggetti che vengono presi di mira dai clienti o dei dati che vengono registrati dal suo dispositivo”.

Paragon Solutions, da parte sua, ha replicato con una versione dei fatti diversa. In una dichiarazione riportata da Haaretz, l’azienda ha affermato di aver “offerto sia al Governo italiano che al Parlamento un metodo per determinare se i suoi sistemi siano stati impiegati contro il giornalista”, ma – dal momento che “le autorità italiane hanno deciso di non procedere con questa soluzione, Paragon ha terminato il suo contratto con l’Italia”. 

Fonti dell’intelligence, citate da Fanpage, hanno a loro volta risposto alle implicite accuse di Paragon, definendo “inaccettabile la proposta di Paragon di effettuare una verifica sui log di sistema delle piattaforme Graphite in uso ad Aise e Aisi, in quanto pratiche invasive, non verificabili nell’ampiezza, nei risultati e nel metodo e, pertanto, non conformi alle esigenze di sicurezza nazionale”. Il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), invece, ha negato qualsiasi rifiuto alla collaborazione, sostenendo che siano stati eseguiti tutti gli accertamenti del caso e sottolineando che la cessazione del rapporto con Paragon è avvenuta “di comune accordo”.