Palombo, verdesca o gattuccio: varietà di pesce il cui consumo è molto diffuso anche in Italia, al punto che tra il 2017 e il 2023 ne sono state commercializzate oltre 43 mila tonnellate. A sorprendere, tuttavia, è che secondo quanto rivelato da un sondaggio, pubblicato sulla rivista scientifica Marine Policy, due consumatori su tre non hanno alcuna idea che si tratti di tipi di squalo commercializzati spesso con scarsa tracciabilità ed etichette fuorvianti. Una questione che non è solo etica, ma di forte impatto sul predatore dei mari: oltre la metà delle 86 specie di squalo presenti nel mar Mediterraneo è infatti classificata a rischio di estinzione. E questo avviene nonostante la loro cattura all’interno dei mari europei sia formalmente vietata.
In occasione della Giornata mondiale degli squali, il WWF Italia ha evidenziato un fenomeno allarmante: come attestato da una ricerca pubblicata su Marine Policy, nel continente europeo Spagna, Portogallo e Italia sono non solo importatori ma veri e propri hub di redistribuzione di carne di squalo. Un paradosso a fronte di politiche europee di conservazione marina: l’Unione, infatti, si impegna nella tutela e promuove regolamenti come il fins naturally attached, che vieta la pesca delle pinne, ma i controlli restano insufficienti. Nel mondo sono circa 100 milioni gli squali che ogni anno vengono uccisi per carne, pinne, olio, cartilagine e pelle. Nell’ultimo mezzo secolo il 37% delle specie di squali e razze è minacciato di estinzione, con il Mar Mediterraneo che vede una situazione assai critica: tra le 86 specie note di elasmobranchi che vi abitano, oltre la metà è a rischio estinzione.
«Etichettatura e tracciabilità sono spesso carenti e le violazioni frequenti», ha avvertito il WWF. Da un sondaggio parallelo condotto su oltre 600 cittadini milanesi, pubblicato anch’esso su Marine Policy, è emerso che il 64% di essi non sapeva che la carne di squalo fosse legalmente venduta in Italia; il 93% ha dichiarato di non averla mai comprata, ma il 28% ha ammesso di aver consumato palombo, verdesca o gattuccio senza sapere che fossero squali. Solo il 30% era a conoscenza dei rischi per la salute, legati all’accumulo di metalli pesanti. «Tra le specie più vendute troviamo squali in pericolo come verdesca, palombo, spinarolo e smeriglio», spiegano gli esperti del WWF Italia. Il consumatore, in larga parte ignaro, spesso trova sul mercato prodotti con nomi locali fuorvianti e generici che non rivelano la natura predatoria e il rischio estinzione delle specie.
Per invertire la rotta, il WWF – partner del progetto cofinanziato dall’Unione Europea LIFE Prometeus, che punta a migliorare lo stato di conservazione di squali e razze nel Mediterraneo attraverso un approccio integrato – chiede ai consumatori maggiore attenzione alle etichette: leggere sempre denominazione commerciale e scientifica, zona di cattura e metodo di pesca, ed evitare prodotti senza tracciabilità. L’organizzazione «chiede ai cittadini dire no al consumo di squali e razze, almeno finché non vengano messe in atto misure di gestione efficaci per garantire una pesca più sostenibile delle specie commerciali e alle istituzioni di attivarsi quanto prima in questo senso, con un adeguato coinvolgimento dei pescatori e sulla base della ricerca scientifica – si legge all’interno di un comunicato -. In questo senso, sono essenziali formazioni a tappeto per pescatori e autorità deputate al controllo e commercianti per la corretta identificazione e commercializzazione delle specie di squali e razze». Un passo in avanti è rappresentato da tSharks, piattaforma digitale per il monitoraggio di squali e razze nel Mediterraneo, grazie a campagne di tagging e rilevazioni da parte di ricercatori, pescatori e cittadini. Dal 2023 in Italia sono identificate 16 “aree importanti” per la riproduzione e sopravvivenza degli elasmobranchi, ideali per interventi tutelari.
Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che rivede i dazi commerciali americani, imponendo nuove tariffe a vari Paesi, con l’implementazione prevista dal 7 agosto 2025. Le tariffe marittime resteranno congelate fino al 5 ottobre 2025. Per l’Unione Europea, nonostante le preoccupazioni, i dazi rimangono al 15%, come stabilito nell’accordo con Ursula von der Leyen. Le tariffe per Giappone e Gran Bretagna restano rispettivamente al 15% e 10%, mentre quelle per India e Corea del Sud rimangono invariate. Il Canada vede un aumento dei dazi dal 25% al 35%, in risposta alle sue politiche. Altri aumenti riguardano Svizzera e Siria. Il Brasile, pur mantenendo il 10%, vede una nuova misura del 40% su alcune merci.
Da quando è salito al potere, il governo Meloni ha approvato nuovi programmi militari per una spesa complessiva di 42 miliardi di euro e impegni finanziari pluriennali per 15 miliardi. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’osservatorio Milex, che fornisce una tabella riassuntiva contenente tutti i progetti approvati da inizio legislatura in ordine cronologico. I progetti risultano programmi di acquisizione di nuovi sistemi d’arma terrestri, aerei, marittimi e per le forze speciali. I principali fornitori italiani sono Leonardo, Fincantieri, MBDA Italia, Rwm, Iveco e Tekne; tra quelli stranieri, invece, risultano in crescita quelli israeliani, specialmente, Rafael (con oltre 360 milioni impegnati), Elta Systems (per altre centinaia di milioni), ed Elbit (44 milioni impegnati). In totale, l’impegno finanziario pluriennale assunto dall’Italia nei confronti di Israele è pari ad almeno mezzo miliardo.
I programmi coinvolgono diverse forze armate, tra cui l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica, i Carabinieri e le forze interforze. Nello specifico, le acquisizioni riguardano una vasta gamma di sistemi, tra cui carri armati, obici semoventi, blindati, droni-bomba, navi da guerra, sottomarini, missili, aerei da combattimento e per la guerra elettronica, armi per le forze speciali e tecnologie avanzate come radar, satelliti e sistemi di comunicazione. Inoltre, si prevedono investimenti per la costruzione di infrastrutture militari, come caserme, poligoni e basi. I fornitori di questi programmi sono sia nazionali che internazionali. Le principali aziende italiane inserite nella lista – Leonardo, Fincantieri, Iveco e Rwm – si occupano rispettivamente di mezzi aerei, navali, terrestri e munizioni. A livello europeo, l’Eurofighter Typhoon è prodotto da un consorzio che include Leonardo e altre aziende internazionali, mentre Mbda Italia è coinvolta nella produzione di missili e bombe. I fornitori esteri includono anche giganti statunitensi come Lockheed Martin, Boeing e Raytheon, e compagnie tedesche e francesi, tra le altre.
Particolare attenzione è data alle aziende israeliane, con un incremento significativo delle forniture, come i missili anticarro Spike e i droni-bomba Spike Firefly, per un valore complessivo che si stima possa raggiungere tra i 600 e i 700 milioni di euro. Le forniture israeliane si allineano con l’aumento delle autorizzazioni all’importazione di materiale bellico in Italia, che ha visto un notevole incremento nell’ultimo anno. In aggiunta ai programmi di armamenti, il governo italiano ha dato il via a nuove fasi di programmi già in corso, come quello dei satelliti militari Sicral 3. Il programma Sicral, avviato nel 2020, è stato recentemente rivisto, con un aumento dei costi da 590 milioni a 767 milioni di euro, a causa della necessaria revisione dei requisiti di sicurezza e dei costi aggiuntivi per protezione cyber e lancio dei satelliti.
A ogni modo, si tratta solo di una piccola parte di quanto occorrerà al nostro Paese per raggiungere il 5% del PIL in Difesa (3,5% in armamenti) entro il 2035, obiettivo confermato dalla premier Meloni nel suo discorso al Parlamento dello scorso 23 giugno. In tale sede, Meloni ha rivendicato il raggiungimento da parte del suo governo del 2% del PIL in spese per la difesa richiesto dalla NATO nel 2014, assicurando un completo allineamento anche sui nuovi impegni: «Attualmente la proposta presentata prende atto della valutazione aggiornata che la NATO fa delle minacce e dei rischi per l’Europa, dei conseguenti piani di Difesa, della possibile riduzione del contributo in termini di forze e capacità da parte degli Stati Uniti», ha detto Meloni. La premier ha parlato di impegni «necessari», che «finché questo governo sarà in carica l’Italia rispetterà restando un membro di prim’ordine della NATO». Un balzo di spesa per difesa e sicurezza che, ovviamente, non potrà che impattare in maniera enorme sulla spesa sociale.
Nel frattempo, nella notte di martedì 29 luglio, il governo italiano ha avanzato una richiesta per accedere al fondo europeo SAFE per la difesa – una delle iniziative previste dal piano di riarmo lanciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen – con l’obiettivo di ricevere finanziamenti nel settore bellico. La richiesta contempla l’accesso a 14 miliardi di euro in cinque anni, con rimborsi da spalmare in 45 anni. Il fondo prevede la raccolta di una somma fino a 150 miliardi di euro sui mercati, da erogare sotto forma di prestiti diretti agli Stati che ne fanno richiesta, includendo l’avvio di procedure d’appalto comuni e semplificate. Hanno aderito al fondo altri 17 Paesi dell’UE, 12 dei quali hanno chiesto anche una deroga al Patto di Stabilità per aumentare i propri investimenti nell’industria delle armi al di fuori dei vincoli di debito da esso previsti.
La vicenda dimenticata di Dino Budroni ha compiuto 14 anni esatti ed è finita nel nulla: un delitto con un colpevole, ma senza castigo. Un omicidio senza pena. Bernardino, per tutti Dino, se lo portarono via due colpi di Beretta – uno mortale – sulle ultime curve di una notte romana di fine luglio del 2011. I processi hanno accertato che a ucciderlo fu un poliziotto di nome Michele Paone. Ma il paradosso è che l’agente non è mai passato dal carcere, non è mai stato sospeso dal servizio e nemmeno ha dovuto versare un euro di risarcimento ai parenti di Dino. Come è possibile? Per raccontarlo occorre riavvolgere una lunga sequenza di processi farsa, incongruenze e silenzi mediatici che hanno portato alla paradossale assoluzione perché l’agente avrebbe sparato per «tensione e stress psicologico accumulato». E questo nonostante la gestione dello stress sia uno di corsi base nelle scuole di polizia. E nonostante sia stato appurato che Dino Budroni venne ucciso a sangue freddo, mentre si trovava con le mani in alto.
Condannato senza pena: chi sbaglia (in divisa) non paga
Non ha pagato, soprattutto, l’unico imputato: l’agente scelto Michele Paone della Polizia di Stato, che pure è stato condannato per aver premuto il grilletto della sua Beretta di ordinanza, uccidendo il 40enne seduto nella propria macchina. La quale, una Ford Focus, era ferma sul Grande Raccordo Anulare in direzione nord, a due passi dall’uscita Nomentana. Era praticamente parcheggiata, alla fine di un inseguimento iniziato una ventina di chilometri prima, all’imbocco del Raccordo da Cinecittà. Il giudice di primo grado, quello che il 15 luglio 2014 ha assolto l’imputato dal reato di omicidio colposo perché «il fatto non costituisce reato» e riconoscendo un uso legittimo delle armi, ha argomentato la sua decisione dicendo, in buona sostanza, che Budroni – già colpito dal proiettile – ha fermato la macchina, spento il motore, inserito la prima marcia e tirato il freno a mano, colpito a morte da un colpo sparato dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra: una ricostruzione che definire fantasiosa è un complimento.
Omissioni, incongruenze e indizi trascurati
Le indagini dei Carabinieri sul luogo dell’omicidio di Dino Budroni
Ma i gradi di giudizio di questa storiaccia hanno scandito anche omissioni, incongruenze e mancanze nel percorso giudiziario. Meglio ricordare che tutto era iniziato sotto casa della donna che Budroni frequentava da cinque mesi, in via Quintilio Varo, a due passi dal Parco degli Acquedotti. Una diatriba a suon di porte prese a calci e urla, tanto che i giornali, nei giorni successivi, avevano titolato sulla «notte brava dello stalker». La donna, che aveva convissuto con Dino a Fonte Nuova, lo ha denunciato in commissariato dopo le sei del mattino, quando lui era già un cadavere in obitorio. Il processo per quella denuncia è stato celebrato solo dopo che era già stato sepolto, nel cimitero dove ignoti, per molto tempo, si sono particolarmente divertiti a violare e profanare la sua tomba.
Il silenzio mediatico e una tempesta perfetta
Se c’è un caso in cui l’informazione ha selezionato e pilotato cosa raccontare, è stato proprio quello dell’omicidio di Dino Budroni. Su nessuna testata, infatti, si è mai letto di tutti gli indizi, i particolari e le tracce che nessuno ha scavato né approfondito. Non lo ha fatto la Procura, nei suoi diversi assetti e titolarità. Non lo hanno fatto gli avvocati della famiglia, che pure si sono avvicendati, e che sembrano aver sempre accettato senza batter ciglio il fatto che nel dossier ci fosse poco o nulla, se non l’incriminazione di Paone, colui che ha premuto il grilletto.
Ora che la vicenda ha ricevuto una pronuncia definitiva dalla Cassazione, riavvolgendo il nastro di tre lustri di indagini non fatte e zone d’ombra mai illuminate, pare evidente che qualcuno si sia accontentato di un colpevole designato. Come chi sceglie di giocare in difesa e buttar via il pallone, che poi alla fine non è stato nemmeno colpevole, perché la prescrizione decennale per il reato di omicidio colposo, pur con aggravanti comuni (articolo 61 del Codice penale, capo terzo), gli ha tolto ogni rischio di varcare la soglia del carcere.
La giustizia non è riuscita a giudicare Paone prima che la mannaia dei termini calasse. Tutti questi elementi hanno composto una sorta di tempesta perfetta che ha inghiottito il caso Budroni, togliendo pena e conseguenze ai responsabili, e diluendo tutto in un interminabile percorso giudiziario.
Giudici diversi, sentenze diverse
Nei diversi gradi di giudizio, i giudici non sono sembrati d’accordo sulla colpevolezza dell’agente Michele Paone. Assolto in primo grado, condannato in appello a otto mesi, dopo che è stata messa in dubbio la volontarietà del suo gesto e la consapevolezza delle conseguenze, verso un’auto ferma dopo un inseguimento che i verbali descrivono come «condotto a folle velocità da Dino Budroni». Come a voler dipingere una situazione in cui la fine tragica era inevitabile.
Paone ha sempre dichiarato di aver mirato alle gomme della Focus in fuga. Il giudice di primo grado ha scritto che l’auto era in movimento al momento degli spari, nonostante uno dei carabinieri intervenuti (due volanti e una pattuglia dell’Arma, la Beta Como) abbia dichiarato in aula di aver sentito gli spari quando tutte le auto erano ferme.
La Corte d’Appello, anche per questo, ha ribaltato la sentenza di primo grado, ma la Cassazione ha annullato la condanna per vizio di motivazione, chiedendo un nuovo giudizio.
Sparare per colpa dello stress: le motivazioni dell’Appello bis
I fori dei due colpi di pistola esplosi dall’agente Michele Paone sulla Focus di Dino
La Suprema Corte ha rinviato il processo per un nuovo appello, che si è concluso lo scorso novembre, definendo colpevole l’agente Paone per aver sparato a Budroni da fermo – praticamente un’esecuzione – e in condizioni psicologiche “traballanti”.
Nella sentenza si legge: «Deve necessariamente concludersi che, al momento degli spari, la condotta di fuga di Budroni fosse ormai giunta al termine e che, pertanto, non vi fosse alcuna necessità di fare uso dell’arma per ”respingere la violenza” o ”vincere la resistenza” impeditive all’adempimento del dovere dei pubblici ufficiali». Il punto chiave: Paone ha sparato da fermo, quando Budroni aveva le mani alzate e la macchina era parcheggiata.
La lettura psicologica da parte dei giudici sorprende: «Paone non poteva non essersi reso conto di ciò già durante lo svolgimento dell’azione, per cui non è implausibile ritenere che il suo intervento sia stato essenzialmente frutto di tensione e stress psicologico accumulato, che lo hanno indotto a compiere un gesto non necessario e avventato». Ma proprio la gestione dello stress è il primo requisito insegnato nelle scuole di polizia.
Speronamenti senza tracce
La Focus di Budroni era inseguita da chilometri, dall’Anagnina, da due volanti e da una gazzella dei Carabinieri che Budroni avrebbe anche cercato di speronare. Ma sull’auto dell’Arma non ci sono tracce di urti. Gli agenti, durante l’operazione, alla radio dissero: «Lo abbiamo preso». Ma nessuno comunicò l’inseguimento alle centrali operative. L’azione avvenne, in pratica, all’insaputa degli altri colleghi.
Testimoni dimenticati
Ci sono testimoni oculari mai ascoltati. Uno di loro, Franco Casalino, titolare di un banco al mercato di Val Melaina, ha dichiarato di aver visto il corpo senza vita sul sedile passeggero alle 5 del mattino. Ma gli orari ufficiali non coincidono. L’agente Marco Stabile ha detto che alle 4:45 erano tornati in via Quintilio Varo per un controllo. L’alba civile dell’1 agosto 2011, però, è stata alle 4:30. O era già chiaro, o l’inseguimento era avvenuto prima.
Uno scontrino che cambia(va) tutto
Nelle tasche di Budroni è stato trovato uno scontrino per una birra, emesso da un bar sulla Nomentana, vicino a Fonte Nuova, dove viveva. Ma l’inseguimento sarebbe partito dal Tuscolano. La dinamica temporale non torna. Se era già a casa, perché tornare indietro? Inoltre, Budroni ricevette una telefonata alle 4 dal cognato a cui disse: «Sto tornando a casa».
C’erano altre persone con Dino quella notte?
Il sedile passeggero era reclinato, ma Budroni era solo. C’erano strane macchie mai repertate. Possibile che qualcuno fosse salito sull’auto e poi scappato? Nessuno ha indagato. È rimasta anche una pistola scacciacani, replica della Beretta 92, a bordo della Focus. Non era sua, non fu sottoposta a perizia e non è stata restituita alla famiglia.
Un fascicolo rimasto vuoto per 14 anni
Il fascicolo con cui Michele Paone è arrivato al primo grado di giudizio era sostanzialmente vuoto. Non si è riempito granché nemmeno dopo. La Cassazione, pronunciandosi nel novembre scorso, ha confermato la colpevolezza ma ha annullato le provvisionali a favore dei familiari. Paone non è mai stato sospeso, ha continuato a indossare la divisa e non dovrà nemmeno risarcire chi ha perso un figlio, un fratello, un uomo. Claudia, la sorella di Dino, ha speso anni a rincorrere la verità. Ma il caso di Dino Budroni è finito in un limbo mediatico, al contrario di altri nomi diventati simboli come Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e tanti altri. Evidentemente, non solo la legge, ma nemmeno i morti ammazzati sono sempre uguali per tutti.
Ieri sera, giovedì 31 luglio, il presidente forzista della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha annunciato improvvisamente le sue dimissioni tramite un video sui social. Nelle scorse settimane era finito sotto inchiesta per corruzione. Ha precisato che, pur dimettendosi, intende ricandidarsi, invitando i calabresi a decidere il futuro della regione alle prossime elezioni. Occhiuto ha spiegato che la decisione è legata alle difficoltà amministrative interne, dove «nessuno si assume più la responsabilità di firmare niente». La formalizzazione delle dimissioni avverrà la prossima settimana e, dopo l’approvazione del Consiglio, sarà fissata la data delle elezioni.
La Liguria si conferma fulcro della disobbedienza civile a sostegno del popolo palestinese e in opposizione sia ai crimini israeliani sia alla corsa internazionale al riarmo. La mobilitazione dei portuali del collettivo CALP e dell'Unione Sindacale di Base (USB) ha infatti impedito a tre container contenenti materiale bellico diretto a Israele di sbarcare a Genova e La Spezia. Saputo del carico trasportato dalla portacontainer COSCO Pisces, i portuali di Genova avevano proclamato per il 5 agosto una giornata di sciopero al grido di: "Non lavoreremo per la guerra". Lo sciopero è stato annullato...
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Il gip del Tribunale di Milano ha disposto cinque arresti domiciliari e uno in carcere nell’ambito dell’inchiesta sull’urbanistica che ha investito la città meneghina. Tra gli arrestati domiciliari figurano l’ex assessore Giancarlo Tancredi, l’imprenditore Manfredi Catella, e altri due ex membri della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni e Alessandro Scandurra, oltre al manager Federico Pella. L’unica misura in carcere riguarda l’imprenditore Andrea Bezziccheri. L’indagine della Procura di Milano riguarda presunti illeciti nella gestione di pratiche urbanistiche e progetti immobiliari, con accuse di corruzione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso.
Arriva una decisiva risposta alle audizioni in Commissione Antimafia degli ex ufficiali del ROS Mario Mori e Giuseppe De Donno, seguite dalla puntata di Report in cui sono emerse le presunte pressioni esercitate da Mario Mori per vedere nominati uomini di sua fiducia come consulenti dell’organismo presieduto da Chiara Colosimo. Oggi Palazzo San Macuto è stato infatti teatro dell’audizione dell’ex Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. Il quale, in poco più di un’ora, ha completamente ribaltato la narrazione dei ROS su diversi punti cruciali in merito alle indagini sulle causali delle stragi del 1992. Documenti alla mano, Caselli ha confutato le tesi di Mori e De Donno, su cui sin da subito si sono chiaramente allineati Colosimo e Fabio Trizzino – legale dei figli di Borsellino -, che vedono il presunto interesse del giudice palermitano al dossier “mafia-appalti” dei ROS come elemento scatenante dell’accelerazione del progetto omicidiario nei suoi confronti. Un duro colpo per la linea della maggioranza in Commissione Antimafia, messa a dura prova dalle intuizioni e dai collegamenti operati da Caselli.
Il rapporto mafia-appalti
Uno dei punti più discussi e su cui Mori e De Donno hanno costruito parte delle loro argomentazioni riguarda il rapporto mafia-appalti, prodotto dai ROS alla Procura di Palermo nel febbraio ’92, al centro dello scontro tra carabinieri e magistrati. Nel suo intervento, Caselli ha sottolineato che «Mori, De Donno e Trizzino sostengono due tesi: la prima è che mafia-appalti è causa della morte di Borsellino; la secondo è che mafia-appalti muore a sua volta (sabotata), per l’archiviazione indebita e compiacente, richiesta da pm “felloni” in piena estate ’92, quando tutti pensano solo a riposo, svago e divertimento. Ma le due tesi in contemporanea sono come un cane che si morde la coda-innescano un corto circuito. Neanche il sanguinario Riina farebbe uccidere qualcuno perché non si occupi di una cosa che sta già scomparendo da sola». Pur di denigrare la procura di Palermo, si prospettano due tesi contradditorie che si annullano vicendevolmente: conta solo accusare la Procura di qualcosa…».
[L’ex Procuratore Gian Carlo Caselli in audizione in Commissione Antimafia]Sull’inconsistenza della tesi mafia-appalti intervengono altri elementi: in primis il fatto che Paolo Borsellino sia stato ucciso poco prima del definitivo accantonamento del decreto sul 41-bis, approvato dal governo subito dopo la morte di Falcone e destinato a essere cestinato dal Parlamento (venne ovviamente convertito subito dopo l’omicidio Borsellino a causa dell’ondata di indignazione dell’opinione pubblica). «Se Borsellino lo si è voluto uccidere prima, facendo sul piano del 41 bis ”un pessimo affare”, è comunque molto difficile trovare, senza un salto logico, un qualche collegamento razionale con la questione mafia-appalti. Se non altro perché, non anticipando l’attentato, a Borsellino sarebbe stata concessa una manciata di giorni: troppo poco, anche per uno bravo come lui, per combinare qualcosa».
Le vere cause
Afferma Caselli che Borsellino è sicuramente stato ucciso dalla mafia per «vendetta postuma» e per «soffocarne il metodo», forse anche «per impedirgli di comunicare alla Procura di Caltanissetta il vasto e prezioso materiale raccolto di cui non faceva mistero», senza dimenticare «l’intervista rilasciata da Borsellino due giorni prima di Capaci a una TV francese, a lungo tenuta nascosta dalla nostra Tv di Stato perché riguardava fatti imbarazzanti riferibili à personaggi eccellenti», ovvero Berlusconi, Dell’Utri e lo “stalliere” di Arcore (in realtà mafioso del clan di Porta Nuova) Vittorio Mangano. «Ma nulla, proprio nulla, che possa consentire di concentrarsi esclusivamente sulla pista mafia-appalti, che è invece la scelta operata, con una sorta di presunzione dogmatica, da Mori, De Donno e Trizzino». Tra le altre piste evidenziate da Caselli in vista di accertamenti legati a possibili connessioni con via D’Amelio, ci sono anche «la paura che alla lunga in Procura avrebbe comandato più Borsellino che Giammanco», la “pista nera” indicata tra gli altri dal pentito Lo Cicero poco prima della morte di Borsellino in relazione alla bomba di Capaci (se n’è recentemente occupata la trasmissione Report), le «piste segnalate alla Commissione da Roberto Scarpinato», che vedono il loro fulcro nella commistione di interessi tra mafia, eversione nera, politica e servizi deviati. Nonché, citando quanto riportato dal pentito Cancemi, la creazione di «nuovi legami politici» di Cosa Nostra nell’era post-Tangentopoli. Tradotto: tutte le piste fortemente invise a Colosimo, Mori, De Donno e Trizzino.
Gli effetti della strage di via D’Amelio, consumata il 19 luglio 1992
Il caso Ciancimino
Altro aspetto fondamentale trattato dall’ex Procuratore è la gestione delle dichiarazioni rilasciate in interrogatorio da Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, sentito dai magistrati Caselli e Ingroia alla presenza dei ROS dal gennaio 1993. «Soltanto una trentina di anni dopo, Mori e De Donno decidono all’improvviso di accusare Caselli e Ingroia, inventandosi una tesi» all’interno del loro libro “L’altra verità” (Piemme, 2024), ovvero che «non avremmo adeguatamente “sfruttato” per le indagini Ciancimino, col rammarico – dicono i due Ufficiali – che… “il treno passa una sola volta nella vita”. Una ricostruzione su cui punta veementemente il dito l’ex Procuratore, che, dopo aver citato gli insulti e gli improperi messi nero su bianco da Ciancimino nei confronti di Falcone e Borsellino, nonché le «chiacchiere senza apprezzabile fondamento o significato, prive di prospettive concrete processualmente utili» fatte da Ciancimino in interrogatorio, lo inquadra come un personaggio dal comportamento «in totale distonia rispetto ai requisiti occorrenti per riconoscere un potenziale pentito affidabile». Continua Caselli: «Si fa fatica a capire come possano Mori e De Donno (che sostengono di aver avuto un unico scopo: vendicare Falcone e Borsellino) “sponsorizzare” don Vito dandogli un credito postumo quasi incondizionato e scorgendovi una straordinaria opportunità di lotta alla mafia, invece della inaffidabilità e ambiguità che sono i tratti caratteristici del ”corleonese nelle mani dei corleonesi». Nondimeno, ricorda l’ex magistrato, i due ufficiali «se ne escono nel libro con una teoria stupefacente: premesso che forse sarebbe stato impossibile andare a dibattimento, loro “stavano per sbaragliare ciò che non poteva essere sbaragliato”, perché Ciancimino “avrebbe potuto portare le indagini a livelli mai toccati prima”: beninteso, dibattimento escluso, perciò girando a vuoto senza sbocchi di una qualche utilità, avendo gli stessi Mori e De Donno ammesso poco prima che tale livello era di fatto inarrivabile».
Quell’incontro in caserma
Le contraddizioni di Mori e De Donno concernono poi la riunione intrattenuta con Paolo Borsellino alla Caserma Carini il 25 giugno 1992. Secondo i ROS, l’incontro (segreto) avrebbe avuto come obiettivo il rafforzamento delle indagini sul dossier “mafia-appalti”. Secondo quanto trapela da un verbale datato dicembre 2012 di Carmelo Canale, uno dei principali collaboratori di Borsellino, la riunione, dice Caselli, avvenne invece «su richiesta, ad esso Canale, di Borsellino, che voleva conoscere De Donno, in quanto sospettato da colleghi magistrati di essere autore dell’anonimo Corvo2» (alias che indicava una fonte anonima che avrebbe avuto accesso a informazioni riservate sulla Procura di Palermo). «Ragioniamo come se ancora la versione da cui siamo partiti (riunione a tre preso caserma Carini) non fosse in discussione», dice Caselli: «Emerge un interesse di Borsellino verso mafia-appalti. […] È però necessario e imprescindibile, per poter dare un senso logico al collegamento di mafia-appalti con l’eliminazione di Borsellino, che Cosa nostra conosca tale interesse. Ora, l’assoluta segretezza con cui è stato organizzato e si è svolto l’incontro del 25 giugno è scarsamente se non del tutto incompatibile con la conoscenza che abbiamo detto essere necessaria».
[Gli ex ufficiali del ROS Mario Mori e Giuseppe De Donno]All’inizio dell’audizione, partita alle 14.20, Colosimo aveva annunciato che, per appuntamenti legati a votazioni parlamentari, la seduta si sarebbe conclusa alle 16, consentendo poi a Caselli di ripresentarsi in altra data per concludere la sua audizione. Alle 15.30, Caselli si è detto pronto a trattare un altro argomento molto “caldo”, quello dello “scippo” del pentito Li Pera da parte della Procura di Catania a quella di Palermo, in cui De Donno avrebbe avuto un ruolo da protagonista, nell’ambito delle indagini sul mafia-appalti. «Mi sembra sia un po’ troppa carne al fuoco per trattarla in mezz’ora», gli ha risposto Colosimo, decidendo di chiudere la seduta in anticipo.
La scuola italiana attraversa da tempo una crisi silenziosa, ma profonda. È una crisi fatta di strutture inadeguate, risorse insufficienti, insegnanti stanchi e studenti in difficoltà. Eppure, in mezzo a queste ombre, qualcosa si muove. C’è chi non si arrende, chi continua a credere che l’istruzione possa e debba essere il motore del cambiamento. E lo dimostra ogni giorno.
Le risorse pubbliche destinate all’istruzione in Italia restano tra le più basse d’Europa. A farne le spese sono innanzitutto gli edifici scolastici: sei scuole su dieci risultano prive del certificato di agibilità, e ogni tre giorni si verifica un crollo di calcinacci all’interno di aule, laboratori o palestre. Intanto, migliaia di studenti si ritrovano in classi sovraffollate, dove diventa difficile apprendere e ancora più difficile insegnare.
Ma il disagio non si misura solo in termini strutturali. Anche per chi nella scuola lavora, il clima è sempre più pesante. Insegnanti e dirigenti affrontano sfide complesse, spesso in solitudine, come la burocrazia, la mancanza di riconoscimento, la carenza di strumenti aggiornati e di una formazione continua efficace. Basti pensare che quasi un professore su due soffre di burnout e il 35% dei docenti ha seriamente considerato l’idea di licenziarsi. Tutto questo logora, toglie motivazione, mette a rischio il senso stesso della professione educativa. A soffrire più di tutti e a pagare le conseguenze più alte, però, sono gli studenti. Si stima che un quindicenne su quattro fatichi a comprendere testi di complessità elementare, limitando profondamente le sue possibilità di crescere come cittadino consapevole. Gli adolescenti italiani soffrono inoltre molto di sintomi legati all’ansia, spesso in correlazione con la pressione scolastica e l’assenza di spazi di ascolto. La scuola, che dovrebbe essere un luogo sicuro, di esplorazione e fiducia, rischia di diventare per molti una fonte di disagio e malessere.
In questo contesto, la dispersione scolastica resta una delle ferite più gravi. Oggi in Italia circa uno studente su dieci abbandona la scuola prima del diploma, con picchi ancora più alti in alcune regioni del Sud. Un fenomeno che non riguarda solo chi lascia, ma anche chi resta senza sentirsi davvero incluso, accompagnato, motivato. Dietro ogni abbandono c’è una storia di solitudine educativa, di ingiustizia sociale, di opportunità negate.
Eppure, nonostante tutto, c’è chi resiste e costruisce. In molte scuole italiane, spesso lontano dai riflettori, insegnanti e presidi si stanno già mobilitando per cambiare le cose nel loro piccolo. Innovano la didattica, ripensano gli spazi, creano legami autentici con gli studenti, coinvolgono il territorio. Lo fanno con passione, determinazione e consapevolezza.
È per loro – e grazie a loro – che come Still I Rise da alcuni anni promuoviamo il Progetto Insieme: un programma educativo gratuito rivolto a ragazze e ragazzi dagli 8 ai 18 anni, pensato per le scuole, le istituzioni educative e le associazioni.
Attraverso attività formative, racconti e laboratori guidati dagli insegnanti, condividiamo il metodo educativo innovativo che con successo portiamo avanti nelle nostre scuole tra Kenya, RDC, Siria, Yemen e Colombia, e sensibilizziamo gli studenti italiani su temi cruciali come la migrazione, l’accoglienza, il lavoro minorile e il diritto all’istruzione. Il progetto aiuta anche gli educatori a promuovere consapevolezza, senso critico e responsabilità sociale tra i giovani, con risorse pratiche, spazi di confronto e strumenti didattici per una scuola più inclusiva, viva, capace di non lasciare indietro nessuno.
Cambiare si può, e c’è già chi lo sta facendo. Ma per trasformare davvero il sistema educativo serve uno sforzo collettivo e istituzionale. Sono le istituzioni, in primis, a dover assumere un ruolo centrale e attivo, garantendo risorse adeguate, politiche lungimiranti e un piano strutturale di lungo termine. Non bastano iniziative frammentate o interventi emergenziali: serve un’alleanza solida tra chi fa scuola ogni giorno e chi ha la responsabilità di orientare le scelte pubbliche.
Mettersi in ascolto, valorizzare le buone pratiche, dare spazio e dignità alla scuola significa prendersi cura del presente e costruire le fondamenta del futuro. Perché non c’è futuro possibile senza un’istruzione che sappia accogliere, accompagnare, ispirare. Insieme.
«È tutta una finzione. Hossam ha inscenato la propria morte». È il 26 marzo 2025 quando l’account X Gazawood, che conta oltre 80.000 follower, accusa di messinscena la morte di Hossam Shabat, reporter di Al Jazeera ucciso nel nord di Gaza da un drone dello Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, e dall’esercito, secondo cui si sarebbe trattato di un «terrorista di Hamas». Nonostante le conferme, i video e le testimonianze, Gazawood ha ipotizzato che Shabat non fosse effettivamente morto, ma che si fosse trattato di una “finzione”.
A Gaza si muore davvero, ma c’è chi trasforma i cadaveri e il sangue in una teoria del complotto travestita da “fact-checking”. Dietro gli schermi si consuma una guerra parallela a quella vissuta tra le macerie, dove le bombe non cadono dal cielo, ma si insinuano nei feed dei social, tra video virali, meme e accuse di montatura e simulazione. Una ragnatela di dubbi volta a disumanizzare le vittime palestinesi e a negare il genocidio in corso.
Le origini di Gazawood
Gazawood è una costola di Pallywood, un neologismo coniato nei primi anni Duemila da ambienti filoisraeliani, che fonde “Palestina” e “Hollywood” per descrivere quella che, secondo loro, sarebbe una strategia sistematica da parte dei palestinesi di inscenare o manipolare episodi di violenza, morti tra i civili e distruzioni, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale. Secondo questa teoria del complotto — da cui è poi derivata Gazawood — esisterebbe una sorta di Hollywood palestinese che produrrebbe contenuti di propaganda per conto di Hamas. Ogni immagine proveniente da Gaza o dalla Cisgiordania sarebbe in realtà il frutto di un copione recitato a favore di telecamera da “crisis actors”, orchestrato in uno studio televisivo.
Il termine nasce nel 2005 con il documentario dello storico statunitense Richard Allen Landes, docente all’Università di Boston, Pallywood: According to Palestinian Sources (Pallywood: secondo le fonti palestinesi). L’obiettivo dichiarato è dimostrare una manipolazione mediatica da parte palestinese fin dalla Seconda Intifada.
Questa teoria del complotto compare per la prima volta con il celebre caso della morte di Mohammad al-Durrah, un ragazzino di 12 anni colpito a morte al checkpoint di Netzarim. La tragedia venne ripresa da un cameraman palestinese, e il filmato di 59 secondi fu trasmesso dal canale francese France 2 il 30 settembre 2000, con il commento del veterano franco-israeliano Charles Enderlin. Nel video si vedono Mohammad e suo padre Jamal rannicchiati dietro a un cilindro di cemento, mentre intorno a loro si odono spari. Pochi secondi dopo, le immagini mostrano il corpo del bambino steso a terra, insanguinato. Le immagini crude furono trasmesse in tutto il mondo, e il bambino divenne un simbolo delle rivolte palestinesi della Seconda Intifada, cominciate soltanto da un paio di giorni.
A causa di alcuni tagli, però, il video venne considerato da alcuni blogger e dal governo israeliano come falso, divenendo così terreno di scontro. Nel 2013 il premier israeliano Benjamin Netanyahu presentò un report interno secondo cui non era stata l’IDF a sparare al giovane palestinese. Nel suo documentario, Landes pone in dubbio persino l’autenticità del filmato e ipotizza che al-Durrah non sia stato affatto ucciso.
La vicenda ha dato vita a teorie complottiste, alimentate soprattutto dalla destra israeliana. Da quel momento in poi, ogni rappresentazione dello strazio civile palestinese è stata contaminata da sospetti di recitazione. E con la guerra in corso, sono tornate a proliferare sui social network le teorie del complotto di Pallywood. Secondo un’analisi del gruppo d’inchiesta della BBC, dal 7 ottobre su X la parola “Pallywood” ha registrato il picco più alto nel numero di citazioni degli ultimi dieci anni.
Nel frattempo, su TikTok, influencer israeliani hanno sfruttato i trend più popolari per dileggiare le sofferenze palestinesi. Una delle vicende accusate di essere una farsa risale al 13 ottobre 2023, quando il Jerusalem Post, su X, ha incolpato Hamas di aver inscenato la morte di un bambino di quattro anni a Gaza usando una bambola. Il post è stato immediatamente rilanciato da diversi esponenti politici e diplomatici dello Stato ebraico, ma era tutto falso: il quotidiano ha dovuto rimuovere l’articolo e chiedere pubblicamente scusa.
La giornalista palestinese Bayan Abu Sultan
È stato poi il turno dell’attacco aereo avvenuto nel cortile dell’ospedale al-Aqsa il 14 ottobre 2024, dove era allestita una tendopoli di sfollati. Il raid, verificato da diversi media e con filmati circolati online, è stato accusato di essere un falso, e che le immagini diffuse da giornalisti e civili fossero state create ad hoc. Tra le centinaia di post pubblicati da Gazawood e Pallywood, troviamo anche il caso della giornalista palestinese Bayan Abu Sultan, che in una notizia ripresa da Libero era stata accusata di aver inscenato il fatto di essere stata vittima di un attacco israeliano a Gaza.
Obiettivo: negare la realtà dei fatti
La strategia non è nuova: negare, delegittimare, isolare emotivamente, dubitare di tutto fino a non credere più a nulla. Nel caso di Gaza, si tratta di un processo su scala industriale con l’obiettivo di dimostrare che non è avvenuto nulla, mentre ogni vittima si trasforma in una persona sospetta. E non è un dettaglio: il mondo che guarda, se non vede, finisce per non empatizzare. Acconsente. Giustifica. Ogni immagine di bambini, ogni frame di ospedali distrutti, diventa elemento di propaganda bellica antipalestinese. Il risultato è una vittoria morale per chi orchestrava l’attacco: se non esiste empatia, non esiste colpa.
Sul profilo social di Hossam Shabat, il 208º giornalista ucciso da Israele a Gaza citato in apertura di questo articolo, è comparso un messaggio dopo il suo omicidio: «Se state leggendo questo, significa che sono stato ucciso – molto probabilmente preso di mira – dalle forze di occupazione israeliane. […] Non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo distolga lo sguardo».
Il 208° giornalista ucciso da Israele a Gaza, Hossam Shabat
Chi si volta dall’altra parte, o addirittura nega la realtà, costruisce un muro tra le vittime e l’opinione pubblica. In quella somma di pixel e commenti che trasudano odio, viene cancellato il nome dell’uomo sotto le macerie, della madre con un bambino in braccio, del giornalista assassinato.
L’indifferenza ai morti è un’altra forma di morte. Chi nega il genocidio – negando bombardamenti, bambini uccisi, intere famiglie sbriciolate – commette un crimine che non ha bisogno di bombe, e che si nutre di superficialità e ignavia: basta una tastiera, un account social, una foto fuori contesto e milioni di spettatori.
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