giovedì 9 Ottobre 2025
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Meta annuncia i Meta Ray-Ban Display, gli smart glasses di nuova generazione

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In occasione del Meta Connect 2025, Meta ha annunciato il lancio di un dispositivo noto come Meta Ray-Ban Display, una forma evoluta degli smart glasses che negli scorsi anni la Big Tech ha già commercializzato al fianco di Ray-Ban. La grande differenza? Stavolta all’interno della lente è presente un display, un dettaglio che potrebbe trasformarli da semplice gadget social a strumenti funzionali di realtà aumentata. Lo strumento si dota di comandi rapidi facilitati da un braccialetto sensorizzato e di funzionalità avanzate supportate dall’ intelligenza artificiale. Nulla si è invece detto sull’eventuale introduzione di soluzioni concrete per mitigare l’impatto dello strumento sulla privacy di coloro che finiscono sotto lo sguardo dell’indossatore.

Allontanandosi progressivamente dal miraggio del metaverso, Meta si sta sempre più appoggiando alla collaborazione che ha stretto con EssilorLuxottica per commercializzare prodotti capaci di ibridare reale e digitale. Meta Ray-Ban Display promette un’esperienza più immersiva grazie a comandi touch sulle aste e al suo braccialetto “neurale” che dovrebbe essere in grado di rilevare i gesti del polso. “Promette”, perché la dimostrazione live al Meta Connect 2025 ha riservato momenti imbarazzanti con intoppi che, dopo lunghi incespicamenti, sono stati attribuiti a una pessima connessione Wi-fi. Il prodotto sarà comunque venduto negli Stati Uniti il prossimo 30 settembre al prezzo di 799 dollari.

Se Meta Ray-Ban Display riuscirà a funzionare come si deve, finirà indiscutibilmente con l’essere uno strumento tech estremamente attraente. È l’apice delle odierne evoluzioni tecniche di Meta, il più grande successo che l’azienda può vantare nella gamma dei prodotti. Allo stesso tempo, però, gli smart glasses in questione sono spesso additati come un pericoloso strumento di videosorveglianza che rischia di violare la riservatezza dell’individuo o prestarsi ad altri usi degni di allarme. 

Nel 2024, un ex veterano statunitense, Shamsud-Din Jabbar, ha utilizzato occhiali Meta per filmare il French Quarter di New Orleans prima di compiere una strage a Capodanno che ha mietuto 14 vittime. Nel giugno del 2025, si è scoperto che almeno un agente della Polizia di Frontiera degli Stati Uniti (CBP) indossava l’apparecchio di registrazione durante un raid. Anche in Italia si è già assistito a derive allarmanti: Maria Rosaria Boccia, influencer e imprenditrice protagonista del cosiddetto “Caso Sangiuliano”, ha usato proprio i Ray-Ban Meta per riprendere aree conversazioni confidenziali e segreti ministeriali.

Questi episodi rappresentano certamente abusi da parte degli utenti, tuttavia evidenziano chiaramente come dispositivi concepiti per il consumo digitale, se non adeguatamente implementati, possano sfociare in panorami lesivi della privacy e addirittura mettere a repentaglio la sicurezza istituzionale. Sin dal 2021, il Garante della privacy italiano e il suo omologo irlandese hanno manifestato dubbi sulla legittimità dello strumento, tuttavia Meta ha difeso il prodotto sottolineando la presenza di un LED che si illumina durante le riprese video. Peccato che la prassi comune abbia dimostrato quanto sia facile oscurare o ignorare quel segnale, vanificando del tutto quest’unica funzione di trasparenza. Anzi, attorno all’occultazione del LED luminoso si è sviluppato addirittura un vivacissimo mercato parallelo, il quale prospera sulla base di un pubblico che, evidentemente, vuole registrare in maniera segreta le persone che gli sono attorno.

Il quadro è aggravato dalla fame di dati che caratterizza il settore dell’intelligenza artificiale. Meta, come molti suoi concorrenti, ha un interesse concreto a raccogliere contenuti multimediali per addestrare modelli sempre più sofisticati. Per questo motivo, l’azienda si arroga il diritto di fare ciò che vuole di video, audio e immagini processate o analizzate da Meta AI, anche quando l’operazione viene eseguita direttamente dagli smart glasses. E il Meta Ray-Ban Display ambisce a rendere ancora più pervasive e permeabili attraverso il sistema “Live AI”. Il sistema normativo europeo sta, almeno per il momento, arginando le derive più estreme di questo approccio, tuttavia, in un prossimo futuro, potremmo vivere in un mondo in cui contenuti trafugati attraverso gli smart glasses finiranno direttamente negli archivi di Meta, diventando di loro proprietà.

Boicottare Israele: il nuovo libro de L’Indipendente è una guida per passare all’azione

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Cosa possiamo fare per fermare Israele e il genocidio in corso a Gaza? Questa la domanda che tutti noi ci siamo fatti in questi infiniti mesi di massacro israeliano all’interno della Palestina occupata, assistendo inerti al silenzio complice dei nostri governi, a cominciare da quello italiano. Il libro “Boicottare Israele, azioni concrete per fermare il genocidio in Palestina” nasce dalla volontà di rispondere a questa domanda, fornendo a tutti una guida semplice, chiara ed esaustiva per sapere come colpire le radici economiche e finanziarie che nutrono i crimini israeliani, e quindi contribuire a fermare l’afflusso di denaro che rende possibile l’occupazione della Palestina e il massacro del suo popolo. Semplici gesti per essere cittadini attivi e non più spettatori, esercitando scelte consapevoli durante la propria quotidianità: quando si fa la spesa, quando si naviga su internet, quando si cerca un hotel per una vacanza o un viaggio di lavoro, quando si fa il pieno all’automobile.

Una guida scritta dalla redazione de L’Indipendente con l’indispensabile collaborazione di BDS Italia – il movimento che coordina a livello nazionale la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il regime israeliano – e il prezioso contributo di Francesca Albanese (Relatrice speciale ONU sui territori palestinesi occupati) e Omar Barghouti (Difensore dei diritti umani palestinese, cofondatore del movimento BDS e co-vincitore del Premio Gandhi per la Pace 2017), che del libro hanno scritto rispettivamente introduzione e postfazione del testo.

I detrattori spesso sostengono che il boicottaggio non serve. È una bugia studiata per demotivare le persone. A dimostrarlo sono non solo i risultati concreti già raggiunti, che sono dettagliati all’interno del libro, ma soprattutto l’autentico terrore che il governo israeliano ha della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato il BDS una “minaccia strategica”, mentre il governo di Tel Aviv ha stanziato milioni di dollari per contrastare il movimento a livello internazionale.

La lista dei prodotti da evitare per sanzionare concretamente le aziende che lucrano sull’occupazione e la rendono di fatto possibile è stata scelta con cura con il prezioso contributo di BDS Italia e della stessa Francesca Albanese che con il suo ultimo rapporto, intitolato Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, ha contribuito in maniera decisiva a permetterci di individuare i nodi principali del sistema economico che fiancheggia l’occupazione e il genocidio.

È grazie a questa sinergia che abbiamo potuto pubblicare la prima guida completa in lingua italiana dei prodotti da boicottare in solidarietà alla lotta palestinese. L’obiettivo che ci siamo dati è quello di farla circolare il più possibile, rendendola disponibile al prezzo di copertina più basso che ci era consentito al netto dei costi: 9,50 euro, spese di spedizione incluse. Per acquistarla potete visitare questo link, oppure cliccare sull’immagine sottostante. Grazie.

New York, arrestati 11 funzionari Dem in protesta contro agenzia immigrazione

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A New York undici funzionari eletti del Partito Democratico sono stati arrestati durante una protesta contro le condizioni di detenzione degli immigrati in un centro ICE (agenzia federale USA che si occupa del controllo delle frontiere e dell’immigrazione). L’azione è seguita a un’ordinanza federale che aveva imposto all’agenzia di migliorare celle sovraffollate e insalubri. Tra gli arrestati figurano il revisore dei conti Brad Lander, già fermato in giugno, e il difensore civico Jumaane Williams. Alcuni hanno tentato di ispezionare le celle al decimo piano di Federal Plaza, altri hanno bloccato i garage usati dai furgoni ICE, esponendo uno striscione “NYers against ICE”.

Turchia, i tracciati smascherano le bugie di Erdogan: nessun divieto al commercio israeliano

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A fine agosto il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha tenuto un discorso davanti al Parlamento del Paese per parlare dell’attuale situazione a Gaza. «Nessun altro Paese al mondo ha adottato più misure della Turchia in materia di sanzioni», ha annunciato Fidan con tono trionfale. La Turchia, sostiene il ministro, avrebbe chiuso i porti alle navi israeliane, impedito alle imbarcazioni turche di attraccare nei porti di Israele, chiuso lo spazio aereo del Paese agli aerei diretti verso lo Stato ebraico e addirittura «completamente interrotto i suoi scambi commerciali con Israele». Tutte affermazioni false o nel migliore dei casi controverse, tanto che alcune di esse sono state smentite dallo stesso governo turco. Altre, invece, sembrano basarsi su una autentica manipolazione dei dati: se le esportazioni verso Israele figurano azzerate, infatti, quelle verso la Palestina sarebbero aumentate esponenzialmente, tanto da toccare picchi di crescita del 120.000%.

Il ministro Fidan ha annunciato la chiusura dello spazio aereo e portuale turco ai mezzi legati a Israele lo scorso 29 agosto, in un discorso in Parlamento ripreso dai media del Paese: «Abbiamo chiuso i nostri porti alle navi israeliane. Non permettiamo alle navi turche di accedere ai porti israeliani», ha detto Fidan; analogamente, «non permettiamo agli aerei di entrare nel nostro spazio aereo». L’Indipendente ha provato a verificare le affermazioni di Fidan, trovando non poche incongruenze. Per quanto riguarda le dichiarazioni sugli aerei, consultando il sito di monitoraggio Flight Radar, è possibile notare che sin dall’annuncio di Fidan i velivoli diretti verso Israele hanno continuato senza alcun problema a sorvolare lo spazio turco. Dopo tutto, poche ore dopo l’intervento del ministro lo stesso governo avrebbe smentito sé stesso: un funzionario del ministero degli Esteri avrebbe infatti dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che le parole di Fidan erano state interpretate male; «Le dichiarazioni del ministro si riferiscono ai voli ufficiali israeliani e ai voli che trasportano armi o munizioni in Israele. Ciò non si applica ai voli commerciali in transito», avrebbe detto il funzionario.

Il funzionario citato da Reuters non parla delle dichiarazioni relative ai porti, cosa che suggerisce che la Turchia avrebbe effettivamente impedito l’accesso ai porti del Paese a tutte le navi legate a Israele e negato alle navi turche di viaggiare verso porti israeliani. La notizia è confermata dalle istituzioni portuali del Paese, che hanno diffuso le nuove regole da seguire per i porti e le navi turche. «Le imbarcazioni battenti bandiera turca non potranno attraccare nei porti israeliani» recita la prima regola. Allo stesso tempo, si legge nella regola 2, «alle imbarcazioni battenti bandiera israeliana e affiliate [ndr. a Israele] non è consentito attraccare presso le strutture costiere del nostro Paese», così come ricevere alcun tipo di assistenza navale e portuale; tali restrizioni, sostiene la regola 8, si applicano anche «agli yacht privati ​​e commerciali battenti bandiera israeliana». Le affermazioni di Fidan circa il traffico portuale del Paese, insomma, non lasciano spazio a interpretazioni. Eppure, anche in questo caso, non sembrano corrispondere al vero.

Per quanto riguarda il divieto alle navi legate a Israele di entrare nei porti turchi, L’Indipendente non è riuscito a verificare la veridicità delle affermazioni di Fidan. Consultando la lista di navi battenti bandiera israeliana sul sito di monitoraggio marittimo Marine Traffic sembra che l’11 settembre uno yacht privato, chiamato Li Ad, fosse diretto verso la città turca di Mersin. Cercando l’imbarcazione sulla mappa ed entrando sulla pagina a essa riservata, tuttavia, la nave risultava diretta al porto di Herzliya, in Israele. Ben diversa la situazione per quanto riguarda il divieto per le navi turche di entrare nei porti israeliani: lo stesso 11 settembre, infatti, la nave Burak Deval, battente bandiera turca, era attraccata nel porto di Haifa, e la nave Medkon Mersin, di proprietà di una compagnia turca e battente bandiera panamense, era diretta verso il porto di Ashdod. Il fatto che le navi turche continuino a operare senza indugio nei porti israeliani smentisce anche le affermazioni per cui la Turchia avrebbe «completamente» tagliato i propri rapporti commerciali con Israele. Secondo l’agenzia di stampa di proprietà governativa Anadolu, infatti, a partire dal 2 maggio, la Turchia avrebbe «sospeso completamente esportazioni, importazioni e commercio di transito in tutte le categorie di prodotto, senza che avvenga alcun commercio attraverso dogane o zone franche, portando il commercio con Israele a zero».

Giornali e operatori mediatici turchi lontani dalle aree di influenza governative sono ben consci del fatto che i rapporti del Paese con Israele non sarebbero mai stati davvero interrotti: il giornalista di inchiesta turco Metin Cihan ha infatti consultato i dati governativi relativi alle esportazioni e alle importazioni del Paese. Ad agosto 2023, la Turchia aveva esportato acciaio per circa 91 milioni di dollari verso Israele, e per circa 17mila dollari verso la Palestina; l’anno dopo, tuttavia, tali figure si sono invertite. La Turchia avrebbe completamente interrotto la vendita di acciaio a Israele, ma avrebbe esportato verso la Palestina circa 20 milioni di dollari in acciaio, registrando un aumento di poco inferiore al 120.000%. L’aumento spropositato di esportazioni verso la Palestina, per quanto più ridotto di quello comunicato da Cihan, è confermato anche da Anadolu secondo cui a settembre 2024 la Turchia avrebbe esportato acciaio per oltre 48 milioni di dollari verso la Palestina, contro i 156mila del 2023, con un presunto aumento che sfiora il 31.000%. Le figure delle esportazioni turche in Palestina sono ben poco verosimili, specialmente con il genocidio in corso a Gaza. Risulta, piuttosto, assai più probabile che la Turchia registri le esportazioni di acciaio verso Israele come esportazioni verso la Palestina, manipolando i dati interni.

Stop a riconoscimento facciale “FaceBoarding” a Linate, dubbi sulla sicurezza

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Il Garante per la protezione dei dati personali ha sospeso temporaneamente il sistema di “FaceBoarding” all’aeroporto di Milano Linate. La decisione resterà valida fino alla conclusione dell’istruttoria avviata per verificare la conformità del servizio alle norme europee sulla privacy. Il FaceBoarding, su base volontaria e riservato ai maggiorenni iscritti, consente ai passeggeri di effettuare tutte le fasi del check-in e dell’imbarco tramite riconoscimento facciale, senza presentare i documenti. L’Autorità ha sollevato criticità sulla gestione dei dati biometrici, conservati in un archivio centralizzato senza un reale controllo da parte degli utenti. SEA, società che gestisce lo scalo, difende la regolarità del sistema e auspica di poterlo riattivare una volta risolte le questioni legate alla tutela dei dati personali.

PFAS: l’Europa allenta i divieti sugli inquinanti eterni

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L’Agenzia europea delle sostanze chimiche ha rivisto la proposta di restrizione sui PFAS, le sostanze chimiche “eterne” che accumulandosi nell’ambiente e negli organismi umani provocano gravi danni alla salute, escludendo otto interi settori produttivi dal divieto, rinviandoli a una fase successiva, senza date precise. Si apre così la strada a deroghe che ne riducono drasticamente la portata. È un passo indietro rispetto alle ambizioni annunciate nel 2023, quando Bruxelles, su impulso di cinque Stati membri e con il supporto tecnico dell’ECHA, aveva promesso una delle restrizioni più ampie mai concepite sotto il regolamento REACH (la normativa europea che mira a migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche): il divieto quasi totale dei PFAS. Era stato annunciato un intervento risolutivo, accompagnato da una consultazione pubblica senza precedenti. Citando come ragioni principali i limiti di tempo e il Piano d’azione per l’industria della Commissione europea di luglio, la giustificazione formale di questo compromesso è che mancherebbero alternative affidabili in quei settori, ma la percezione diffusa è che l’agenzia abbia ceduto alle pressioni dell’industria, con il rischio di compromettere l’efficacia dell’intera normativa, rinviando a data da destinarsi la regolamentazione di comparti ad alto impatto ambientale.

Le categorie rimosse coprono aree strategiche e ad alta intensità di consumo chimico. Si tratta delle applicazioni di stampa, come inchiostri e rivestimenti; delle sigillature, fondamentali in edilizia e nell’industria pesante; dei macchinari, dove i PFAS vengono impiegati per ridurre attriti e usura; degli esplosivi, sia civili sia militari; delle forniture per la difesa, che comprendono rivestimenti e componenti ad alte prestazioni; dei tessili tecnici, usati ad esempio per abbigliamento da lavoro o dispositivi di protezione; delle applicazioni industriali più ampie, come solventi e catalizzatori; e infine di alcuni usi medici, inclusi imballaggi immediati e materiali di rilascio di farmaci. Settori che, secondo l’organizzazione ambientalista svedese ChemSec, rappresentano non eccezioni marginali, ma fonti consistenti di inquinamento. Parallelamente, il nuovo documento dell’ECHA non si limita a rinvii, ma apre spazi di deroga anche nei comparti rimasti dentro la restrizione. Tre scenari sono allo studio: il primo prevede un divieto completo con appena diciotto mesi di transizione; il secondo introduce esenzioni temporanee, tra cui cinque anni aggiuntivi per il packaging alimentare in plastica e per le superfici antiaderenti industriali; il terzo consente l’uso laddove le emissioni possano essere “strettamente controllate”, una formulazione che lascia ampio margine interpretativo.

ChemSec non ha usato mezzi termini. Per l’organizzazione, l’aggiornamento dell’ECHA rappresenta «un disastro» perché frammenta la restrizione, ne svuota la portata e rischia di premiare proprio quei settori che non hanno investito in alternative più sicure. L’ONG sottolinea come migliaia di cittadini, associazioni e imprese abbiano partecipato alla consultazione pubblica chiedendo un bando ambizioso, e come queste richieste siano state sostanzialmente ignorate. Il rinvio degli otto settori, unito alla possibilità di deroghe prolungate, mina la credibilità stessa dell’Unione europea come leader nella lotta all’inquinamento chimico. Questa decisione premia, inoltre, le industrie che hanno omesso informazioni durante la consultazione pubblica e penalizza invece le aziende lungimiranti che hanno già investito nella sostituzione dei PFAS in queste otto categorie di utilizzo aggiuntive. Le prossime tappe sono già fissate: entro il 2026 i comitati scientifici dell’ECHA dovranno esprimersi, ma la decisione finale spetterà alla Commissione e non arriverà prima del 2027. Nel frattempo, i PFAS continueranno a diffondersi. L’Italia conosce bene la portata del problema: ad Alessandria, come già accaduto in Veneto, il sangue dei cittadini risulta contaminato dai composti prodotti da Solvay, con conseguenze che vanno dall’aumento delle patologie tiroidee e tumorali fino a disturbi dello sviluppo nei bambini. La multinazionale ha prodotto per anni composti fluorurati, scaricandoli nel fiume Bormida e contaminando la falda. In Veneto, a giugno 2025, una sentenza storica ha condannato fino a 17 anni di carcere i dirigenti della Miteni, riconoscendone le responsabilità nella contaminazione che ha colpito oltre 350 mila persone: un verdetto che dimostra come i tribunali, quando la politica esita, possano intervenire a sancire la gravità dei crimini ambientali. Ogni deroga, ogni rinvio, ogni concessione all’industria significa prolungare l’esposizione quotidiana di milioni di persone. Di fronte a questo scenario, l’allentamento delle restrizioni appare come una resa politica che sacrifica la salute dei cittadini europei agli interessi economici di pochi gruppi industriali. Una resa che rischia di pesare per generazioni, perché i PFAS, una volta dispersi nell’ambiente, restano lì per sempre.

Ravenna: la rivolta di portuali e cittadini ferma il carico di armi verso Israele

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«Abbiamo preso posizione come enti pubblici per chiedere di non far transitare i due container dal terminal. Abbiamo scritto una Pec come Comune, Provincia e Regione e, pochi minuti fa, Sapir ci ha comunicato che non avrebbe aperto i cancelli del porto all’arrivo dei mezzi».  È il primo pomeriggio di giovedì quando il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, convoca una conferenza stampa d’urgenza per annunciare il blocco di un carico di munizioni diretto a Israele che, per l’ennesima volta, stava per transitare dal porto cittadino. Si tratta di due container provenienti dalla Repubblica Ceca, classificati 1.4, cioè materiale esplosivo, che dopo aver oltrepassato il confine dall’Austria stavano per essere caricati sulla nave Zim New Zealand con destinazione Haifa: lo stesso percorso effettuato il 30 giugno scorso e probabilmente in numerose altre occasioni. 

In questo caso però l’intervento congiunto delle istituzioni locali è stato decisivo: i container non hanno potuto essere imbarcati e hanno dovuto lasciare via terra lo scalo romagnolo. Una decisione arrivata all’indomani delle forti proteste che martedì avevano portato migliaia di persone a sfilare lungo le banchine del porto chiedendo lo stop all’invio di armi a Israele. A segnalare la presenza del carico erano stati, anche questa volta, alcuni lavoratori del porto. Appresa la notizia, il sindaco Barattoni, la presidente della Provincia Valentina Palli e il presidente della Regione Michele De Pascale hanno inviato a Sapir, la società che gestisce lo scalo, una comunicazione formale in qualità di azionisti chiedendo di non consentire l’operazione di carico, sottolineando che la conferma della spedizione avrebbe destato gravissime preoccupazioni per il contesto del conflitto in corso a Gaza, in cui ogni giorno muoiono civili innocenti. Da lì la decisione dell’azienda di non aprire i cancelli ai mezzi provenienti dall’Austria, evitando così che i container finissero a bordo della nave diretta in Israele. 

Appresa la notizia, sia il sindaco che il presidente della Regione hanno manifestato la loro soddisfazione sui social: «Ho appena ricevuto comunicazione che i due camion portacontainer hanno lasciato il nostro porto. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito a questo risultato» ha scritto Alessandro Barattoni. «In Emilia-Romagna sappiamo da che parte stare: con le vittime innocenti e gli ostaggi, mai con i governi criminali e le organizzazioni terroristiche» ha aggiunto Michele De Pascale.

La grande protesta di martedì 16 settembre contro il transito di armi dal porto di Ravenna verso Israele

In realtà le istituzioni locali avrebbero potuto fare molto di più per monitorare il transito di armi dal porto di Ravenna, da cui numerosi container diretti in Israele hanno continuato a partire anche dopo il 7 ottobre 2023. Proprio dai lavoratori del porto arrivano le denunce più circostanziate: gli operai raccontano di aver visto passare container di munizioni destinate alle Forze di Difesa Israeliane, caricati su grandi portacontainer dirette a Haifa e Ashdod, quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Il tutto, come è emerso dall’accesso agli atti effettuato il 30 giugno, senza le necessarie autorizzazioni per far viaggiare materiale bellico fuori dall’Unione Europea. «Comune e Regione sono tra gli azionisti principali di Sapir, il principale operatore del porto – ha spiegato all’Indipendente Carlo Tombola di Weapon Watch, tra i primi a raccogliere le segnalazioni dei portuali – e quindi avrebbero potuto controllare e far sentire la loro voce già mesi fa su quello che accadeva nello scalo romagnolo, peraltro l’unico scalo internazionale della regione». La manifestazione di martedì e le dichiarazioni dell’Onu hanno sicuramente smosso le acque: «Prima erano violazioni della legalità, adesso siamo al livello di complicità in un genocidio» aggiunge Tombola. 

Sul caso è intervenuto anche Antonio Tajani, incalzato in Senato dal Movimento 5 Stelle: «Io non so nulla di quello che è successo e comunque non sono armi italiane», ha dichiarato con disarmante serenità il ministro degli Esteri. Parole che lasciano più di un brivido, se si considera che la legge 185 del 1990 stabilisce con chiarezza che tutte le esportazioni, importazioni e persino i semplici transiti di armamenti devono essere autorizzati e controllati dal Governo. Eppure, il titolare della Farnesina sembra ritenere l’ignoranza un alibi più che sufficiente. Una linea difensiva che, se non fosse tragica, sarebbe comica. 

Insomma, ancora una volta sono i movimenti dal basso, quelli dei cittadini che manifestano e degli operai che bloccano i container, ad obbligare la politica a prendere posizione. L’episodio di Ravenna lascia però aperto un filo di speranza: che il controllo dei traffici di armi non resti un affare oscuro relegato alle carte di dogana, ma diventi questione di trasparenza pubblica, di responsabilità politica e di coscienza collettiva.

Gli USA mettono il veto alla risoluzione ONU per l’ingresso di aiuti a Gaza

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Gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato e permanente nella Striscia di Gaza, il rilascio degli ostaggi e la rimozione delle restrizioni agli aiuti umanitari. Il testo, presentato dai dieci membri non permanenti e approvato dagli altri 14 membri del Consiglio, è stato bloccato dal solo voto contrario di Washington. Gli USA hanno motivato la decisione sostenendo che la bozza non condannava esplicitamente Hamas e stabiliva un “pericoloso falso parallelismo” con Israele. La risoluzione definiva la situazione a Gaza “catastrofica” e chiedeva l’accesso immediato e sicuro degli aiuti per i 2,1 milioni di palestinesi nella Striscia. Il veto ha messo in evidenza l’isolamento degli Stati Uniti all’interno del Consiglio e ha riacceso le tensioni diplomatiche sulla gestione del conflitto.

L’Olanda ha vietato le terapie di conversione ai danni delle minoranze sessuali

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La Camera dei Deputati olandese ha approvato il divieto delle cosiddette terapie di conversione, ovvero tutte quelle pratiche coercitive finalizzate a modificare l'orientamento sessuale o l'identità di genere di una persona. La nuova legge introduce sanzioni per chi sottopone individui a trattamenti di persuasione volti a “correggere” la propria identità sessuale o di genere. La norma va a incidere su pratiche di stampo parareligioso ancora diffuse: non si parla di semplici conversazioni religiose non coercitive volte a illustrare al soggetto che, ad esempio, essere gay è "peccato" secondo la ...

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Ucraina, ricevuti dalla Russia i corpi di mille soldati caduti

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Oggi, giovedì 18 settembre, l’Ucraina ha ricevuto i corpi di mille soldati caduti nel conflitto, raro gesto di collaborazione tra i due Paesi mentre i negoziati di pace restano bloccati. Il quartier generale per il trattamento dei prigionieri di guerra ha annunciato che gli ufficiali effettueranno gli esami necessari per identificare i corpi «nel più breve tempo possibile». L’operazione segue diversi scambi di prigionieri, l’ultimo ad agosto con 146 detenuti trasferiti da ciascuna parte. Gli scambi di prigionieri e l’accordo per il ritorno in patria dei caduti sono tra i pochi risultati concreti dei tre round di colloqui di Istanbul, svoltisi da maggio a luglio.