sabato 23 Agosto 2025
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Pfizergate, la Commissione non fa ricorso: definitiva la sentenza sugli sms di von der Leyen

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La Commissione europea ha lasciato scadere il termine di due mesi e 10 giorni per presentare ricorso contro la storica sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul caso ormai noto come Pfizergate. Un dettaglio tutt’altro che tecnico, che apre scenari dirompenti sul piano politico, legale e morale. La sentenza, infatti, censura duramente l’opacità con cui la Commissione – e in particolare la presidente Ursula von der Leyen – ha gestito lo scambio dei famigerati SMS con Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer, durante il periodo più critico della pandemia. Uno scambio che precedette l’accordo colossale da 35 miliardi di euro per l’acquisto di 1,8 miliardi di dosi di vaccino.

A riportare la notizia è stato Politico, confermando che Bruxelles non ha impugnato la decisione entro i termini previsti, rendendola così definitiva. Il caso esplose nel 2021, quando Matina Stevis-Gridneff, una giornalista del New York Times, rese noto che von der Leyen e Bourla avevano avuto un contatto diretto, via messaggi di testo, nel pieno delle trattative. Da lì, la richiesta – apparentemente banale – di poter visionare quei messaggi. La risposta della Commissione fu sconcertante: i messaggi non esistono o, meglio, non sono stati conservati perché considerati «non documenti ufficiali». Una giustificazione che ha spinto la Corte di Giustizia a intervenire, bocciando senza appello la condotta della Commissione e ribadendo un principio fondamentale: se un messaggio contiene informazioni rilevanti per un processo decisionale pubblico, deve essere trattato come documento ufficiale, a prescindere dal mezzo utilizzato. La Corte ha accusato la Commissione di non aver fornito spiegazioni credibili sull’assenza dei documenti, di non averli cercati seriamente e, anzi, di aver fornito giustificazioni «contraddittorie» e «non plausibili». Una condotta che rivela, secondo i giudici, una negligenza istituzionale grave e potenzialmente dolosa.

All’inizio di luglio, von der Leyen si è trovata ad affrontare un voto di sfiducia al Parlamento europeo sul caso, promosso dall’eurodeputato rumeno Gheorghe Piperea. La mozione di censura si era trasformata in un’enorme resa dei conti tra i banchi dell’Eurocamera, ma di fatto è servita solo a misurare il grado di anestesia democratica e il cinismo che affligge l’UE. Ora, il fatto che la Commissione non abbia presentato ricorso rappresenta una resa silenziosa ma significativa, che conferma il peso politico della condanna e che suona come una ammissione implicita di colpa. 

Cala così il sipario sullo scandalo Pfizergate, simbolo di una deriva tecnocratica che minaccia i fondamenti stessi della democrazia europea. Il mancato ricorso della Commissione non chiude il caso, lascia però, senza risposta le domande fondamentali: dove sono finiti quei messaggi e perché non sono stati conservati? 

Il premier lituano si è dimesso

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Il primo ministro lituano, Gintautas Paluckas, ha annunciato le proprie dimissioni tanto da premier quanto da presidente del Partito Socialdemocratico. L’annuncio arriva a fronte di una campagna di pressione politica, scattata dopo l’avvio di indagini per corruzione. Il leader dell’Unione dei Democratici “Per la Lituania”, Saulius Skvernelis, aveva infatti annunciato che il suo partito si sarebbe ritirato dal governo se Paluckas non si fosse dimesso. Paluckas è accusato di corruzione nell’ambito di una indagine su una serie di affari che avrebbe fatto con un’azienda di proprietà della cognata. Di preciso, l’azienda della cognata avrebbe usato fondi europei per acquistare batterie da Garnis, di cui Paluckas è comproprietario.

Iveco, lo storico marchio italiano dei veicoli commerciali, è diventato indiano

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La notizia era nell’aria da giorni: Iveco Group della famiglia Agnelli diventa indiana. Lo storico marchio dei veicoli industriali e speciali, nato dallo scorporo di CNH Industrial è stato ceduto dal colosso Exor agli indiani di Tata Motors e rappresenta l’ultimo capitolo di una lunga storia di smantellamento industriale e di svendita del patrimonio nazionale. 

L’operazione ha un valore complessivo stimato di 5,5 miliardi di euro. Di questi, circa 3,8 miliardi sono destinati all’acquisto della divisione civile di Iveco, mentre 1,7 miliardi vanno a Leonardo per l’acquisizione del comparto Difesa (IDV e Astra), separato come condizione preliminare all’acquisizione. In termini tecnici, si tratta di una dismissione per comparti: prima si scinde il segmento militare, poi si vende tutto il resto. L’acquisizione da parte degli indiani è prevista entro la metà del prossimo anno: Iveco manterrà la sede principale in Italia, a Torino, ma lascerà la Borsa di Milano.

La divisione dei veicoli commerciali – autobus, camion, furgoni – va dunque a Tata. L’unione tra le due aziende produrrà un gruppo con ricavi annui da 22 miliardi di euro e vendite superiori alle 540.000 unità all’anno, ben posizionato tra Europa, India, Americhe, Asia e Africa. La divisione strategica per la Difesa terrestre (veicoli blindati, tattici, da combattimento), invece, viene ceduta all’ex Finmeccanica, oggi Leonardo S.p.A., in una sorta di “rientro controllato” nell’alveo della difesa nazionale, sebbene anche Leonardo abbia assett azionari molto frammentati. 

A livello finanziario, il vero vincitore della partita è Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann, che non solo monetizza la vendita, ma incassa un dividendo straordinario stimato tra 5,5 e 6 euro per azione.

È una di quelle notizie che si presentano con toni trionfalistici nei comunicati stampa (la nota congiunta di Iveco e Tata parla di «sinergie», «visione globale», «occupazione garantita»), ma che in controluce raccontano un altro tipo di storia: quella di una nazione che non ha più una strategia industriale, né la volontà di difendere i suoi asset strategici. Le rassicurazioni non mancano: nessuna chiusura di stabilimenti, nessun esubero, quartier generale a Torino “preservato”. La narrazione è sempre la stessa: «nulla cambierà», «gli stabilimenti resteranno in Italia», «nessun licenziamento». Parole fotocopia che abbiamo già sentito con Pirelli, Magneti Marelli, Parmalat, Indesit, Italcementi e decine di altri marchi. Poi arriva la realtà: know-how che prende il volo, decisioni spostate all’estero, delocalizzazioni graduali ma inesorabili dove il costo del lavoro è più basso. 

Più del valore economico, pesa il significato simbolico. Iveco non è solo un marchio, è un pezzo di storia industriale italiana, un pilastro di Torino, una colonna portante della mobilità pesante europea. Eppure, tutto è avvenuto senza confronto con i sindacati, che ora lanciano l’allarme per i quasi 13.000 addetti (di cui seimila lavoratori diretti e i duemila dell’indotto nel torinese). 

La notizia della vendita di Iveco incontra il favore del governo che parla di «un’importante operazione industriale che apre nuove prospettive di crescita per il gruppo Iveco» e sottolinea che l’India è partner strategico dell’Italia. Il governo italiano precisa che si limita a osservare e a «vigilare». Una vigilanza che finora non ha impedito a nessuna delle grandi eccellenze italiane di passare oltre confine. Sempre più aziende italiane, infatti, vengono comprate, svuotate, delocalizzate. A volte il marchio resiste, altre volte no. Si parla di «occupazione garantita», ma il copione è noto: oggi si firma il patto, domani si tagliano i rami secchi, dopodomani si delocalizza in nome della competitività. Il governo si dice pronto a «collaborare», come in tutte le altre cessioni, salvo poi farsi trovare impreparato di fronte ai licenziamenti.

La svendita delle imprese italiane

Come denuncia il rapporto Outlet Italia dell’Eurispes, lo scenario è da brividi: stiamo trasformando la nostra industria in museo. Abbiamo oltre 600 musei e archivi d’impresa – da Ferrari a Ducati, da Perugina ad Alessi – ma pochi impianti che producano ancora valore in Italia. Il problema? La miopia delle élite industriali italiane: abbiamo smesso di investire nel lungo periodo, abdicato alla visione strategica, sostituito il progetto industriale con il dividendo immediato. Le difficoltà esistono soprattutto per le piccole e medie imprese, a cominciare dalla pressione fiscale e dalla burocrazia. 

I numeri parlano chiaro: gli stranieri comprano il doppio delle aziende italiane di quante ne compriamo noi, e spendono meno della metà. Siamo un outlet del Made in Italy, una terra di conquista, con rare eccezioni, come il caso Carrefour che cede la sua rete italiana di 1.188 punti vendita all’azienda italiana NewPrinces Group, il riassetto di TIM, con Poste Italiane che ha acquisito il 15 per cento delle azioni da Vivendi o la Nestlé che sta pensando di rivendere Sanpellegrino e l’Acqua Panna (che così potrebbero tornare italiane).

Dal 2008 al 2012, 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti esteri. Tra il 2014 e il 2023, ci sono state 2.948 acquisizioni estere di aziende italiane (contro le 1.673 acquisizioni italiane all’estero) per un valore di 203 miliardi di euro. Marchi storici come nel campo del lusso (Gucci, Valentino, Bottega Veneta, Brioni, Loro Piana, Bulgari, Pomellato, Buccellati, Versace), dell’alimentare (Parmalat, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Eridania, Bertolli, Motta, Sperlari, Saila, Peroni, Star), dell’industria (Pirelli, Magneti Marelli, Indesit, Italcementi, Fiat Ferroviaria, AnsaldoBreda), dei trasporti e della difesa (Piaggio Aerospace, Ducati, Lamborghini), sono ormai solo brand italiani in mano a holding francesi, americane, tedesche, cinesi o giapponesi.

Il consumatore medio non se ne accorge: compra un prodotto con nome italiano, ignaro che dietro quel nome ci sia una multinazionale straniera che reinveste gli utili altrove. A farne le spese sono l’occupazione, la filiera locale, l’autonomia strategica e, soprattutto, la sovranità industriale, termine ormai tabù in un Paese che ha smesso da tempo di difendere se stesso, se non a parole. La vendita di Iveco non è un “nuovo inizio”, è il proseguimento di una lunga eutanasia industriale. Non stiamo costruendo nulla: stiamo smontando, smantellando, vendendo e archiviando la nostra storia industriale.

Accordo USA-Corea del Sud su dazi al 15%

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I governi di Stati Uniti e Corea del Sud hanno raggiunto un accordo sui dazi commerciali, fissandoli al 15% sulle merci sudcoreane, pari a quelli già applicati alle merci dell’Unione Europea. La Corea del Sud, il sesto partner commerciale degli Stati Uniti, avrebbe visto aumentare i dazi al 25% dal 1° agosto senza l’accordo. In cambio, la Corea del Sud istituisce un fondo di 350 miliardi di dollari per investimenti negli Stati Uniti, destinando 150 miliardi all’industria cantieristica e il resto a semiconduttori, batterie, energia e altri settori.

Gaza: Meloni cede alla pressione internazionale e telefona a Netanyahu per fingersi indignata

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Mentre la pressione dal basso ha spinto gli altri Paesi a compiere i primi timidie tardivipassi per un riconoscimento politico della Palestina, Meloni ha deciso di alzare la cornetta e chiamare Netanyahu, per «insistere sulla necessità di porre immediatamente fine alle ostilità». Per la premier riconoscere la Palestina sarebbe infatti «controproducente» perché «i tempi non sono maturi»; meglio parlare al telefono con il proprio omologo, usando parole forti che non comportino alcuna concreta presa di posizione contro il genocidio a Gaza. Nel corso della telefonata, Meloni non ha fatto accenno a possibili contromisure da parte dell’Italia, né fornito alcuna dichiarazione di intenti; si è limitata, piuttosto, ad avanzare richieste da titolo di giornale, che non risulta chiaro come intenderebbe far sì che vengano rispettate.

La telefonata tra Meloni e Netanyahu si è svolta la sera di mercoledì 30 luglio e il contenuto della conversazione è stato reso noto da un comunicato governativo. Durante la telefonata, Meloni si è limitata a ripetere le solite parole dal tono duro e dai risvolti poco tangibili: la situazione a Gaza è «insostenibile ed ingiustificabile», l’entrata di aiuti per la popolazione civile costituisce una «urgenza indifferibile», i bombardamenti vanno fermati «immediatamente»; come, fuor di parole, Meloni intenda indurre Israele a interrompere i massacri e garantire che i cittadini palestinesi non muoiano di fame, non risulta chiaro. La telefonata di Meloni a Netanyahu arriva a margine della conferenza franco-saudita per la Palestina, boicottata direttamente dagli Stati Uniti. Al suo termine, i Paesi partecipanti – Italia compresa – hanno firmato un appello per promuovere un processo di pace a fasi che, così come le formule usate da Meloni, non presenta alcun elemento che suggerisca come i firmatari intendano far sì che Israele accetti le condizioni stabilite. Parallelamente, 15 Paesi hanno ratificato un’ulteriore carta in cui si impegnano a riconoscere lo Stato di Palestina, misura che Francia, Regno Unito e Canada hanno annunciato che prenderanno a settembre, in occasione dell’avvio del prossimo ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU.

Se gli Stati hanno deciso di riconoscere uno Stato palestinese, è solo grazie alla pressione proveniente dal basso. Tale iniziativa arriva in ritardo e rischia di risultare insufficiente se non accompagnata da misure concrete per fermare il genocidio a Gaza; rappresenta tuttavia un primo passo per aumentare la pressione internazionale su Tel Aviv, in un momento in cui ai governi non è più concesso ignorare ciò che succede a Gaza e in Cisgiordania. Nonostante ciò, l’Italia non ha firmato il documento perché, secondo Meloni, i tempi per il riconoscimento della Palestina «non sono ancora maturi». Di misure alternative alle sole parole, però, l’Italia ne avrebbe a disposizione diverse altre. Meloni potrebbe infatti muoversi per sospendere i trattati con Israele, sanzionare i ministri israeliani, i coloni o le entità che collaborano con lo Stato ebraico, oppure unirsi alla causa per genocidio intentata dal Sudafrica; azioni che non solo non ha mai fatto, ma che ha ostacolato in ogni sede. La maggioranza ha infatti boicottato i tentativi di interrompere i memorandum d’intesa con Israele, ha votato contro mozioni che chiedevano l’introduzione di sanzioni e, in generale, si è sempre limitata a vaghe formule di «sostegno alla “soluzione dei due Stati”», senza mai scendere nel concreto. Sin dall’escalation del 7 ottobre, l’Italia ha infatti appoggiato non troppo velatamente la linea statunitense di sostegno incondizionato allo Stato ebraico, senza mai alzare la voce se non quando costretta. La telefonata di ieri non fa che confermare questo approccio.

Nuova Papua Guinea, Carlo D’Attanasio assolto e liberato dopo 4 anni

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Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha reso noto che la Suprema Corte di Giustizia della Nuova Papua Guinea ha assolto Carlo D’Attanasio, velista pescarese arrestato oltre quattro anni fa nel Paese asiatico con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. In seguito alla pronuncia dei giudici, D’Attanasio è stato liberato e ora si trova in ospedale per un tumore al colon, che lo affligge da circa due anni. Il suo avvocato, Mario Antinucci, ha sottolineato la storicità della decisione, evidenziando le violazioni del giusto processo e la mancanza di prove contro il cittadino italiano.

Il presunto “assalto antisemita” all’autogrill e i deliri della stampa italiana

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Di quanto accaduto domenica all’autogrill di Lainate non sappiamo quasi nulla. C’è un video in cui si vedono molte persone apostrofare un cittadino francese con la kippah in testa (il tipico copricapo ebraico) dicendogli «Andate a casa vostra, assassini», «Free Palestine», «Questa non è Gaza, è l’Italia, Palestina Libera». Il video si interrompe senza che nessuno alzi le mani e l’unica minaccia fisica proviene dalla bocca dello stesso cittadino ebraico che, rivolgendosi a un uomo, dice: «Vieni fuori che ti spacco la faccia» e poi urla «Viva Israele». Sappiamo poi che un lavoratore dell’Autogrill ai cronisti ha affermato «non ho visto nessuno alzare le mani». E sappiamo che lo stesso cittadino ebraico, il presunto assalito, non ha sporto denuncia, né si è recato in un pronto soccorso a farsi refertare, salvo poi dire di essere stato brutalmente menato sui social. Eppure oggi, leggendo i principali quotidiani e ascoltando le dichiarazioni politiche tutti credono che vi sia stato «un brutale pestaggio», una «caccia all’ebreo» e che siamo piombati in una «Shining del fanatismo», come scrive il solito Michele Serra sulla Repubblica.

Sapere con precisione cosa sia accaduto non è nemmeno nelle nostre possibilità. Può essere che dopo l’interruzione del video, che ha registrato dal telefonino lo stesso cittadino ebraico che si trovava all’autogrill con il figlio, ci sia stata effettivamente un’aggressione fisica? Non possiamo escluderlo, è stata aperta un’indagine dalla Procura di Milano e magari nelle prossime settimane se ne saprà di più. Può essere, al contrario, che non ci sia stato niente più di qualche insulto e il presunto aggredito si sia inventato un pestaggio inesistente? Allo stesso modo è possibile e nessuno può escluderlo. La deontologia professionale in questi casi prevede un comportamento ovvio e lineare per i giornalisti: data l’impossibilità di verificare i fatti o non si scrive nulla, o – se proprio si ritiene che si tratti di una notizia – se ne scrive utilizzando la forma dubitativa e tutti i condizionali del caso.

Invece, alcuni dei principali quotidiani italiani hanno titolato come segue: Percosse e odio razziale (La Repubblica); Famiglia ebrea assalita (Il Corriere della Sera); Caccia all’ebreo (Libero); Ebrei picchiati in autogrill (Il Giornale); Antisemitismo, è allarme (Il Giorno). All’interno articoli in fotocopia, dove l’uso del condizionale quasi non esiste e – senza alcuna fonte a supporto, se non la denuncia via social del presunto aggredito – si dà per assodato che dentro l’autogrill in provincia di Milano numerose persone, accecate dall’odio per quanto Israele sta facendo a Gaza, hanno picchiato brutalmente un povero turista colpevole solo di essere di religione ebraica.

E poi, al solito, ci sono gli articoli di “approfondimento”. Dove spesso si ha l’unico obiettivo editoriale di fare allarmismo generalizzato. Come quello pubblicato su La Stampa a firma di Luca Monticelli, che si limita a fare da cassa di risonanza al rapporto falso sugli “877 casi di antisemitismo” registrati in Italia nel 2024. Un rapporto spazzatura (che su L’Indipendente abbiamo smascherato già quattro mesi fa) scritto dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, il cui consiglio di amministrazione è nominato direttamente dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ossia la principale organizzazione in difesa degli interessi israeliani in Italia.

E poi, purtroppo, ci sono anche gli editorialisti del pensiero dominante. Maestri della retorica da quattro soldi da usare sempre e solo a senso unico. Col loro stile liberale che, ci mancherebbe, «le critiche ad Israele sono legittime ma, signora mia, dove andremo a finire così se non facciamo qualcosa». Come Annalisa Cuzzocrea che nel consueto registro strappalacrime tira fuori Anna Frank, Primo Levi, il nazismo e il fascismo per spiegare che là fuori è pieno di antisemiti che odiano gli ebrei con la scusa della Palestina. Come il pluri-riciclato Daniele Capezzone (quello che, ancora oggi, afferma che Israele a Gaza si sta legittimamente difendendo dal terrorismo) che, su Libero, si chiede retoricamente «Cos’altro deve succedere perché sia convocata una grande manifestazione contro l’antisemitismo». Come, ovviamente, il “campionissimo” Michele Serra, che sulla propria rubrica fissa su Repubblica, amaramente considera che «pestare un francese ebreo incontrato in autogrill […] solo perché indossa una kippah e reagisce agli insulti; e pensare che pestarlo significhi essere “dalla parte di Gaza”, richiede una buona dose di stupidità».

E io intanto, altrettanto retoricamente, mi chiedo di cosa serva una buona dose per pontificare regolarmente, e sempre in direzione del vento, su cose di cui non si sa nulla.

Il governo italiano ha chiesto un prestito da 14 miliardi per comprare armi

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Il governo italiano ha avanzato una richiesta per accedere al fondo europeo SAFE per la difesa, al fine di ricevere finanziamenti nel settore bellico. La richiesta prevedrebbe l’accesso a 14 miliardi di euro in cinque anni, con rimborsi da spalmare in 45 anni. Il fondo SAFE è una delle iniziative previste dal piano di riarmo lanciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Esso prevede la raccolta di una somma fino a 150 miliardi di euro sui mercati, da erogare sotto forma di prestiti diretti agli Stati che ne fanno richiesta, e contempla l’avvio di procedure d’appalto comuni e semplificate. Hanno aderito al fondo altri 17 Paesi dell’UE, 12 dei quali hanno chiesto anche una deroga al Patto di Stabilità per aumentare i propri investimenti nell’industria delle armi al di fuori dei vincoli di debito da esso previsti.

La richiesta di adesione al fondo SAFE da parte dell’Italia sarebbe stata presentata nella notte di martedì 29 luglio, in seguito a un vertice tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini e, tra gli altri, il ministro della Difesa Guido Crosetto. L’arrivo della domanda è stato confermato dal Commissario Europeo alla Difesa, Andrius Kubilius, che ha annunciato il «forte interesse» dei Paesi UE verso il fondo. Da quanto comunica Kubilius, le richieste di adesione mobiliterebbero un totale di «almeno 127 miliardi di euro» in potenziali appalti di difesa. «La tempestiva manifestazione di interesse consentirà alla Commissione di valutare la domanda e di prepararsi alla raccolta di fondi sui mercati dei capitali», si legge nel comunicato della Commissione, che ricorda anche che il termine per la presentazione formale delle richieste di adesione a SAFE è fissato al 30 novembre 2025. I dettagli delle richieste dei singoli Paesi non sono ancora noti, ma secondo le anticipazioni della stampa l’Italia avrebbe avanzato domanda per accedere a 14 miliardi per finanziare programmi di difesa già pianificati nel quinquennio 2026-2030.

Il fondo SAFE è una delle misure principali del piano di riarmo della Commissione Europea. SAFE ha l’obiettivo di sostenere appalti congiunti tra gli Stati membri, incentivando la cooperazione industriale nel settore della difesa. I prestiti saranno erogati agli Stati che ne faranno richiesta sulla base di piani nazionali. Il piano si articola in due categorie principali di spese ammissibili: la prima riguarda munizioni, missili, sistemi di artiglieria e capacità di combattimento terrestre, inclusi droni e sistemi anti-drone; la seconda comprende difesa aerea e missilistica, capacità navali, trasporto aereo strategico, sistemi spaziali e tecnologie basate sull’intelligenza artificiale. Per richiedere i finanziamenti a un progetto, almeno il 65% del suo valore deve provenire da aziende del settore della difesa situate nell’UE, in Ucraina o in un Paese dello Spazio Economico Europeo o dell’Associazione Europea di Libero Scambio. La quota di componenti provenienti da Paesi terzi non potrà superare il 35%, a meno che non si tratti di subappalti inferiori al 15% del valore complessivo. In questo quadro, l’Unione ha aperto anche alla partecipazione di Paesi terzi selezionati, tra cui l’Ucraina e il Regno Unito.

Sono in tutto 18 i Paesi dell’UE che hanno chiesto l’accesso al fondo SAFE per la difesa; accanto all’Italia, figurano infatti anche Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Cipro, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna e Ungheria. A questi si aggiungono i 16 Paesi che hanno chiesto una deroga al Patto di Stabilità per aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. Tale misura, anch’essa centrale nel piano di riarmo, prevede che i Paesi aumentino la spesa per la difesa fino all’1,5% del proprio prodotto interno lordo annuo per quattro anni, ignorando i vincoli del Patto di Stabilità e ricorrendo a nuovo debito. Tale sospensione, sostiene von der Leyen, potrebbe generare fino a 650 miliardi di euro nel prossimo quadriennio che, uniti ai 150 messi a disposizione con SAFE, porterebbero il totale delle risorse mobilitate per il piano a 800 miliardi. A chiedere l’accesso a questa seconda misura sono stati, precisamente, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

USA: sanzioni al giudice brasiliano che ha incriminato l’ex presidente

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Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America ha annunciato che il Paese imporrà sanzioni ad Alexadre de Moraes, giudice della Corte Suprema brasiliana, per avere perseguito l’ex presidente Bolsonaro. Bolsonaro è sotto processo con l’accusa di aver pianificato un golpe per impedire all’attuale presidente Lula di insediarsi nel gennaio 2023; Moraes ha ordinato misure restrittive nei suoi confronti, accusandolo di aver favorito interferenze straniere da parte di Trump. La Casa Bianca ha inoltre annunciato l’imposizione di dazi aggiuntivi del 40% su tutti i prodotti brasiliani in entrata, sostenendo che il Paese rappresenti una «minaccia alla sicurezza nazionale, alla politica estera e all’economia» degli USA.

Il Colorado sta costruendo un grande ponte per garantire l’attraversamento agli animali

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attraversamento faunistico colorado

Il Colorado sta costruendo un'infrastruttura che potrebbe rivoluzionare la sicurezza stradale per gli animali selvatici: un cavalcavia faunistico che, secondo i funzionari dei trasporti statali, sarà il più grande al mondo. Situato sulla Interstate 25, il tratto che collega Denver e Colorado Springs, questo passaggio permette alla fauna locale di attraversare la strada in sicurezza, riducendo significativamente il rischio di collisioni con i veicoli. Il progetto, del costo di 15 milioni di dollari, è un passo concreto per proteggere tanto la fauna selvatica quanto i conducenti, su una delle ar...

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