Dopo due anni di genocidio in Palestina, 65 mila morti accertati (che potrebbero diventare centinaia di migliaia, una volta rimosse le macerie di Gaza), oltre 420 persone morte di fame, milioni di sfollati e infiniti appelli della società civile, la Commissione Europea mette sul tavolo il primo pacchetto di sanzioni contro lo Stato di Israele. Lo fa probabilmente più per accontentare la popolazione civile, stanca dell’inazione dei governi di fronte al più grande massacro in diretta streaming della storia, che per imporre effettive ritorsioni contro Tel Aviv. Nel pacchetto non vi è infatti nulla che possa effettivamente fermare il genocidio o l’occupazione illegale dei territori in Cisgiordania: nessuna misura contro il commercio di armi, né contro la collaborazione di aziende e università europee nei progetti di ricerca a scopi finti civili (ma in realtà usati per sorvegliare e colpire i palestinesi) da parte dello Stato sionista.
Tra le misure proposte dalla Commissione vi è innanzitutto la sospensione del trattamento di favore concesso a Israele nelle relazioni commerciali e definito nel quadro dell’Association Agreement tra UE e Israele. Se la proposta verrà approvata, saranno dunque applicati dazi doganali pari a quelli applicati a qualsiasi altro Paese terzo con il quale l’UE non abbia accordi di libero scambio. Ciò, scrive la Commissione, inciderà sulle dotazioni annuali tra il 2025 e il 2027, oltre che sui progetti di cooperazione istituzionale in corso e sui progetti finanziati nell’ambito della cooperazione regionale. Nel 2024 le importazioni dell’UE da Israele sono ammontate a 15,9 miliardi le esportazioni a 26,7 miliardi, rendendo l’UE il principale partner commerciale di Tel Aviv. Secondo quanto riferito da membri della commissione a Reuters, Israele vedrà l’imposizione di dazi su circa 5,8 miliardi di euro di merci, pari ad appena 227 milioni all’anno di tasse.
L’imposizione deriva dal fatto che l’UE ha rilevato violazioni, da parte di Israele, dell’art. 2 dell’Accordo, che lo vincola al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. «In particolare, tale violazione si riferisce al rapido deterioramento della situazione umanitaria a Gaza a seguito dell’intervento militare di Israele, al blocco degli aiuti umanitari, all’intensificarsi delle operazioni militari e alla decisione delle autorità israeliane di portare avanti il piano di insediamento nella cosiddetta zona E1 della Cisgiordania, che compromette ulteriormente la soluzione dei due Stati», riporta il documento della Commissione. La decisione, per essere resa effettiva, dovrà superare la votazione degli Stati con una maggioranza qualificata. Ad ogni modo, della sospensione del commercio di armi o di materiale militare nemmeno l’ombra.
La Commissione propone poi sanzioni contro Hamas, «coloni violenti» e «ministri estremisti» del governo israeliano, ovvero Itamar Ben-Gvir (ministro della Sicurezza nazionale) e Bezalel Smotrich (ministro delle Finanze). La decisione, che per diventare effettiva dovrà essere approvata dal Consiglio all’unanimità, segue la decisione di Israele di bloccare gli aiuti umanitari (ormai in vigore da sei mesi) e «dei continui bombardamenti, delle operazioni militari, degli sfollamenti di massa e del collasso dei servizi di base» (iniziati l’8 ottobre 2023). Vi sono infatti indicazioni dell’Alto Rappresentante degli Affari Esteri UE, infatti, secondo le quali così facendo Israele violerebbe «diritti umani e principi democratici». Una «grave violazione», sottolinea la Commissione.
Per poter diventare effettive le due misure dovranno ottenere rispettivamente la maggioranza qualificata e la maggioranza assoluta tra gli Stati membri. Un traguardo che pare difficile, se non impossibile da raggiungere, considerato che difficilmente Paesi come l’Italia, la Germania e l’Ungheria daranno il proprio via libera. Ad ogni modo, si tratta di misure che hanno più un valore politico che altro, dal momento che non si traducono in un effettivo ostacolo per l’economia di occupazione e di genocidio dello Stato. Ma a due anni dall’inizio del massacro della popolazione civile, è comunque, finalmente, qualcosa di concreto.
Un giudice della Louisiana ha ordinato l’espulsione dagli Stati Uniti di Mahmoud Khalil, noto leader delle proteste filopalestinesi nei campus universitari a livello nazionale, verso l’Algeria o la Siria, sostenendo che nella sua domanda per la green card avrebbe intenzionalmente nascosto informazioni sostanziali. Khalil, residente permanente legale, sposato con una cittadina americana e padre di un figlio negli USA, in una dichiarazione all’ong American Civil Liberties Union (Aclu) ha risposto accusando l’amministrazione Trump di “vendicarsi” per il suo impegno politico.
Negli ultimi dieci anni, il numero di bambini che vivono in povertà estrema nel mondo è diminuito. I dati più recenti raccolti dalla Banca Mondiale e dall’UNICEF mostrano che nel 2024 sono circa 412 milioni i minori che sopravvivono con meno di 3 dollari al giorno, pari al 19% della popolazione infantile globale. Dieci anni fa erano 507 milioni, ovvero il 24%. Una riduzione che coinvolge quasi 100 milioni di bambini, nonostante il periodo di forte incertezza causata dalla pandemia di Covid-19, iniziato nel 2020.
Lo studio si basa su soglie di povertà aggiornate, calcolate in base al potere d’a...
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Con il recente annuncio di Madrid, sono cinque i Paesi europei che hanno dichiarato di rifiutare di partecipare all’Eurovision 2026 se vi prenderà parte anche Israele. La Spagna diventa così il primo Paese dei “Big Five” (che comprende Italia, Germania, Francia e Regno Unito) che annuncia l’operazione di boicottaggio di Israele. Le motivazioni non sono solo di natura etica: se da un lato i Paesi hanno mostrato preoccupazione per quanto sta avvenendo a Gaza, dall’altro hanno manifestato timori per «l’impatto negativo» derivante dall’eccessiva politicizzazione dell’evento, come conseguenza della presenza di Israele.
In Spagna, la proposta è giunta dal direttore dell’emittente RTVE, José Pablo López, ed è stata approvata con maggioranza assoluta (10 voti a favore, 4 contrari e una astensione) da parte del Consiglio di Amministrazione dell’azienda. Ad aprire il dibattito sulla partecipazione di Israele all’Eurovision era stata proprio RTVE, quando, nel corso dell’Assemblea Generale della UER (Unione Europea di Radiodiffusione, organizzazione internazionale che comprende operatori pubblici e privati del settore della teleradiodiffusione) aveva chiesto di aprire un dibattito «serio e profondo» sul tema. Il segretario generale di RTVE, Alfonso Morales, aveva sottolineato anche la necessità di tenere in conto l’impatto negativo della presenza di Israele alla manifestazione canora, dal momento che, nelle ultime edizioni, l’attenzione si è spostata più sulle questioni politiche che su quelle culturali e artistiche.
Un annuncio simile è arrivato lo scorso 9 settembre dall’emittente islandese RÚV, la quale ha riferito che «è possibile» che il Paese non prenda parte al contest se la UER autorizzerà la partecipazione di Israele. «Abbiamo seri dubbi sulla condotta sia dell’emittente pubblica israeliana che del governo israeliano per quanto riguarda l’Eurovision, e abbiamo espresso queste preoccupazioni all’interno dell’UER, sostenendo che le regole del concorso vengono violate» ha riferito Stefán Eiríksson, direttore generale – anche se la RÚV non ha presentato richiesta formale di esclusione di Israele dal concorso. Pochi giorni prima era stato il turno della Slovenia, che aveva fatto una dichiarazione simile. Il 12 settembre era poi stata la volta dell’Irlanda: «la posizione della RTÉ è che l’Irlanda non parteciperà all’Eurovision Song Contest 2026 se Israele sarà ammesso al concorso. La decisione finale sulla partecipazione dell’Irlanda sarà presa una volta che l’UER avrà comunicato la propria decisione», ha fatto sapere l’emittente. A questi si è aggiunta l’Olanda, la cui emittente AVROSTOS ha dichiarato che «la sofferenza umana, la soppressione della libertà di stampa e l’ingerenza politica sono in contrasto con i valori dell’emittenza pubblica» e che «non può più giustificare la partecipazione di Israele alla luce dell’attuale situazione, considerando le gravi sofferenze umane che continuano a verificarsi a Gaza». AVROSTOS ha inoltre espresso «profonda preoccupazione per la grave erosione della libertà di stampa» e per il numerosi giornalisti uccisi nell’enclave, oltre a ricordare che esistono «prove comprovate dell’interferenza del governo israeliano durante l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest, in cui l’evento è stato utilizzato come strumento politico».
Già la scorsa edizione dell’Eurovision, svoltosi dal 13 al 17 maggio a Basilea, era stata oggetto di pressioni al fine di escludere Israele dalla competizione, ma le azioni si erano fermate alle proteste e petizioni. Queste avevano già visto protagoniste Spagna, Islanda e Slovenia, le quali, in una lettera all’UER, chiedevano che Israele fosse escluso dalla competizione. Questo non era avvenuto, e l’evento era stato accompagnato da forti proteste contro il governo israeliano e il protrarsi del genocidio in Palestina. La decisione dell’UER sarà nota entro dicembre, dopo un processo di consultazione. Nel frattempo, proprio a causa delle controversie in corso, le scadenze per la presentazione degli artisti e il ritiro volontario sono state prorogate. In tutto ciò, Israele non ha ceduto di un passo alle pressioni, confermando la propria presenza al prossimo evento.
L’Amministrazione Trump ha nuovamente annunciato di essere vicina a un accordo sulla gestione del social cinese TikTok. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, le trattative ruoterebbero correntemente attorno a un consorzio di investitori americani composto da Oracle, Silver Lake e Andreessen Horowitz. Questo triumvirato imprenditoriale acquisirebbe l’80% di una nuova società creata ad hoc, lasciando agli azionisti cinesi la quota restante del 20%. Facendo riferimento a ragioni di sicurezza nazionale, tuttavia, la gestione dei dati verrebbe affidata interamente a Oracle, questo nonostante l’azienda sia già stata accusata in passato di utilizzare tecnologie invasive per tracciare e profilare illecitamente i cittadini.
Le negoziazioni si sarebbero intensificate in occasione degli incontri commerciali svoltisi nei giorni scorsi a Madrid tra diplomatici statunitensi e cinesi, un’accelerazione che sarebbe giustificata anche all’approssimarsi della scadenza del 17 settembre, data entro la quale TikTok rischiava altrimenti la chiusura. Trovare un’intesa, però, resta complesso: il destino della piattaforma è ormai uno dei temi più delicati nelle relazioni politiche e contrattuali tra Washington e Pechino. Per rispondere alle preoccupazioni bipartisan legate alla sicurezza nazionale, TikTok avrebbe messo a punto una nuova app dedicata al mercato americano, con algoritmi di raccomandazione sviluppati da ingegneri locali e tecnologia concessa in licenza dalla casa madre cinese, ByteDance. Sempre secondo il WSJ, il nuovo assetto prevederebbe anche un consiglio di amministrazione a maggioranza statunitense, con un membro designato direttamente dal governo americano.
Sebbene i termini dell’accordo non siano stati ancora ufficializzati, è evidente che restino molti, moltissimi, nodi da sciogliere. Ciò nonostante, il Presidente Donald Trump ha deciso di estendere attraverso un ordine esecutivo la scadenza dei termini precedentemente prevista, rinviandola al 16 dicembre. In ogni caso, si prospetta uno scenario in cui sarà chiesto agli utenti di trasferirsi su una nuova applicazione, attualmente in fase di test. Se le indiscrezioni della testata fossero confermate dai fatti, il flusso di dati della piattaforma verrebbe convogliato interamente nei server texani di Oracle, che da tempo si sta avvicinando a TikTok, con l’intenzione di gestirne il traffico.
La presenza di Oracle nel consorzio era quasi scontata, tuttavia non manca comunque di sollevare parecchie perplessità. Pur essendo oggi nota soprattutto per le sue soluzioni cloud dedicate alla gestione dei database, l’azienda affonda le sue origini in un progetto della CIA e ha mantenuto a lungo rapporti privilegiati con l’intelligence e le polizie statunitensi. A pesare ulteriormente sul quadro ci sono i recenti coinvolgimenti in una class-action per una massiccia fuga di dati e le accuse di profilazione illecita, sedate in passato attraverso risarcimenti milionari. Negli ultimi giorni Oracle è tornata sotto i riflettori anche per un accordo da 300 miliardi di dollari con la società di intelligenza artificiale OpenAI: un’intesa dal sapore più visionario che concreto, che non ha comunque impedito ai mercati di reagire con entusiasmo e al CEO Larry Ellison di diventare – seppur per breve tempo – l’uomo più ricco del mondo.
È azzurro l’oro per il salto in lungo ai mondiali di atletica in corso a Tokyo: a guadagnarsi la medaglia è Mattia Furlani, 20 anni, il più giovane della categoria maschile che abbia mai conquistato un oro in questa disciplina. Furlani ha saltato per ben 8 metri e 39 centimetri, superando di 5 centimetri il giamaicano Gayle e di 6 centimetri il cinese Shi. L’Italia conquista così la 14ma medaglia d’oro di sempre ai mondiali di atletica. «Ancora non ci credo, quello che è successo stasera è qualcosa di magico» ha commentato Furlani subito dopo il risultato.
Mentre Israele sta occupando militarmente la Striscia di Gaza, realizzando una deportazione de facto della popolazione palestinese, un attentato terrorista a Gerusalemme, rivendicato da Hamas, ha provocato sei vittime. Se dovessimo stilare una lista delle parole che suscitano un brivido di terrore in noi occidentali, la parola terrorista sarebbe in cima alla lista. Perché questa follia? Da dove nasce, perché nasce e come cresce questo male? Ma per capire davvero questo fenomeno, è necessario fare un passo indietro. Per capire non soltanto la genesi del terrorismo, ma perché il conflitto tra Israele e Palestina è durato per decenni fino a raggiungere il culmine con il genocidio in corso a Gaza.
Nel 1987 una donna israeliana di nome Arna Mer-Khamis fonda nel campo profughi di Jenin il Freedom Theatre, un teatro nato con lo scopo di dare ai bambini palestinesi un luogo dove poter immaginare qualcosa di diverso dalla guerra. I filmati registrati in quegli anni sono stati poi raccolti in un film-documentario I bambini di Arna. La prima volta che lo vidi rimasi scioccata. Fu anche la prima volta che vidi Jenin. Non ricordo di aver mai visto un posto simile prima, né la favelas, né le baraccopoli indiane, né i più sperduti e miseri villaggi africani hanno la bruttezza di Jenin. Una «città», distrutta e ricostruita più volte, che quando vennero effettuate le riprese era un cumulo di macerie. Letteralmente. E fu su un cumulo di macerie che venne trovato uno dei «bambini di Arna», il piccolo Ala che sedeva sullo scheletro della propria casa distrutta dai bombardamenti.
A poco a poco le riprese vanno avanti e facciamo la conoscenza degli altri bambini che Arna prende sotto la sua ala. Ashraf, Yuossef, Zakaria, Nidal, i loro nomi… Ma a restarti impressi sono soprattutto gli occhi tristi e rassegnati di Ala, la determinazione di Ashraf che diceva di voler diventare il «Romeo Palestinese», e il sorriso contagioso di Youssef.
Nel frattempo passano gli anni, il teatro viene chiuso e i bambini crescono. Quindici anni dopo il figlio di Arna, Juliano, nel bel mezzo della seconda intifada, torna a Jenin per scoprire che fine abbiano fatto.
L’insegna del Freedom Theatre, il teatro fondato dall’attivista pro palestinese israeliana Arna Mer-Khamis. Un luogo nato con lo scopo di dare ai bambini palestinesi un luogo dove poter immaginare qualcosa di diverso dalla guerra
Ashraf, che recitava la parte del principe che voleva catturare il sole, è stato ucciso durante la battaglia di Jenin. Ala invece è a capo della resistenza armata. Durante questa «battaglia» si vede gente in pantaloncini e maglietta che spara contro i carri armati. Chi non ha un fucile, lancia pietre. Un gesto che ad alcuni potrebbe sembrare un simbolo di resistenza, ma che visto in quei filmati che sono cronache in diretta di una guerra senza via d’uscita, trasmette un senso di disperazione.
Juliano intervista Ala, e quando gli domanda: ti arrenderesti? Ala gli risponde: «arrendermi mai». Libertà o morte, dice con un sorriso triste, ma in realtà sembra dire: la libertà è la morte. Da questo inferno. Muore poco dopo, poco prima della resa di Jenin. Infine ci viene mostrato Youssef, il bambino dal sorriso irresistibile.
Indossa una divisa mimetica, ha la barba e una bandana nera sulla testa, gli occhi vuoti come quelli di un morto che cammina. Del bambino sorridente che era prima non è rimasta traccia. Alle sue spalle c’è la foto di Reham Wared, la bambina di Jenin morta dissanguata dopo che una bomba aveva colpito la sua scuola. A restarti impressa è la sua voce mentre dice addio alla sua famiglia. Non c’è odio, né rabbia, né rimpianto, né disperazione, né tristezza o paura nella sua voce. Nulla.
Si è fatto saltare in aria una settimana dopo aver girato quel filmato, uccidendo quattro persone in un attacco suicida. E allora non puoi fare a meno di domandarti: cos’è successo a quel bambino che rideva sempre? Forse la risposta è lì, in quello sguardo vuoto, in quello sguardo piatto.
Il 29 novembre 2001 quattro israeliani sono stati uccisi da un attacco suicida a nord di Tel Aviv. Il primo dicembre, stavolta a Gerusalemme, due kamikaze hanno ucciso dodici persone e ne hanno ferite centottanta. Il giorno dopo un attentatore ha fatto saltare in aria un autobus a Haifa. Il 5 dicembre un altro terrorista si è fatto esplodere proprio nel centro di Gerusalemme.
Vi ho parlato di Jenin per farvi sentire cosa significhi essere un palestinese. Perché sentire è il primo passo per capire. Ma se volete davvero capire il conflitto tra Israele e Palestina, provate adesso a mettervi nei panni di un israeliano e a immaginare cosa si prova a vivere a Tel Aviv, a Gerusalemme o in qualche altre distretto d’Israele.
Impari innanzitutto a non frequentare certe strade. Ad evitare i luoghi affollati. Quando porti i tuoi figli a scuola, ti domandi: li rivedrò ancora?
«Il dito compone freneticamente i numeri degli ospedali dove sono ricoverati i feriti. È arrivata da voi la signorina…? Il centralinista scorre gli elenchi in suo possesso. Secondi lunghi come l’eternità. Pensiamo a lei. Pensiamo a come sarà senza di lei. Alla radio trasmettono le urla di giubilo registrate da radio Hamas a Nablus: «Vendicheremo la tua morte, Abu Hanud».
Allora dove sta il bene e dove sta il male? Chi dobbiamo condannare? Per chi dobbiamo parteggiare?
Il figlio di Arna Mer-Khamis, Juliano. Egli era noto per il suo attivismo politico nel conflitto israelo-palestinese, con dure prese di posizione nei confronti della occupazione dei territori in Palestina e della politica dello stato di Israele in materia di insediamenti nelle zone occupate. È stato assassinato a Jenin il 4 aprile 2011, colpito alla testa da colpi di arma da fuoco sparatigli da un uomo mascherato.
La politica giudica, il tribunale condanna, la Storia spiega, sviscera ed esamina le ragioni, i perché e i percome, e con il senno di poi assegna meriti e colpe. L’arte invece no, fa qualcosa di più: ti fa sentire. Ogni cosa. Ma torniamo a Youssef, il bambino che recitava in un teatro di Jenin e che da grande è diventato un terrorista. La domanda che non puoi fare a meno di porti è: perché? Da cosa nasce e perché nasce questo male?
La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica, dice Shylock nel Mercante di Venezia mentre pretende una libbra di carne di Antonio, suo rivale in affari e suo debitore, e in pratica chiede e pretende il diritto di ucciderlo. E una delle pagine più belle e drammatiche di tutta la letteratura è il momento in cui Shylock pronuncia queste parole: «Ha deriso delle mie perdite, ha schernito i miei guadagni, ha denigrato la mia nazione, ha intralciato i miei affari, mi ha gelato gli amici, mi ha acceso contro i nemici; e tutto questo perché? Perché sono un ebreo».
Nel XVI secolo, l’epoca di Shakespeare, quando compariva in scena l’ebreo era sempre descritto come un essere meschino, avido e inferiore, ma invece Shakespeare, essendo Shakespeare, rivoluziona questo stereotipo e ci costringe a sentire tutto il dolore di Shylock. E poi Shylock incalza: «Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto, non ci dobbiamo vendicare? »
Ecco il «manifesto» della vendetta. La vittima diventa Carnefice. E alle volte lo supera perfino in crudeltà, astuzia e perfidia, come ci mostra Shylock nel Mercante di Venezia. Tu hai ucciso me, ed io uccido te. Io ho sofferto, e tu soffrirai. Io ho sanguinato e tu sanguinerai. Quando David Grossman riporta le grida di giubilo di radio Hamas, il cerchio si è chiuso.
Violenza, condanna e rappresaglia e al termine della rappresaglia, una nuova spirale di violenza. Questa, volendo essere sintetici, è stata la storia degli israeliani e dei palestinesi negli ultimi settant’anni. Ma perché nessuno ha mai interrotto questo ciclo?
C’è un altro romanzo, I robot e l’Impero, di Isaac Asimov, che ci può aiutare a comprendere meglio quello che sta accadendo in Palestina. Una delle invenzioni più affascinanti di Asimov furono le sue tre famose leggi della robotica.
La Prima Legge recita: «Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno». Un robot che permetta, anche in modo involontario, che a un essere umano venga fatto del male si auto-distrugge. A un certo punto però accade che alcuni esseri umani, atterrati su un pianeta di nome Solaria, s’imbattano in un robot-supervisore. Il robot all’inizio li osserva con attenzione, senza fare nulla, li ascolta e poi di colpo esclama: «Tu non sei un essere umano». E li attacca.
Come può un robot, programmato e vincolato dalla Prima Legge, tentare di uccidere un essere umano? È un comportamento che altera le fondamenta stessa del mondo di Asimov. Ma ecco quel guizzo di genialità che irrompe in quest’opera di fantascienza e che ci fa capire tanto non sul mondo creato da Asimov ma sul nostro.
Un robot può uccidere tranquillamente un essere umano, senza violare la Prima Legge. «a patto di modificare la definizione di essere umano. Per il robot supervisore la proprietà basilare di un essere umano era il linguaggio. (…) qualsiasi cosa di sembianze umane era definibile come essere umano solo se parlava il Solariano. Mentre, a quanto pare, qualunque cosa di aspetto umano che non parlasse con accento solariano doveva essere distrutto senza esitare».
Geniale, no? Come può un soldato sparare a un uomo disarmato? Perché il fucile non esita? Perché la mano non gli trema? Come può un uomo farsi saltare in aria per uccidere, volontariamente e consapevolmente, altre persone? Perché la sua mano non esita? Perché i suoi occhi non tremano? Come possono delle persone che sono padri e madri, fratelli e sorelle, figli, mogli, compagni abituarsi a una carneficina di cui sono complici o artefici? Alterando la definizione di essere umano.
E c’è una parola perfetta per farlo: Nemico. Il Nemico non è umano, non quanto lo sono io. I suoi cari non valgono quanto i miei. Lui non soffre quello che soffro io, non ha amato come ho amato io, non sogna quello che sogno io e certamente non piange con l’intensità con cui piango io.
«Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, quindi Caio è mortale», così pensa Ivan Ilijc in quel libro straordinario che si chiama La morte di Ivan Ilijc. Quel semplice sillogismo: Caio è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, dunque Caio è mortale, era parso a Ivan Ilijc, «giusto soltanto nei riguardi di Caio. (…) Forse che Caio era stato innamorato come lui? Forse che Caio poteva condurre a termine l’istruzione d’un processo? Caio, sì, è mortale, ed è giusto che muoia, ma non io». Il Nemico è come Caio. La sua vita non vale quanto la mia; se non ha sentimenti profondi come lo sono i miei, posso ucciderlo. O vederlo morire, senza sentirmi in colpa. «Quando il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant» scrive Omar El Akkad, «dice che Israele sta lottando contro degli “animali”, non si tratta soltanto di una dichiarazione convinta, ma di un via libera».
In ogni guerra, in ogni conflitto c’è sempre un «noi» e un «loro». Non solo per chi la guerra la vive, la soffre e la patisce da vicino, ma anche per chi la guerra la osserva e la commenta da molto lontano.
Oggi Israele per molti ha il volto di Netanyahu. Ha il volto del Colono che con ardore fanatico vuole riportare Israele alla sua antica grandezza. Ha il volto del soldato che spara alla folla indifesa in attesa di ricevere aiuti. Per altri invece, per coloro che hanno preso le parti di Israele, la Palestina ha il volto di Hamas. Arabo, musulmano, terrorista: queste parole sono funzionali alla completa disumanizzazione del popolo palestinese che tiene in piedi la propaganda sionista. Ed è anche il motivo per cui in Occidente molti esitano, o più precisamente si sentono meno coinvolti emotivamente parlando, nel condannare Israele.
Il genocidio dei palestinesi viene ridimensionato nel tessuto collettivo ed emotivo per il semplice fatto che il palestinese non viene percepito come un essere umano a tutti gli effetti. La Storia è intessuta di categorie di persone, gli indios, i neri, gli ebrei, che furono percepiti come esseri inferiori, e dunque soggetti sui quali era possibile esercitare una violenza inaccettabile per la società civile. L’unico modo per far perdere terreno alla propaganda israeliana è nel riumanizzare il popolo palestinese, restituendogli quella complessità che la Storia gli ha sottratto. Peccato, che quando ciò avverrà, sarà comunque troppo tardi.
Quello commesso a Gaza dall’esercito israeliano contro la popolazione civile palestinese è giuridicamente “genocidio”. È quanto afferma senza mezzi termini il rapporto stilato da una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite, istituita dal Consiglio dei Diritti Umani (OHCHR) e guidata da Navi Pillay: per la prima volta un organo ufficiale dell’ONU qualifica come genocidio le azioni condotte da Israele nella Striscia di Gaza e negli altri territori occupati. Secondo il documento, ciò che è accaduto dal 7 ottobre 2023 in avanti non può essere ridotto alla logica di una guerra asimmetrica o a un’operazione antiterrorismo. Si tratta, al contrario, di una campagna sistematica che ha comportato la distruzione deliberata delle condizioni di vita della popolazione palestinese, con l’obiettivo di annientarla in parte significativa.
Le accuse del rapporto
Navi Pillay, giurista sudafricana, ex Alta Commissaria ONU per i Diritti Umani e attuale presidente della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite (OHCHR).
Il dossier stabilisce non solo che vari atti qualificabili come genocidio sono stati compiuti, ma che tali atti sono stati associati a un “intento genocida”, ravvisabile nelle azioni, nella strategia militare, nei danni arrecati e nei discorsi di figure chiave dello Stato israeliano. Il rapporto, di 72 pagine, non si limita a elencare dati e numeri. Ricostruisce invece il quadro normativo, richiama la Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e applica i criteri giuridici ai fatti documentati sul terreno. Ne risulta un’accusa precisa e fondata, destinata ad avere conseguenze politiche e legali di lungo periodo. Secondo la Commissione, le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso «quattro dei cinque atti genocidi» definiti dalla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Gli investigatori delle Nazioni Unite hanno stabilito così che, quanto commesso da Israele a Gaza dall’ottobre 2023, è stato fatto con «l’intento di distruggere i palestinesi» presenti nel territorio. La commissione in questione non è un organo legale, ma i suoi rapporti possono aumentare la pressione diplomatica e servire a raccogliere prove da utilizzare nei tribunali dato che ha anche un accordo di cooperazione con la Corte penale internazionale (Cpi), con la quale «abbiamo condiviso migliaia di informazioni». Israele respinge le accuse «categoricamente», definendo il rapporto in questione come «parziale e mendace».
La definizione giuridica di genocidio
Per capire la portata delle conclusioni della Commissione, è necessario ricordare che la Convenzione sul genocidio e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale individuano cinque atti che, se commessi contro un gruppo nazionale, etnico o religioso con l’intento di distruggerlo, configurano il crimine più grave del diritto internazionale. Non basta, dunque, la gravità dei fatti: ciò che trasforma un conflitto in genocidio è la prova dell’intento di eliminare, in tutto o in parte, il gruppo preso di mira. È questo l’elemento soggettivo, l’“intento genocida”, che spesso si rivela il più difficile da dimostrare. La Commissione afferma però che, nel caso di Gaza, tale intento risulta evidente sia dalle modalità dell’offensiva israeliana sia dalle dichiarazioni dei suoi vertici politici e militari. Secondo il rapporto, dai discorsi di alcuni leader israeliani e dalle modalità con cui sono state condotte le operazioni militari (tipo di armi, tipi di attacchi, distruzione sistematica di infrastrutture civili, blocco degli aiuti) emerge che l’intento genocida è l’unica inferenza ragionevole dati i fatti. Non si tratta, dunque, di un’interpretazione forzata, ma della conclusione a cui si giunge considerando l’insieme delle prove raccolte.
Gli atti accertati
Il documento elenca quattro atti previsti dalla Convenzione che sarebbero stati effettivamente commessi. In primo luogo, vi è l’uccisione diretta di migliaia di civili, donne e bambini compresi, attraverso bombardamenti e attacchi indiscriminati. Secondo la Commissione, «Israele ha utilizzato munizioni pesanti non guidate, con un ampio margine di errore, in aree residenziali densamente popolate. L’esito di questi attacchi è coerente con la strategia dichiarata impiegata da Israele. Come ha affermato un portavoce delle forze di sicurezza israeliane, “ci concentriamo su ciò che provoca il massimo danno”». La Commissione ha osservato che «le forze di sicurezza israeliane hanno ripetutamente sottoposto le aree urbane della Striscia di Gaza a pesanti bombardamenti con armi esplosive ad ampio raggio, anziché con armi di precisione (o “intelligenti”), portando alla distruzione completa di interi quartieri». In secondo luogo, viene sottolineato il danno fisico e mentale arrecato alla popolazione: ferimenti, amputazioni, traumi psicologici, malattie non curate per il collasso del sistema sanitario. La Commissione ha anche dettagliato nei suoi precedenti rapporti «l’uso sistematico, da parte di Israele, della violenza sessuale e di genere». Un terzo atto riguarda l’imposizione di condizioni di vita insostenibili, dal blocco degli aiuti umanitari alla distruzione di ospedali e infrastrutture essenziali, fino alla mancanza di acqua potabile e cibo. Infine, la Commissione cita episodi in cui sono state colpite e smantellate le strutture mediche per la fertilità e la riproduzione, interpretandole come misure volte a impedire la nascita di nuovi membri della comunità palestinese. Il quinto atto tipico del genocidio, cioè il trasferimento forzato di bambini, non è stato invece accertato con lo stesso livello di evidenza. Ciò non riduce, tuttavia, la gravità delle conclusioni: quattro su cinque atti previsti dalla Convenzione sono stati considerati realizzati.
L’intento genocida
Il punto centrale del rapporto è la dimostrazione dell’intento. Gli investigatori sostengono che l’unica inferenza ragionevole che si può trarre dal complesso delle prove è che Israele abbia agito con l’obiettivo di distruggere, almeno in parte, la popolazione palestinese. A supporto di questa affermazione vengono riportati i discorsi di esponenti israeliani di primo piano, in cui si parla di “guerra santa” o si evoca l’annientamento e la cancellazione della Striscia, del calibro di: «Li ridurremo in macerie… andatevene ora perché opereremo con forza ovunque» (Netanyahu, 7 ottobre 2023), «È un’intera nazione laggiù ad essere responsabile… Non è affatto vero che i civili non fossero coinvolti» (Isaac Herzog, 13 ottobre 2023) o «Polverizzeremo ogni maledetta porzione di terra… la distruggeremo e la sua memoria… fino a quando non sarà annientata» (Brigadiere Generale David Bar Khalifa). Dichiarazioni di questo tipo non possono essere liquidate come “retorica politica”: per la Commissione rappresentano segnali concreti di incitamento al genocidio. A queste parole si aggiunge uno schema di condotta militare difficilmente spiegabile come semplice azione difensiva. La sistematicità dei bombardamenti su infrastrutture civili, la distruzione di scuole e ospedali, il blocco degli aiuti, l’assedio che impedisce alla popolazione di rifugiarsi o sopravvivere dignitosamente delineano un disegno coerente, incompatibile con l’idea di limitare il danno collaterale in un’operazione militare: «Tali azioni hanno creato condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione fisica del gruppo palestinese, in tutto o in parte». È questo insieme di elementi a costituire la prova dell’intento genocida.
Le responsabilità dei vertici
La Commissione non si ferma a un’analisi astratta. Indica con chiarezza le responsabilità politiche di Benjamin Netanyahu, Primo Ministro, di Isaac Herzog, Presidente dello Stato, e di Yoav Gallant, già Ministro della Difesa. Le loro dichiarazioni, secondo gli investigatori, hanno contribuito a incitare al genocidio, mentre le autorità israeliane non hanno adottato alcuna misura efficace per prevenire gli atti o per punirne i responsabili. Si tratta di un’accusa diretta che apre scenari inediti: per la prima volta, i massimi vertici di uno Stato alleato dell’Occidente vengono formalmente accusati da una Commissione ONU di aver istigato un genocidio. Leggiamo, infatti, nel rapporto: «Le dichiarazioni dei leader israeliani, incluso il Primo Ministro, costituiscono una prova diretta dell’intento genocida. La Commissione conclude che il modello di condotta delle operazioni militari, considerato unitamente al linguaggio ufficiale, non lascia altra inferenza plausibile che l’intento fosse quello di distruggere, almeno in parte, il gruppo palestinese a Gaza».
Il metodo dell’inchiesta
Il lavoro della Commissione si basa su interviste a vittime, testimoni, operatori sanitari e umanitari, integrate da dati forniti da ONG, agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni indipendenti. Le immagini satellitari hanno consentito di verificare la distruzione sistematica di interi quartieri, mentre la raccolta di documenti open-source ha permesso di incrociare testimonianze e fonti. Israele non ha collaborato con l’inchiesta, ma secondo la Commissione questa mancanza non intacca la solidità delle conclusioni raggiunte. Anzi, il rifiuto di fornire dati e accesso può essere interpretato come un ulteriore ostacolo alla trasparenza. Non sorprende che Israele abbia respinto il rapporto, definendolo un attacco politico e negando qualsiasi intento genocida.
Le implicazioni internazionali
Il rapporto richiama anche gli obblighi della comunità internazionale: nessuno Stato può rimanere complice, sia attraverso forniture di armi sia con sostegni diretti o indiretti a un conflitto qualificato come genocidio. Da qui la raccomandazione di sospendere immediatamente assistenza e cooperazione militare con Israele, di adottare sanzioni mirate e di rafforzare il sostegno agli strumenti della giustizia internazionale, dalla Corte Penale Internazionale alla Corte Internazionale di Giustizia. L’appello è rivolto anche alle Nazioni Unite, cui si chiede di monitorare costantemente la situazione, riferire al Consiglio di Sicurezza e valutare la creazione di meccanismi di protezione internazionale per la popolazione di Gaza. La portata del documento è, quindi, duplice. Da un lato, fornisce una base giuridica autorevole per eventuali procedimenti giudiziari che potrebbero influire sui procedimenti già avviati, come la causa del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia e che potrebbero coinvolgere direttamente la leadership israeliana, dall’altro obbliga gli Stati a prendere posizione. Il rapporto della Commissione ONU segna, pertanto, un passaggio decisivo e rompe un tabù diplomatico: quello che avviene a Gaza e nei territori occupati non è l’“effetto collaterale” di una guerra: è un crimine assoluto che richiede prevenzione, punizione e cessazione immediata.
Nel 2024 l’Italia si colloca al 14° posto tra i 27 Paesi OCSE europei per spesa sanitaria pubblica pro-capite e ultima tra i membri del G7. La spesa si ferma al 6,3% del PIL, sotto la media OCSE (7,1%) ed europea (6,9%), con un gap di 43 miliardi di euro rispetto agli altri Paesi UE. Secondo la Fondazione Gimbe, il sottofinanziamento è ormai strutturale e genera crescenti tensioni politiche e difficoltà regionali nel garantire i livelli essenziali di assistenza. Le conseguenze ricadono sui cittadini, costretti a fare i conti con liste d’attesa infinite, pronto soccorso al collasso, carenza di medici, disuguaglianze territoriali e spese sempre più frequenti di tasca propria.
Nel momento in cui Israele compie un ulteriore passo nell’offensiva nella Striscia di Gaza, occupando Gaza City, e mentre la comunità internazionale continua ad esitare nel fare dei passi decisivi ancora dopo due anni di genocidio contro la popolazione civile,da Ravenna si alza forte la voce dei cittadini. Ieri, martedì 16 settembre, migliaia di persone sono scese in piazza contro l’invio di armi dal porto romagnolo, da cui continuano a partire forniture a sostegno dell’esercito di Netanyahu.
Il caso è emerso il 30 giugno, quando un carico partito su gomma dalla Repubblica Ceca è stato successivamente imbarcato e ha fatto tappa a Ravenna con un carico di munizioni, esplosivi e altro materiale bellico, per poi ripartire diretta a Haifa, dove è giunta il 4 luglio. Tutto ciò sarebbe avvenuto senza alcuna autorizzazione da parte dell’UAMA, l’autorità che regolamenta il transito di armamenti. A scoprirlo sono stati alcuni operai del porto, che hanno poi girato l’informazione all’osservatorio Weapon Watch e alla giornalista de il Manifesto, Linda Maggiori: «Abbiamo fatto un accesso agli atti — ha spiegato a L’Indipendente — e l’autorità delle dogane ha confermato quanto accaduto, sostenendo che si trattava di un transito intercomunitario e che quindi non fosse necessaria alcuna autorizzazione. Cosa palesemente non vera, ed è il motivo per cui abbiamo presentato un esposto in Procura per la violazione della legge 185 del 1990».
La vicenda di Ravenna non è isolata, né unica in Italia, ma è emblematica delle modalità con cui armi ed esplosivi continuano a muoversi verso Israele anche dal nostro Paese, nonostante il governo continui a ripetere di aver sospeso le licenze a partire dal 7 ottobre 2023. Il tutto alla luce del sole: secondo la Relazione annuale dell’UAMA 2024, l’Italia ha infatti autorizzato esportazioni militari verso Israele per circa 21 milioni di euro. Armi che partono da Ravenna, come dai porti di La Spezia, Genova e Livorno.
Manifestazione contro il transito di armi dal porto di Ravenna verso Israele
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«Noi ci rifiutiamo di essere coinvolti, anche indirettamente, in quello che oggi è diventato uno sterminio di massa, un genocidio» ha detto al microfono Alex Viroli, portavoce del comitato autonomo dei portuali. Davanti a lui, migliaia di persone: membri dei comitati contro la guerra, collettivi studenteschi, ma anche semplici cittadini desiderosi di manifestare la propria indignazione. «Basta armi a Israele», «Fuori Israele genocida dal porto di Ravenna», «Fine dell’occupazione, Palestina libera», si leggeva negli striscioni che aprivano il corteo. La manifestazione, organizzata da BDS, ha ottenuto una prima vittoria parziale: l’annuncio del corteo ha infatti causato l’annullamento di un incontro programmato nell’ambito del progetto UnderSec, cofinanziato dall’Unione Europea nel quadro di Horizon Europe e che vede il porto di Ravenna collaborare con Israele e con l’azienda militare Rafael nello sviluppo di sistemi di sorveglianza e sicurezza marittima. «Israele è leader mondiale in questo campo — ha spiegato a L’Indipendente Ionne Guerrini di BDS —: dove ci sono progetti che richiedono lo sviluppo di dispositivi militari, Israele c’è, perché ha la possibilità di testarli direttamente sul campo, sulla pelle dei palestinesi». «Ufficialmente l’incontro di UnderSec è stato annullato per mancanza di iscritti — continua Linda Maggiori —, in realtà noi pensiamo sia accaduto perché la città si è ribellata».
Se da una parte i cittadini fanno sentire la propria voce, dall’altra continua il silenzio complice delle istituzioni locali e regionali che, in linea con quanto accade nei governi di tutta Europa, da un lato condannano il massacro a Gaza ma dall’altro non adottano alcuna misura concreta. Sia il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, sia il presidente della Regione, Michele de Pascale, hanno dichiarato di voler interrompere le relazioni con Israele e si sono detti sorpresi del passaggio di armi attraverso il porto. In realtà, sottolineano gli attivisti, le istituzioni sono perfettamente a conoscenza sia del progetto UnderSec sia dei traffici che avvengono nello scalo, dove la principale società di gestione, la Sapir, è controllata in maggioranza da Regione, Comune e Provincia. «Questa manifestazione ha proprio lo scopo di obbligare le autorità a uscire dal silenzio — conclude Ionne Guerrini —. Le dichiarazioni della Corte penale internazionale impongono alle istituzioni di prendere provvedimenti. Altrimenti sono complici di genocidio». E purtroppo lo siamo anche noi.
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