giovedì 13 Novembre 2025
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L’Ufficio scolastico del Lazio vuole denunciare tutti gli studenti in occupazione

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Il Direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Rocco Pinneri, ha inviato una lettera alle scuole della sua Regione Lazio per chiedere di identificare e denunciare gli studenti che prendono parte alle occupazioni. Oltre alle sanzioni disciplinari che vorrebbe vedere applicate, Pinneri invita gli istituti scolastici a far pagare ai ragazzi i costi di sanificazione o le riparazioni di eventuali danni. Le parole del Direttore arrivano dopo una nuova ondata di proteste che si è susseguita nei giorni scorsi, con oltre 50 scuole occupate solo a Roma in quello che si sta dimostrando il movimento di protesta studentesca più importante dell’ultimo decennio.

Perché ragazzi e ragazze manifestano e occupano gli edifici in cui dovrebbero recarsi per seguire le lezioni? Lo avevano raccontato a L’Indipendente direttamente i ragazzi dell’Osa (Opposizione d’Alternativa Studentesca, uno dei collettivi più rappresentativi delle proteste in corso), spiegando che protestano contro le riforme liberiste che stanno rendendo le scuole «una gabbia asservita agli interessi dei privati» e per poter riottenere un pieno diritto alla socializzazione. Da tempo gli studenti avanzano come richiesta base quella di essere ascoltati ed ottenere un confronto con le istituzioni, ma per ora quello che ricevono è solo repressione (l’ultimo caso di pochi giorni fa, quando la polizia ha fermato due studenti appartenenti alle proteste).

Un quadro al quale si aggiungono ora le parole di Pinneri, che hanno portato anche i deputati Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) e Matteo Orfini (PD) a presentare una interrogazione parlamentare rivolta al ministro dell’Istruzione, Bianchi.

Secondo il Direttore dell’Ufficio Scolastico la soluzione è una sola: denunciare i compagni “rivoltosi”, impegnarsi a far tornare l’ordine e far cessare l’illegalità fra i corridoi. Quando Pinneri si esprime in questi termini, parlando appunto di illegalità, lo fa riferendosi proprio alle occupazioni, considerate “un reato di interruzione del pubblico servizio“. Nella lettera il direttore si dice disposto al dialogo “purché non vi sia un’occupazione in corso, non potendo ricevere chi sta commettendo un reato, perché violano il diritto costituzionale all’istruzione di quei numerosi studenti che non condividono il ricorso a tale strumento”.

Tra l’altro, proprio lo scorso gennaio la procura di Roma, interpellata sulle occupazioni scolastiche, aveva ribadito la legittimità delle proteste e delle manifestazioni: gli studenti non infrangono alcuna legge. Anzi, esercitano un diritto sancito e garantito dalla Costituzione. “Gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica, e partecipi alla sua gestione”.

Post associazione studentesca

Nonostante Pinneri insinui che si tratta di una piccola parte che impedisce alla maggioranza di studiare, i ragazzi che manifestano sono tanti. In risposta le istituzioni, ancora una volta, alzano un muro e definiscono “dialogo” minacce, atti punitivi e ritorsioni. Dall’inizio dell’anno scolastico, le occupazioni nei licei di Roma sono state circa 50. Le ultime il 13 dicembre al liceo Farnesina e Augusto. Il dialogo però non c’è quasi mai e non poche volte diventa violenza fisica: al liceo artistico Ripetta gli studenti hanno raccontato di una “carica” della polizia in cui è rimasto ferito un ragazzo e una studentessa ha denunciato di aver subito molestie da un agente.

[di Gloria Ferrari]

Caso Sea Watch, Carola Rackete prosciolta da tutte le accuse

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È stata prosciolta da tutte le accuse Carola Rackete, la comandante della nave della ong tedesca Sea Watch. Nel giugno del 2019 Rackete era stata arrestata per aver ignorato il divieto imposto dall’allora ministro Salvini e aver fatto sbarcare i 53 migranti soccorsi in mare, che da giorni si trovavano a bordo della nave in condizioni disperate. “Ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare” ha affermato la gip di Agrigento Micaela Raimondo, riconoscendo l’impossibilità per Rackete di sbarcare a Tripoli in quanto “porto non sicuro” e aggiungendo l’inesistenza di elementi che, al contario di quanto aveva affermato l’allora governo Lega-M5S, potessero far ritenere lo sbarco “non inoffensivo”.

Yemen, l’ONU dimezzerà le razioni di cibo ai bisognosi perché non ha fondi

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Per lo Yemen si prospettano tempi peggiori di quanto non lo siano già. L’Agenzia ONU che si occupa di fornire assistenza alimentare ai Paesi in difficoltà (WORLD FOOD PROGRAMME) ha dichiarato in una nota che ridurrà la quantità di cibo destinata a otto milioni di persone bisognose in Yemen. Motivo? Non ci sono fondi sufficienti. Le famiglie interessate dal provvedimento riceveranno da gennaio la metà della razione minima giornaliera prevista, mentre per 5 milioni di yemeniti, la cui vita è già pericolosamente in bilico.

Il WFP aveva già preannunciato la possibilità di incorrere in inevitabili “ridimensionamenti” perché le scorte scarseggiano da tempo e le risorse economiche non sono sufficienti a colmare la richiesta di aiuti alimentari. I donatori hanno infatti destinato al programma “solo” 2,23 miliardi di dollari dei 3,85 necessari, secondo le Nazioni Unite, ad evitare che intere famiglie muoiano letteralmente di fame.

Nello specifico, come si legge sulla BBC, per dare continuità alla sua assistenza il WFP ha bisogno di almeno 813 milioni di dollari fino a maggio e di altri 1,97 miliardi di dollari per aiutare le persone che saranno in estrema emergenza alimentare nel 2022.

Yemen WFP

“Ogni volta che riduciamo la quantità di cibo, sappiamo che più persone che hanno già fame e insicurezza alimentare si uniranno ai milioni che muoiono di fame”, ha affermato Corinne Fleischer, direttore regionale del WFP per il Medio Oriente e il Nord Africa. A causa della mancanza di finanziamenti sono in pericolo anche le scorte destinate a bambini affetti da grave malnutrizione e alcune persone potrebbero essere completamente tagliate fuori dal programma. Stando a quanto riportato dal WFP, metà di tutte le famiglie, e cioè 16 milioni di persone, non ricevono una razione di cibo adeguata o non possono permettersene una: l’economia locale è al collasso e la moneta sta vivendo una grossa svalutazione.

Di pari passo, però, stanno aumentando i prezzi del cibo (che in alcuni casi sono addirittura più che raddoppiati) e la guerra non sembra dare tregua ai civili. Molti sfollati continuano a non avare un tetto sotto cui stare. Già prima che lo Yemen fosse teatro di una lunga guerra – cominciata nel 2015 – era considerato uno dei paesi più poveri del mondo arabo, con un’aspettativa di vita media inferiore a 64. Nel 2020 la nazione occupava il 179° posto (su 189) nella classifica di indice di sviluppo umano.

I primi conflitti hanno visto la luce durante la primavera araba del 2011, quando Abdrabbuh Mansour Hadi si è impossessato del potere in seguito ad una rivolta, spodestando Ali Abdullah Saleh. Il “cambio di guardia” avrebbe dovuto instaurare nel Paese una certa stabilità, ma le cose non sono andate esattamente così. Il nuovo presidente Hadi ha subito diversi attacchi da parte delle forze militari fedeli al suo predecessore, e l’economia ha cominciato a crollare. Hadi ha perso definitivamente potere nel 2014, costretto all’esilio all’estero per mano del movimento ribelle musulmano sciita Houthi. Il conflitto si è intensificato e allargato a tal punto da coinvolgere nel 2015 Arabia Saudita e altri otto stati per lo più arabi sunniti, che hanno attaccato per via aerea gli Houthi. Non è sbagliato infatti adesso definirlo uno scontro regionale e culturale nel Medio Oriente tra sciiti e sunniti. Ovviamente a danno dei civili.

[di Gloria Ferrari]

Il governo Draghi non ha alcuna intenzione di fermare le delocalizzazioni

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Con una votazione tenutasi all’inizio di questa settimana la Commissione Bilancio del Senato ha bocciato l’emendamento alla Legge di Bilancio 2022 scritto dai lavoratori della GKN e depositato dal senatore Mantero, promuovendo invece quella proposta dal Governo e redatta dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e dalla viceministra dello Sviluppo Economico Alessandra Todde. Sono state così ignorate le ripetute richieste degli operai che la ritenevano una misura iniqua mirata al solo vantaggio delle aziende, un provvedimento “dalla parte di Confindustria e delle multinazionali”.

Dopo cinque mesi di lavori il senatore Matteo Mantero, di Potere al Popolo (PaP), era giunto ad elaborare, insieme agli operai della GKN e a numerosi giuristi, il testo di un emendamento alla Legge di Bilancio 2022 che aveva l’obiettivo di introdurre “norme volte a impedire casi come quello di GKN e a tutelare l’occupazione e il tessuto produttivo del Paese da atteggiamenti predatori“. Nel luglio di quest’anno, infatti, 422 lavoratori dell’azienda GKN avevano ricevuto una mail con la comunicazione di licenziamento immediato e chiusura dello stabilimento. Sorte simile è toccata poche settimane fa a tre impiegate della multinazionale giapponese Yazaki, licenziate con effetto immediato tramite videochiamata in seguito alla decisione dell’azienda di delocalizzare gli uffici all’estero. Ad agosto, 90 operai della ditta Logista di Bologna hanno ricevuto un messaggio via Whatsapp con la comunicazione del termine della collaborazione lavorativa a partire dal 20 agosto. All’inizio di questa settimana la sede di Jesi della Caterpillar, presso la quale sono impiegate all’incirca 260 persone, annuncia la delocalizzazione. Iniziativa che il Governo potrebbe bloccare, ma sul quale ha preferito non esprimersi.

Prerogativa dell’emendamento era garantire il tessuto produttivo e i livelli occupazionali, con iniziative a tutela degli operai quali, in caso di cessione, la garanzia per i lavoratori dei medesimi livelli economico-normativi, con una ricollocazione ad un massimo di 40 km di distanza dall’impresa precedente. Al fine di avere un ampio bacino di applicazione, le iniziative previste avrebbero dovuto essere estese a tutte le aziende con un minimo di 100 dipendenti o anche di dimensioni inferiori, qualora nei due anni precedenti avessero portato a termine licenziamenti collettivi. La bozza Mantero-GKN è tuttavia stata respinta in Senato in favore di quella a firma Orlando-Todde. Le differenze tra le due sono sostanziali, in primo luogo perchè la Orlando-Todde è applicabile ad aziende con un minimo di 250 dipendenti, ovvero lo 0,1% delle aziende italiane. Inoltre, il piano per la limitazione delle ricadute occupazionali ed economiche in seguito alla chiusura può avere durata non superiore ai 12 mesi e non prevede obblighi di mantenimento dei livelli occupazionali, ma semmai una “gestione meno traumatica” delle procedure di licenziamento.

Il problema non erano le modalità” spiegano i lavoratori di GKN stessi in un video postato sui social. “Licenziamenti via Zoom, Whatsapp, sms, dimostrano quale sia l’arroganza delle multinazionali, ma il problema rimane sempre e soltanto il licenziamento in sè e la chiusura delle aziende”, problematica che il Governo affronta “chiedendo all’azienda che sta chiudendo solo una misura per mitigare l’impatto sociale della chiusura”. In pratica, affermano usando una metafora colorita ma efficace, “Noi chiedevamo di abolire la pena di morte e si è finiti a discutere sul galateo del boia”.

Unica alternativa per i lavoratori, ai quali la notifica di licenziamento va consegnata con 90 giorni di preavviso, è l’integrazione salariale straordinaria, misura emergenziale e assistenzialista che non permette una risoluzione strutturale della problematica. In caso di mancata attuazione del piano, inoltre, per l’azienda è previsto il pagamento di un ticket di licenziamento raddoppiato. “In pratica con 90 giorni di avviso e con 600 mila euro si può chiudere un’azienda come GKN” spiegano i lavoratori. Al termine della durata del piano l’impresa può procedere con le procedure di licenziamento collettivo senza nemmeno versare il ticket di licenziamento (la Naspi) moltiplicato per tre volte, previsto dalla legge 92/2012.

Il Governo ha nuovamente fallito, come già in diverse occasioni, la possibilità di portare a termine iniziative a favore della popolazione, evitando il confronto con i settori direttamente interessati. Come affermano gli operai, “Il problema non sono le multinazionali che scappano, che scappino pure: il problema è cosa fa lo Stato che resta“. E lo Stato, in piena regola con la visione di Draghi, tira dritto sulla via delle privatizzazioni e dei licenziamenti di massa senza guardarsi intorno.

[di Valeria Casolaro]

Anche l’Italia dice addio agli allevamenti di pellicce

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Dal primo gennaio 2022 in Italia non sarà più possibile allevare animali di qualsiasi specie con lo scopo di ricavarne pellicce. Divieto previsto da un emendamento alla Legge di Bilancio approvato martedì in Commissione Bilancio del Senato. L’Italia seguirà la scia dei già venti Paesi europei in cui esistono interdizioni simili, possibile grazie all’emendamento numero 157.04 che prevede la dismissione degli allevamenti esistenti di animali da pelliccia entro e non oltre il 30 giugno 2022. Un grande traguardo se si pensa ai circa 60.000 visoni uccisi ogni anno in Italia e alle svariate specie animali allevate in cattività e poi uccise per ricavarne pellicce.

La manovra rappresenta una tappa fondamentale di una strada intrapresa dallo scorso novembre. Con l’esistenza dei focolai di Covid negli allevamenti di visoni, il ministero della Salute aveva ordinato la sospensione delle attività al loro interno, fino a dicembre 2021. Anche grazie a diverse campagne delle associazioni animaliste, si chiedeva non più una sola sospensione temporanea ma una chiusura definitiva. Così, da giugno del prossimo anno i cinque allevamenti ancora esistenti in Italia dovranno essere completamente smantellati. La loro fine vuole però essere una rinascita in chiave completamente diversa: la legge prevede l’assegnazione (entro la fine di gennaio 2022) di tre milioni di euro per la riconversione delle strutture in impianti agrivoltaici (un’agricoltura figlia dell’energia rinnovabile).

Sono previsti anche indennizzi per le strutture che dovranno chiudere i battenti e per quanto riguarda la nuova sistemazione degli animali ora in cattività è necessario attendere l’emanazione, entro il 31 gennaio 2022, di un decreto dei ministeri della Transizione ecologica, dell’Agricoltura e della Salute. Una notizia che dà sicuramente speranza e si aggiunge a diversi provvedimenti che cercano di rendere l’Europa un luogo più “umano”, dove viga il rispetto per ogni specie. Per quanto ci sia ancora molto da fare, è giusto riconoscere l’importanza di alcune azioni, come la recente iniziativa volta a mettere fine alla sperimentazione animale in Europa, la Francia intenta a migliorare esponenzialmente il benessere animale, il primo sì del Senato italiano per la tutela dell’ambiente e degli animali in Costituzione, il divieto all’importazione di animali esotici approvato in Italia e, sempre nel Bel paese, l’approvazione dell’emendamento per vietare l’abbattimento dei pulcini maschi.

[di Francesca Naima].

Antitrust, 10 mln sanzioni a Mediaworld, Unieuro, Leroy Merlin e Monclick

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L’Antitrust chiude l’anno con una maxi sanzione complessiva di più di 10 milioni di euro per Mediaworld, Unieuro, Leroy Merlin e Monclick. L’accusa: pratiche di e-commerce scorrette, in particolar modo durante il periodo della pandemia. In particolare, è stata contestata alle aziende la diffusione di informazioni ingannevoli circa la reale disponibilità dei prodotti venduti, i realtivi prezzi ed i tempi di consegna, ritardi nei rimborsi, la sospensione delle attività di customer care, l’ostacolare i diritti di recesso e numerose altre attività di e-commerce scorrette. Ad aggravare tali condotte vi è il fatto che siano state tenute in periodo emergenziale durante il quale la possibilità di spostamento dei clienti era significativamente ridotta.

Variante Omicron: dal Sudafrica arrivano buone notizie, che nessun media riporta

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Il Sudafrica, il primo paese in cui come è noto è stata rilevata la variante Omicron, sta pensando di porre fine al tracciamento dei contatti ed alla conseguente quarantena. Negli scorsi giorni infatti il Ministerial Advisory Committee (MAC) – un comitato di esperti che fornisce pareri al governo sul contrasto dell’emergenza pandemica – ha inviato un documento al ministro della Salute Joe Phaahla in cui viene consigliato di interrompere con effetto immediato il tracciamento e la messa in quarantena dei contatti delle persone positive al Covid, a prescindere dal fatto che siano o meno vaccinate. La notizia è stata riportata anche dal principale quotidiano online del Sudafrica News24, il quale ha confermato che il documento è stato recentemente inviato al ministro.

Nello specifico, all’interno dello stesso il Ministerial Advisory Committee afferma che il tracciamento dei contatti non è più necessario e che la quarantena dei contatti non è più praticabile nell’attuale clima sociale ed economico. Gli esperti sottolineano che dal 2020 si sono verificati diversi cambiamenti per ciò che concerne la situazione legata al Covid-19, motivo per cui c’è bisogno di una rivalutazione della gestione della pandemia. In tal senso, ricordano che «la proporzione di persone ad aver sviluppato l’immunità al Covid-19 (da infezione e/o vaccinazione) è aumentata notevolmente, superando il 60-80% in diversi sierosondaggi», ovverosia la misurazione dei livelli di anticorpi contro le malattie infettive.

La rivalutazione delle tecniche atte a contrastare il virus, inoltre, deve essere attuata anche poiché «sembra che esse non abbiano probabilità di successo». «Noi identifichiamo una proporzione molto piccola di contatti, in quanto identifichiamo una proporzione altrettanto piccola di casi Covid» affermano gli esperti, secondo cui i test sono fortemente orientati verso l’individuazione di casi sintomatici, mentre la stragrande maggioranza dei casi è asintomatica e non viene dunque rilevata. A tutto ciò si aggiunga anche che «la sensibilità del test SARS-CoV-2 non è ottimale ed a volte genera falsi negativi». Insomma, siccome la stragrande maggioranza dei casi non viene diagnosticata anche la maggior parte dei contatti non lo è, motivo per cui «la messa in quarantena e il tracciamento dei contatti hanno un beneficio trascurabile per la salute pubblica in Sudafrica». Alla luce di tutto questo, gli esperti chiedono che «nessun test anti Covid venga richiesto a meno che il contatto non diventi sintomatico».

La notizia però non è stata riportata dai media mainstream, che nelle scorse settimane avevano ampiamente parlato del Sudafrica a causa della nuova variante Omicron mentre ora – con gli esperti del governo che suggeriscono di mettere fine alle misure sopracitate e con una situazione epidemiologica in condizioni certamente non disastrose – sono silenti. Basterà ricordare che il Sudafrica se da un lato ha un elevato numero di contagi, con una media settimanale attuale di 18.195 casi al giorno, dall’altro ha una media settimanale di morti pari a 45 decessi al giorno. Nelle scorse ondate, invece, la media dei morti era molto superiore a quella attuale, nonostante un numero di casi simile. Il 9 luglio, ad esempio, si viaggiava ad una media settimanale di 19.694 casi al giorno, ma quella dei morti era di 363 al giorno.

L’andamento attuale tuttavia difficilmente può essere giustificato con la sottoposizione della popolazione sudafricana alla vaccinazione anti Covid, dato che ad essere stato completamente vaccinato è solo il 26,3% della popolazione. Ciò induce a pensare che la variante Omicron, a causa della quale i Paesi europei stanno nuovamente tornando ad imporre le restrizioni, potrebbe non essere così letale. Ipotesi rafforzata da una ricerca appena pubblicata e condotta dall’Istituto Nazionale per le Malattie Trasmissibili di Johannesburg, secondo la quale i sudafricani che contraggono il Covid-19 nell’attuale ondata di infezioni hanno l’80% in meno di probabilità di essere ricoverati in ospedale se contraggono la variante dell’omicron, rispetto ad altri ceppi. Anche i risultati di questa ricerca trovano raro spazio sui media, che preferiscono nella gran parte dei casi riportare la dichiarazione di stampo allarmista rilasciata dal direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa, Hans Kluge, il quale (senza portare ricerche o dati in merito) ha affermato che la variante Omicron in poche settimane sarà dominante in tutta Europa e spingerà i sistemi sanitari «sull’orlo del baratro». Ancora una volta media e istituzioni delle politiche sanitarie sembrano dunque preferire la comunicazione basata sull’allarmismo, nonostante dal Sudafrica arrivino notizie che lasciano sperare su un quadro in forte miglioramento.

[di Raffaele De Luca]

UE avvia azione legale contro la Polonia

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L’Unione Europea ha avviato un’azione legale contro la Polonia a causa delle decisioni prese dalla sua Corte costituzionale che, come spiega il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni, violano il primato del diritto comunitario. Da Varsavia l’azione dell’UE è definita “un’attacco alla costituzione e alla sovranità polacca”. La Commissione europea ha concesso alla Polonia due mesi di tempo per rispondere con una lettera formale che spieghi le motivazioni dell’infrazione: in caso non pervenga una risposta, la questione potrebbe passare alla Corte di giustizia europea. La Polonia non può essere espulsa dall’UE, ma potrebbe ricevere sanzioni giornaliere per il mancato rispetto delle norme comunitarie.

Libia, ora è ufficiale: le elezioni presidenziali non si faranno

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Anche se il sospetto c’era ormai da alcune settimane, ora è ufficiale che il 24 dicembre non ci sarà alcuna elezione presidenziale in Libia. Lo ha confermato il 22 dicembre una Commissione Parlamentare, basandosi su un documento redatto il 20 dicembre. Nel testo si legge che l’Alta commissione elettorale, l’organo incaricato di supervisionare il voto, ha ordinato ai comitati elettorali di tutto il territorio nazionale di sciogliersi.

Le criticità hanno riguardato soprattutto i criteri di selezione dei candidati: nell’ultimo periodo se ne potevano contare quasi 100, tutti con qualche caratteristica non perfettamente in linea con l’ideale di Presidente che un Paese auspicherebbe di avere.

Numeri elezioni Libia

«Non sono un profeta, e non sono uno stregone, non sono in grado di dirvi cosa accadrà», aveva detto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, quando gli era stato chiesto un commento sulle probabilità di successo delle elezioni promosse dall’Onu. «Faremo di tutto per facilitare il dialogo e risolvere questioni che potrebbero essere viste come elementi di divisione in Libia», aveva concluso, dopo aver elencato una serie di problematiche importanti che in Libia si sarebbero dovute risolvere al più presto.

Cos’è andato storto questa volta?

Probabilmente molte cose. Prima fra tutte la strategia delle Nazioni Unite, che “nel forzare” le elezioni non hanno preso in considerazione alcuni fattori. L’Onu non ha ben tenuto in conto il fatto che l’essenza della Libia non si esaurisce nel Governo della parte Occidentale del Paese. O almeno non solo. La realtà è che la nazione è costituita da una moltitudine di milizie, correnti politiche e ideologie diverse, con notevoli differenze anche all’interno di movimenti islamisti vicini tra loro. In particolare sono proprio le milizie impegnate in Libia che hanno un enorme potere decisionale sul come le cose effettivamente devono andare. E trascurarle o non tenerne conto a dovere significa commettere un errore già in partenza. Come l’episodio di martedì, quando buona parte dei candidati doveva incontrarsi a Bengasi per discutere del processo elettorale, e dall’altra parte diversi gruppi armati rivali hanno bloccato le strade di Tripoli.

Affinché le strategie funzionino è doveroso capire che il panorama libico è molto differenziato. Basta guardare la lista dei candidati. Tra loro c’era Abdul Hamid Dbeibah, primo ministro ad interim che durante la nomina da parte della comunità internazionale aveva promesso di non volersi candidare alla presidenza. E c’era anche un maresciallo, Halifa Haftar, che qualche mese prima aveva guidato le milizie alla conquista di Tripoli per ottenere il controllo su tutto il Paese. E c’era anche Saif Gheddafi, figlio di Muammar Gheddafi: il candidato che era stato condannato a morte nel 2015 per crimini di guerra, salvatosi solo grazie a un’amnistia. La storia degli altri ipotetici futuri presidenti non è meno complessa o contorta. Motivo per cui la Commissione non ha mai definitivamente approvato la lista ufficiale dei nomi.

Sembra, alla fine, che la proposta dell’Onu di procedere con delle elezioni non abbia affatto smorzato le tensioni ma anzi, ne abbia inasprito le divisioni. Se è vero che alle Nazioni Unite va il merito del “cessate il fuoco” dell’ultimi periodo, non si può esultare allo stesso modo per una politica internazionale che sembra non conoscere bene il territorio su cui interviene. Non si sa come andranno le cose e se per una nuova data bisognerà solo aspettare qualche settimana. È certo però che l’ennesima crisi potrebbe scoppiare da un momento all’altro, mettendo contro le milizie nemiche. Proprio come è accaduto dopo le elezioni del 2014, quando le profonde divisioni portarono la Libia ad una guerra civile durata anni.

[di Gloria Ferrari]

Perché le scuse usate per bloccare i brevetti dei vaccini sono immotivate

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Uno studio ha individuato una lista di 100 aziende, distribuite tra Africa, Asia e America Latina, con i requisiti per la fabbricazione dei vaccini mRNA contro il covid-19. Si tratta di una possibilità per decentrare e velocizzare la produzione, rendendola più accessibile ai Paesi più svantaggiati e maggiormente colpiti dalla pandemia. Human Rights Watch, insieme ad altre associazioni, ha scritto ai governi statunitense e tedesco affinchè facciano pressione per ottenere la condivisione della proprietà intellettuale da parte delle grandi aziende farmaceutiche, le quali fino ad ora si sono dimostrate restie a condividere le prorprie conoscenze.

Decentrare la produzione di vaccini mRNA contro il covid-19, rendendo il processo di produzione e distribuzione più equo, è possibile. Questo è quanto sostengono Human Rights Watch (HRW) e diverse altre associazioni, che hanno pubblicato lo studio prodotto dal coordinatore del progetto AccessIBSA, il quale si batte per la distribuzione dei vaccini in India, Brasile e Sudafrica, e un esperto dei vaccini della campagna Access di Medici Senza Frontiere. Tale studio sostiene che esistono almeno un centinaio di strutture nelle quali è possibile produrre i vaccini, distribuite tra Africa, America Latina e Asia.

“Se la manifattura dei vaccini potesse essere distribuita tra i Paesi, coprendo tutti i continenti, potrebbe fornire sicurezza, stabilità e indipendenza a enormi parti del mondo” si legge all’interno dello studio. “A causa della natura unica della tecnologia mRNA, e la sua mancanza di componenti biologiche, i vaccini mRNA possono essere prodotti da un enorme numero di produttori farmaceutici esistenti, anche quelli che non abbiano previa esperienza nella produzione di vaccini. Non si tratta di una supposizione teorica; è il modello di lavoro che Moderna e Pfizer-BioNTech hanno usato per collaborare con successo con altri produttori a contratto per aumentare la propria produzione”.

I governi statunitense e tedesco hanno entrambe fornito importanti finanziamenti a Pfizer-BioNTech, Moderna e J&J per la ricerca e lo sviluppo sui vaccini, motivo per il quale, secondo HRW, “hanno la responsabilità di spingere queste aziende a condividere più ampiamente la conoscenza e la tecnologia”.

“Tutto ciò di cui [le 100 aziende] hanno bisogno è che i governi degli Stati Uniti e della Germania mettano fine ai monopoli e condividano la loro preziosa tecnologia che hanno finanziato ed essenzialmente creato” sostiene Achal Prabhala, coordinatore di AccessIBSA. Con una condivisione della proprietà intellettuale, della tecnologia e dei materiali per produrre i vaccini si potrebbe subito iniziare la produzione, ma fino ad ora nessuna delle Big Pharma ha aderito alle iniziative proposte dall’OMS per la condivisione della proprietà intellettuale.

Tra la primavera e l’estate di quest’anno HRW ha scritto alcune lettere a Pfizer, Moderna e J&J per avere informazioni dettagliate riguardo alle politiche circa la disponibilità dei vaccini. Pfizer ha risposto comunicando che “solo poche strutture al mondo sono in grado di eseguire i passaggi critici necessari per produrre vaccini mRNA e gli input per produrre quei vaccini su larga scala”, mentre Moderna ha dichiarato di essere impegnata a “perseguire partnership in tutto il mondo per accelerare la produzione e la consegna del suo vaccino”. J&J, che ha esportato in Europa milioni di dosi prodotte in Sudafrica, si è rifiutata di rispondere.

Che intorno ai vaccini e ai contratti stipulati con i governi occidentali per la produzione e la diffusione aleggi poca chiarezza non è una novità. Il caso in questione dimostra ulteriormente come la sanità, anche in pandemia, sia un business i cui interessi finanziari soverchiano quelli di cura.

[di Valeria Casolaro]