La Commissione europea ha annunciato che saranno messi a disposizione un miliardo di euro in aiuti per il popolo afghano. In tal senso, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha affermato tramite una nota che bisogna «fare tutto il possibile per scongiurare un grave collasso umanitario e socio-economico in Afghanistan» e che lo si deve «fare in fretta».
Grecia: scossa terremoto di magnitudo 6.3 a Creta
In Grecia, sull’isola di Creta, questa mattina si è verificata una scossa di terremoto di magnitudo 6.3: a renderlo noto è stato l’ente di rilevazione greco. L’epicentro del sisma è stato registrato a largo delle coste meridionali dell’isola, precisamente 405 km a sud-est di Atene. Attualmente, però, fortunatamente non sono stati segnalati danni o feriti. Si tratta al momento di un resoconto differente, quindi, rispetto a quello della scossa di magnitudo 5.8 che lo scorso 27 settembre aveva colpito sempre l’isola di Creta: in quel caso, infatti, il terremoto aveva provocato un morto e dieci feriti.
Un’indagine conferma la censura social sui contenuti in favore della lotta palestinese
“Facebook (e le piattaforme appartenenti alla stessa azienda) ha rimosso e soppresso ingiustamente i contenuti social dei palestinesi e dei loro sostenitori, inclusi quelli riguardanti gli abusi dei diritti umani compiuti in Israele e Palestina durante le ostilità del maggio 2021”. È quanto riportato da Human Rights Watch (HRW), secondo cui la piattaforma online ha rimosso ingiustamente e senza criterio i contenuti postati da decine di attivisti palestinesi (e non solo) in merito alle violenze commesse da Israele.
Deborah Brown, ricercatrice senior sui diritti digitali e sostenitrice di Human Rights Watch, dice che “la censura di Facebook minaccia di limitare una piattaforma fondamentale per la diffusione delle informazioni e l’impegno su questi problemi”.
Di fatto, nonostante Facebook abbia riconosciuto in parte i propri errori e tentato di correggerne alcuni (ripristinando, ad esempio, dei post eliminati o degli utenti bloccati), il risultato finale risulta essere insufficiente. Prima di tutto perché l’azienda non è in grado di fornire una spiegazione alle restrizioni attuate, né di fornire dati certi su quanto grande poi sia stata effettivamente la portata della censura.
Per fare alcuni esempi. Instagram ha rimosso una fotografia di un edificio a cui faceva seguito una didascalia con su scritto: “Questa è una foto dell’edificio della mia famiglia prima che fosse colpito dai missili israeliani sabato 15 maggio 2021”. In più la società ha anche impedito il repost (una ripubblicazione) di una vignetta politica ideata con lo scopo di far capire che i palestinesi sono oppressi e non combattono una guerra di religione con Israele.
Episodi che appartengono a un’escalation di violenza che si è riversata in alcune parti di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati (OPT) a partire dallo scorso maggio. Periodo durante il quale molti palestinesi sono stati costretti a lasciare le loro case, manifestazioni pacifiche sono state soffocate nella violenza, molti luoghi di culto sono stati sfregiati, e una pioggia di missili ha ucciso indistintamente civili e militari. Una repressione giunta proprio quando, invece, c’era l’urgenza di comunicare, in tutti i modi possibili.
Pare che questi post siano stati rimossi perché contenenti “incitamento all’odio o simboli (che incitano all’odio)”, secondo Instagram. Il fatto che alcuni di essi, poi, siano stati ripristinati in seguito a segnalazioni e lamentele, dimostra però che qualcosa non funziona a dovere nei meccanismi di rilevamento dei social. E che spesso finiscano per prendere un grosso abbaglio. Abbaglio che in questo caso danneggia migliaia di persone: sopprimere dei contenuti impedisce di fatto che questi circolino. E rimetterli online dopo settimane non ha la stessa forza comunicativa che avrebbe avuto postarli nel momento giusto.
Secondo Human Rights Watch, oltre a rimuovere i contenuti in base alle proprie politiche, Facebook spesso si affida al volere dei governi. Il governo israeliano ha portato avanti una campagna molto aggressiva in favore della rimozione dei contenuti (a lui poco convenienti) dai social media. Stando a quanto sostenuto dall’ONG, l’Unità informatica israeliana, con sede all’interno dell’Ufficio del Procuratore di Stato, chiede a piattaforme come Facebook di rimuovere “volontariamente” i contenuti. In che senso? Invece di passare attraverso l’iter legale che prevede la presentazione di un’ingiunzione del tribunale (basata sul diritto penale israeliano) per eliminare i contenuti online, la Cyber Unit fa appello direttamente alle piattaforme.
Motivo per cui la HRW ha consigliato a Facebook di commissionare un’indagine indipendente proprio sulla moderazione dei contenuti, ponendo particolare attenzione su quelli riguardanti il conflitto in questione. Tuttavia, dal momento che non è chiaro in che modo le moderazioni social vengano fatte e su quali criteri si basino, non è possibile stabilire con certezza quante segnalazioni provengano degli utenti, quante direttamente dai governi e quanto siano frutto di calcoli algoritmici.
Basandoci sui fatti reali, è pur vero, però, che l’America si è sempre schierata dalla parte di Israele e non sorprenderebbe che le politiche aziendali del paese facessero lo stesso.
[di Gloria Ferrari]
Somaliland, lo Stato non riconosciuto che ha dichiarato guerra alla tratta dei ghepardi
Quattro anni di carcere al più agguerrito dei trafficanti di cuccioli di ghepardo. Questa la storica sentenza pronunciata in Africa contro “Cabdi l’Animale”, definito tra i peggiori commercianti illegali di felini di tutto il continente. Ad emanarla è stato un tribunale del Somaliland, Stato non riconosciuto autoproclamatosi indipendente dalla Somalia nel 1991. Una democrazia estremamente povera, ma paradossalmente efficiente, ha così dichiarato guerra alla tratta di ghepardi. Nonostante la conservazione delle specie selvatiche sia tutt’altro che prioritaria per i suoi abitanti. Anzi, per una piccola nazione indipendentista fondata sull’agricoltura di sussistenza – e le rimesse dall’estero- i grandi predatori sono solo che una minaccia. Tuttavia, una capillare sensibilizzazione degli allevatori e dei sani principi ecologici stanno facendo la differenza.
In tutta l’Africa sono ormai meno di 7 mila i ghepardi adulti. La maggior parte di questi, tra l’altro, vive al di fuori di aree protette ed è quindi maggiormente esposta al contrabbando. Nonostante vietato dal 1975, sono stati almeno 3.600 i ghepardi venduti illegalmente tra il 2010 e il 2019. E il Somaliland, suo malgrado, si è ritrovato ad essere crocevia di questo abominevole mercato di cuccioli. La sua condizione politica, nonché la sua posizione geografica, infatti, hanno fatto sì che la rotta verso i ricchi acquirenti del Golfo Persico fosse facilitata. Almeno fino a poco fa. «Pur essendo un paese giovane ed emergente, non vogliamo veder soffrire gli animali per via del commercio illegale», ha dichiarato la ministra dell’ambiente e delle politiche agricole. E alle parole, cosa non sempre scontata, hanno seguito i fatti. Con le poche risorse a disposizione – non essendo riconosciuto da altri Stati, il Somaliland non può accedere a fondi esterni – e in collaborazione con il ministero dell’interno, l’esercito e la guardia costiera, i controlli sono stati triplicati ed hanno portato ai primi frutti. Emblematica, dicevamo, la detenzione di Cabdi Xayawaan. L’uomo, ricco, ben radicato e di notevole influenza politica, è stato incastrato da soffiate locali culminate in un blitz che ha portato al suo arresto e alla salvezza di cinque cuccioli di ghepardo. La vera novità è stata però la sentenza: quattro anni, tra le più severe mai pronunciate per reati di questo tipo.
Salvare i ghepardi dall’estinzione, però, non può dipendere solo dal Somaliland. Fino alla fine di giugno di quest’anno, sono stati almeno 150 gli annunci di ghepardi in vendita. A comprarli, perlopiù ricchi magnati arabi che non esitano a sbandierare i loro ‘trofei’ sui loro personali profili Instagram. Da sempre simbolo di eleganza, il ghepardo è ora confinato ad oggetto di sfarzo ed ostentazione della ricchezza. Per scoraggiare la tratta illegale, gli Emirati Arabi hanno ad esempio vietato, nel 2016, il possesso di animali pericolosi, tra i quali i ghepardi. Sebbene la pena includa il carcere fino a sei mesi e multe fino a 136 mila dollari, sono ancora in troppi a possederli. Molti sembrerebbe si appellino ad una scappatoia normativa, ovvero, l’eccezione al divieto per centri di ricerca, parchi naturalistici e zoo, anche privati. Insomma, fintanto che ci sarà qualcuno intenzionato a comprarli, ci sarà qualcun altro disposto a scovarli dalle tane per contrabbandarli. Se l’importanza del patrimonio faunistico l’ha capita il povero Somaliland, si spera – ma non c’è da giurarsi – che possa fare altrettanto il ricco mondo arabo.
[di Simone Valeri]
Etiopia, nuova azione dell’esercito contro i ribelli del Tigray
Il TPLF (Fronte di liberazione del popolo del Tigray) ha denunciato un nuovo attacco da parte dell’esercito nazionale etiope. Le agenzie di stampa internazionali non hanno potuto verificare in maniera indipendente la notizia ma, quando interrogato al proposito, il portavoce del ministro etiope Abiy Ahmed non ha smentito la notizia. Lo scontro costituirebbe uno stop del cessate il fuoco concordato lo scorso giugno. Al Jazeera riporta come fosse noto che il governo etiope si stesse da molto preparando a questo momento. Gli scontri, iniziati nel novembre scorso, hanno portato sfollamenti e carestie per centinaia di migliaia di persone.
Il governo Draghi, con il pretesto dei fascisti, punta alla stretta sui cortei
Il governo intende porre una stretta sulle autorizzazioni a manifestare in seguito all’assalto alla sede della CGIL condotto da Forza Nuova. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera Il premier Mario Draghi avrebbe chiesto che d’ora in poi ci siano maggiori verifiche sulla sicurezza prima di dare il via libera ai cortei. Il semaforo verde dalle prefetture arriverà solo dopo una valutazione rigorosa dei rischi, limitando al massimo i cortei. In ogni caso le autorizzazioni alle manifestazioni statiche potranno essere rilasciate soltanto con garanzie reali di rispetto delle regole da parte degli organizzatori.
Sempre secondo quanto riportato dal Corriere, “la linea è tracciata: adesso la strategia deve cambiare. Dovrà essere stilata la lista dei luoghi che potrebbero essere presi di mira da chi protesta, predisponendo un cordone di protezione. Se si riterrà che non ci siano le condizioni per garantire la sicurezza, la manifestazione dovrà essere vietata impedendo in ogni modo a chi ha presentato richiesta di riuscire comunque a scendere in piazza”.
Quali saranno e chi dovrà assicurare “le garanzie reali” per poter ottenere l’approvazione delle manifestazioni non è specificato. Ne tantomeno trapela da palazzo Chigi quali siano le “regole” che dovranno essere rispettate. Forse che si intenda utilizzare le norme anti-covid per restringere il diritto a manifestare come già è avvenuto in Val di Susa contro il movimento No Tav? Per ora si tratta di indiscrezioni, o meglio di desideri del premier Draghi raccolti dal maggiore quotidiano italiano – attraverso la collaudata tecnica del retroscena, il quale solitamente cela veline arrivate direttamente dall’entourage dell’interessato – che andranno tradotti in misura di legge. Di certo appare chiaro come l’assalto alla Camera del Lavoro guidato da un manipolo di fascisti lasciati agire indisturbati si stia rivelando utile a giustificare una nuova stretta repressiva, rischio che già avevamo paventato nell’editoriale di ieri.
In Italia una stretta organica sul diritto a manifestare non è mai avvenuta durante la storia repubblicana, nemmeno negli anni ’70 quando nelle piazze si mettevano le bombe e molti militanti erano armati. Vi furono controverse leggi speciali che ampliarono le possibilità di indagini e carcere preventivo, ma nessuna stretta di legge al diritto ad esprimere opinioni di protesta nelle strade.
Cina, piogge torrenziali nello Shanxi: disagi per quasi due milioni di persone
Nella provincia cinese dello Shanxi le forti piogge, che proseguono da più di una settimana, hanno causato lo sfollamento di più di 120mila persone, 190mila ettari di coltivazioni danneggiate e all’incirca 17mila abitazioni danneggiate, secondo quanto riportato dal Global Times. Il totale delle vittime è incerto, ma l’alluvione ha una portata maggiore di quella che ha colpito in estate la provincia di Henan, causando 300 vittime. Nella città di Taiyuan i soccorritori viaggiano su gommoni gonfiabili, chiamando i superstiti con megafoni. I soccorritori hanno sottolineato come gli eventi metereologici estremi siano sempre più frequenti in anni recenti, per cui è necessario studiare nuove strategie per farvi fronte.
Blackout e assalti alle banche: il Libano è un paese nel baratro
Sabato 9 ottobre, tutto il Libano è rimasto al buio. A causare il black out, la mancanza di carburante non sono nelle stazioni di servizio di tutto il paese, ma anche nelle due principali centrali elettriche. L’esercito ha messo a disposizione le sue riserve in attesa che due nuove centrali, alimentate con carburante in arrivo dall’Iraq, entrino in funzione. Ma per com’è la situazione in questo momento, si tratta di una soluzione a brevissimo termine.
Il black out, tra l’altro, è solo l’ultimissima manifestazione di una crisi profonda che da anni sta dilaniando un paese un tempo isola felice nella regione. Già dalla tristemente nota esplosione del 4 agosto 2020, che ha devastato il porto e ucciso più di 200 persone, ma in realtà da prima di allora, il paese versa in condizioni di stallo e stagnazione a livello politico, economico e sociale. Una situazione di default senza precedenti.
BEIRUT: What full collapse of the national Electricity grid looks like. #Lebanon’s capital, once dubbed ‘Swiss of the East’, goes completely dark tonight due to corrupt political class & fuel shortages: pic.twitter.com/9FKGD7oij4
— Joyce Karam (@Joyce_Karam) October 9, 2021
L’aspetto più pesante di questa crisi è stata la progressiva e rapidissima svalutazione della moneta locale, la lira libanese, che ha perso il 90% del suo valore, con conseguenze terribili per la popolazione locale, la quale all’improvviso si è ritrovata a dover gestire un costo della vita divenuto altissimo. Molti sono caduti in povertà e ancora di più corrono questo rischio nel futuro prossimo. L’aumento vertiginoso dei prezzi ha riguardato anche beni di primissima necessità come l’acqua, l’elettricità e le medicine. E mentre la popolazione lottava con questi ostacoli, il paese era sempre più affossato dal debito pubblico, che nel 2019 era pari al 150% del prodotto interno lordo del paese, e a fronte di stipendi medi inferiori ai 300 euro. A questo ovviamente si aggiungevano le sanzioni imposte dagli Stati Uniti.
Al momento è caos nella capitale Beirut, dove le persone si ritrovano a dover fare file di chilometri ai distributori di benzina e dove i prezzi sono alle stelle e spesso e volentieri non arriva alcun rifornimento. La luce è tornata da quando l’esercito ha rifornito le centrali, ma queste scorte dovrebbero bastare per appena 3 giorni. Il paese comunque non è autosufficiente da un punto di vista energetico e i black out sono frequenti e anche programmati.
A questo si aggiungono i problemi di approvvigionamento idrico, che costringono molte delle persone che abitano in prossimità della costa a lavarsi con l’acqua di mare. Anche i rifiuti e l’inquinamento stanno diventando problemi ingestibili. Si tratta di fenomeni che potrebbero essere arginati da un paese in cui la situazione non stesse precipitanto così rapidamente.
#Lebanon 🇱🇧
Desperate citizens are trying to break into locked banks, after it was announced that they would no longer receive their savings, which were frozen by the regime there. pic.twitter.com/wgc8NB036J
— Kwitter (@Kwitter12085169) October 11, 2021
Da una settimana a questa parte circa 2 milioni e mezzo di persone sono scese in strada nelle principali città del paese per protestare, assaltando le banche sbarrate per provare a prelevare i propri risparmi. Anche le scuole e le università sono rimaste chiuse. Chiedono più trasparenza da parte del governo, ma reclamano anche i propri diritti di base, come il diritto alla luce e all’acqua, di cui questa crisi li sta privando.
[di Anita Ishaq]
Myanmar, sostegno del Parlamento UE al governo di opposizione ai militari
Il Parlamento UE ha votato per il sostegno alla popolazione del Myanmar nella lotta contro il governo militare, affermando di sostenere il CRPH (che rappresenta il parlamento bicamerale della Birmania) e il GUN (Governo di unità nazionale). Come riporta The Diplomat, questo ostacola il tentativo del governo militare di ottenere il riconoscimento internazionale. La mozione del Parlamento ha inoltre condannato il colpo di Stato militare e raccomandato agli Stati membri di imporre sanzioni alle imprese statali del Myanmar. La crisi in Myanmar perdura da febbraio, quando l’esercito ha preso il potere dopo aver arrestato la leader Aung San Suu Kyi, il presidente e diverse altre figure.