martedì 19 Marzo 2024

Un’indagine conferma la censura social sui contenuti in favore della lotta palestinese

“Facebook (e le piattaforme appartenenti alla stessa azienda) ha rimosso e soppresso ingiustamente i contenuti social dei palestinesi e dei loro sostenitori, inclusi quelli riguardanti gli abusi dei diritti umani compiuti in Israele e Palestina durante le ostilità del maggio 2021”. È quanto riportato da Human Rights Watch (HRW), secondo cui la piattaforma online ha rimosso ingiustamente e senza criterio i contenuti postati da decine di attivisti palestinesi (e non solo) in merito alle violenze commesse da Israele.

Deborah Brown, ricercatrice senior sui diritti digitali e sostenitrice di Human Rights Watch, dice che “la censura di Facebook minaccia di limitare una piattaforma fondamentale per la diffusione delle informazioni e l’impegno su questi problemi”.

Di fatto, nonostante Facebook abbia riconosciuto in parte i propri errori e tentato di correggerne alcuni (ripristinando, ad esempio, dei post eliminati o degli utenti bloccati), il risultato finale risulta essere insufficiente. Prima di tutto perché l’azienda non è in grado di fornire una spiegazione alle restrizioni attuate, né di fornire dati certi su quanto grande poi sia stata effettivamente la portata della censura.

Per fare alcuni esempi. Instagram ha rimosso una fotografia di un edificio a cui faceva seguito una didascalia con su scritto: “Questa è una foto dell’edificio della mia famiglia prima che fosse colpito dai missili israeliani sabato 15 maggio 2021”. In più la società ha anche impedito il repost (una ripubblicazione) di una vignetta politica ideata con lo scopo di far capire che i palestinesi sono oppressi e non combattono una guerra di religione con Israele.

Episodi che appartengono a un’escalation di violenza che si è riversata in alcune parti di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati (OPT) a partire dallo scorso maggio. Periodo durante il quale molti palestinesi sono stati costretti a lasciare le loro case, manifestazioni pacifiche sono state soffocate nella violenza, molti luoghi di culto sono stati sfregiati, e una pioggia di missili ha ucciso indistintamente civili e militari. Una repressione giunta proprio quando, invece, c’era l’urgenza di comunicare, in tutti i modi possibili.

Pare che questi post siano stati rimossi perché contenenti “incitamento all’odio o simboli (che incitano all’odio)”, secondo Instagram. Il fatto che alcuni di essi, poi, siano stati ripristinati in seguito a segnalazioni e lamentele, dimostra però che qualcosa non funziona a dovere nei meccanismi di rilevamento dei social. E che spesso finiscano per prendere un grosso abbaglio. Abbaglio che in questo caso danneggia migliaia di persone: sopprimere dei contenuti impedisce di fatto che questi circolino. E rimetterli online dopo settimane non ha la stessa forza comunicativa che avrebbe avuto postarli nel momento giusto.

Secondo Human Rights Watch, oltre a rimuovere i contenuti in base alle proprie politiche, Facebook spesso si affida al volere dei governi. Il governo israeliano ha portato avanti una campagna molto aggressiva in favore della rimozione dei contenuti (a lui poco convenienti) dai social media. Stando a quanto sostenuto dall’ONG, l’Unità informatica israeliana, con sede all’interno dell’Ufficio del Procuratore di Stato, chiede a piattaforme come Facebook di rimuovere “volontariamente” i contenuti. In che senso? Invece di passare attraverso l’iter legale che prevede la presentazione di un’ingiunzione del tribunale (basata sul diritto penale israeliano) per eliminare i contenuti online, la Cyber ​​Unit fa appello direttamente alle piattaforme.

Motivo per cui la HRW ha consigliato a Facebook di commissionare un’indagine indipendente proprio sulla moderazione dei contenuti, ponendo particolare attenzione su quelli riguardanti il conflitto in questione. Tuttavia, dal momento che non è chiaro in che modo le moderazioni social vengano fatte e su quali criteri si basino, non è possibile stabilire con certezza quante segnalazioni provengano degli utenti, quante direttamente dai governi e quanto siano frutto di calcoli algoritmici.

Basandoci sui fatti reali, è pur vero, però, che l’America si è sempre schierata dalla parte di Israele e non sorprenderebbe che le politiche aziendali del paese facessero lo stesso.

[di Gloria Ferrari]

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