mercoledì 12 Novembre 2025
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Una vasta riserva di acqua è stata scoperta su Marte

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È stata scoperta una riserva di acqua su Marte, nelle Valles Marineris. Si tratta di un vasto sistema di valli – grande circa quanto i Paesi Bassi (41.000 km quadrati) – situato nella zona equatoriale del pianeta rosso e considerato il “Grand Canyon marziano”. Non è la prima volta che viene trovata acqua su Marte, ma è sempre stata individuata sotto forma di ghiaccio nelle regioni polari, dove le temperature sono più rigide.

Gli esperti hanno analizzato quanto rilevato dal telescopio per neutroni FREND – posto a bordo di ExoMars Trace Gas Orbiter –, da maggio 2018 a Febbraio 2021, e hanno mappato la presenza di idrogeno nel suolo di Marte grazie all’individuazione dei neutroni. Questi ultimi, infatti, vengono prodotti quando le particelle altamente energetiche note come “raggi cosmici galattici” colpiscono il pianeta. Emettendo i terreni più asciutti una quantità maggiore di neutroni rispetto quelli più umidi, osservando le particelle si può dedurre quanta acqua è presente nel suolo. Si tratta di una tecnica spaziale molto più avanzata e precisa delle precedenti misurazioni, poiché consente di conoscere caratteristiche dell’acqua mai individuate prima.

La presenza di acqua nelle Valles Marineris è sensazionale, in quanto il ghiaccio dovrebbe evaporare per via delle temperature. Secondo gli esperti, infatti, csuggerisce la presenza di uno speciale mix di condizioni ambientali – ancora poco chiaro -, che consente di preservare o, in qualche modo, reintegrare l’H2O. Quest’ultima sarebbe presente in forme diverse, per esempio, ci sarebbero tracce di acqua trattenute dai minerali del sottosuolo. Per questo motivo, l’intenzione del team di ricerca è quella di spingersi più a fondo, esplorando fino a un metro al di sotto dello strato polveroso esterno di Marte.

[di Eugenia Greco]

Israele sospende l’avvio della quarta dose vaccinale: dubbi sull’efficacia

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In Israele il lancio della quarta dose del vaccino anti Covid, che sarebbe dovuta essere somministrata a partire dalla giornata di domenica, è stato al momento sospeso: la scorsa settimana infatti un gruppo di esperti del ministero della Salute si era espresso a favore della sua iniezione nei confronti delle persone di età superiore ai 60 anni, dei sanitari e degli immunodepressi, tuttavia in seguito a tale presa di posizione non è arrivata l’approvazione finale da parte del direttore generale del ministero della Salute Nachman Ash, motivo per cui la campagna vaccinale non è partita. Inoltre, come riportato da diversi quotidiani locali, nella giornata di oggi è iniziato uno studio condotto in collaborazione con il Ministero della Salute presso lo Sheba Medical Center (un ospedale israeliano) ed atto a valutare l’efficacia della quarta dose.

Esso coinvolgerà 6000 persone, tra cui 150 operatori sanitari della struttura ospedaliera con un livello attuale di anticorpi giudicato basso a cui verrà iniettata la quarta dose. Lo studio infatti testerà l’effetto della quarta dose di vaccino sul livello degli anticorpi, sulla prevenzione della malattia e verificherà anche la sua sicurezza. In tal modo, dunque, si cercherà di fare luce sull’ipotetico vantaggio derivante dalla sottoposizione a questa ulteriore dose, il che permetterà di comprendere se ed a chi sia necessario somministrarla.

Ad ogni modo la mancata approvazione da parte del direttore generale del ministero della Salute più che a tale studio – i cui risultati dovrebbero arrivare nell’arco di due settimane – sembra essere connessa alla letalità della variante Omicron: secondo quanto riportato dal quotidiano The Times of Israel, infatti, il mancato via libera è legato ai dati preliminari provenienti dall’Agenzia per la sicurezza sanitaria del Regno Unito, i quali suggeriscono che le persone con la variante Omicron hanno tra il 50 e il 70% di probabilità in meno di essere ricoverate in ospedale rispetto a quelle con la variante Delta. Omicron sembra però anche diffondersi più facilmente e, guardando alla protezione del vaccino, i dati continuano a mostrare una minore efficacia contro la malattia sintomatica da essa causata. Per tutti questi motivi, dunque, l’approvazione da parte di Nachman Ash non è arrivata: secondo quanto riportano i media israeliani egli dovrebbe esprimersi questa settimana, tuttavia l’ok alla somministrazione della quarta dose non può essere dato per scontato e la decisione potrebbe essere ulteriormente rinviata.

Detto ciò, i risultati dell’Agenzia per la sicurezza sanitaria del Regno Unito si aggiungono ad altre prove emergenti secondo cui l’Omicron potrebbe generare una malattia più lieve rispetto alle altre varianti. Ad esempio il Sudafrica, il primo paese in cui come è noto è stata rilevata la variante Omicron, sta pensando di porre fine al tracciamento dei contatti ed alla conseguente quarantena. Le notizie che arrivano dal Paese situato sull’estrema punta meridionale del continente africano, infatti, fanno ben sperare: basterà ricordare una ricerca, condotta dall’Istituto Nazionale per le Malattie Trasmissibili di Johannesburg, secondo cui i sudafricani che contraggono il Covid-19 nell’attuale ondata di infezioni hanno l’80% in meno di probabilità di essere ricoverati in ospedale se contraggono la variante Omicron rispetto ad altri ceppi.

[di Raffaele De Luca]

Turismo, Confcommercio: 120 milioni di presenze in meno nel 2021 rispetto al 2019

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«L’anno in corso si chiuderà con dati disastrosi per il turismo italiano con almeno 60 milioni di arrivi e 120 milioni di presenze che mancheranno all’appello rispetto al 2019 e 13 milioni in meno di viaggi degli italiani all’estero»: è quanto si legge in una nota di Confcommercio, che ha realizzato un’indagine in collaborazione con SWG sulla base dei dati Istat e Bankitalia. In tal senso, «solo per le vacanze tra Natale, Capodanno ed Epifania, rispetto ai 25 milioni di partenze programmate dagli italiani appena pochi mesi fa, 5 milioni sono state già cancellate e 5,3 milioni modificate riducendo i giorni di vacanza o scegliendo una destinazione più vicina». A tutto ciò si aggiunga anche che vi sono «7 milioni di viaggi in sospeso».

Boeing e Airbus lanciano un allarme sul 5G: può interferire sui voli

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Le dirigenze di Boeing e Airbus hanno inviato una lettera tutt’altro che natalizia al Segretario dei Trasporti statunitense, Pete Buttigieg. Nel comunicato, le due aziende manifestano al Governo apprensione nei confronti del sistema 5G, sistema che, secondo la loro testimonianza, rischia di interferire sui sistemi di navigazione degli aeroplani di linea, soprattutto con i radar utili a far funzionare l’altimetro.

Tali timori, vale la pena chiarirlo subito, sono virtualmente plausibili: non è insolito che le trasmissioni di dati possano accavallarsi su medesime frequenze e tradursi in disturbi fastidiosi – ne abbiamo un esempio nelle interazioni tra Rete 4G e certi apparecchi televisivi -, tuttavia la banda presa in analisi in questo contesto risulta limitata tra i 4,2 e i 4,4 GHz, gamma che, stando alle conclusioni della Federal Aviation Administration (FAA), non ha mai sviluppato alcun genere di contrattempo. Una posizione forte, se si considera che la stessa FAA stia dando voce ai timori sul 5G.

Ci si sta fasciando la testa prima di avere un’idea concreta dell’effettivo fattore di rischio, insomma, tuttavia sembra che a impensierire le due compagnie aeree non sia tanto la sopravvivenza dei propri passeggeri, quanto il fattore economico. La lettera siglata da Boeing e Airbus non manca infatti di far notare che l’avvento del 5G imporrebbe di sponda maggiori controlli e inedite complicazioni, quindi ulteriori costi.

In tal senso, la Airlines for America, una delle lobby storiche dell’aviazione USA, ha ipotizzato che se i nuovi regolamenti previsti dalla FAA per gestire le frequenze fossero entrati in vigore nel 2019, 345.000 voli passeggeri e 5.400 cargo avrebbero subito ritardi o cancellazioni. La Casa Bianca si trova dunque tra l’incudine e il martello: da una parte vi sono i giganti dell’aviazione, i quali chiedono di posticipare l’avvio dei servizi 5G di AT&T e Verizon – previsti per il 5 gennaio -, dall’altra c’è l’alto costo che deriverebbe dal ritardare una risorsa digitale su cui sta confidando l’intera economia americana.

Per avere un’idea della portata del potenziale contraccolpo basti ricordare che AT&T e Verizon hanno messo in campo 80 miliardi di dollari per mettere le mani sulle frequenze statunitensi del 5G e che il Boston Consulting Group ha stimato che un eventuale procrastino potrebbe pesare 50 miliardi di dollari sulle previsioni di crescita economica del Paese. La mole di questi potenziali interessi finanziari finirà quasi certamente con il mettere a tacere le preoccupazioni sollevate, tuttavia vale la pena notare che lo scorso febbraio anche gli Emirati Arabi Uniti e la Francia abbiano diffuso circolari in cui segnalavano i potenziali rischi che la nuova Rete potrebbe avere sui sistemi di navigazione dei velivoli.

In sostanza, il tema 5G e radar aerei è degno di attenzione, ma non per questo si merita la preoccupazione che gli si sta cucendo addosso. Il mercato delle frequenze può tranquillamente essere tarato tenendo conto di questi ostacoli, assicurandosi che non ci siano sovrapposizioni di banda e che i rischi superflui vengano eliminati. Certo, il fare una quadra della situazione potrebbe essere complesso, nonché limitare il margine di guadagno derivante dalla digitalizzazione, tuttavia la minaccia sembra nascondersi più nella cupidigia umana che nei mezzi tecnologici veri e propri.

[di Walter Ferri]

Filippine: sale a 388 bilancio vittime per tifone Rai

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Sono almeno 388 le persone che hanno perso la vita a causa del tifone Rai, verificatosi nelle regioni centro-meridionali delle Filippine tra il 16 ed il 17 dicembre scorsi. È questo il bilancio attuale reso noto nella giornata di oggi dalla Protezione Civile del Paese, la quale ha altresì fatto sapere che al momento vi sono 60 persone disperse. Le autorità inoltre hanno precisato che il tifone ha distrutto o danneggiato circa 482mila abitazioni e che attualmente oltre quattro milioni di abitanti in 430 città ricevono aiuti a causa dello stesso.

Israele allarga i piani di occupazione del Golan siriano

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Dalle parole ai fatti. Il Primo Ministro israeliano, Naftali Bennet, dopo l’annuncio di due mesi fa, è pronto a passare ai fatti dei piani di popolamento e sviluppo delle alture del Golan. Come anticipato dal rapporto di Haaretz, il Primo Ministro porta avanti la formazione di un “comitato speciale di pianificazione” a cui sarà concessa ampia autorità al fine di accelerare i piani di sviluppo e costruzione del Golan. L’equivalente di circa 300 milioni di euro verranno investiti dal governo israeliano per il piano di insediamento e sviluppo delle alture del Golan, altopiano siriano conquistato militarmente da Israele nel lontano 1967 e da allora occupato, nonostante secondo la legge internazionale e l’Onu esso dovrebbe essere restituito alla Siria.

Verrà ampliata la cittadina di Katzrin aggiungendo due nuovi quartieri e verranno edificate due nuove città, Asif e Matar. Oltre a queste opere si aggiungono circa 8.000 unità abitative distribuite tra 18 moshavim, 10 kibbutz e 4 villaggi. Sistemi di trasporto e strutture sanitarie verranno costruiti in tutte le zone interessate e un piano di sviluppo economico per la regione prevede lo stanziamento di fondi per il turismo e la creazione di circa 2.000 posti di lavoro nei settori agri-tech, alberghiero, agricolo e commerciale. In una nota del governo si dice che le alture del Golan diventeranno la «capitale energetica del rinnovamento».

Nell’ottobre scorso, parlando alla Makor Rishon Golan Conference di Haspin – nel Golan meridionale – ad un evento organizzato dal giornale Makor Rishon, legato alla destra e ai movimenti per l’insediamento ebraico, il Primo Ministro Bennet aveva dichiarato: «Le alture del Golan sono un obiettivo strategico. Raddoppiare le comunità in esso è un obiettivo del governo di Israele». Tra gli applausi della folla ha poi categoricamente affermato: «Le alture del Golan sono israeliane, punto e basta». Bennett alla conferenza nel Golan ha fatto chiaramente appello alla destra menzionando, ad esempio, la storica decisione del 1981 dell’allora Primo Ministro Menachem Begin che estese la legge israeliana alle alture del Golan.

Inoltre, in tale occasione, Bennet  sottolineò il fatto che quasi tre anni fa l’amministrazione statunitense guidata da Trump abbia deciso di riconoscere la sovranità israeliana sul Golan e che l’amministrazione attuale di Biden non ha contestato tale decisione. Tale cosa è stata ribadita e sottolineata adesso in occasione dell’annuncio ufficiale del piano e dello stanziamento dei fondi necessari alla sua implementazione.

Il piano del Primo Ministro Israeliano prevede di quadruplicare il numero degli abitanti israeliani, portandolo dagli attuali 27.000 ai 100.000 di fine decennio. Dai conteggi sono quindi esclusi i circa 30.000 arabi che vivono sulle alture del Golan e che si sentono ancora legati alla patria siriana. Lo sceicco Qasem Mahmoud al-Safadi di Majdal Shams, uno dei quattro villaggi drusi sulle alture del Golan, ha detto: «Il Golan è una parte inseparabile della Repubblica araba siriana, e la legge di annessione è nata morta, e il suo valore non vale l’inchiostro su cui è stata scritta. Siamo arabi siriani; apparteniamo al popolo arabo siriano».

L’idea di un “comitato speciale di pianificazione” deriva evidentemente dal desiderio di Bennett di rapidi progressi da poter utilizzare con il suo bacino elettorale così come l’inquadramento del Golan in termini di sicurezza nazionale di fronte alla instabilità siriana e la minaccia iraniana.

La regione di confine del Golan sotto il controllo di Israele si estende per 1.800 chilometri quadrati strappati alla Siria con la Guerra dei Sei giorni (1967) e poi successivamente mantenuti con la Guerra dello Yom Kippur del 1973. L’ONU non riconosce la sovranità israeliana su questa porzione di territorio e il Consiglio di Sicurezza, con la Risoluzione 497 del 1981, ha dichiarato che la legge d’Israele sulle alture del Golan è da considerarsi “nulla e senza effetti legali internazionali”.

[di Michele Manfrin]

L’Olanda avvia la dismissione delle centrali a carbone

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A partire dal 2030, le centrali elettriche a carbone saranno vietate nei Paesi Bassi, mentre dal primo gennaio 2022, le centrali elettriche a carbone non potranno funzionare a più del 35 per cento della loro capacità produttiva massima. Tale emendamento al Coal Prohibition Act verrà però ufficialmente applicato alla fine del 2024 ma intanto, nel breve termine, questo garantirà una diminuzione dell’emissione di CO₂ di circa sette megatonnellate. A dare la notizia è stato il Ministero degli affari economici e del clima (EZK), lo scorso mercoledì. La riduzione delle emissioni sarà essenziale per permettere il rispetto e l’attuazione della sentenza Urgenda, in cui si invita il Governo Olandese a emettere almeno un quarto in meno di CO₂ entro il 2020 rispetto al 1990.

Tutto è partito nel 2013, quando è stato presentato un ricorso alla Corte territoriale dell’Aja da parte dell’associazione ambientalista Urgenda. La richiesta era quella di obbligare le autorità statali a una seria riduzione delle emissioni. Nello specifico, lo scopo era quello di diminuire le emissione del 40% entro il 2030 e almeno del 25% entro il 2020. L’obiettivo è stato raggiunto lo scorso anno, grazie anche allo stop causato dalla pandemia. Visto e considerato, comunque, un possibile risalire delle emissioni nel 2021, il governo dei Paesi Bassi ha agito purché si facessero scelte mirate così da mantenere le emissioni più basse.

Per ora non è chiaro se la misura possa avere proroghe anche dopo il 2024. Invece, sicuro è – a partire dal 2030 – l’introduzione del divieto delle centrali elettriche in tutto il territorio olandese. Per quanto riguarda la perdita di reddito che ci sarà dopo la modifiche annunciate, il governo ha dichiarato che risarcirà finanziariamente i proprietari delle centrali elettriche a carbone. Non è però stato comunicato con certezza quanti soldi saranno stanziati; per il momento, si ha l’elaborazione di un modello di calcolo per compensare finanziariamente i proprietari per le previste perdite. Intanto, la notizia permette di vedere un impegno concreto da parte dell’Olanda per la delicata e discussa questione climatica.

[di Francesca Naima]

Migranti, centinaia soccorsi in mare durante il week end di Natale

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La nave dell’ONG tedesca Sea Watch ha salvato 446 migranti al largo delle acque mediterranee in cinque differenti operazioni durante il finesettimana. Due di loro, una donna incinta e la figlia di 3 anni, sono state fatte evacuare nella notte, mentre i restanti 444 attendono ancora sulla nave che sia loro comunicato un porto sicuro in cui sbarcare: tra questi vi sono anche bambini molto piccoli. Le operazioni di salvataggio sono iniziate dopo che le autorità greche hanno rinvenuto 27 corpi annegati il 25 dicembre, e altri 28 sono stati ritrovati lungo le coste libiche. Si tratta, secondo EuObserver, di uno degli anni che ha contato più morti in assoluto tra i migranti che cercano di giungere in Europa via mare.

Poteri occulti e media, una lunga storia italiana

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Che la Fininvest di Silvio Berlusconi, una delle più potenti holding italiane che ha detenuto negli ultimi decenni partecipazioni nei più svariati settori (televisivo, radiofonico, editoriale, assicurativo e bancario, cinematografico) abbia finanziato l’associazione mafiosa Cosa Nostra tra la prima metà degli anni Settanta e la prima metà dei Novanta è ormai storia: lo ha ribadito lo scorso ottobre la Cassazione, che ha chiuso il processo intentato dalla società di Berlusconi contro la casa editrice e gli autori del libro “Colletti Sporchi”, Tescaroli (magistrato) e Pinotti (giornalista), che avevano trattato il tema dei rapporti torbidi tra Cosa Nostra e la Fininvest. Tale aspetto era già stato evidenziato in un’altra importante sentenza: quella che, nel 2014, aveva reso definitiva la condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa per il braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, reo di avere svolto un’opera di intermediazione tra Berlusconi e la mafia che determinò il “raggiungimento di un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione da lui accordata con Cosa Nostra palermitana”. Tale patto sarebbe stato stipulato nel ‘74, quando il Cavaliere incontrò a Milano il capo di Cosa Nostra in persona Stefano Bontate (poi “rovesciato” dai corleonesi dopo la seconda guerra di mafia, all’inizio degli anni Ottanta) e avrebbe avuto effetto almeno fino al ‘92, dal momento che “l’avvento dei corleonesi di Totò Riina non aveva inciso sulla causa illecita del patto” e che Dell’Utri “aveva provveduto con continuità a effettuare per conto di Berlusconi il versamento delle somme concordate a Cosa Nostra e non aveva in alcun modo contestato le nuove richieste avanzate da Totò Riina”.

Insomma, la holding che inglobava (e ancora ingloba) un numero estremamente significativo di società editoriali, testate giornalistiche e reti televisive italiane, tra cui la Mondadori, il Giornale e i tre network nazionali Canale 5, Italia 1 e Rete 4, versò 250 milioni di vecchie lire ogni sei mesi ai vertici di Cosa Nostra nel medesimo periodo in cui questi ultimi pianificavano ed eseguivano l’assassinio di magistrati, politici, poliziotti, carabinieri e sacerdoti. Non possediamo elementi che provino un’azione di influenza diretta da parte della mafia sulla linea editoriale degli organi di stampa e delle emittenti berlusconiane, ma è piuttosto fisiologico ipotizzare una convergenza di interessi tra gli ambienti criminali palermitani e l’azione politica del Cavaliere in merito a determinate strategie e scelte editoriali. Basti pensare all’attacco sferrato negli anni da tali organi televisivi e di stampa contro una lunga serie di magistrati impegnati in indagini sulle connessioni tra politica e malaffare, contro avversari politici (pochi, a dir la verità) che hanno evidenziato le opacità biografiche e aziendali del Cavaliere impugnando la bandiera della legalità, nonché contro giornalisti e presentatori televisivi che denunciarono all’opinione pubblica i torbidi intrecci tra Forza Italia e ambienti criminali, in particolare in riferimento alle ombre sulle origini finanziarie della Fininvest, e il conflitto d’interessi di Berlusconi (vedi il famigerato “Editto bulgaro”, strumento con il quale il Cavaliere si assicurò che Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi venissero accompagnati alla porta dai dirigenti di “Mamma Rai”).

La “guerra psicologica”

Eppure, il rapporto tra poteri occulti, antistato e media parte da molto più lontano. A questo proposito, è essenziale portare indietro le lancette al maggio 1965, quando all’Hotel Parco dei Principi di Roma andò in scena lo storico convegno dell’Istituto Alberto Pollio sulla “Guerra rivoluzionaria”, considerato di fatto l’atto fondativo della ‘strategia della tensione’, opera eversiva condotta da diverse entità (servizi segreti italiani e americani, massoneria deviata, organizzazioni paramilitari costituite clandestinamente, eversione nera), la cui azione era accomunata da un obiettivo di fondo: impedire al PCI di fare il suo ingresso al Governo del Paese. In tale occasione venne lanciato il manifesto programmatico della lotta al comunismo fondato sulla cooperazione tra diverse componenti della società civile. Tra i partecipanti presenti al convegno, finanziato indirettamente dal servizio segreto militare italiano (il Sifar, collegato alla CIA e raggiunto ai vertici dalle articolazioni della P2), figurano il massimo esperto e propagandista italiano della guerra non ortodossa al comunismo Adriano Magi-Braschi, portavoce dei capi del servizio segreto militare, dei carabinieri e dell’esercito e appartenente alla cellula veneta di Ordine Nuovo; gli estremisti di destra Stefano Delle Chiaie (creatore di Avanguardia Nazionale), Carlo Maria Maggi (dirigente di Ordine Nuovo nel Triveneto) e Mario Merlino; l’ex ministro socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo; esponenti del mondo industriale come Vittorio De Biase (responsabile della battaglia contro il Partito Comunista Italiano dentro Confindustria); ma, soprattutto, tantissimi giornalisti. Sono infatti presenti i direttori di quotidiani e settimanali importanti tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “La Nazione”, “Il Giornale d’Italia”, “Lo Specchio” e “Il Borghese”. La finalità primaria degli ideatori della ‘strategia della tensione’ fu infatti quella di smontare narrativamente i reali moventi degli atti terroristici inseriti nella cornice della “guerra non ortodossa”, con l’obiettivo di deviare il bersaglio del giudizio dell’opinione pubblica dai veri responsabili di tali atrocità. Come ha efficacemente illustrato Mirco Dondi nel suo saggio “L’eco del boato”, “nella guerra psicologica la notizia sovrasta l’attentato perché l’andamento del ‘conflitto’ dipende dal significato che si attribuisce all’atto violento: l’informazione è responsabile dell’esito finale”: infatti, “tranne pochi casi, la stampa non ordisce la guerra psicologica, ma la convoglia, in conseguenza del pesante influsso che i centri di potere esercitano nei suoi confronti”. Le testate rappresentate al convegno offriranno una sponda mediatica di enorme peso alle autorità politiche e militari e alle strutture clandestine che quella “guerra psicologica” la stavano conducendo sotto l’ala dell’influenza dell’intelligence USA.

Le mani della P2 sul Corriere

Nello schema della strategia della tensione, l’opera della P2 di Licio Gelli, che ebbe un ruolo di prim’ordine nel celeberrimo “Golpe Borghese” del 1970 (a cui parteciparono anche gli uomini di Cosa Nostra) e fu condannato per aver cercato di depistare le indagini sulla strage di Bologna, costituisce un ganglio fondamentale. Nelle liste della loggia massonica, ritrovate nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi nel 1981, oltre a quelli dei vertici dei servizi segreti, di importanti generali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dell’Esercito e dell’Aeronautica, di 3 ministri allora in carica e di 44 parlamentari, figuravano i nomi di 8 direttori di giornali, 22 giornalisti e 7 dirigenti Rai. Tra questi, anche il direttore de “Il Borghese” Mario Tedeschi, indicato nel 2020 dalla Procura generale di Bologna come uno dei quattro mandanti, organizzatori o finanziatori della strage di Bologna assieme allo stesso Licio Gelli, Umberto Ortolani (punto di contatto tra lo IOR e la P2, condannato per il crack del Banco Ambrosiano e per concorso in bancarotta nella gestione della Rizzoli) e Federico Umberto D’Amato (direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno dal ‘71 al ‘74).

Obiettivo fondamentale del ‘Maestro Venerabile’ Licio Gelli era infatti quello di esercitare una pesante influenza sul sistema mediatico italiano. A riprova di ciò, basti leggere il Piano di Rinascita Democratica, documento che riassumeva i progetti politici ed economici della P2, ritrovato nel 1982 all’aeroporto di Fiumicino nel doppio fondo della valigia della figlia di Gelli: “Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente. Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di ‘simpatizzare’ per gli esponenti politici come sopra (nel punto precedente del piano, ndr) prescelti”.

Negli anni Settanta, il Corriere della Sera era in assoluto il quotidiano più venduto in Italia. Nel ‘74 la maggioranza delle azioni dell’Editoriale Corriere della Sera Sas vennero acquisite dal gruppo Rizzoli, mentre le rimanenti furono acquistate dalla Montedison su spinta del suo AD piduista Eugenio Cefis. La Rizzoli, però, non riuscì a reggere il peso dell’ambiziosa operazione e fu sommersa dai debiti. Fu così che, nel ‘75, partì la vera offensiva della P2: Licio Gelli, Alberto Ferreri (direttore generale della Banca Nazionale del Lavoro, iscritto alla P2), Roberto Calvi (Presidente del Banco Ambrosiano, iscritto alla P2) e Giovanni Ferreri (Presidente del Monte dei Paschi di Siena, iscritto alla P2) incontrarono a Milano Andrea e Angelo Rizzoli, esponenti del gruppo omonimo, per inaugurare la sua entrata nell’orbita della loggia di Gelli. Venne costituita una società con sede a Lussemburgo, sotto il controllo del Banco Ambrosiano, che si accaparrò tutte le azioni della Montedison e il 15% del pacchetto azionario del gruppo Rizzoli. Nel ’77, il Banco Ambrosiano acquistò le restanti azioni della Rizzoli; il Presidente Andrea Rizzoli restò al suo posto ma cambiò il direttore generale, che venne individuato nel piduista Bruno Tassan. Iscritto alla P2 anche il nuovo direttore del Corriere, Franco Di Bella. 

Nel ’78, Enzo Biagi si apprestava a partire per l’Argentina come corrispondente dei mondiali di calcio per il Corriere. Un’occasione ghiotta per un giornalista del suo calibro, pronto a sfruttare l’occasione per narrare le atrocità perpetrate dai generali argentini che avevano preso il potere due anni prima con il colpo di Stato. Cosa che, però, il direttore Di Bella gli impedì di fare, sostituendolo con un altro giornalista. Dalla lettura delle liste si scoprì che l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, braccio destro del Presidente argentino Jorge Rafael Videla, era iscritto alla P2. 

Il 5 ottobre 1980 venne pubblicata sulla terza pagina del Corriere un’intervista del giornalista Maurizio Costanzo (tessera P2 1819) allo stesso Licio Gelli, in cui il ‘Venerabile’ espose la sua visione politica e le sue opinioni in merito a fatti di stretta attualità. 

Corsi e ricorsi sulla Storia

Dal ‘78 comparvero con sempre maggiore frequenza sul Corriere articoli firmati da Silvio Berlusconi. Sarà forse una coincidenza, ma il Cavaliere si era appena iscritto alla P2 di Gelli (tessera 1816). Quattro anni prima, aveva stretto un patto di protezione con la mafia palermitana e aveva cominciato a pagarla, portandosi in casa il boss di Porta Nuova, Vittorio Mangano.

Le finalità esplicite del Piano di Rinascita Democratica rispetto all’universo dei media erano le seguenti: “Acquisire alcuni settimanali di battaglia; coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; coordinare molte tv via cavo con l’agenzia della stampa locale; dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art. 21 Cost.”. Difficile non scorgere un denominatore comune tra tale progetto e l’azione politica e imprenditoriale del Cavaliere nei decenni successivi (il suo avvocato Cesare Previti arrivò addirittura a corrompere con 420 milioni di lire provenienti dai fondi neri del gruppo Fininvest in Svizzera il giudice della Corte d’Appello di Roma Vittorio Metta al fine di ‘scippare’ la Mondadori al legittimo proprietario Carlo De Benedetti, subendo per questo una condanna definitiva).

“La storia è ciclica”, si dice spesso. Eppure, i cerchi della storia italiana sembrano aprirsi, chiudersi e riaprirsi in una eterna spirale che continua imperterrita ad autoalimentarsi. 

[di Stefano Baudino]

 

Le forze della NATO starebbero circondando l’Ucraina

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Stando a fonti consultate dalla testata tedesca Die Welt, la NATO starebbe preparando all’azione la Response Force (NRF) e, più nello specifico, lo starebbe facendo mantenendo sul chi vive la brigata Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), brigata anche nota come “punta di lancia”. 40.000 soldati si starebbero dunque preparando a scendere in azione, con i loro comandanti che hanno lo sguardo ben fisso sulla situazione di tensione in Ucraina. Qualora la Russia dovesse invadere la nazione ex-sovietica, le truppe impiegheranno solamente cinque giorni a raggiungere i campi di battaglia, due in meno a quanto fosse preventivato fino a poche settimane fa.

Le fonti ufficiali non hanno voluto rilasciare commenti, tuttavia sussistono diversi elementi che danno a intendere la dichiarazione raccolta sia effettivamente affidabile, primo fra tutti il fatto che queste manovre non avrebbero fatto altro che “normalizzare” gli obiettivi strategici della NRF, corpo militare che è stato pensato appositamente per garantire un primo intervento entro cinque giorni dall’inizio missione. Va dunque sottolineato che la VJTF sia stata originariamente progettata in occasione del summit NATO del 2014, quello stesso 2014 in cui la Russia ha annesso la Crimea. Fatalmente, sempre in quell’occasione l’allora Presidente ucraino, Petro Poroshenko, aveva incontrato Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti per chiedere sostegno nel resistere alle manovre, politiche e militari, del Cremlino.

Tutto normale, dunque? Si e no. La NATO ha certamente il diritto di muovere le proprie risorse in modo da ottimizzarne l’efficacia, tuttavia sarebbe ingenuo non riconoscere l’importante valore retorico di una simile presa di posizione, soprattutto tenendo in considerazione che a finire in prima linea sarebbe una brigata addestrata di fatto per combattere contro il nemico russo. Un simile aggiornamento delle forze in campo manifesta un atteggiamento diplomatico del tutto affine all’ipercriticato schieramento delle armate voluto da Mosca sul confine con l’Ucraina, cosa che in qualche modo giustificherebbe l’apparente riservatezza della NATO, la quale preferisce certamente mantenere l’idea che solo una delle parti in causa si stia dedicando concretamente agli stratagemmi militarizzati.

Che qualcosa si stia muovendo è comunque palese. Tutto da per esempio a intendere che il trasferimento dei jet della 336ª Fighter Squadron americani in Romania – avvenuto appena settimana scorsa – sia parte integrante di questo schema bellico e che le armate occidentali si stia formalmente preparando all’azione. Solo formalmente, però. Il panorama politico odierno suggerisce infatti che né la Russia, né la NATO siano veramente interessate a violare i fragili equilibri della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, ovvero il cuscinetto strategico che separa l’Ovest dall’Est.

Non a caso, l’uomo a capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha avanzato recentemente una proposta di tregua all’omologo statunitense, Joe Biden. Si tratta di una proposta palesemente inaccettabile per gli USA, tuttavia l’offerta rappresenta un punto di partenza scenografico che permetterà ad ambo le parti di gestirsi spazi di contrattazione generosamente ampi. In altre parole, ambo le parti potrebbero trovare un punto di incontro e convincere i propri cittadini di aver ottenuto un’importante vittoria diplomatica. In quest’ottica, gli eserciti di ambo le parti non sarebbero che complesse scenografie davanti a cui intrattenere dei negoziati che, stando alle parole del Cremlino, dovrebbero aprirsi a inizio gennaio.

C’è ancora della confusione sul dove voglia andare a parare questo confronto, tuttavia è facile che l’intento di Mosca sia quello di ribadire quanto già deciso dal Protocollo di Minsk II, l’accordo stipulato nel 2015 tra Ucraina, Russia, Francia e Germania che non è mai completamente entrato in azione. Una delle misure disattese prevedeva infatti che tutte le armate straniere, gli equipaggiamenti militari esteri e i mercenari avrebbero dovuto abbandonare il territorio ucraino sotto la supervisione dell’OSCE, cosa che, se attuata, risalderebbe lo status quo.

[di Walter Ferri]