domenica 21 Settembre 2025
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Un rapporto dell’Onu denuncia il sistema del caporalato in Italia

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Lavoratore campi

“Siamo rimasti impressionati dalla situazione di sfruttamento dei lavoratori che esiste in alcune zone, ancor più perché ci troviamo in un paese europeo con normative avanzate come l’Italia”. Ha parlato in questi termini il professor Surya Deva, presidente del gruppo di lavoro Onu su Business and Human right, al termine dalla missione Onu su diritti umani e attività d’impresa portata avanti nel nostro paese.

Dieci giorni in cui l’Onu ha rilevato gravi e persistenti abusi in molte attività imprenditoriali italiane, tra cui condizioni di lavoro e di vita disumane per migliaia di lavoratori migranti, scarsa sicurezza sul lavoro e inquinamento ambientale estremamente pericoloso per la salute pubblica. Non sono sufficienti, dunque, gli sforzi e le iniziative del Governo italiano per rispettare obblighi e responsabilità in materia di diritti umani, secondo i Principi guida delle Nazioni Unite. La commissione ha visitato Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Lombardia e Toscana e alcune zone cruciali dei loro territori. Tra queste Prato, Taranto, Avellino, la zona estrattiva della Val D’Agri, in Basilicata e diverse zone del foggiano, luoghi in cui ha ascoltato le testimonianze di ministeri, autorità regionali, società civile, sindacati e imprese.

Sono molti i documenti raccolti, comprese le denunce depositate negli anni. “La sicurezza e la salute dei lavoratori rappresentano una grande preoccupazione, per via dell’alto numero di incidenti sul lavoro, ma ancora più importante e sorprendente è la portata dello sfruttamento, in particolare dei lavoratori migranti”, ha aggiunto Deva, focalizzandosi in particolare sui settori della logistica, dell’agroalimentare e del tessile, quelli in cui è più facile trovare lavoratori migranti provenienti in particolare da paesi africani e asiatici. Ma per l’Onu l’area di interesse potrebbe essere molto più vasta. Sono molti, infatti, gli individui ancora piegati dal caporalato, che continuano a vivere in condizioni disumane senza possibilità di prospettive future migliori. Secondo le stime sono 400 mila, l’80 per cento sono stranieri e con un salario giornaliero pari a circa la metà di quello stabilito dai contratti nazionali. Una condizione che si verifica maggiormente nel Mezzogiorno, ma è in aumento anche nel Nord e nel Centro del Paese. I distretti agricoli in cui è ancora presente il caporalato sono 80 (almeno, quelli conosciuti). Fra questi, in 33 sono state riscontrate condizioni di lavoro “indecenti” e in 22 “di grave sfruttamento”.

Per questo motivo gli esperti delle Nazioni Unite hanno esortato il Governo italiano a intraprendere azioni più concrete, perché “In quanto economia altamente sviluppata dell’Unione europea, l’Italia dovrebbe creare al più presto un’istituzione nazionale per i diritti umani forte e indipendente, investita di un mandato esplicito che le permetta di intervenire su questioni relative a abusi dei diritti umani legati alle attività delle imprese”. Basti pensare che il nostro è uno dei pochi paesi europei che ancora non ha un suo organismo nazionale che si occupi di diritti umani. Sarebbe opportuno, invece, intervenire per rendere le imprese italiane legalmente responsabili in caso di violazioni dei diritti umani e dell’ambiente, frutto delle attività produttive da loro compiute.

Lo stesso sforzo e lo stesso intervento che servirebbe in termini di disuguaglianze di genere. Anche se è leggermente in aumento il numero di donne che ricopre cariche dirigenziali, c’è ancora un abisso da colmare su parità salariale e di opportunità. Fattori aggravati da molestie sessuali sia sui luoghi di lavoro che nello spazio pubblico.

Anche se il report Onu definitivo sarà pubblicato nel giugno 2022 e consegnato al Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni unite, il quadro generale non è soddisfacente. Si può e si deve fare di più, molto di più.

[di Gloria Ferrari]

Caos a Genova: allo sciopero dei portuali si aggiunge la protesta dei camionisti

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Da ieri, allo sciopero sul contratto integrativo dei lavoratori del terminal portuale Psa di Genova, dichiarato fino a venerdì sera, si è affiancata la protesta dei camionisti. Questi ultimi infatti, essendosi stufati di dover rimanere in attesa per poter completare le procedure di carico e scarico merci, hanno deciso di bloccare i loro mezzi all’ingresso del terminal fino a quando non verrà trovata una soluzione in tal senso. A testimoniare il tutto è stata la piattaforma Local Team, che ha documentato la vicenda tramite una serie di video.

Ex capo del Pentagono: la Cina ha vinto la guerra delle intelligenze artificiali

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L’opinione di Nicolas Chaillan, ex-capo programmatore del Pentagono, è esplicita e diretta: la Cina ha vinto la battaglia delle intelligenze artificiali, cosa che a sua volta scatenerà un effetto domino che permetterà al gigante asiatico di dominare l’intero settore tech. Il tecnico lo ha confessato al Financial Times in un’intervista dal tono bilioso che segue a distanza di poche settimane la sua scelta di rassegnare le dimissioni come atto di protesta.

Chaillan ha abbandonato il suo ruolo governativo a causa di quella che reputa una mala gestione dello sviluppo tecnico e tecnologico dell’esercito a stelle e strisce. La ricerca statunitense sarebbe infatti appesantita da Big Tech che non si dimostrano adeguatamente collaborative con la Difesa, nonché dai reiterati dibattiti di natura etica che orbitano attorno al settore del machine learning. Gli USA non sono abbastanza autoritari, insomma.

La posizione di Chaillan è condivisa peraltro da molti professionisti in seno alla Difesa, con il risultato che progressivamente si stia sollevando nel Pentagono un coro di voci intento a promuovere un profondo cambiamento culturale. Un cambiamento che, ribadiamo, vorrebbe che la Casa Bianca fosse in grado di sottomettere le aziende private e annichilire ogni dubbio ideologico sul cosa sia o non sia lecito sfruttare in contesto bellico.

Sul piano puramente pragmatico, il panico e la frustrazione degli informatici militari statunitensi è però comprensibile: il mondo si sta sempre più muovendo verso l’uso/abuso delle intelligenze artificiali, quindi le nazioni che hanno maggiormente sviluppato questo genere di strumento sono anche quelle che hanno più possibilità di esercitare dominanza su di un sistema economico altamente digitalizzato. Il fatto che la cybersicurezza statunitense sia stata profondamente violata dagli hacker di tutto il mondo non aiuta certamente a sedare tali preoccupazioni.

Lo spaccato tech del Pentagono solleva per l’ennesima volta uno scontento che riflette un dubbio profondo riguardante la nostra società, ovvero se la democrazia rappresenti o meno una strada politica effettivamente percorribile nel prossimo futuro. L’Occidente sta perdendo il suo ruolo monopolistico globale e il potere defluisce verso nazioni che manifestano atteggiamenti amministrativi che, seppur illiberali, si dimostrano apparentemente efficaci, cosa che sta sviluppando in alcuni un’invidia che accende i fuochi del dissapore.

[di Walter Ferri]

 

Tribunale arbitrale Aja chiude definitivamente caso Marò

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Il caso riguardante Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i marò italiani accusati di aver ucciso nel mese di febbraio 2012, al largo delle coste del Kerala, due pescatori imbarcati su un peschereccio indiano, è stato ufficialmente chiuso dal Tribunale arbitrale dell’Aja, che ha dunque messo fine al contenzioso tra Italia e India. Tale decisione, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Ansa, è stata presa dopo che l’Italia ha assicurato all’India che è in corso nel nostro paese il procedimento giudiziario nei confronti dei due marò, come previsto dalla sentenza di luglio 2020 della stessa Corte arbitrale. Essa infatti prevedeva che Latorre e Girone avrebbero dovuto essere processati in Italia, sottraendoli al giudizio delle corti indiane.

COP26, multinazionali e governi alla fiera del greenwashing

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Greenwashing, termine molto sentito in questi ultimi anni, coniato già negli anni ’70 e che vede i primi procedimenti penali nel 2013. Il termine indica una “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne il reale impatto ambientale negativo”. Una maschera verde utilizzata per ripulirsi l’immagine, illudere i cittadini e continuare a fare i propri interessi.

La messa in pratica ha forme innumerevoli. La più utilizzata è basare la comunicazione su una singola caratteristica green ed ignorare l’intero impatto del prodotto, falsando per ecologici prodotti che non lo sono. Dai risultati in tribunale è emerso che si tratta della pratica più utilizzata (negli USA nel 73% dei casi analizzati, in Inghilterra fino al 98%). Molte altre sono tuttavia le tecniche: false certificazioni (usando parole o immagini per dare l’impressione che ci sia un certificato di parte terza, inesistente); pure e semplici menzogne (famoso il caso di Eni, multata per 5 milioni dall’Antitrust per la pubblicità di ENIdiesel+, nella quale veniva dichiarato falsamente che con il carburante in questione le emissioni gassose sarebbero state ridotte del 40%).

Il greenwashing ai danni dei popoli inermi

Queste le modalità dirette e più ovvie. Tuttavia esistono altri tipi di greenwashing, più sommersi, e di conseguenza meno identificabili, solitamente usate da governi ed, a sorpresa, proprio da enti che si occupano d’ambiente. Infatti il loro reale e visibile impegno nel campo permette di attuare pratiche altamente dannose per l’ecosistema, senza che siano identificate come tali. Un’inchiesta tenuta da Survival International, organizzazione no profit senza finanziamenti governativi che tutela i diritti degli indigeni e la preservazione dell’ecosistema, ha recentemente denunciato il WWF. Secondo la loro indagine la celebre organizzazione ambientalista avrebbe violato i diritti umani del popolo Baka istituendo una riserva naturale nel loro territorio, cacciandoli e mettendo in atto azioni di violenza.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. La nuova campagna su cui si sta concentrando la multinazionale dell’attivismo ambiente mira a fare pressioni legislative per essere autorizzati a dichiarare i territori indigeni riserva naturale. Sulla carta sembra tutto molto “green”, quello che viene omesso è l’intenzione di cacciare con la forza i popoli sui territori ed aprire le riserve al turismo. Inutile sottolineare come questo danneggerebbe fortemente quelle terre, le ultime al mondo rimaste incontaminate, un vero e proprio polmone di sopravvivenza per la razza umana. Accuse forti, basate su interviste agli indigeni, a cui il WWF ha risposto con un comunicato stampa, dicendo che avrebbe mostrato tutta la cronologia della vicenda per fare chiarezza. L’intoppo? Il link rimanda ad una pagina inesistente. Tutto ciò appare surreale, ed è un perfetto esempio di quanto sommerso il greenwashing possa essere.

Usare i giovani che si battono per il pianeta

Anche i vertici internazionali hanno usato magistralmente questa pratica, indicendo la Youth4Climate: Driving Ambition. L’evento è teso a dare ai giovani, pomposamente definiti i “capi di Stato del futuro”, la possibilità d’elaborare proposte concrete sulle questioni più urgenti che riguardano l’agenda climatica e sulle negoziazioni della COP26 di Glasgow. Quasi 400 giovani (due per Paese) provenienti dai Paesi membri dell’UNFCCC (Convenzione Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) hanno avuto momenti di dialogo coi ministri presenti alla Pre-COP26 a Milano, presentando quattro punti chiave per contrastare i cambiamenti climatici, in attesa di presentare le proposte definitive a Glasgow. Sebbene possa sembrare una svolta nel panorama politico odierno, così non è stato. L’intervento, seguitissimo a livello mediatico, è stata una vera e propria campagna pubblicitaria per riabilitare l’immagine dei governi mondiali e vestirli di “green”. Sei giovani delegati, ben consapevoli di tale facciata, sono stati espulsi dal MiCo per essersi presentati con cartelli e cori “basta greenwashing”. «Siamo stati mandati via dall’incontro con Draghi. Ora la sicurezza ci tiene fuori, ci hanno preso i passaporti e ci hanno schedati» scrive su Twitter l’irlandese Saoi Ó Chonchobhair».

Il greenwashing del governo Draghi

Una pratica, quella del greenwashing, della quale si sta rendendo protagonista anche il governo italiano, definito da Draghi al momento dell’insediamento come il “primo governo ambientalista” al punto da nominare anche un ministero alla Transizione Ecologica, formalmente incaricato di verificare che gli investimenti siano in linea con gli obiettivi climatici. Lo stesso ministero che, alla prova dei fatti, in sede europea si mette di traverso contro lo stop ai combustibili fossili, che difende l’utilizzo del glifosato nell’agricoltura e che ha approvato sette nuovi progetti di trivellazione.

[di Erica Innisi – attivista di Fridays For Future]

Origine Covid: Cina esaminerà campioni di sangue prelevati nel 2019 a Wuhan

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La Cina si sta preparando ad esaminare fino a 200 mila campioni di sangue prelevati nel 2019 a Wuhan. A riportarlo è la Cnn, che cita un funzionario cinese, secondo cui ciò farebbe parte di un’indagine sull’origine del Covid-19. Nello specifico, secondo l’emittente televisiva statunitense i campioni di sangue sono conservati nel centro ematologico di Wuhan e tale modus operandi era stato sollecitato lo scorso febbraio dagli esperti dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms).

Open di Mentana fiancheggerà la censura di Facebook in Italia

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La notizia è stata diffusa il 12 ottobre dalle agenzie di stampa: Facebook Inc. ha annunciato l’ingresso di Open all’interno della sua squadra di “collaboratori indipendenti per il fact-checking”. La testata giornalistica fondata da Enrico Mentana si occuperà di monitorare i post pubblicati su Instagram e Facebook e sancire se si tratta di contenuti veritieri o menzogne: “Ogni volta che un fact-checker valuta un contenuto come falso – si legge nel comunicato – Facebook riduce la sua distribuzione, in modo che meno persone possano vederlo, e avvisa chi lo ha già visto sulla non correttezza. Applica inoltre al contenuto un’etichetta di avvertimento che rimanda all’analisi fatta del fact-checker”.

Open entrerà in un team che comprende 80 fact-checker in tutto il mondo e sarà il secondo incaricato di monitorare i post in lingua italiana andando ad affiancare la testata Pagella Politica che collabora a questo fine con le piattaforme di Mark Zuckerberg già dal 2018.

Facebook e Instagram negli ultimi mesi stanno incrementando la rimozione dei contenuti. Da maggio scorso i social in questione censurano non solo i contenuti verificati come falsi ma anche tutti quelli che “esprimo esitazione sui vaccini”, a prescindere dal fatto che poggino su notizie vere o false. Inoltre, pochi giorni fa, un rapporto pubblicato da Human Right Watch, ha messo in luce come le piattaforme di Zuckerberg abbiano sistematicamente penalizzato o rimosso i post che sostengono la parte palestinese nell’eterno conflitto contro l’occupazione israeliana. Particolare che fa intendere come la logica censoria di Facebbok Inc. sottostia anche a direttive politiche precise. Principi evidentemente arbitrari che dimostrano come la scure censoria delle piattaforme sia ben lungi dall’essere un meccanismo lucido ed oggettivo, come testimoniato anche dalla censura subita da L’Indipendente per un articolo in realtà rivelatosi perfettamente corretto e vittima di un’errore di valutazione dei “fact-checker indipendenti”.

Open da ora parteciperà a questa attività inquisitoria. E lo farà con un curriculum che – dal punto di vista della verifica delle notizie – non si è nemmeno dimostrato specchiato come si pretenderebbe da una testata che si prenderà l’onere di giudicare la deontologia degli altri. Ad esempio, nelle ultime settimane, ha costantemente sottostimato contro ogni evidenza delle immagini la partecipazioni a due manifestazioni contro il green pass a Roma, certificando “diverse centinaia” di manifestanti di fronte a una piazza San Giovanni pressoché gremita.

 

USA, gli indigeni assediano Biden per chiedere lo stop ai progetti fossili

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Decine di indigeni si sono riuniti di fronte alla Casa Bianca, nella giornata di ieri, per chiedere a Biden e alla sua amministrazione di smettere di finanziare l’industria dei combustibili fossili e dichiarare la crisi climatica un’emergenza nazionale. La giornata di lunedì è stata la prima di cinque che avranno luogo questa settimana, durante le quali indigeni provenienti da tutto il Paese manifesteranno di fronte alla residenza presidenziale a Washington.

Le proteste sono parte del movimento People v Fossil Fuel Protests, organizzate dal gruppo Build Back Fossil Free. Si è trattato di un raduno pacifico, con i manifestanti che ballavano, cantavano e pregavano, ma la polizia ha comunque fatto ricorso agli LRAD, macchinari acustici utilizzati per la dispersione della folla.

La protesta ha avuto luogo nel giorno del Columbus’ Day, giorno che Biden ha appena formalmente riconosciuto anche come Indigenous’ People Day, rispondendo alla necessità di promuovere un pensiero decolonizzato e l’equità razziale .L’Indigenous Environmental Network  (IEN) ha però denunciato la mancata corrispondenza tra promesse e azioni del Presidente, lamentando il mancato impegno nel rispettare la sovranità indigena sui propri territori e non agendo rapidamente per mitigare gli effetti che i cambi climatici dovuti all’azione estrattiva dei combustibili fossili hanno sulle comunità indigene.

“Le proclamazioni non cancellano la sorveglianza della polizia sugli Indigeni che lottano per le nostre terre e acque, i pestaggi e le incarcerazioni di coloro che cercano di fermare gli oleodotti, la fatturazione idraulica, l’estrazione di gas naturali, uranio e altre industrie estrattive che devastano i nostri ecosistemi e i nostri corpi e violano i nostri diritti”, si legge nella proclamazione dell’IEN.

La presidenza Biden ha in effetti ignorato le proteste degli indigeni contro il potenziamento da 9 miliardi di dollari dell’oleodotto Enbrudge, che collega la città di Alberta (in Canada) con il Wisconsin. 900 persone sono stati arrestati nel corso delle proteste, come denunciato dall’IEN, ma non è servito a fermare la messa in funzione dell’oleodotto a partire dal primo di ottobre.

Il Washington Post riporta diverse testimonianze dell’impatto che i cambiamenti climatici hanno sulla vita delle popolazioni indigene, come quella di Siqiñiq Maupin, direttore esecutivo di Sovereign Iñupiat for a Living Arctic, il quale afferma che in Alaska ben 12 villaggi rurali devono essere ricollocati su territori più asciutti. L’Alaska è lo Stato con il maggior numero di rifugiati climatici negli Stati Uniti, afferma Maupin, che ha anche aggiunto come nel suo villaggio le persone abbiano iniziato a sviluppare rare forme di cancro e asma. Pur essendo schierate in prima persona per la tutela le proprie terre da trivellazioni e costruzione di oleodotti e per la conservazione della biodiversità, gli effetti dei cambiamenti climatici si fanno sentire in modo devastante per le popolazioni indigene.

Biden ha fatto alcuni passi avanti rispetto ai predecessori nell’impegno alla lotta contro la crisi climatica. Rientrare negli accordi di Parigi, impostare ambiziosi obiettivi di riduzione dei gas serra, cancellare la costruzione di alcuni oleodotti sono piccoli passi verso un obiettivo più verde. Moltissimi indigeni, tuttavia, stanno pagando a caro prezzo il ritardo e l’insufficienza delle azioni del governo.

[di Valeria Casolaro]

L’allarme dei presidenti di Regione: con il green pass nelle aziende scoppierà il caos

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Allo stato attuale delle cose, con il Green Pass che dal 15 ottobre diventerà obbligatorio nei luoghi di lavoro, molte aziende potrebbero trovarsi in difficoltà, dato che un numero di lavoratori stimato tra 3,5 e 4 milioni è privo di vaccino e dovrà ottenere il green pass con il tampone. A lanciare per primo l’allarme è stato il governatore del Veneto, Luca Zaia, che in un’intervista ha affermato: «Non avete idea del caos che scoppierà nelle aziende il 15 ottobre, perché non saremo in grado di offrire a tutti i non vaccinati un tampone ogni 48 ore. Gli imprenditori con cui parlo io sono preoccupatissimi».

Nonostante il Veneto abbia un’alta percentuale di persone vaccinate (l’83% degli over 12 ha fatto almeno la prima dose), Zaia ha ricordato che i non vaccinati nella regione sono 590mila nella fascia compresa tra i 18 e i 69 anni ed ha in tal senso affermato: «Poniamo che la metà di loro lavori. Ebbene, noi in Veneto facciamo circa 50mila tamponi al giorno per i positivi e i loro contatti stretti, più altri 11mila nelle farmacie. Sono 60mila test. Dunque non c’è la capacità di controllare tutti i non vaccinati ogni due giorni». Inoltre ha aggiunto: «Se il Veneto non è in grado di garantire la capacità di test non ce la faranno neanche le altre Regioni, temo».

Proprio per questo, Zaia chiede al governo di «consentire di fare i test fai da te – ossia i tamponi nasali, certificati e diffusi in tutto il mondo – nelle aziende, con la sorveglianza delle imprese». Essi, inoltre, «se acquistati in grandi stock possono costare dai 4 ai 7 euro», mentre per ciò che concerne la durata dei tamponi il governatore ha aggiunto che nella Conferenza dei presidenti delle Regioni era stato «proposto di consentire di fare i tamponi ogni 72 ore».

In pratica secondo il governatore del Veneto bisogna correre assolutamente ai ripari, onde evitare che centinaia di migliaia di lavoratori possano perdere il lavoro non per colpa loro, ma per l’impossibilità produttiva di sottoporsi al test anti Covid. Si tratta di preoccupazioni condivise anche da Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia e della Conferenza delle Regioni, il quale in un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa ha dichiarato che le criticità sopracitate le ha «segnalate nell’ultima riunione con il governo», che per evitare il caos nei luoghi di lavoro «deve intervenire tempestivamente e consentire così alle imprese di organizzarsi».

Inoltre, per quanto riguarda le ipotesi di allungare la durata del tampone e ridurne il prezzo ha affermato che «bisogna considerarle con attenzione» e che «in altri Paesi europei la validità del tampone è già di 72 ore», mentre in merito alla proposta di autorizzare le imprese ad effettuare i test nasali rapidi fatta da Zaia, Fedriga ha dichiarato: «È sicuramente da valutare, del resto sono test già acquistabili in farmacia. Se si sceglie di percorrere questa strada, però, bisogna fare presto, perché il 15 ottobre è arrivato e le aziende non possono organizzarsi dall’oggi al domani».

Detto ciò, questi sono solo alcuni dei problemi derivanti dalla scelta del governo, che ha esteso senza pensarci due volte il lasciapassare ai lavoratori e non ha fatto i conti con una moltitudine di criticità. Ad esempio, se la situazione non dovesse cambiare, dal 15 ottobre migliaia di persone non potranno lavorare se non sottoponendosi al tampone, nonostante si siano vaccinate.

Inoltre, delle difficoltà vi saranno anche per gli autotrasportatori: come affermato dal presidente di Fai Liguria (Federazione Autotrasportatori Italiani), Davide Falteri, una percentuale variabile (tra il 20 e il 30%) degli autisti – che vengono anche da paesi in cui non è previsto l’utilizzo del Green Pass – non ha il lasciapassare, e «fare un tampone ad un autista che guida un mezzo pesante prima che si rechi in un porto o in una piattaforma logistica è complicato, dato che egli non potrebbe, ad esempio, parcheggiare in mezzo alla strada e recarsi in farmacia». Dunque, bisogna «trovare soluzioni concrete». Le stesse soluzioni concrete che il governo, dato il poco tempo a disposizione, probabilmente il 15 ottobre non avrà ancora fornito.

[di Raffaele De Luca]

Tamponi gratuiti per i portuali: i lavoratori di Trieste rifiutano e confermano lo sciopero

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A partire dal 15 ottobre, data in cui il Green Pass diventerà obbligatorio nei luoghi di lavoro, i portuali non sottostaranno alle classiche condizioni previste per ottenere il lasciapassare: le imprese che operano nei porti, infatti, dovranno cercare di mettere a loro disposizione tamponi gratuiti. È quanto previsto da una recente circolare, firmata dal Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno ed inviata ai prefetti, che rappresenta una prima vittoria per i tanti lavoratori portuali che nell’ultimo periodo si sono opposti al lasciapassare sanitario.

Nello specifico all’interno della circolare, diffusa dal magazine Shipmag, si legge che «nel corso di una riunione di coordinamento interministeriale convocata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri» è stata condivisa l’esigenza di procedere ad un «immediato monitoraggio dei dipendenti sprovvisti della certificazione». In tal senso, la conclusione alla quale si è arrivati è la seguente: «in considerazione delle gravi ripercussioni economiche che potrebbero derivare dalla paventata situazione anche a carico delle stesse imprese operanti nel settore, si è raccomandato di sollecitare queste ultime affinché valutino di mettere a disposizione del personale sprovvisto di Green Pass test molecolari o antigenici rapidi gratuiti».

In pratica, le imprese che operano nei porti dovranno chiedere ai propri lavoratori il Green Pass, ma possibilmente dovranno pagare i tamponi ai dipendenti privi di lasciapassare. Ciò evidentemente poiché i lavoratori privi di certificato verde avrebbero potuto compromettere l’operatività degli scali e mandare così in tilt un settore di fondamentale importanza, ossia quello dei trasporti. In tal senso la decisione del Viminale di emettere tale circolare è stata presa, con ogni probabilità, tenendo conto della presa di posizione dei lavoratori portuali, che ultimamente si sono schierati contro il lasciapassare sanitario.

Nello specifico, a far sentire la propria voce sono stati soprattutto i portuali di Trieste, che si sono mobilitati in maniera compatta, vaccinati e non, per esprimere il loro dissenso verso il Green Pass così come concepito, chiedendo quantomeno di rendere gratuiti i tamponi. Esso infatti è stato giudicato come una misura «non sanitaria», bensì «di discriminazione e di ricatto che impone a una parte notevole dei lavoratori di pagare per poter lavorare e che punta a dividere i lavoratori» Proprio per questo hanno deciso di protestare ad oltranza contro il certificato verde, rallentando «da subito le operazioni lavorative per segnalare concretamente il malcontento» e, nel caso, bloccandole il 15 ottobre «se dovesse entrare effettivamente in vigore l’obbligo di green pass per lavorare».

Per far sentire la loro voce, nell’ultimo periodo i portuali di Trieste sono anche scesi in piazza: il 2 ottobre, ad esempio, migliaia di persone tra cui i portuali hanno attraversato le vie del centro cittadino per protestare contro il Green Pass. Inoltre, nella giornata di ieri almeno diecimila persone hanno contestato tale misura, ed in testa al maxi corteo c’erano proprio i portuali. Anche in altre città però i portuali hanno condiviso la posizione di quelli di Trieste, come ad esempio a Genova, dove i lavoratori hanno manifestato gridando slogan quali «Trieste chiama, Genova risponde».

Si tratta dunque, come anticipato precedentemente, di una prima vittoria per i lavoratori portuali, ma non è detto che ciò basterà a far terminare la loro protesta. Proprio nella giornata di ieri, infatti, a Trieste una delegazione di lavoratori ha incontrato il Prefetto ribadendo la loro determinazione a lottare fino in fondo per il ritiro del Green Pass.

AGGIORNAMENTO: Il Coordinamento Lavoratori Portuali di Trieste ha rigettato l’offerta, ribadendo in un comunicato: “Noi come portuali ribadiamo con forza e vogliamo che sia chiaro il messaggio che nulla di tutto ciò farà si che noi scendiamo a patti fino a quando non sarà tolto l’obbligo del green pass per lavorare, non solo per i lavoratori del porto ma per tutte le categorie di lavoratori”.

[di Raffaele De Luca]