mercoledì 12 Novembre 2025
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In Patagonia la mobilitazione dei cittadini ferma le multinazionali minerarie

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Le mobilitazioni della societìà civile nella provincia del Chubut, nella Patagonia Argentina, hanno portato al ritiro della Legge di zonizzazione mineraria, che avrebbe permesso di avviare progetti di estrazione mineraria nella regione. In una delle zone più ricche di argento al mondo, nella quale da vent’anni si lotta contro l’usurpazione del terreno e l’estrazione indiscriminata, la tenace lotta della popolazione è riuscita per il momento a impedire lo sfruttamento del territorio.

Nella settimana di Natale nella regione del Chubut, nella Patagonia argentina, si sono svolte diverse proteste contro il progetto di legge approvato il 15 dicembre, il quale avrebbe permesso l’apertura di un’impianto per l’estrazione dell’argento nei distretti di Gastre e Telsen. Nella zona si trova il giacimento Navidad, una delle miniere del metallo prezioso più grandi al mondo il cui valore stimato si aggira intorno al miliardo di dollari, di proprietà dell’americana Pan American Silver (le cui azioni sono schizzate alle stelle dopo l’approvazione della legge).

La lotta della popolazione di Chubut contro l’installazione di una miniera per l’estrazione dell’argento dura da ormai vent’anni. I cittadini iniziarono a organizzarsi nel 2002, dopo aver appreso che nei pressi della cittadina di Esquel si sarebbe realizzato un grande progetto di estrazione dell’oro che avrebbe sfruttato grandi quantità di acqua e il cianuro come reagente. La mobilitazione popolare già allora riuscì ad ottenere l’indizione di un referendum, nel quale l’80% degli aventi diritto si espresse contro alle attività estrattive. La legge che ne conseguì non vietò l’estrazione mineraria, ma impose importanti restrizioni, tra le quali il divieto dell’utilizzo di cianuro. Nonostante ciò le grandi multinazionali come la Pan American Silver hanno continuato a sviluppare progetti per sfruttare il territorio: in particolare il progetto Navidad prevede lo sfruttamento di un’area di 100 km quadrati, dai quali estrarre 500 tonnellate di metalli all’anno per 17 anni.

La protesta dei cittadini svoltasi lo scorso 17 dicembre all’ingresso del palazzo del Governo di Rawson, la capitale della provincia di Chubut, in Patagonia

Le associazioni ambientaliste hanno mostrato come sia impossibile realizzare tale progetto in modo sostenibile: il funzionamento della miniera porterebbe infatti al rilascio di metalli pesanti e numerose sostanze tossiche, tra le quali l’acido solforico. Inoltre le attività richiederebbero l’utilizzo di grandi quantità di acqua (95 litri al secondo), il cui approvvigionamento è già normalmente difficile nella zona. Gli scavi, inoltre, distruggerebbero le montagne in modo irreversibile. Infine, per l’estrazione dell’argento verrebbe usato lo xantato, alternativa migliore al cianuro ma comunque non meno nocivo.

Ad essere contestata è anche la narrativa secondo la quale la miniera produrrebbe nuovi posti di lavoro. In altre miniere, come l’argentina Veladero, si stima che per ogni 1,2 milioni di dollaro investiti dall’impresa si generi un solo posto di lavoro, le cui condizioni sono precarie e insalubri.

La risposta delle forze dell’ordine alle proteste è sempre stata repressiva e brutale: sono stati numerosi gli incidenti violenti in tutta la provincia, che hanno portato a diversi arresti tra la società civile e i membri delle associazioni ambientaliste.

Il governatore Mariano Arcioni, che non ha mai smesso di promuovere l’attività estrattiva nella zona, ha comunicato in un tweet del 20 dicembre la decisione di abrogare la legge e realizzare “un plebiscito a livello provinciale per ascoltare tutte le voci del popolo”. In risposta, numerosi gruppi ambientalisti hanno affermato che la volontà del popolo è stata espressa in maniera chiara per le strade, ora come da vent’anni a questa parte. Il 21 dicembre, la legislatura della provincia del Chubut ha votato all’unanimità per l’abrogazione della legge. «Non vi sono le condizioni edilizie né di sicurezza necessarie per continuare con lo sviluppo dei lavori legislativi e amministrativi» è stato indicato durante la seduta.

Si tratta di una vittoria importante, anche se molto probabilmente non definitiva, per la popolazione del Chubut, che dà nuovo slancio a tutte le lotte contro l’estrattivismo portate avanti nell’intera America Latina.

[di Valeria Casolaro]

Rai: oggi sciopero dei giornalisti contro tagli lineari

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Le giornaliste e i giornalisti della Rai oggi sciopereranno con il fine di contestare la decisione del vertice aziendale di attuare tagli lineari all’informazione del servizio pubblico. Lo si apprende da un comunicato della Usigrai (Unione sindacale giornalisti Rai) tramite il quale viene sottolineato che tali tagli siano stati effettuati «senza un piano industriale, senza un progetto e senza alcun confronto». Nello specifico, inoltre, l’Usigrai cita l’amministratore delegato, che «ha cancellato edizioni dei telegiornali del Tgr e dello Sport con la giustificazione degli ascolti» dopo che «solo un mese fa aveva detto invece  alla Commissione di Vigilanza che il servizio Pubblico non inseguisse lo share come unico parametro di successo».

Afghanistan, le donne non potranno percorrere più di 72 chilometri senza un uomo

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Domenica 26 dicembre per le donne afghane è stato un altro giorno nero in materia di diritti. I talebani, che detengono il potere su tutto il Paese da ormai quattro mesi, hanno dichiarato che alle donne non sarà permesso percorrere distanze maggiori di 72 chilometri senza essere accompagnate da un uomo. A deciderlo è stato il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, che ha stabilito inoltre che i tassisti non potranno far salire sulle proprie auto donne senza velo.

Con questi divieti, la vita in Afghanistan sembra viaggiare al contrario. Durante il primo regime talebano (dal 1996 al 2001), i diritti delle donne erano quasi praticamente assenti e le imposizioni erano pressoché identiche a quelle di adesso. All’epoca, ad esempio, le donne non potevano uscire di casa senza che ci fosse un maschio “a fare la guardia”. È facile trovare delle analogie con l’attualità. 

Sono tematiche su cui i governi stranieri stanno insistendo molto: senza il rispetto dei diritti fondamentali non sono disposti a riconoscere il governo dei talebani come tale. Un grosso ostacolo che impedisce ai talebani stessi di accedere agli aiuti economici necessari a risollevare un paese in cui alla maggior parte delle donne non è permesso lavorare o studiare. A settembre i talebani avevano ribadito che avrebbero permesso alle donne di frequentare l’università, ma ad oggi i corsi riservati a loro sono pochi e non sono ancora chiare le dinamiche con cui potrebbero eventualmente accedervi. Al momento, nella quasi totalità dei casi, è permesso solo agli studenti maschi frequentare le scuole secondarie, necessarie per accedere all’università. Questo limita ancora di più le possibilità (fino quasi ad annullarle) per una donna di procedere negli studi.

Le repressioni, tuttavia, si susseguono ormai da qualche tempo e sembrano andare tutte nella stessa direzione: ricalcare la supremazia maschile. Come? Offuscando l’identità femminile. Poco più di un mese fa i talebani hanno varato il divieto per le donne di apparire in tv, su tutte le reti televisive. Niente telenovele, niente programmi di qualsiasi tipo. E per le poche “superstiti”, come giornaliste o presentatrici, è d’obbligo tenere sempre il capo coperto. Prima ancora, i talebani insieme ai sostenitori avevano cancellato, imbrattandole con la vernice nera, le immagini di donne nelle pubblicità per strada o fuori da alcuni esercizi commerciali.

Per alcuni momenti e alcune decisioni prese, si ha avuto l’impressione che i talebani stessero adottando anche alcune misure in favore del genere femminile. Tra queste, il regime ha vietato il matrimonio forzato e ha concesso alle vedove il diritto di ricevere una quota dei beni dei mariti. Piccoli passi in avanti che non possono colmare il divario generato, invece, dagli impedimenti. E potrebbero, tra l’altro, essere stati messi in atto solo per “ingannare” le potenze straniere e ottenere la loro approvazione.

Probabilmente lo stesso motivo per cui i talebani continuano a sostenere che i divieti imposti sono temporanei, promettendo di non far regredire il Paese alla condizione del primo regime. Ma al momento non esiste alcuna garanzia che questo non accadrà.

[di Gloria Ferrari]

Francia, nuovo incidente nucleare nel Tricastin: suolo contaminato da trizio

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In Francia si è verificato un ulteriore incidente nella centrale nucleare del Tricastin, un impianto che ha quasi mezzo secolo di vita e tra i più datati di tutta la nazione. In questo caso – ha annunciato Électricité de Francesi è trattato di uno sversamento accidentale di effluenti radioattivi. Questi, in genere, dalla centrale vengono trasferiti ad una vasca apposita, la quale, tuttavia, non era sufficientemente libera. I reflui sono finiti cosi in un pozzetto di emergenza che, a sua volta, ha però straripato prima che gli operai potessero fare le dovute manovre. «Circa 2 metri cubi di effluenti – ha scritto l’Autorité de sûreté nucléaire (ASN) – sono fluiti nelle grondaie di raccolta dell’acqua piovana che non sono progettate per essere a tenuta stagna. Solo 1,1 m³ di effluente radioattivo sono stati recuperati mentre circa 900 l contenenti trizio si sono infiltrati nel terreno, tra il 25 novembre e l’8 dicembre, causando un’attività radiologica anormale».

L’ASN, l’autorità pubblica indipendente addetta alla sicurezza nucleare in Francia ha rassicurato che, grazie alla presenza di un recinto geotecnico, non è stata rilevata alcuna contaminazione delle acque sotterranee al di fuori del sito. Il 12 dicembre il monitoraggio ha infatti registrato un valore di radioattività di 28.900 Bq/l (bequerel per litro) di trizio, che è poi diminuito costantemente. Sebbene in questo caso, al livello internazionale, non vi sia una soglia unanime di allarme per l’acqua potabile e nonostante la fuoriuscita abbia effettivamente contaminato le acque sotterranee, queste ultime – ha ribadito l’ASN – verranno pompate all’esterno della cinta solo dopo la verifica del rispetto dei parametri.

La centrale nucleare del Tricastin rientra nei confini di un più grande complesso nucleare omonimo. Resa operativa nel 1974, è una delle più vecchie centrali nucleari francesi ed ha da non molto ricevuto il via libera ad operare per ulteriori 10 anni. Tuttavia, come anticipato, non è la prima volta che l’impianto è interessato da incidenti. Nel 2008, centinaia di tecnici vennero contaminati durante una manutenzione del reattore 4. Nel 2011, ci fu, a quanto pare senza conseguenze, un incendio nel reattore 1. Infine, nel 2013, un incidente di dinamica simile a quello verificatosi in questi giorni. Al tempo, a causa della contaminazione della falda, l’ASN aveva portato l’allarme a livello 1, mentre questa volta, per l’assenza di rischi concreti, il sistema di allerta è stato lasciato a livello 0. Ciononostante, nuovi dubbi si sollevano sull’effettiva sicurezza dell’energia nucleare, specie se parliamo di impianti vecchi oltre 40 anni. Il dibattito sul rapporto rischio-beneficio resta aperto e irrisolto.

[di Simone Valeri]

Davvero in Germania crollano i contagi grazie al lockdown per i non vaccinati?

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Tutti i giornali mainstream in questi giorni si sono rifatti alla tesi secondo cui il «lockdown per i non vaccinati» in Germania avrebbe fatto crollare i contagi: Fanpage, la Repubblica ed il Corriere della Sera sono solo alcuni dei quotidiani che hanno dato tale notizia scrivendo titoli ingannevoli e fuorvianti. Quella riportata dalle più note testate italiane, infatti, è una totale fake news: in tal senso, da una parte in Germania non vi è un reale lockdown per i non vaccinati, essendovi delle restrizioni per questi ultimi ma non una quarantena vera e propria mentre dall’altra, stando ai fatti, non si può con certezza affermare che il «lockdown» abbia provocato una diminuzione dei casi di Covid-19.

Venendo al primo punto, dunque, non solo bisogna specificare che il «lockdown dei non vaccinati» in Germania non esista, ma anche che le restrizioni in vigore nel Paese per questi ultimi siano comparabili – se non addirittura inferiori – a quelle attualmente presenti in Italia, dove come è noto il Super Green Pass preclude diverse attività a chi sceglie di non sottoporsi al vaccino anti Covid. In Germania, infatti, la normativa federale prevede delle misure restrittive per il contenimento dei contagi con alcune facilitazioni per le persone vaccinate o guarite dal Covid, il che non è di certo sinonimo di «lockdown». Precisamente, l’accesso a determinate attività, come gli eventi culturali, nonché ai locali al chiuso, negozi, servizi alla persona, strutture ricettive, palestre e piscine è regolato dai Land (Stati federati della Germania) in base alla specifica situazione epidemiologica presente.

Questi ultimi potranno applicare la cosiddetta regola del 3G consentendo l’accesso alle persone vaccinate, guarite o risultate negative al test o la cosiddetta regola del 2G, riservando lo stesso esclusivamente alle persone vaccinate o guarite. Si tratta dunque sostanzialmente di regole riconducibili al Green Pass ed al Super Green Pass nostrani, con la differenza che quest’ultimo è imposto in tutto il territorio italiano. Va però ricordato che nei territori tedeschi può anche essere introdotta la cosiddetta regola del 2G plus – che prevede le restrizioni tipiche della regola delle 2G nonché l’obbligo di presentare un test negativo e di indossare la mascherina – oppure la regola del 3G plus – che riserva l’accesso ai vaccinati, ai guariti o alle persone risultate negative al tampone molecolare – ma solo nelle zone in cui il tasso di ospedalizzazione supera la soglia critica. Ad ogni modo comunque non si può parlare di «lockdown dei non vaccinati», soprattutto tenendo conto del fatto che alle restrizioni per questi ultimi ne sono recentemente state aggiunte altre per tutti: sia per i vaccinati e che per i non vaccinati, infatti, il governo tedesco ha ad esempio imposto il limite massimo di 10 persone per gli eventi privati e la chiusura di club e discoteche.

Per ciò che concerne il secondo punto invece, ovverosia il fatto che il «lockdown dei non vaccinati» avrebbe provocato una diminuzione dei casi in Germania, basterà ricordare che anche in altri Paesi limitrofi la curva epidemica risulta essere simile a quella tedesca. Certo, tra questi c’è l’Austria, dove nell’ultimo periodo è stato adottato dapprima un lockdown generalizzato e successivamente uno riservato ai non vaccinati tuttora in corso e dove la curva epidemiologica in questo mese è nettamente calata, ma vi sono ad esempio anche Polonia e Repubblica Ceca, dove sono presenti restrizioni (talvolta anche riservate ai non vaccinati) ma dove di certo non vi è alcun lockdown. Eppure, anche in Polonia ed in Repubblica Ceca vi è un andamento discendente della curva, con il picco dei contagi registratosi nel medesimo periodo di quello relativo alla Germania, ossia ad inizio dicembre.

Tutto questo quindi induce a pensare che la diminuzione dei casi in Germania potrebbe essere legata all’area geografica in cui essa si trova: la situazione attualmente sta infatti migliorando in gran parte dei Paesi del Nord Europa, mentre peggiora in quelli del Sud Europa. Tra questi ad esempio vi è l’Italia – dove nonostante ad inizio dicembre sia stato introdotto il Super Green Pass la curva epidemica è in crescita da più di due mesi – e la Spagna, dove nelle ultime settimane i contagi sono cresciuti esponenzialmente arrivando ieri a registrare più di 214.000 nuovi casi in un giorno.

[di Raffaele De Luca]

Draghi rispetti il Parlamento: inedita protesta della Commissione parlamentare

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Insolito atto di protesta contro il Governo da parte della Commissione Finanze della Camera, a causa dei tempi ridottissimi concessi ai deputati per discutere il maxiemendamento sulla Legge di Bilancio: solo tre ore per analizzare e dibattere il più importante provvedimento dell’anno, quello che contiene i capitoli di spesa pubblica per il 2022, nonché divisive riforme come quella sulle aliquote fiscali, che poche settimane fa è stata contestata con lo sciopero generale indetto dai sindacati Cgil e Uil. La Commissione, con il sostegno di tutti i gruppi di maggioranza, ha deciso di non presentare alcun parere sulla legge, chiedendo a Draghi il rispetto delle istituzioni democratiche. La Legge di Bilancio sarà quindi votata dal Parlamento senza che la Commissione Finanze, che secondo la Costituzione italiana è deputata a vagliarne i contenuti, abbia espresso alcun parere in merito.

La decisione, come detto, è stata presa all’unanimità da tutti i membri, inclusi quelli che fanno parte dei partiti che sostengono il governo. Le dichiarazioni rilasciate lasciano intendere come i deputati reputino una grave rottura dei protocolli democratici la condotta del Governo Draghi. A spiegare la decisione è stato un comunicato del presidente della Commissione, Luigi Marattin, membro di Italia Viva: «Il rispetto per le istituzioni, e il rispetto verso il lavoro di sei mesi che questa stessa Commissione (insieme alla omologa del Senato) ha svolto quest’anno per preparare il terreno alla riforma fiscale, ci impone di rispondere un cortese e garbato “no grazie” quando ci si chiede di esprimerci in poche ore su un provvedimento che impegna decine di miliardi di risorse pubbliche». Rinforza il concetto Ubaldo Pagano, dell’iper-governista Partito Democratico: «Nessuna fase emergenziale giustifica una tale compromissione dei tempi».

Da settimane era chiaro che il Parlamento non avrebbe potuto toccare palla sulla Legge di Bilancio, interamente gestita dal Governo. Il governo ha inviato il ddl al Parlamento solo il 6 dicembre, oltretutto omettendo il dettaglio sulla ripartizione degli 8 miliardi destinati al taglio delle tasse: l’intesa politica che ha poi innescato lo sciopero generale è stata messa nero su bianco solo nel maxiemendamento della scorsa settimana. Quanto sta avvenendo sulla Legge di Bilancio, dopotutto, non è altro che l’ultimo atto in senso cronologico di una tendenza evidente da quando Draghi si è insediato a palazzo Chigi. Una media di 4,2 decreti legge ogni mese, il ricorso a 26 voti di fiducia da quando è in carica (media di tre al mese). Sono numeri senza precedenti quelli che testimoniano come il governo Draghi stia esautorando il Parlamento da quello che sarebbe il compito assegnatogli dalla Costituzione, ovvero l’esercitare il potere legislativo. Basti sapere che su “Green Pass” e “Super Green Pass”, due provvedimenti che hanno sancito la limitazioni delle libertà costituzionali per milioni di cittadini, il Parlamento non ha mai avuto la possibilità di discutere ed emendare i provvedimenti. Come avevamo scritto su L’Indipendente il 22 novembre scorso: “i dati testimoniano come il governo sia inteso da Draghi alla stregua di una governance aziendale, del quale l’ex capo della Banca Centrale Europea è l’indiscutibile amministratore delegato”. Ora lo denunciano anche i parlamentari della stessa maggioranza, i quali però, non hanno certo annunciato di voler far seguire fatti conseguenti alle parole di denuncia: il loro appoggio al governo non è in discussione.

Clima: nel 2021 danni da calamità naturali per oltre 170 mld di dollari

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Nel 2021 i dieci peggiori disastri metereologici verificatisi a livello globale hanno provocato danni pari ad oltre 170 miliardi di dollari: è quanto si apprende da un rapporto della ong britannica Christian Aid, nel quale si legge che le catastrofi hanno anche causato almeno 1.075 morti ed oltre 1,3 milioni di sfollati. L’impatto economico delle calamità naturali, inoltre, è maggiore di quello registrato nel 2020, dato che sempre secondo la ong l’anno scorso i danni legati alle catastrofi naturali erano ammontati a 150 miliardi di dollari.

L’informazione e la guerra: intervista al giornalista Fulvio Grimaldi

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Fulvio Grimaldi, classe 1934, è un giornalista, documentarista e inviato di guerra italiano con una carriera lunga più di cinquant’anni. Ha lavorato per la radio londinese BBC oltre che per varie testate giornalistiche: Paese Sera, ABC, Lotta Continua, Liberazione. Dal 1986 al 1999 è stato inviato per la RAI dalla quale se ne andò in polemica con il modo di trattare il conflitto in Jugoslavia. Da anni lavora come documentarista indipendente, ha condotto reportage di guerra e da zone altamente compromesse a livello ecologico-sociale. Spesso si è trovato ad essere l’unico giornalista indipendente presente in diversi teatri di guerra, fu l’unico testimone italiano della strage di Derry nell’Irlanda del Nord del 1972 (Bloody Sunday). La sua è una voce per molti versi unica nel panorama italiano, che descrive senza sconti.

Partiamo dalla sua lunghissima esperienza di giornalista che ha lavorato sul campo per tantissime realtà diverse, comprese quelle che oggi definiamo mainstream: qual è la traiettoria che traccerebbe nel tempo circa la reale possibilità di raccontare i fatti da parte degli inviati di guerra?

Raccontare i fatti, di guerra o di altre situazioni, comporta inevitabilmente, quando si è giornalisti, cioè esseri liberi e pensanti e non amanuensi, un punto di vista e, quindi, un’empatia, o una valutazione personale. Nella mia esperienza, che risale agli anni ’60 del secolo scorso, non è mai stato del tutto facile far prevalere una simile forma di riferire la realtà. Si prediligeva la formula, detta inglese, dell’obiettività. Una mistificazione che cela il conformismo. Tuttavia, la coscienza democratica, rafforzatasi dopo il 1945 alla vista delle catastrofi provocate dalle dittature, ha aperto spazi. Neanche il più autoritario degli editori o direttori voleva/poteva privarsi di una vernice di pluralismo. Allora, più a sinistra che a destra. Oggi, per quel che valgono queste qualifiche, è vero il contrario.

La mia esperienza in proposito risale al 1967, Guerra dei Sei Giorni tra Israele e gli arabi, dove ero inviato del quotidiano Paese Sera e del settimanale Vie Nuove, entrambi vicini al PCI. La posizione ufficiale del partito e, con minore rigore, di questi organi di stampa, era di sostegno a Israele, ritenuto vittima ontologica e portatore di democrazia e perfino socialismo (i Kibbuz). I miei servizi da quel conflitto e quelli successivi dalla Palestina e da tutta la regione, non rientrarono in questa visione, ma vennero tutti pubblicati senza censure. Il che, mi pregio di rivendicare, potrebbe aver contribuito, insieme ad altri elementi, sicuramente più decisivi, a cambiare la linea delle due pubblicazioni, ma anche del Partito, in favore di una maggiore comprensione delle posizioni arabe e palestinesi.

Molti anni dopo, ebbi modo di seguire a Baghdad l’aggressione USA/Nato del 2003. I miei reportage, fuori linea rispetto a un mondo mediatico quasi interamente “normalizzato”, vennero dal quotidiano per il quale lavoravo, Liberazione, confinati nella rubrica delle “Lettere”. Nulla di sorprendente, visto che l’inviato della CNN in Iraq mi aveva spiegato che gli emissari del Pentagono, collocati nella redazione internazionale, avevano a disposizione tre bottoni: verde, giallo, rosso, un semaforo. Verde per i servizi da Baghdad che potevano passare, giallo, per quelli da emendare, rosso per quelli da cestinare, perché non “corretti”.

Dopo che nel corso degli ultimi decenni la proprietà dei media, concentrata in una ristretta oligarchia, ha assunto per oggetto sociale solo apparentemente l’informazione, avendo sostituito al suo posto la propaganda e, dunque, la manipolazione della realtà, il modulo semaforo della CNN è diventata meccanismo universale. Gli organi professionali, Ordine e Sindacato, si sono perfettamente arruolati in questa procedura.

«Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode», è una frase di Thomas Hobbes. In base alla sua esperienza decennale nei teatri di guerra, quanto ritiene sia vera questa affermazione? In che misura i mass media possono accrescere la forza e la frode?

La forza è quella del condizionamento da parte di un datore di lavoro dal quale dipende il tuo salario e, quindi, il presente e il futuro tuo e della tua famiglia. La frode è quella che ti viene ordinata in base agli interessi del tuo editore e della sua appendice, il direttore. Per le guerre in preparazione si tratta generalmente di imbastire martellanti campagne di diffamazione del paese, o governo, che si vorrebbe liquidare. Campagne alla quale si aggiunge il plusvalore “etico” fornito dalle ONG, sedicenti dei “diritti umani”, ma scaturite dai grandi centri occidentali degli interessi politici ed economici, tipo Amnesty International, Human Rights Watch. Raramente manca la benedizione accreditatrice dei vertici di certe importanti confessioni religiose. Gli esempi sono sotto gli occhi e nelle orecchie ogni giorno, dalla Russia alla Cina, dall’Iran al Myanmar, dall’Egitto alla Siria, a tutte le entità che, in qualche modo, costituiscono modello sociale alternativo e un ostacolo alla globalizzazione a comando unico.

Nell’esecuzione della guerra e nei suoi esiti, si tratta di annichilire la voce del nemico e valorizzare la propria, per quanto menzognera, ma incontestabile, data la sostanziale unanimità degli organi di comunicazione.

Nella mia esperienza, ricordo il palazzo della TV di Stato a Belgrado, incenerito nei primi giorni dell’attacco Nato. Nella Guerra del Golfo del 2003, ho visto dalla finestra polverizzare il ministero dell’Informazione iracheno di fronte, nella seconda notte dei bombardamenti. I giornalisti che, contro il “suggerimento”, fornito direttamente da Washington, di non intralciare la “verità” della stampa embedded con le truppe statunitensi, riferendo invece da Baghdad quanto vedevano succedere sotto i bombardamenti a tappeto e, inevitabilmente, quanto sentivano dai comunicati del governo di Saddam Hussein, hanno subito gli effetti dell’irritazione USA. La terrazza dalla quale trasmettevano quasi tutte le testate internazionali venne spazzata via da un raffica di bombe e le prime cannonate, all’ingresso dei carri armati USA a Baghdad, colpirono l’Hotel Palestine, dove alloggiava la maggioranza degli inviati, facendo tre morti tra i colleghi.  

I mass media sono un mezzo ideale per mostrare la forza di una nazione e dispiegare la narrazione dei propri principi ispiratori e dell’identità del paese e del suo popolo. «Si vis pacem, para bellum», diceva il romano Vegezio: qual è il ruolo dei mass media nel preparare la guerra? E, in quanto proprietà di magnati, grandi gruppi industriali, multinazionali o sotto il controllo governativo, i mass media hanno una propria agenda? 

Negli ultimi trent’anni la concentrazione delle testate in mani sempre più ridotte e potenti, vedi, in Italia, Elkann, De Benedetti, Cairo, le cui fonti di profitto da sostenere non sono i lettori, ma attività finanziarie e industriali legate spesso alle condizioni geopolitiche, non permette affatto di esprime la forza politica, morale e intellettuale di una nazione. Al massimo esprime la forza di alcune cosche, sostanzialmente mafiose, che, grazie alla potenza manipolatrice, determinano anche sia la forza, sia la debolezza dei regimi. I massmedia, in quanto operatori della comunicazione, non hanno altra agenda che quella dei ragazzi di bottega di fare bene le pulizie.

In quanto mezzi di comunicazione di massa, ormai divenuti globali, i mass media sono capaci di arrivare nel campo avversario ben prima di carri armati e soldati, colpendo l’immaginario collettivo del “nemico” e fornendo modelli rivoluzionari prestabiliti. In tal senso, ci può spiegare in che modo i mezzi di comunicazione di massa possono essere considerati delle vere e proprie armi a disposizione di chi detiene le leve del potere? In che modo posso essere utilizzati?

È la base delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, iniziative imperialiste che, quando non riescono a provocare cambi di regime in direzione filo-occidentale attraverso la manipolazione dell’immaginario collettivo, di solito precedono le aggressioni armate. Lo si è visto in Libia e Siria. Qui svolgono il loro ruolo sia la stampa internazionale, con le campagne di cui ho detto prima, sia organi locali che riescono ad accreditarsi e funzionare, sebbene riconosciute come a servizio dell’aggressore. A Belgrado, ricordo la Radio-TV B-92, una delle tante del circuito di George Soros, che in pieno governo di Slobodan Milosevic, detto “autoritario”, ma dove si votava più spesso e più liberamente che in tanti paesi “civili”. Questa emittente sparava a zero contro ogni cosa jugoslava e serba e, per questi meriti, venne visitata e omaggiata da una di quelle formazioni “sociali”, come le “Tute Bianche” di Luca Casarini, la cui caratteristica più identitaria è l’ambiguità. Già attiva tra gli zapatisti del Chiapas, oggi è al timone delle navi impegnate nella sottrazione a paesi del Sud delle loro risorse umane.

Da due anni viviamo una situazione di assetto bellico, tanto nella narrativa proposta dai politici e dai governi quanto nella loro proposta e azione politica. In che modo i mass media hanno contribuito a questo stato di cose? 

Dobbiamo fare una netta distinzione tra media di massa, o generalisti, come li chiamano, vale a dire tutti quelli del regime in atto e della relativa opposizione del re, salvo eccezioni molto rade, e i media che in queste temperie degli oligopoli mediatici e della repressione di tutto ciò che resta fuori dalla traccia stabilita, si sono costruiti uno spazio in rete e, in un caso felice, anche sul digitale terrestre. A questi ultimi operatori onesti e liberi dell’informazione dobbiamo in buona misura la possibilità, grazie alle fessure che riescono ad aprire nei muri dei menzognifici, di arrivare a conoscenze altrimenti negate. E non è poco, data la potenza di fuoco di questa vera e propria corazzata dei mass media a testate unificate. È chiaro che acquisire il controllo su tutti i maggiori organi di stampa è stato propedeutico alla guerra sanitaria programmata dall’élite contro le proprie popolazioni. Del resto non era stato Udo Ulfkotte della Frankfurter Allgemeine Zeitung, sorprendentemente e immaturamente scomparso, a ragguagliarci in anticipo sull’infiltrazione dei servizi statunitensi in tutte le più importanti testate europee e sulla sconfinata serie di giornalisti a libro paga della CIA? 

Mario Monti, senatore a vita, ha recentemente affermato che, vista la situazione di “guerra alla pandemia” che stiamo affrontando anche l’informazione dovrebbe rispondere a logiche belliche e il governo dovrebbe quindi somministrare le notizie in giusta dose; in altre parole, la situazione di emergenza giustifica la censura e la manipolazione delle informazioni: cosa pensa riguardo?

Da tutto quello che ho fatto nella mia professione e ho risposto fin qui, non può non scaturire una risposta chiara e univoca. Mario Monti, a suo tempo istruito da JP Morgan su come irregimentare l’Italia e trasferire le ricchezze dei suoi cittadini in alto e all’esterno, merita il famoso “giudice di Berlino” che lo processi per alto tradimento. È un esito che potrebbe, dovrebbe, arridere, se la sorte e la nostra coscienza ci confortano, a parecchi dei personaggi, donne e uomini, che determinano le nostre condizioni attuali e il destino al quale queste condizioni dovrebbero essere propedeutiche. 

Il senatore a vita Monti, quindi nominato e non eletto, nell’augurarsi “somministrazione” di informazioni “dosate dall’alto” e attraverso strumenti “meno democratici”, in contiguità con quanto ci viene somministrato in termini di violenza medica e repressiva, non formula un auspicio. Con artificio grammaticale, mette al futuro una realtà presente e pienamente attuata. Rispondendo alla domanda, non c’è nessuna situazione d’emergenza, se non quella apoditticamente e arbitrariamente imposta da un manipolo di squadristi dell’era tecnologico-digitale-sanitaria a fini della monopolizzazione della ricchezza, quindi del potere, quindi della vita.

[di Michele Manfrin]

Brasile: 20 morti e quasi 63mila sfollati a causa delle alluvioni

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In Brasile, precisamente nello Stato nord-orientale di Bahia, almeno 20 persone hanno perso la vita a causa delle forti piogge e delle inondazioni che si stanno verificando dal mese di novembre, con gli ultimi due decessi registrati nella cittadina di Itabuna. Le persone sfollate dalle loro abitazioni, invece, sono attualmente quasi 63mila: in base a quanto riportato dalla Protezione Civile di Bahia, infatti, si tratta precisamente di 62.796 individui. Infine, sono 358 le persone rimaste ferite da quando sono iniziate le alluvioni, mentre i Comuni colpiti da esse – secondo le autorità – sono stati 116, ed almeno 100 di questi ultimi sono al momento in stato di emergenza.

Una vasta riserva di acqua è stata scoperta su Marte

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È stata scoperta una riserva di acqua su Marte, nelle Valles Marineris. Si tratta di un vasto sistema di valli – grande circa quanto i Paesi Bassi (41.000 km quadrati) – situato nella zona equatoriale del pianeta rosso e considerato il “Grand Canyon marziano”. Non è la prima volta che viene trovata acqua su Marte, ma è sempre stata individuata sotto forma di ghiaccio nelle regioni polari, dove le temperature sono più rigide.

Gli esperti hanno analizzato quanto rilevato dal telescopio per neutroni FREND – posto a bordo di ExoMars Trace Gas Orbiter –, da maggio 2018 a Febbraio 2021, e hanno mappato la presenza di idrogeno nel suolo di Marte grazie all’individuazione dei neutroni. Questi ultimi, infatti, vengono prodotti quando le particelle altamente energetiche note come “raggi cosmici galattici” colpiscono il pianeta. Emettendo i terreni più asciutti una quantità maggiore di neutroni rispetto quelli più umidi, osservando le particelle si può dedurre quanta acqua è presente nel suolo. Si tratta di una tecnica spaziale molto più avanzata e precisa delle precedenti misurazioni, poiché consente di conoscere caratteristiche dell’acqua mai individuate prima.

La presenza di acqua nelle Valles Marineris è sensazionale, in quanto il ghiaccio dovrebbe evaporare per via delle temperature. Secondo gli esperti, infatti, csuggerisce la presenza di uno speciale mix di condizioni ambientali – ancora poco chiaro -, che consente di preservare o, in qualche modo, reintegrare l’H2O. Quest’ultima sarebbe presente in forme diverse, per esempio, ci sarebbero tracce di acqua trattenute dai minerali del sottosuolo. Per questo motivo, l’intenzione del team di ricerca è quella di spingersi più a fondo, esplorando fino a un metro al di sotto dello strato polveroso esterno di Marte.

[di Eugenia Greco]