domenica 21 Settembre 2025
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Valle del Kashmir: riesplodono le violenze al confine tra India e Pakistan

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Negli ultimi giorni la valle del Kashmir, unica regione dell’India a maggioranza musulmana contesa da oltre settant’anni da India e Pakistan, ha subito un’ondata di uccisioni di civili appartenenti a minoranze religiose. Nello specifico, hanno perso la vita sette persone, quattro delle quali appartenenti a minoranze indù e sikh. Stando ai rapporti della polizia, quest’anno almeno 26 persone sarebbero state uccise in attacchi che si sono poi rivelati essere mirati.

Tutti omicidi, gli ultimi, svoltisi in pieno giorno. Come quello di un preside appartenente alla comunità religiosa sikh e il suo collega, induista, uccisi giovedì all’interno della loro scuola alla periferia di Srinagar, la città principale della regione. Secondo le testimonianze gli aggressori hanno prima controllato i documenti d’identità degli insegnanti per poi isolare e allontanare le vittime, prima di sparargli. Prima di loro la stessa sorte era toccata anche a un noto farmacista.

Alcuni ribelli, appartenenti al Fronte della Resistenza (TRF), hanno rivendicato le uccisioni. Si tratta di un gruppo militante che ha come obiettivo quello di combattere il dominio indiano e affiliato, secondo le autorità indiane, al gruppo armato islamista Lashkar-e-Taiba. Nato nel 2019 in seguito alla decisione del governo indiano di revocare lo status di semi-autonomia al Kashmir e arrestare i politici locali, il Fronte contesta l’abrogazione di due articoli ad hoc della Costituzione indiana. Si tratta dell’articolo 370, che lasciava al governo centrale di New Delhi la possibilità di legiferare solo su difesa, esteri e comunicazioni e l’articolo 35A che consentiva l’acquisto di terreni nel Jammu e Kashmir esclusivamente ai suoi residenti. in quell’occasione il governo indu-nazionalista di Narendra Modi inviò nella regione migliaia di militari per arrestare i parlamentari locali, lasciando poi la popolazione senza internet e elettricità.

In quest’ottica, almeno 900 abitanti del Kashmir, proveniente maggiormente dalla città di Sringar, sono stati arrestati nell’intento di trovare gli esecutori degli omicidi. Tra essi leader musulmani, insegnanti e in generale persone considerate “anti-India” e “simpatizzanti” dei gruppi separatisti del Kashmir.

Molte famiglie indù, tornate in Kashmir intorno al 2010 dopo l’esodo degli anni ’90, grazie a sostegni economici per vitto e alloggio, ora stanno lasciando la regione. I dati dicono che negli ultimi 10 anni circa 3.800 famiglie indù hanno fatto ritorno nella regione a maggioranza musulmana. A chi è rimasto, invece, le autorità hanno suggerito di rimanere in casa il più possibile. Pare che le recenti aggressioni non siano avvenute in un momento casuale. Nelle scorse settimane si sono recati in Kashmir più di 70 ministri del governo guidato dal partito Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi. I rappresentanti politici in visita hanno sottolineato ed elogiato i “vantaggi della rimozione dell’articolo 370” dalla costituzione indiana.

Per l’Onu è urgente occuparsi della tutela delle minoranze: si potrebbe assistere, di fatto, ad un’alterazione demografica della regione, visto che etnie come quelle Dogri, Gojri, Pahari, Sikh, Ladhaki (e altre) non sono più al sicuro. I leader religiosi musulmani della regione hanno condannato le uccisioni, chiedendo ai fedeli di intervenire in termini di sicurezza e protezione. Dall’altra parte Human Rights Watch (HRW) ha chiesto che il governo stesso adotti misure per proteggere le minoranze del Kashmir.

[di Gloria Ferrari]

Green Pass: in Valle d’Aosta importanti criticità su trasporti extraurbani

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In Valle d’Aosta sono state riscontrate importanti criticità per il trasporto pubblico extra urbano. Nello specifico, sono state cancellate diverse corse di Arriva Spa. A riportarlo è l’agenzia di stampa Ansa che cita la Cgil, la quale in merito all’introduzione dell’obbligo di Green Pass per i lavoratori ha riferito della presenza di tali criticità. Regolare, invece, la situazione riguardante il trasporto pubblico urbano e il trasporto ferroviario.

Ecuador, le comunità locali in lotta da 300 giorni per fermare l’estrazione mineraria

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Foresta

È ormai dal Natale 2020 che gli abitanti di Pacto, territorio situato in Ecuador, protestano con tende e posti di blocco fisici contro l’avanzata dello sfruttamento minerario. Sit-in che si inserisce in un panorama di manifestazioni che si sussegue da anni e che vede sempre lo stesso scenario: comunità locali che combattono disperatamente per preservare i propri territori da chi vorrebbe solo prosciugarne l’oro all’interno. L’ultimo episodio a settembre, durante il quale il tribunale di San Miguel de los Bancos, zona di competenza amministrativa per Pacto, ha negato la richiesta di misure cautelari (a protezione della terra) avanzata dalla popolazione e da altri organi territoriali e amministrativi.

Pacto si trova dentro la “Riserva della Biosfera del Chocó Andino”, territorio protetto dall’Unesco ma che l’impresa mineraria Melinachangó Santa Bárbara continua a distruggere, inquinando le sue acque e mettendo a repentaglio la vita di 21mila persone appartenenti alle parrocchie di Nanegal, Nanegalito, Gaule, Calacali, Pacto e Nono. Il tutto, con la complicità dei governanti dell’Ecuador.

La rabbia dei manifestanti scaturisce, di fatto, prima di tutto dalla complicità delle autorità statali, che continuano a dispensare nuove licenze d’estrazione mineraria e riconfermare quelle già esistenti. Estrazioni che continuano ad interessare anche le zone del centro della riserva, nonostante viga un divieto esteso all’intera area. Restrizioni che spesso, per essere aggirate più facilmente, alimentano numerosi episodi di estrazione illegale. Una richiesta lecita, dunque, quella avanzata dagli abitanti: avviare una consultazione per bloccare tutte le attività estrattive.

“Dopo 264 giorni di resistenza e difesa del territorio, minacciato per le attività minerarie realizzate senza consultazioni, illegali e senza licenza ambientale, la giustizia ha lasciato indifesa la Parrocchia di Pacto. Questa sentenza viene emessa nonostante tutte le denunce, prove, report, comunicati, fotografie, video, mappe e testimonianze che evidenziano l’omissione dello Stato ecuadoregno di fronte alla violazione dei diritti costituzionali della Natura della comunità di Pacto”, dicono i locali intervistati da Osservatorio Diritti.

Quella del Pacto è una delle zone più ricche di biodiversità del Pianeta. La conformazione del territorio e il grado di umidità ha portato negli anni a una rapida evoluzione di nuove specie endemiche, reperibili solo in questa zona. Sono state segnalate circa 10.000 specie di piante, di cui circa 2.500 esclusivamente locali. E non solo. Distruggere appezzamenti di terreno in questa zona significa mettere a rischio anche la storia locale, le tradizioni e le origini di un popolo che ha sempre basato la propria esistenza donando e prendendo dalla terra allo stesso modo. Nei dintorni infatti è possibile trovare molti siti archeologici appartenenti alla cultura Yumbo, vecchi precursori delle comunità odierne.

È chiaro, dunque, che approcciarsi con intento depredatorio significa strappare un po’ di vita non solo a chi ci vive attorno. Quando si tratta di salvaguardare l’ambiente, siamo coinvolti tutti.

[di Gloria Ferrari]

Afghanistan: attentato in moschea a Kandahar, almeno 32 vittime

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Almeno 32 persone hanno perso la vita ed altre 53 sono rimaste ferite a causa di alcune esplosioni, che precisamente sarebbero state 3, verificatesi in una moschea sciita a Kandahar, in Afghanistan. La notizia è stata riportata dall’agenzia di stampa Ansa, che cita fonti mediche afghane. La strage, avvenuta durante la preghiera del venerdì, secondo quanto riferito dai talebani è stata provocata da un attentatore suicida.

 

Fortezza Europa: il vecchio continente si accoda alla “moda” dei muri anti-migranti

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In una lettera inviata alla Commissione Europea il 7 ottobre scorso, i ministri dell’interno di 12 Stati Membri hanno chiesto all’UE fondi per finanziare la costruzione di muri lungo le proprie frontiere, per arginare l’arrivo di migranti dalla Bielorussia. Gli Stati firmatari sono Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia.

Nella lettera si legge che la sicurezza delle frontiere esterne di tali Paesi è fondamentale per “l’integrità e il normale funzionamento dell’area Schengen” e che “nessun Paese terzo dovrebbe poter sfruttare le nostre politiche di migrazione e asilo per esercitare una pressione politica e minacciare l’UE e gli Stati Membri, o sfruttare l’attuale situazione in Afghanistan”. Tra le righe si legge la malcelata manovra politica contro lo stato bielorusso di Lukashenko. Questo infatti starebbe utilizzando i migranti come strumento di pressione nei confronti dell’UE, dopo che questa ha imposto dure sanzioni al governo bielorusso in seguito alle elezioni fraudolente del 2020. Si tratta di migranti per lo più iracheni e afghani, mobilitati in gran numero dopo le recenti crisi in Medio Oriente.

Non si tratta del primo esempio di uso politico e strumentale dei richiedenti asilo da parte dei governi. Sono stati diversi i leader che hanno sfruttato il flusso dei migranti verso l’Unione Europea per esercitare pressioni di qualche tipo, da Erdogan a Gheddafi. La debolezza del sistema di accoglienza ha reso l’Unione vulnerabile a tali pressioni, spingendola a chiudersi (letteralmente) sempre più tra le proprie mura, soluzione che si rivela tuttavia inefficace nel lungo periodo. Lo insegna la storia. La Fortezza Europea, fondata su accordi quali la Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo imprescindibile principio di non refoulment, segna così sempre più invalicabili linee di demarcazione tra inclusi ed esclusi.

La parola “muro” richiama alla mente la costruzione voluta da Trump al confine tra Stati Uniti e Messico, che ha suscitato non poca indignazione nell’opinione pubblica. Tuttavia l’Europa fa da tempo ricorso a tali strategie lungo i propri confini. A poco più di trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, uno dei più importanti eventi del XX secolo, che sembrava segnare la fine della divisione del mondo in due poli opposti, i muri proliferano in Europa più che mai. Sono oltre mille i km di recinzioni e filo spinato che seguono la linea delle frontiere europee. Per citare qualche esempio, la Grecia ne ha costruita una di 40 km lungo il confine con la Turchia, per evitare il possibile ingresso di profughi afghani. La Lituania si prepara alla costruzione di un muro alto 4 metri lungo i 500 km di confine con la Bielorussia, che avrà un costo di circa 150 milioni di euro (in parte stanziati dalla Repubblica Ceca) e sarà terminato per settembre 2022. Ad agosto la Polonia ha iniziato a costruirne uno alto 2.5 metri, con caratteristiche simili a quelle del muro costruito dall’Ungheria al confine con la Serbia nel 2015. Ceuta e Melilla, piccoli avamposti spagnoli sul continente africano, sono separate dal Marocco da alte recinzioni di filo spinato.

La Commissione Europea ha già risposto che non finanzierà la costruzione di muri, seppure i singoli Stati abbiano diritto di erigerli. La Commissione sta inoltre lavorando ad un nuovo patto su asilo e immigrazione, un pacchetto di misure volto a riformare l’attuale sistema di Dublino. Basandosi sull’esternalizzazione e la delocalizzazione della questione migratoria ai Paesi terzi, tale patto sarebbe, a parere della Commissione, una misura più efficace di controllo dei flussi migratori. Si tratta di una soluzione i cui termini devono però ancora essere concordati dalle istituzioni europee, processo che potrebbe protrarsi per diversi anni.

[di Valeria Casolaro]

Caporalato su rider, risarcimento ai rider di 440mila euro

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Si tratta della prima condanna per caporalato sui rider ed è stata emessa dal Tribunale di Milano. L’inchiesta, avviata dal magistrato Paolo Storari, aveva portato al commissariamento della filiale italiana di Uber, poi revocato. La gup Teresa Pascale ha condannato a 3 anni e 4 mesi Giuseppe Moltini, responsabile dell’intermediaria Frce disposto il risarcimento di 10mila euro a testa per i 44 fattorini costituitisi parte civile, pagati con i 500mila euro sequestrati durante le indagini. Secondo le accuse, il rider erano reclutati dalla Frc e mandati poi a lavorare per Uber in condizioni di sfruttamento, con paghe a cottimo di 3 euro ulteriormente decurtate in caso di mancato rispetto degli standard aziendali.

Green Pass: per la prima volta nella storia i militari sono in sciopero

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Davanti ai cancelli della base militare di Sigonella, in Sicilia, si è formato un picchetto di militari in sciopero contro l’introduzione del green pass obbligatorio. Secondo quanto riportato dall’Ansa è la prima volta nella storia repubblicana che una sigla sindacale dell’esercito indice uno sciopero. Il presidio, a cui hanno partecipato alcune decine di soldati, è stato promosso dal Sindacato aeronautica militare (Siam) per chiedere “la libertà di entrare liberamente nel luogo di lavoro senza dover mettere mano al portafoglio e di poter usufruire di tamponi gratuiti, garantiti dallo Stato”.

Omicidio Regeni, annullato rinvio a giudizio dei 4 agenti egiziani

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All’apertura il processo contro il 4 agenti egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni subisce una battuta d’arresto. Il processo, che doveva svolgersi in contumacia, è stato sospeso dalla Corte d’Assise in quanto gli imputati sono stati dichiarati “irreperibili” e non “assenti” dai loro legali, non essendo disponibile un indirizzo di domicilio cui notificare l’inizio del processo. Il processo riparte quindi dall’udienza preliminare, che avrà il fine di rintracciare i 4 agenti. La Corte d’Assise ha sottolineato come questo sia da imputare all'”acclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte di tali richieste del Ministero della Giustizia italiano”.

No green pass: scioperi in tutta Italia, il Governo cerca una via d’uscita

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Nella giornata di introduzione dell’obbligo del Green-pass sul luogo di lavoro sono diverse le mobilitazioni che stanno avendo luogo in tutta Italia.

L’azienda svedese Electrolux di Susegana, nella provincia di Treviso, ha annunciato uno sciopero di “linea dura” della durata di otto ore, dopo aver già protestato nelle scorse settimane per l’introduzione dell’obbligo di green pass nelle mense. Mentre continuano le proteste al porto di Trieste, al porto di Genova un presidio di lavoratori blocca le operazioni al varco di Etiopia, rendendo nulla l’operatività dello scalo. Camalli della Culmv e dipendenti si sono invece ritrovati alle sei di stamattina al terminal Psa di Genova Prà, per protestare pacificamente contro l’obbligo del pass, scrivendo in un comunicato che non cadranno “nel tranello del tampone gratuito”. Secondo quanto riportato dall’Ansa, i dipendenti hanno presentato una diffida formale all’azienda e coloro che oggi non saranno presenti al lavoro saranno considerati assenti ingiustificati. È stato presidiato anche il porto di Ancona, il cui accesso è stato bloccato.

Su Twitter il SIAM (Sindacato dell’aeronautica militare) indice uno sciopero “per la prima volta nella storia davanti una base militare per manifestare contro il Governo contro il provvedimento scellerato che prevede tamponi a pagamento per il personale militare”. In un comunicato stampa anche i mille docenti universitari che avevano aderito all’iniziativa lanciata il 3 settembre contro le discriminazioni causate dal green pass aderiscono allo sciopero di oggi. “Saremo al fianco di tutti gli altri lavoratori in questa lotta per la libertà, per il lavoro e per la democrazia. Saremo al fianco degli studenti che si stanno impegnando in questa battaglia per i diritti di tutti gli italiani. Senza una serrata lotta politica e sindacale il Green Pass non verrà ritirato. Lo sciopero generale è un primo passo nella giusta direzione”.

I Metalmeccanici (FLMU) hanno indetto uno sciopero nazionale di sei giorni, che terminerà il 20 di ottobre, mentre AL-Cobas e SOA (Sindacato Operai Autorganizzati) lo hanno indetto per tutte le categorie del settore privato, per opporsi al “ricatto occupazionale” possibile grazie al Green pass. La FISI, dal canto suo, ha indetto uno sciopero nazionale dal 15 al 20 ottobre e una protesta continuativa fino al 31 dicembre, termine nel quale decadrà la legge che impone il Green pass. La Commissione di garanzia aveva richiesto una revoca di tali scioperi, rimasta al momento inascoltata. Proteste contro il Green pass stanno inoltre avendo luogo in numerose tra le maggiori piazze italiane.

Che l’introduzione dell’obbligo di green pass avrebbe scatenato il caos lo avevano già annunciato diverse aziende nelle settimane scorse, che segnalavano con preoccupazione come la decisione del Governo avrebbe potuto portare migliaia di lavoratori a trovarsi senza lavoro. Nella giornata di ieri, il premier Mario Draghi ha convocato a riunione i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil per discutere del tema della sicurezza sul posto di lavoro, in previsione del preannunciato venerdì nero di scioperi. Pur non prevedendo di azzerare i costi dei tamponi per le aziende, è stata proposta come soluzione un contenimento del costo dei tamponi e il credito di imposta per le aziende che ne sostengano la spesa: sostanzialmente di un modo per spingere le aziende a offrire il tampone ai propri dipendenti a spese dello Stato senza che il governo si debba assumere la responsabilità politica di una marcia indietro. Il decreto, oggi al vaglio del Cdm, è anche previsto il finanziamento di altre 13 settimane di cig Covid e il blocco dei licenziamenti che, per alcuni settori, scadono il 31 ottobre.

La soluzione dei tamponi gratuiti non sembra però trovare l’accordo dei lavoratori né di diverse aziende, che si sono già dette contrarie a tale misura.

[di Valeria Casolaro]

Thomas Sankara, dopo 30 anni apre il processo per l’omicidio del “fratello giusto”

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È difficile pensare che un omicidio accaduto più di trent’anni fa possa ancora suscitare interesse in chi ne ascolta la storia per la prima o per la decima volta. È più facile convincersi che accada quando quel 15 ottobre del 1987 perse la vita le frère juste, il fratello giusto, come i suoi conterranei chiamavano Thomas Sankara, governatore del Burkina Faso dal 1983 fino al giorno del suo assassinio. Omicidio per cui si è aperto il processo ufficiale solo qualche giorno fa.

Ad alcuni piace ricordarlo come un moderno Che Guevara, ad altri come una figura mitologica, una meteora, che ancora oggi ispira una gioventù africana che lotta contro abusi e soprusi. Ma Sankara era “semplicemente” un uomo che al posto delle limousine presidenziali aveva voluto una flotta di Renault 5 e che aveva cambiato quel nome, Alto Volta, affibbiato al suo paese dalle potenze coloniali, con Burkina Faso, il paese degli uomini integri. Quello stesso paese di cui prese le redini il 4 agosto del 1983, secondo alcuni grazie ad un colpo di stato militare. In realtà Sankara ebbe fin da subito l’appoggio della popolazione, ansiosa di liberarsi dalle pressioni francesi, dagli abusi e innumerevoli sopraffazioni. Ciò che alla fine Sankara fece, a tutti gli effetti, individuando la soluzione più giusta per gli interessi dei suoi “uomini e donne integri”. Se le terre e le miniere erano gestite da compagnie straniere e non portavano ricchezza alla nazione, la risposta era nazionalizzarle e metterle al servizio della ricchezza popolare, ad esempio.

Una missione non facile la sua, che avrebbe nel tempo (se ne avesse avuto di più) cambiato totalmente la mentalità degli abitanti, liberandola dai fantasmi del colonialismo. Parlare di Sankara è un po’ come racchiudere un’intera lotta antimperialista e panafricanista che non accetta la condizione di vita in cui Burkina Faso e l’Africa subsahariana si ritrovano a vivere. Parliamo di una terra che accoglie sette milioni di uomini, il 98% dei quali non sa leggere né scrivere, dove 1 bambino su 5 muore prima di compiere cinque anni, con un solo medico ogni 50mila abitanti e un reddito pro capite che non arriva a 100 dollari l’anno.

Chi l’ha ucciso? Chi gli voleva male? Se le motivazioni che hanno portato al suo assassinio sono più intuibili, individuare un solo colpevole diventa più complicato.

Dopo la sua morte, al suo posto ha preso il potere il capitano Blaise Compaoré, una sorta di vice che Sankara considerava un fratello. Rimasto al potere per 27 anni, il suo regime è stato rovesciato nel 2014 da un’insurrezione popolare. Solo dopo la sua caduta si è aperto l’11 ottobre il processo per l’omicidio dell’ex presidente (subito rinviato al 25 ottobre), a Ouagadougou, in assenza però del principale accusato stesso, Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, dove è riuscito ad ottenere la nazionalità ivoriana. Ma gli eventi suggeriscono che non abbia agito da solo.

È difficile pensare che grandi potenze come l’ex padrone francese e gli Usa potessero permettersi di tollerare un uomo ribelle e pensante, in grado di sovvertire il solito iter che prevede sfruttamento estremo di paesi ricchi di risorse ma svuotati dalle multinazionali; Per questo motivo continuano ad aver ragione di esistere i sospetti del sostegno che Blaise Compaoré ha ricevuto dagli Stati Uniti e della Francia, intenzionati a “far fuori” un individuo “fuori dal gregge”. E non si tratta di sole supposizioni.

“È un uomo un po’ fastidioso, il presidente Sankara. È vero! Ti provoca, pone domande… Con lui non è facile dormire in pace, non ti lascia la coscienza tranquilla!”. Sono le parole con cui il presidente francese dell’epoca, François Mitterrand, aveva definito Sankara durante una visita ufficiale a Ouagadougou. Certo, da qui a dire che la Francia abbia a tutti gli effetti commissionato di far fuori l’ex primo ministro ce ne vuole, ma sono tutti piccoli elementi che vanno a completare un immenso e ingarbugliato puzzle.

Non molto tempo fa Macron aveva annunciato che “tutti i documenti prodotti dalle amministrazioni francesi durante il governo di Sankara e dopo il suo assassinio, coperti dal segreto di difesa nazionale, saranno declassificati per essere consultati in risposta alle richieste della giustizia burkinabé”. Sì, alcuni documenti sono finiti in mano agli avvocati della famiglia. Ma non tutti.

Non possiamo dire come si evolverà il processo ma “Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non riceveremo più schiaffi”.

[di Gloria Ferrari]