martedì 29 Aprile 2025

Fast fashion, la moda veloce corre troppo forte

Qualche giorno fa gli attivisti di Extinction Rebellion, un movimento internazionale che chiama a raccolta soprattutto i più giovani, basato sulla nonviolenza e fondato in Inghilterra in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane, hanno preso d’assalto la passerella di Louis Vuitton. Lo scopo? Denunciare l’impatto che la moda sta avendo sui cambiamenti climatici. E quale miglior posto per farlo se non durante uno show della Fashion Week di Parigi. In pratica è andata così: mentre le modelle sfilavano qualcuno ha alzato un manifesto (lenzuolo) con la scritta “Consumo eccessivo=estinzione”. Una scena durata pochi secondi, interrotta dagli addetti alla sicurezza che hanno immediatamente portato via l’attivista. Pochi secondi in grado di racchiudere una lotta che si protrae nel tempo e che l’intervento repentino della polizia non può comunque mettere a tacere.

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Fast fashion troppo fast

Si chiama fast fashion, ed è il fenomeno che prevede produzione di capi con un grosso impatto ambientale, in grandi quantità e tempi brevi. Si tratta spesso di indumenti di bassa qualità e venduti, per questo, a prezzi altrettanto bassi. La conseguenza diretta di una “catena di montaggio” così rapida è la continua messa in vendita di nuove collezioni, che stimolano, di fatto, il consumatore a voler “aggiornare” il proprio guardaroba con capi all’ultimo grido. Meccanismi che le grandi catene hanno assorbito ormai da tempo, pronte ad assecondare persone attente allo stile e all’aspetto esteriore, disposte a spendere sì, ma per portarsi a casa più capi possibili.

Infatti, se da una parte molti consumatori si affidano alla fast fashion per motivi economici, altri finiscono per acquistare compulsivamente capi di cui non avrebbero bisogno ma che desiderano per puro gusto estetico. È quello che accade all’interno della Gen Z, che comprende persone nate tra il 1997 e il 2012, solitamente pensate come progressiste e più attente all’ambiente. C’è un rovescio della medaglia più spiacevole. I ragazzi e le ragazze appartenenti a questa fascia d’età sono grandi consumatori di fast fashion. Secondo un sondaggio di Vogue Business del 2020, campionato su 105 individui della Generazione Z, più della metà di loro ha acquistato la maggior parte dei propri vestiti da marchi di fast fashion. E la metà degli stessi ha dichiarato che avrebbe continuato ad acquistare da determinati marchi anche dopo aver appreso che i lavoratori venivano pagati meno di 4 sterline l’ora.

Pro e contro della moda veloce

Chi si occupa del tema ha ipotizzato che la fast fashion abbia avuto origine durante la rivoluzione industriale, quando grazie alla spinta data dalla meccanizzazione e dall’automazione, l’industria tessile ha avuto un grosso slancio, producendo capi in serie rapidamente. L’exploit arriva con la nascita di marchi come Zara, H&M, GAP, Topshop, Primark, OVS e Benetton, che cambiano le carte in tavola: dalle piccole aziende specializzate e settoriali si arriva alla fioritura di grosse multinazionali che si occupano dell’intero processo di vita del capo, dalla produzione alle strategie di vendita. A loro va il merito di aver reso fondamentalmente la moda accessibile a tutti, più democratica e adatta a tutte le tasche. Dall’altra parte, però, il prezzo da pagare è molto alto. Per mantenere ritmi di produzione così elevati e così economici non è raro l’impiego di coloranti tossici o sostanze dannose e aggressive utilizzate per la colorazione o lo sbiancamento dei tessuti. Sostanze che finiscono nelle acque circostanti, impiegate dalle persone che vivono nei dintorni per l’agricoltura, ad esempio, o esigenze quotidiane.

È stato appurato che gli scarichi provenienti dalla lavorazione di alcuni marchi fast fashion hanno tinto di blu i fiumi africani e trasformato la struttura chimica delle loro acque. Come è avvenuto in Lesotho, vicino ad una fabbrica di jeans low cost. Secondo il rapporto della Water Witness International (WWI) molti marchi globali si rivolgono ad aziende appaltatrici africane per usufruire di manodopera a basso costo e incentivi fiscali.

 

Manodopera

Quanto si inquina?

Un modello di business come quello previsto dalla fast fashion ha delle condizioni senza le quali non potrebbe esistere. Una fra queste è utilizzare fibre sintetiche a basso costo, prodotte da combustibili fossili, principalmente petrolio e gas. Il poliestere, materiale prediletto dalla fast fashion, è presente in più della metà dei tessuti in vendita e si prevedono ulteriori picchi in futuro. Ecco perché l’industria della moda è una fra le più inquinanti, su diversi fronti. Quello idrico, ad esempio. Secondo la Banca Mondiale, il 20% dell’inquinamento idrico a livello globale è causato dalla lavorazione dei tessili. Tradotto, significa il secondo più grande inquinatore delle risorse di acqua dolce del pianeta. Dal momento che il consumo di abbigliamento previsto aumenterà del 60% entro il 2030 a causa della “rapidità” della moda, c’è bisogno di un’inversione di rotta.

Delle 46 aziende di abbigliamento analizzate, molte sottovalutano ancora la situazione, ignare del fatto che il crescente inquinamento da plastica e la crisi dei rifiuti dipende in parte dal loro utilizzo di fibre sintetiche.

Al contrario, se la moda fosse circolare e responsabile, i materiali di un capo ormai consumato potrebbero essere usati per crearne uno nuovo. Se i tessuti provenissero da un elenco selezionato di materiali, potenzialmente riciclabili all’infinito, si utilizzerebbero molte meno materie intatte. Tuttavia non ci sono infrastrutture adeguate per pensare un modello di business circolare in larga scala, ma in alcune parti del mondo non mancano idee e iniziative che vanno in questa direzione.

Abiti abbandonati

Invertire la tendenza, si può

Nella piccola città svedese di Eskiltuna, pochi chilometri a ovest di Stoccolma, è nato il primo centro commerciale al mondo focalizzato sul riciclaggio. Conosciuto come ReTuna Återbruksgalleria, questo spazio fisico offre la possibilità di acquistare vestiti riciclati, mentre altri prodotti, come vecchi oggetti, ricevono nuova vita attraverso la riparazione e l’upcycling (o riutilizzo creativo). In sintesi, tutto ciò che viene venduto proviene dal riciclo o è riutilizzato, oppure è stato prodotto in modo biologico o sostenibile.

Ancora un altro esempio. L’azienda di abbigliamento statunitense For Days è nata ispirandosi alla mole di abiti che i consumatori accumulano nei guardaroba. For Days incoraggia i clienti a inviare i loro vecchi vestiti per posta, a prescindere dal marchio di produzione. In cambio gli utenti ricevono buoni sconto per nuovi articoli. Il fine ultimo è che nulla finisca in discarica. L’azienda infatti ordina i vestiti per colore e attraverso riciclatori meccanici li converte in nuovi materiali utilizzabili per creare nuovi capi. I vestiti possono essere donati in qualsiasi stato essi siano: elemento importantissimo, dal momento che spesso gli abiti frutto della fast fashion sono di bassa qualità e tendenti a rovinarsi in fretta.

E se la juta fosse la svolta?

La juta sta crescendo in popolarità in tutto il mondo, ed è stata perfino impiegata negli abiti e nei sandali destinati alle boutique di Christian Dior. Perché tanto successo? Si tratta di un tessuto composto da fibre naturali di origine vegetale, ricavata da piante erbacee che possono fornire una valida alternativa all’utilizzo della plastica. Un’ottima notizia se si pensa che il suo impiego (almeno fino ad ora) è stato principalmente, nell’ambito della moda, nella produzione di borse e accessori: settore che gli esperti prevedono varrà più di 3 miliardi di dollari entro il 2024. L’India è una delle principali sostenitrici della juta. La sua intenzione è quella di capitalizzare al più presto facendo leva sul cambiamento dei consumatori: un’opportunità di questo tipo risolleverebbe molto le sorti della sua industria. E non solo. Coltivare juta può aiutare a diminuire la quantità di carbonio nell’aria.

juta

Un ettaro di terreno coltivato con piante di juta può assorbire fino a quasi 15 tonnellate di anidride carbonica e rilasciare 11 tonnellate di ossigeno durante una stagione sola. La sua maturazione richiede solo quattro mesi e una quantità di acqua e fertilizzanti minimi rispetto, ad esempio, al cotone.

Secondo un recente rapporto di Research and Markets, il mercato globale dei sacchetti di juta ha raggiunto un valore di 2,07 miliardi di dollari nel 2020 e si prevede che raggiungerà i 3,1 miliardi di dollari entro il 2024. E ancora. Ogni parte della pianta può essere utilizzata: la parte esterna per la fibra, il gambo legnoso per la polpa di carta e le foglie possono essere cotte e mangiate.

È vero, il processo produttivo potrebbe finire, nel complesso, per costare di più, così come il prodotto finale, quello offerto agli acquirenti. Forse è lì la chiave del cambiamento, che va aldilà di tutti i materiali alternativi, ricerche e metodi innovativi: quanto siamo disposti a spendere per il nostro pianeta?

[di Gloria Ferrari]

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