giovedì 13 Novembre 2025
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Crimini ambientali, dall’Europa un passo nella giusta direzione

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Army soldiers cleaning Papamoa Beach after oil from the grounded ship Rena reached shore.

Un traguardo significativo nella lotta ai crimini ambientali in ambito europeo è arrivato con la proposta, adottata dalla Commissione europea il 15 dicembre scorso, per la revisione della direttiva Ue sulla repressione dei crimini ambientali. Soddisfatto il Wwf, soprattutto per il rafforzamento delle sanzioni, con la reclusione di almeno 10 anni per i delitti ambientali più gravi. La nota associazione ambientalista, non a caso, attraverso il progetto SWiPE, ha anche partecipato al processo di consultazione pubblica per la necessaria revisione. Nel 2020, infatti – come hanno spiegato – la valutazione sulla Direttiva rilevava come non fossero stati raggiunti gli obiettivi e come ci fossero ampi margini di miglioramento.

Tra i punti in esame figurano “l’ampliamento dell’ambito di applicazione della Direttiva, disposizioni specifiche per tipologie e livelli di sanzioni penali e un elenco armonizzato di strumenti investigativi transfrontalieri disponibili per gli Stati membri dell’Ue nel contrasto alla criminalità ambientale”. La proposta punta inoltre a stabilire nuovi reati ambientali in tutta l’Unione, come il commercio illegale di legname, il riciclaggio illegale di navi o l’estrazione illegale di acqua. Chiarisce poi le definizioni esistenti, determinando una maggiore certezza del diritto. Infatti, i reati contro l’ambiente, nonostante ancora oggi rappresentino il quarto tipo di attività illecita più diffuso al mondo, è più raro che vengano perseguiti e, se ciò avviene, chi li commette viene punito in modo decisamente più leggero rispetto a chi si macchia di altri crimini. Alla luce poi di un tasso di crescita annuale che per gli ecoreati oscilla tra il 5 e il 7 per cento, è quindi un bene che l’Europa stia valutando seriamente un cambio di rotta.

Il progetto SWiPE del Wwf ha inoltre sottolineato “l’importanza che gli Stati membri considerino i crimini contro la fauna selvatica e le foreste come reati gravi, il che consentirebbe di mobilitare le risorse umane e finanziarie necessarie, nonché darebbe all’Ue una maggiore influenza nel chiedere ai paesi partner di dare priorità al problema”. La nuova proposta, nel complesso, affronta così le principali carenze che finora non hanno permesso una piena eradicazione dei crimini contro l’ambiente. Nei prossimi mesi, comunque – fanno sapere dall’associazione – verranno ulteriormente analizzate le soluzioni proposte e verranno seguite le discussioni al Parlamento europeo e al Consiglio al fine di garantire che siano soddisfatte le premesse per affrontare efficacemente detti illeciti nell’Ue.

[di Simone Valeri]

Petrolio e socialismo: le colpe per cui il Venezuela è (di nuovo) nel mirino

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Martedì 20 dicembre, la corte suprema del Regno Unito ha stabilito che la Gran Bretagna riconosce Juan Guaidó inequivocabilmente come legittimo capo di stato. Questa decisione avviene a seguito della battaglia legale in corso, tra il “presidente autoproclamato” gradito all’Occidente, Guaidó, e il presidente realmente in carica, Nicolàs Maduro, per il controllo su 1,6 miliardi di euro di riserve auree detenute (e al momento bloccate) dalla Banca d’Inghilterra. Fondi, che stando ad un libro (Room Where It Happened) pubblicato dall’ex consigliere per la sicurezza di Trump, John Bolton, vennero congelati, su espressa richiesta di Washington, al solo scopo di applicare pressioni economiche al governo di Maduro.

Per comprendere meglio questa vicenda bisogna tornare al 2018, anno in cui venne rieletto Maduro durante le elezioni presidenziali tenutesi in Venezuela. Carica ottenuta con il 67% dei voti (con un’affluenza del 46%). Le elezioni del 2018, che vennero boicottate e fortemente contestate dalle opposizioni diedero il via ad una crisi politica, che raggiunse l’apice nel gennaio 2019, quando l’Assemblea nazionale, il parlamento controllato dall’opposizione ma di fatto esautorato, dichiarò invalide le elezioni e nominò Juan Guaidó presidente ad interim del Venezuela.

Maduro ha sempre sostenuto che dietro la crisi politica del 2019 ci fosse un tentativo di colpo di Stato da parte degli Stati Uniti per rovesciarlo. E in effetti il governo di Maduro non ha tutti i torti nel sostenere tali accuse, dato che negli anni della presidenza Trump le ingerenze da parte di Washington in Venezuela sono state numerose. Basti pensare che il riconoscimento di Guaidó come legittimo presidente da parte degli Stati Uniti avvenne in tempi rapidissimi. Che una scelta di tale rilievo avvenga in un così breve lasso di tempo appare quantomeno strano, considerando che Guaidó, sebbene fosse presidente dell’Assemblea Nazionale, (il Parlamento venezuelano) non era ancora una figura di spicco tra l’opposizione venezuelana e non godesse di alcun potere reale all’interno del paese.

Il disconoscimento di Maduro come legittimo presidente a favore di Guaidó venne poi confermato anche dagli alleati di Washington, inclusa l’Unione Europea. Ad oggi, pochi paesi tra cui Egitto, Turchia, Cina, Russia e Iran continuano a riconoscere Maduro come legittimo presidente.

Tra il 2019 e il 2020, diversi furono i tentativi da parte della presidenza Trump di ostacolare e far cadere il governo di Maduro. Numerose furono le dichiarazioni da parte di Washington in cui non si escludeva l’ipotesi di un intervento armato in Venezuela. Nell’agosto 2019, Trump decise inoltre di imporre ulteriori sanzioni economiche al Venezuela, ordinando il congelamento di tutti i beni del governo venezuelano negli Stati Uniti e bloccando le transazioni con cittadini e società statunitensi. Sanzioni economiche vennero applicate anche da parte dell’Unione Europea, rinnovate poi dal Consiglio Europeo per altri 12 mesi il 26 novembre 2021.

Per oltre 15 anni il Venezuela ha subito sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti, inizialmente giustificate dalla mancata collaborazione sul contrasto al traffico di droga e alla lotta al terrorismo. In seguito, durante la presidenza Obama, vennero applicate nuove sanzioni per il mancato rispetto dei diritti umani, la corruzione e le presunte azioni antidemocratiche commesse dal governo di Maduro. Mentre l’ultimo round di sanzioni venne appunto giustificato dalla mancanza di trasparenza durante le elezioni presidenziali del 2018.

Per dovere di cronaca va ricordato che dal 2013 (anno in cui Maduro vinse le prime elezioni a seguito della morte del presidente storico Hugo Chavez) ad oggi, si sono tenute nel paese 3 elezioni presidenziali e altrettante elezioni parlamentari e locali. Inoltre, un rapporto preliminare della Missione di osservazione elettorale dell’Unione europea (EOM-UE), incaricata di monitorare le elezioni locali tenutesi nel novembre 2021 in Venezuela, di nuovo vinte largamente dall’alleanza socialista, ha confermato che: “il voto si è svolto in un contesto migliore rispetto al passato”. Elezioni, che vedevano il ritorno delle opposizioni dopo 4 anni, e che sono state nettamente vinte dal partito di governo che si è imposto in 20 su 23 stati.  Gli osservatori europei, nonostante abbiano rilevato delle irregolarità hanno comunque confermato che: “il quadro elettorale venezuelano sia conforme alla maggior parte degli standard internazionali fondamentali”.

Partendo da sinistra: Juan Guaidó e Nicolàs Maduro

Le sanzioni economiche, il malgoverno e la corruzione, hanno trascinato negli anni il Venezuela in una profonda crisi economica. Gli alti livelli di disoccupazione, le difficoltà di accesso al cibo e ad altri beni di prima necessità, comprese le medicine, hanno spinto circa sei milioni di venezuelani a fuggire dal Paese in cerca di una vita migliore. Questa crisi umanitaria e stata indubbiamente aggravata anche dalle tensioni politiche interne, come il tentativo di colpo di stato da parte di Guaidó e di alcuni vertici dell’esercito nell’Aprile 2019, o l’incursione per rapire/uccidere Maduro da parte di un gruppo di mercenari della compagnia di contractors americana SilverCorp USA nel maggio 2020

Nonostante il tentativo di colpo di stato (miseramente fallito) messo in atto da Guaidó, che avrebbe potuto gettare il paese in una sanguinosa guerra civile, viene da chiedersi come mai parte della comunità internazionale continui ancora a riconoscerlo come presidente legittimo. Le elezioni dello scorso novembre che hanno visto la vittoria netta da parte del partito di Maduro, hanno confermato ancora una volta come il supporto della popolazione venezuelana verso Guaidó sia limitato. Lui stesso, commentando il risultato delle elezioni, ha dichiarato che “bisogna ricostruire e che serve unità di intenti tra i vari leader delle opposizioni”, facendo sottintendere di non avere nemmeno il controllo su tutte le varie forze di opposizione all’interno del paese. I critici del Venezuela, capeggiati da Washington, non esitano a condannare l’operato del governo Maduro usando come pretesto le elezioni non libere, e facendo leva sui diritti umani e la mancanza di libertà civili a cui il popolo venezuelano sarebbe soggetto. Eppure, sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea tra i propri alleati vantano paesi in cui le elezioni non si tengono proprio come l’Arabia Saudita, oppure altri paesi che di certo non vantano la tutela dei diritti umani tra le loro qualità principali, come Turchia ed Egitto. Nonostante le numerose denunce da parte di ONG e attivisti, in merito ad arresti indiscriminati, torture e assassini compiuti dalle forze dell’ordine Egiziane, il governo di Abdel Fattah el-Sisi è riuscito ad ottenere, lo scorso marzo, la cancellazione delle sanzioni da parte dell’Unione Europea.

Alla luce di questi esempi, viene quindi da chiedersi da dove arrivi tutto questo accanimento da parte dell’Occidente verso il Venezuela? Come spesso accade va annotata una “coincidenza”: le attenzioni e le ire di Washington verso il mancato rispetto dei diritti umani si concentrano ancora una volta sui Paesi che detengono grosse risorse naturali (come Siria e Iran) o che perseguono un sistema economico socialista, inviso ai governi statunitensi e ai loro interessi economici (come Cuba). Il Venezuela deve scontare entrambe le “colpe”: detiene le più grandi riserve al mondo di petrolio (stimate in 300 miliardi di barili) e la loro gestione venne nazionalizzata a partire dalla fine degli anni ’90, dal presidente socialista Hugo Chavez, tagliando fuori dalla gestione le multinazionali occidentali.

[di Enrico Phelipon]

Yemen: Programma Alimentare Mondiale taglierà aiuti per mancanza fondi

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Il Programma alimentare mondiale (Wfp), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, ha fatto sapere di dover inevitabilmente tagliare gli aiuti riservati allo Yemen a causa della mancanza di fondi. «A partire dal mese di gennaio otto milioni di persone riceveranno una razione alimentare ridotta, mentre altri cinque milioni a rischio immediato di cadere in condizioni di carestia rimarranno a razione piena», ha infatti comunicato l’agenzia tramite una nota.

Ingannare il riconoscimento facciale: la nuova battaglia dell’arte attivista

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Tra le sfide epocali che l’umanità sta già vivendo non troviamo le innovazioni digitali bensì la loro regolamentazione.

La sfida è già cominciata e riguarda anche l’Italia: basta rifarsi all’inchiesta Angius-Coluccini (del 2019) su Sari, il Sistema Automatico di Riconoscimento delle Immagini in dotazione alla Polizia di Stato; oltre 16 milioni di record (registrazioni) e 10 milioni di foto per più di 9 milioni di profili schedati, soprattutto stranieri. Non è ancora chiaro né cosa contengano questi “record” né come siano strutturati o aggiornati e questa del riconoscimento facciale è solo una piccolissima parte delle possibilità di controllo sociale a disposizione di enti pubblici, governi e aziende private. La Commissione Europea, proprio quest’anno, si è impegnata con la bozza di regolamento sull’Intelligenza Artificiale per delimitarne il campo d’azione, proponendo di mettere al centro dell’attenzione la tutela dei diritti fondamentali. Tuttavia, in Italia, il dibattito pubblico su questi temi è praticamente a zero; la sorveglianza di massa, pubblica o privata, non è ancora generalmente percepita come un possibile danno all’individuo.

Lo scorso settembre, in seguito alle tante manifestazioni anti greenpass, il Garante della Privacy è dovuto intervenire per cercare di regolamentare l’uso delle body-cam da parte di Polizia e Carabinieri, che le possono utilizzare soltanto per “documentare situazioni critiche d’ordine pubblico in occasione di eventi o manifestazioni”. L’autorità ha chiesto che il sistema utilizzato non consenta l’identificazione “univoca” o il “riconoscimento facciale” della persona e che, a differenza di quanto sostenuto dal Ministero dell’Interno e dall’Arma, è obbligatoria la “consultazione preventiva” del Garante. In ballo c’è il rischio di discriminazione, di sostituzione dell’identità e di privazione di diritti e libertà. Nonostante la definizione poco delineata delle situazioni d’utilizzo, le videocamere indossabili dei reparti mobili incaricati, ad esempio, potranno essere attivate solo in presenza di “concrete e reali situazioni di pericolo, di turbamento dell’ordine pubblico o di fatti di reato”. La “registrazione continua” delle immagini non è ammessa e tantomeno quella di “episodi non critici”. I dati raccolti riguardano audio, video, foto, data, ora della registrazione e coordinate Gps; che una volta scaricati dalle videocamere devono essere disponibili, con diversi livelli di accessibilità e sicurezza, per le successive attività di accertamento. “L’utilizzo di body-cam da parte delle forze dell’ordine – scrive il Garante della Privacy – rende estremamente probabile il trattamento di dati che rivelino le opinioni politiche, sindacali, religiose o l’orientamento sessuale dei partecipanti.” Si rischia, insomma, di ledere continuamente principi costituzionali.

Negli Stati Uniti, dove i sistemi di sorveglianza sono più pressanti che in Italia, si stanno moltiplicando gruppi di attivisti, programmatori, docenti e artisti che escogitano modi per evitare l’incasellamento di massa. Mentre in Europa, “invenzioni” come quella della “maschera a lenti sfaccettate” del belga Jip van Leeuwenstein, rendono impossibile il rilevamento biometrico con algoritmi facciali. Da qualche anno sono disponibili, in vista di cortei e manifestazioni, custodie schermate per cellulari, protesi con false impronte digitali, cappotti imbottiti per bloccare le onde radio e visiere a led. Droni e anti-droni.

L’artista-attivista di Chicago, Leo Selvaggio, vende maschere in resina che confondono i dispositivi di riconoscimento facciale. Studenti dell’Università di Washington hanno messo a punto un prototipo per la “trasmissione sul corpo”. Si tratta di dispositivi indossabili che funzionano in wireless, ma solo se a contatto con il corpo. Si sta sperimentando anche la bandana smart che è interconnessa e registra eventuali abusi delle forze dell’ordine. Purtroppo tutti questi oggetti hanno dei costi di produzione che, in parte, ne rendono ancora elitaria e limitata la distribuzione.

maschere di Leonardo Selvaggio

Non è accettabile doversi “acconciare” per un corteo o una manifestazione che, in una democrazia, dovrebbero essere la sostanza del confronto e dell’espressione libera. Per resistere alle eventuali intrusioni nella propria privacy e/o cittadinanza, come scrive, ad esempio, Leo Selvaggio, sulle pagine “WWWW”-Who Will Watch the Watchers, si stanno raccogliendo “tecnologie speculative, pragmatiche e riproducibili destinate a sfruttare strumenti e processi democratici basati sull’immagine per difendere, potenziare e mobilitare l’azione civica nello spazio pubblico. Uno dei nostri maggiori svantaggi come cittadini nei confronti delle strutture di potere governative – spiega Selvaggio – è l’uso estremamente sbilanciato delle pratiche di raccolta delle immagini da utilizzare come prove: sorveglianza, telecamere del traffico, riconoscimento facciale, eccetera.” I progetti come “WWWW” tentano di spostare questa scala a favore della gente e spesso sono realizzati attraverso crowdfunding e finanziamenti collettivi molto partecipati. Tra questi “URME Surveillance” autodefinito “intervento sovversivo” per proteggere il pubblico dai sistemi di sorveglianza. Finora la faccia di resina, ad esempio, ha mandato nel pallone il riconoscimento facciale di Facebook. La contro-sorveglianza URME è attualmente composta da tre dispositivi. Il primo è l’URME Surveillance Identity Prosthetic, che è una maschera fotorealistica stampata in 3D del viso dell’artista con gli occhi di chi la indossa che tendono a non allinearsi con i fori. Il secondo è l’URME Paper Mask, un’alternativa economica, in carta, che si presta per grandi gruppi, e infine l’URME Facial Video Encryptor, un software personalizzato che crittografa i file sostituendo digitalmente tra loro fino a cinque volti contemporaneamente.

La sfida alla sorveglianza non regolata o indiscriminata va avanti da qualche anno. Negli Stati Uniti, in Europa, in Italia e altrove nel mondo, si evidenziano sempre più lesioni dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, come ha documentato Shoshana Zuboff nel libro “il capitalismo della sorveglianza”; attraverso il controllo dello smartphone, dei pc,  di Google e dei social fino alle identificazioni in pubblico.

[di Antonio Gesualdi]

Israele: Bennett annuncia quarta dose vaccino per over 60, sanitari e immunodepressi

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Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, ha annunciato che le persone di età superiore ai 60 anni, i sanitari e gli immunodepressi potranno sottoporsi ad una quarta dose del vaccino anti Covid per proteggersi dalla variante Omicron. Secondo quanto riportato dal quotidiano The Guardian, infatti, Bennett nella giornata di ieri ha affermato: «I cittadini israeliani sono stati i primi al mondo a ricevere la terza dose e saremo i pionieri anche della quarta dose». Tali parole sono state pronunciate dal premier dopo una riunione del gabinetto per la gestione dell’emergenza sanitaria, in seguito alla quale è arrivato il via libera degli esperti alla quarta dose.

In tutta Europa tornano le restrizioni anti-Covid

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Le campagne vaccinali – inizialmente aventi ad oggetto la doppia dose a cui si è successivamente aggiunto il cosiddetto “booster” – sono state attuate con la convinzione che avrebbero rappresentato il mezzo con cui sarebbe stata superata l’emergenza sanitaria e le relative restrizioni, permettendo così di tornare alla normalità. Ad oggi però i Paesi europei, compresi quelli in cui la campagna vaccinale procede a gonfie vele, si trovano a fare i conti con l’avanzare della pandemia e della nuova variante Omicron, motivo per cui diversi governi nazionali stanno di nuovo imponendo restrizioni ai cittadini.

In Irlanda, ad esempio, a partire dal 20 dicembre è stato praticamente imposto il coprifuoco. Venerdì scorso infatti il governo ha annunciato che tutti i ristoranti, bar e caffè – esclusi i servizi d’asporto o di consegna a domicilio – avrebbero dovuto chiudere alle 20.00 e che nessun evento indoor avrebbe potuto avere luogo dopo le 20:00. In relazione agli eventi antecedenti alle 20:00, poi, il governo ha precisato che la partecipazione sarebbe dovuta essere «limitata al 50% della capacità della sede» o comunque non vi sarebbero dovute essere più di 1.000 persone. La «partecipazione agli eventi all’aperto», inoltre, sarebbe dovuta essere «limitata al 50%» o comunque non vi sarebbero dovuti essere più di 5.000 partecipanti. Tutto ciò nonostante una forte campagna vaccinale, con il 76,6% della popolazione che ha ricevuto due dosi di vaccino ed il 32,8% che si è sottoposto al booster.

In Olanda le restrizioni sono ancora più dure: domenica scorsa infatti è scattato il lockdown, che durerà almeno fino al 14 gennaio. Come si legge sul sito del governo, si è deciso di optare per tale soluzione in quanto «la rapida diffusione della variante Omicron deve essere rallentata per garantire che i servizi sanitari rimangano a disposizione di tutti». Dunque, negozi non essenziali, musei, cinema, teatri, bar e ristoranti ed altri luoghi pubblici resteranno chiusi, così come «le istituzioni scolastiche e l’assistenza extrascolastica», che rimarranno chiuse almeno fino al 9 gennaio 2022. Eccezioni in tal senso sono previste solo per «la formazione pratica, gli esami e gli studenti vulnerabili». Non si può non sottolineare, tuttavia, come tali restrizioni facciano seguito ad una campagna vaccinale a cui ha aderito gran parte della popolazione: basterà ricordare che al momento l’85,8% dei cittadini over 18 ha completato il ciclo vaccinale base. Segnali negativi, nonostante tutto ciò, si erano però già cominciati ad intravedere il mese scorso, quando le terapie intensive erano tornate a riempirsi.

C’è poi la Danimarca, dove sebbene il 77,5% della popolazione si sia sottoposto alle prime due dosi ed il 34,9% abbia ricevuto il booster sono state imposte in questi giorni delle chiusure parziali. Come si legge sul sito delle autorità danesi, le discoteche sono infatti attualmente chiuse così come gran parte dei luoghi culturali, mentre ristoranti, bar e caffetterie devono restare chiusi dalle 23:00 alle 05:00. Gli alcolici, inoltre, non possono essere venduti tra le 22:00 e le 05:00. Si tratta di misure messe in campo per contrastare il vertiginoso aumento dei casi: nonostante molti cittadini – come detto – si siano vaccinati, in Danimarca si viaggia ad una media settimanale di oltre 9000 casi al giorno. Un vero e proprio record, dato che mai dall’inizio della pandemia nel Paese erano stati registrati numeri simili.

Anche il Portogallo ha scelto di introdurre nuove restrizioni: ieri il primo ministro Antonio Costa ha annunciato che saranno anticipate le restrizioni inizialmente «previste per il post Capodanno». Tra le misure imposte va sicuramente citata la chiusura di locali e bar – che dal 25 dicembre al 10 gennaio dovranno abbassare le serrande – nonché lo smart working, che sarà obbligatorio durante tale periodo. Tutto ciò nonostante in Portogallo quasi la totalità della popolazione sia stata vaccinata: l’87,9% dei cittadini infatti si è sottoposto al vaccino, ed inoltre la dose booster è stata somministrata al 22,6% della popolazione. Un annuncio simile è infine arrivato sempre ieri anche in Germania: il governo tedesco ha infatti comunicato che dal 28 dicembre «i grandi eventi dovranno svolgersi a porte chiuse» così come verranno chiusi «i club e le discoteche». Inoltre, con particolare riferimento alle feste di capodanno, il governo ha annunciato che «gli assembramenti privati ​​anche per vaccinati o guariti dal Covid saranno consentiti solo con un massimo di dieci persone».

[di Raffaele De Luca]

Ue: il Green Pass per i viaggi varrà 9 mesi

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Il Green Pass, per i viaggi all’interno dell’Unione europea, avrà una validità di 9 mesi: lo ha stabilito nella giornata di oggi la Commissione Europea. Sul sito della stessa, infatti, si legge che si è deciso di introdurre un periodo vincolante per l’accettazione del Green Pass «di 9 mesi (precisamente 270 giorni)». Tale decisione è stata presa per garantire che «le misure di viaggio continuino ad essere coordinate, come richiesto dal Consiglio europeo a seguito della sua ultima riunione del 16 dicembre 2021». In tal senso, infatti, viene specificato che «le nuove regole per i viaggi all’interno dell’UE armonizzano le diverse regole tra gli Stati membri».

Petrolio in mare, in California le compagnie fossili finiscono sotto inchiesta

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Amplify Energy Corp (AMPY.N), compagnia petrolifera texana “famosa” per un recente disastro ecologico (la fuoriuscita di petrolio nella Contea di Orange, avvenuta il 1 ottobre 2021), è ora sotto accusa. La Amplify Enrgy Corp – e le sue sussidiarie Beta Operating Co LLC e San Pedro Bay Pipeline Co – avrebbero scaricato illegalmente petrolio, ignorando più volte il sistema di allarme dell’oleodotto, come riportato da Reuters. In questo modo, lo scorrimento di petrolio sarebbe andato avanti “indisturbato”, visto che l’oleodotto è rimasto danneggiato per diverse ore. Tempo sufficiente per fare depositare petrolio greggio sulle spiagge della California meridionale e fare chiudere quasi immediatamente la State Beach ma anche la famosa Huntington Beach. Le successive indagini hanno mostrato il preoccupante diffondersi di una chiazza nera in un’area di 34 chilometri quadrati; non ci è voluto molto purché si parlasse di catastrofe ambientale, con la quasi immediata morte di pesci, uccelli impantanati nel petrolio e zone umide contaminate.

Come informa Reuters, è stata la Gran Jury, (una particolare giuria chiamata per determinare se si abbiano sufficienti prove per iniziare un processo) a muoversi per indagare sulla società, dalla giuria accusata di non essere intervenuta nel momento in cui otto allarmi (per un lasso di tempo di 13 ore e più) si sono attivati. Inoltre, l’oleodotto – dopo i primi cinque allarmi – sarebbe stato chiuso e riavviato tutte e cinque le volte.  Amplify, in sua difesa, ha invece precisato di avere effettivamente indagato sull’oleodotto. Il problema, a loro dire, sarebbe relativo a una “disattenzione” da parte dell’equipaggio, non cosciente del malfunzionamento del sistema di rilevamento delle perdite. In una nota viene specificato come il sistema di rilevamento stesse “segnalando erroneamente una potenziale perdita sulla piattaforma in cui nessuna perdita poteva essere rilevata dal personale della piattaforma e dove non si stava effettivamente verificando alcuna perdita”.

Rimane comunque un’indagine aperta e che interessa particolarmente il Dipartimento di Giustizia, vista la gravità del fatto: si stima che circa 25.000 galloni di petrolio greggio (quasi 95 mila litri) siano stati scaricati da un punto a circa 75 km a ovest di Huntington Beach, da una crepa nell’oleodotto di 40 cm, come sottolinea l’accusa. Tra l’altro, un rapporto dell’Associated Press ha già dimostrato la negligenza delle società sotto accusa, visto che a loro dire non è partita alcuna indagine per fin troppe ore. Il primo allarme di rottura del gasdotto è suonato alle 16:10 del 1 ottobre, ma la perdita è stata notata solo la mattina successiva, nonostante le segnalazioni dei cittadini a terra, i quali hanno allarmato i servizi di emergenza visto il palese odore di greggio, mentre una nave da carico ancorata  denunciava una strana lucentezza sull’acqua prima del tramonto.

[di Francesca Naima]

Trenitalia porta l’alta velocità all’estero ma abbandona il sud Italia

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Il 18 dicembre Trenitalia ha inaugurato il nuovo collegamento tra le stazioni di Milano Centrale e la Gare de Lyon di Parigi, percorribile in poco più di sei ore con i Frecciarossa. I prezzi contenuti lo rendono un servizio ottimale che permette di viaggiare in maniera più green e pratica rispetto all’aereo. Entro il prossimo anno, inoltre, verrà messo in funzione un collegamento, sempre di Trenitalia, tra Barcellona e Madrid. Tuttavia, mentre crescono gli investimenti sui servizi redditizi, in buona parte del Sud Italia un servizio ferroviario efficiente rimane ancora un sogno nel cassetto.

Da Milano Centrale al cuore di Parigi in una mattinata di viaggio, per meno di 30 euro. Le tempistiche si accorciano ulteriormente, partendo da Torino. Dal 18 dicembre è possibile grazie al nuovo servizio di Frecciarossa, l’Alta Velocità di Trenitalia, che per la prima volta si muove oltralpe per raggiungere una capitale europea. Questa costituisce un’alternativa ottimale al viaggio aereo, mezzo molto meno pratico, considerata la difficoltà di raggiungere gli aeroporti e le tempistiche di check-in, nonchè decisamente inquinante. Rendere lo spostamento su rotaia preferibile rispetto a quello aereo ha quindi dei vantaggi anche in termini di tutela ambientale. Trenitalia promette anche di aumentare il servizio per il 2022, passando da due a tre partenze al giorno, pur mantenendo i prezzi relativamente bassi. L’ad di Trenitalia Corradi, inoltre, prevede prima della fine del 2022 un nuovo collegamento che unirà Madrid e Barcellona.

Tuttavia, mentre le tratte più redditizie godono di grandi investimenti e promozione commerciale, una parte d’Italia resta ancora sfornita non solo dell’Alta Velocità, ma di collegamenti ferroviari veri e propri, che anche quando presenti sono spesso del tutto scadenti. In Sicilia, per esempio, i collegamenti ferroviari interni richiedono intere giornate di viaggio: per percorrere la distanza tra Catania e Trapani, all’incirca 300 chilometri, ci vogliono come minimo otto ore e tre treni diversi. Solamente di recente è stato inaugurato il collegamento tra Catania e Palermo tramite Frecciabianca, che consente in tre ore di percorrere il tragitto, perchè “i siciliani abbiano il diritto di sentirsi anche loro italiani”. Lo ha affermato Cancelleri, sottosegretario ai trasporti grillino. Era anche ora, verrebbe da dire. Per l’Alta Velocità, però, non se ne parlerà almeno fino al 2026. I collegamenti dalla Sicilia per il resto dell’Italia costituiscono una problematica ulteriore: per andare in treno da Catania e Roma, ad esempio, è necessaria un’intera giornata di viaggio (tra le 9 e le 11 ore).

In Salento i collegamenti ferroviari sono garantiti dalle Ferrovie del Sud Est, braccio delle Ferrovie dello Stato Italiane, ma il servizio deve essere supportato da vettori automobilistici a causa della scarsità ed inefficienza delle linee. Per recarsi da Gallipoli a Lecce, distanti appena 40 km l’una dall’altra, coloro che volessero utilizzare il treno impiegherebbero dalle due ore alle due ore e mezza. Per chi avesse bisogno di attraversare i 50 km di larghezza del tacco d’Italia e arrivare, supponiamo, da Gallipoli a Otranto, bisogna contare tempistiche tra le due e le tre ore, anche qui con un cambio minimo di tre treni.

Per quanto possa dar luogo a iniziative dai risvolti positivi, l’investimento nella mobilità in Italia sembra essere orientato in primo luogo al business. La mobilità come diritto dei cittadini è tutt’altra storia.

[di Valeria Casolaro]

Migranti, Oim: la scorsa settimana più di 160 vittime al largo della Libia

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Sono più di 160 i migranti che sono morti in due naufragi verificatisi la scorsa settimana al largo della Libia: a denunciarlo è stata Safa Msehli, la portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Quest’ultima, infatti, ha affermato che venerdì 102 persone sono morte dopo che la barca sulla quale si trovavano si è ribaltata mentre altre 62 persone sono annegate a causa di un naufragio avvenuto sabato. Sempre sabato, poi, un’altra barca con a bordo 210 migranti è stata intercettata e riportata in Libia, ha dichiarato la portavoce, la quale ha altresì aggiunto che le morti segnalate negli scorsi giorni portano il numero totale di persone annegate quest’anno nel mar Mediterraneo centrale a circa 1.500.