sabato 27 Luglio 2024

I non-fungible token (NFT), questi sconosciuti

Zoë Roth è una ventenne originaria di Mebane, Carolina del Nord. Per molti versi, la sua è una storia comune a quella di molte altre giovani americane e la sua preoccupazione principale è stata a lungo quella di racimolare la cifra necessaria a saldare gli onerosi debiti accumulati per finanziarsi un’educazione. Quello che distingue Zoë dalle sue compagne di studio è il fatto che il padre ha avuto la prontezza di riflessi di immortalarla quando, ancora bambina, stava osservando con fare beffardo e un po’ maligno un edificio che stava venendo consumato dalle fiamme. Quella foto ha prima vinto un premio, quindi è stata fagocitata da internet per essere trasformata nel meme noto come “disaster girl”, un meme che non le ha concesso fama o denaro, ma che ha fatto girare il suo volto sui monitor di tutto il mondo. O almeno, non le ha concesso denaro fino al 2021, quando lei e la sua famiglia hanno goduto dell’avvento dei NFT piazzando quello scatto alla rispettabilissima somma di 500.000 dollari. Zoë non solo è riuscita a saldare i conti in sospeso, ma le è rimasto quanto basta per donare qualcosa in beneficenza.

Una pandemia fortunata

I non-fungible token (NFT) sono ormai sulla bocca di tutti, tuttavia non tutti hanno idea di cosa questi siano effettivamente, men che meno quale sia il loro retaggio. Partiamo dal chiarire l’elemento più immediato: le loro origini. Nonostante gli NFT siano esplosi solamente nel 2021, la loro storia va indietro fino al 2014, quando una loro iterazione iniziale si fregiava del nome sornione ed esplicito di “grafiche monetizzate”. L’idea era quella di creare tramite blockchain un sistema di controllo che permettesse agli autori delle illustrazioni digitali di mantenere il controllo dell’opera immessa sul mercato, una risposta che funzionasse da contraltare tanto alle case d’aste quanto a quei media digitali che, da Tumblr a Reddit, sono noti per diffondere immagini senza troppa cura per gli interessi degli “artigiani” della tastiera.

Sul momento, l’idea non era riuscita a trovare un escamotage grazie a cui spiccare il volo, quindi le sue intuizioni sono finite per defluire in piccole realtà di nicchia quali CryptoPunks e RarePepe, i quali hanno però identificato rapidamente uno degli elementi attorno a cui l’intero settore sarebbe finito a orbitare, ovvero hanno avuto l’arguzia di fomentare l’interesse dei collezionisti serializzando il prodotto. In tal senso, a fare da importante avanguardia alla febbre degli NFT è stato CryptoKitties, un gioco che, sfruttando la rete Ethereum, mette a disposizione degli utenti un’infinità di gatti digitali da scambiare e far riprodurre. Ogni immagine è legata a un “DNA” le cui caratteristiche possono essere tramandate “geneticamente” di generazione in generazione, il tutto con l’obiettivo di sintetizzare razze feline particolarmente prestigiose o divertenti. Ogni scambio e ogni accoppiamento prevedono una commissione da retribuire al gestore, tuttavia molti giocatori ritengono che l’investimento valga il divertimento, mentre altri ancora sperano di poter prima o poi piazzare le proprie cucciolate a migliaia di dollari.

Anche tenendo conto della nuova dimensione ludica, i NFT non si sono fatti notare dal grande pubblico fino all’avvento della pandemia di coronavirus. Le quarantene, la ricerca di un bene rifugio, la noia, l’impossibilità di mantenersi attraverso una tradizionale attività lavorativa hanno spinto una mole impressionante di persone a interessarsi all’intera sfera dei blockchain, la quale si è vista catapultare su vette finanziarie che fino al 2019 sembravano decisamente fuori portata. I non-fungible token hanno approfittato in parte di questo fenomeno di massa, ma sono stati anche coltivati da un forte desiderio di riscatto che si annidava nei dietro le quinte del mondo dell’arte. Sintetizzando all’osso una questione particolarmente sfaccettata, si può infatti sostenere che il mercato della cosiddetta “arte alta” non guardi con favore gli autori di quella che potrebbe essere considerata “illustrazione”, situazione che rende difficile a artisti digitali e street artist trovare spazio negli ambienti più prestigiosi e, soprattutto, più redditizi della scena artistica. L’avvento del Covid ha però offerto un margine di manovra importante: i contesti tradizionali quali gallerie, musei e fiere sono stati tutti sospesi per mesi – e in parte lo sono ancora -, quindi i creativi e i curatori bistrattati hanno potuto approfittare di quel vuoto per imporre un nuovo format, un format che andasse proprio a valorizzare coloro che fino a quel momento erano stati considerati marginali, se non del tutto irrilevanti.

Il boom dei NFT è stato epocale, da allora le istituzioni quali Christie’s, Sotheby’s e il Museo della Permanente hanno deciso di cavalcare il fenomeno, con il risultato che i portafogli digitali che ne supervisionano le transazioni si sono gonfiati con cifre milionarie sotto forma di criptovalute. Dal momento di picco della moda, la bolla è però parzialmente rientrata. Ci si è resi conto che il sistema si è limitato perlopiù a mimare dinamiche economiche già consolidate, piuttosto che proporne di alternative, in più si sono registrati molti casi di furti di monete digitali e di applicazioni ciniche di una formula che inizialmente voleva essere artistica e tutelativa. Il tutto senza contare i timori ambientali che sono propri a molti dei sistemi blockchain attualmente in circolazione.

Ma quindi cosa sono gli NFT?

Tutto e niente. Più niente che tutto. Almeno ora come ora. I non-fungible token sono perlopiù un “macguffin” con cui motivare una corsa all’oro sfrenata e capillare. Privati e aziende sono ancora ammaliate dalle cifre monumentali che hanno fatto notizia l’anno scorso e più che pensare a creare un prodotto che sfrutti concretamente le possibilità del blockchain si stanno dedicando alla traduzione di tecniche e contenuti che esistevano già a monte. Oltre al già menzionato successo dei meme, c’è chi ha fatto soldi mettendo all’asta un’immagine del primo tweet ($2,9 milioni), chi è riuscito a piazzare una riproduzione dell’SMS che ha dato via alla messaggistica ($150mila) e chi vende rappresentazioni grafiche collezionabili di flatulenze imbottigliate. Le startup dedicate stanno sbocciando ovunque ottenendo finanziamenti da capogiro nel promettere nuove merci che rivoluzioneranno il mondo e che offriranno ai consumatori opportunità mai immaginate prima. Nessuno osa però rispondere a quegli stessi consumatori, quando chiedono nei fatti cosa questi “statement” promozionali vogliano dire, come saranno usati gli NFT per migliorare l’esperienza e la soddisfazione dell’utente finale.

La verità è che, tralasciando l’elemento speculativo e le scariche di dopamina concesse dal completare le collezioni virtuali di figurine, gli NFT non sono in grado in questo momento di offrire molto. A parte eccezioni più uniche che rare, il comprare un NFT non si estende alla proprietà di un oggetto fisico e, soprattutto, non garantisce automaticamente neppure la proprietà intellettuale del prodotto acquistato. A meno che un contratto di vendita non espliciti altrimenti, l’autore originale potrà sempre riprodurre e diffondere l’opera digitale, poiché l’oggetto messo in vendita non è tanto la creazione artistica, quanto il certificato che ne attesta la transazione. Di sovente, i mercanti e i creativi si limitano a digitalizzare foto di statue, dipinti, fotogrammi o di illustrazioni tradizionali, raramente sfruttano il nuovo medium in maniera non convenzionale. Nei peggiori dei casi, personaggi sconosciuti attingono addirittura dalle immagini pubblicate sulla Rete spacciandole per proprie, i controlli di autenticità sono pressoché nulli, così come nulle sono le assicurazioni e le tutele al compratore. In pratica si tratta di un’impresa finanziaria le cui basi si reggono perlopiù sulla reciproca fiducia. I lati negativi non mancano, insomma, tuttavia bisogna anche riconoscere che questo stato infausto della situazione sia legato alla relativa giovinezza del mercato NFT, confidiamo che col tempo la situazione andrà a normalizzarsi e, soprattutto, a istituzionalizzarsi.

Il futuro

Lo stimolo ideologico che ha suggestionato la nascita dei non-fungible token merita grande rispetto e rappresenta un traguardo verso cui il settore potrebbe – e dovrebbe – ancora muoversi. Nella sua accezione migliore, gli NFT potrebbero rappresentare un modo per assicurarsi che la rete blockchain venga adoperata per tenere traccia delle opere, che la gestione del copyright venga rispettata e che sia facile risalire a chi ne fa un uso improprio. Si tratterebbe di un mezzo con cui assicurarsi l’esistenza di un Mercato d’arte parallelo – e forse sostitutivo – a quello radicato nel networking e nelle apparenze che attualmente domina la scena, ma anche di uno stratagemma con cui rivalorizzare la figura del creatore, la cui rilevanza è passata in secondo piano se comparata a quella dei galleristi, dei curatori, ma anche dei social media manager. Nel contemporaneo, forse solo i critici se la passano peggio degli autori.

Complice la fase di assestamento, la situazione della cosiddetta criptoarte è ben lontana dal toccare traguardi tanto virtuosi. Anche solamente sul piano tecnico il prodotto fa acqua da tutte le parti: dal prototipo del 2014 a oggi non ci sono state evoluzioni significative e l’infrastruttura non risulta ottimizzata per sostenere la trasmissione di dati dalle dimensioni tipiche delle immagini ad alta definizione. Il risultato è che nell’acquistare un NFT non si ottenga direttamente il file desiderato, piuttosto si riceve un link di collegamento esterno. In altri termini, un NFT è molto simile a una mappa del tesoro al cui interno sono riportate le coordinate per trovare le opere d’arte virtuale; il fatto è che il Mercato ha stabilito che la “mappa” in questione sia caratterizzata da un valore finanziario più interessante dell’oggetto che rappresenta, quindi nessuno si è attardato a pensare a una soluzione per quello che sicuramente diventerà un problema profondo e distruttivo, il “link rot”. Essendo legato a server tradizionali e governati da entità specifiche, l’oggetto della compra-vendita non è infatti conservato in maniera particolarmente efficiente, anzi è altamente vulnerabile al fenomeno del deterioramento dei link. Non appena l’host di turno chiuderà i server, il pezzo d’arte originale sarà perso per sempre, rimarrà solamente una mappa le cui indicazioni non porteranno più a niente. A quel punto, l’NFT avrà senso solamente all’interno di un’economia in cui il valore della criptoarte è confinato ermeticamente a una dimensione autoderivativa, bloccato in un circolo vizioso di valore attribuito.

C’è ancora margine per correggere la rotta e i più idealisti si augurano che, una volta dissipata questa dilagante mania speculativa, i non-fungible token possano essere ridiscussi con lungimiranza e serietà. Allo stesso tempo, gli NFT sembrano destinati sempre più a fuggire dalla sfera dell’arte per radicarsi in quello più pragmatico della commercializzazione massiva. Le leghe di baseball e football americane si sono organizzate per pubblicare una serie di carte collezionabili blockchain, le aziende videoludiche Ubisoft e Square-Enix hanno già annunciato che i non-fungible token saranno parte integrante del loro business, Nike e Adidas vogliono portare la febbre della sottocultura “snekar-head” nel virtuale e persino fast food quali Taco Bell e Pizza Hut si stanno facendo strada nel campo. Il pericolo è che nella criptoarte rimanga poca arte, che il sogno si mercifichi nel giro dei prossimi mesi e che anche gli ambiti più creativi finiscano con lo sguazzare in un ambiente che copia goffamente le dinamiche del Mercato dell’arte alta, il quale manifesta esattamente le stesse criticità, ma ha imparato a nasconderle molto meglio.

[di Walter Ferri]

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