Sembrava così lontana l’era del berlusconismo, delle leggi ad personam, del conflitto d’interessi, dell’asse tra ‘destra collusa’ e ‘sinistra complice’ per l’automatico inciucio post-voto, delle collusioni tra poteri occulti e criminalità organizzata con gli alti apparati istituzionali del nostro Paese. Con la vittoria delle sedicenti forze ‘anti-establishment’ alle elezioni del 2018, qualche risultato si era effettivamente visto: il ridimensionamento di Forza Italia (partito fondato da un finanziatore di Cosa Nostra e frodatore fiscale, Silvio Berlusconi, e da un condannato per concorso ester...
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Italia e Francia forniscono velivoli ai militari golpisti del Myanmar. È quanto sostengono 4 organizzazioni della società civile italiana: Italia-Birmania insieme, Amnesty International, Rete italiana Pace e Disarmo e Atlante delle Guerre, secondo cui le due nazioni avrebbero fornito al Paese sotto assedio militare diversi apparecchi. Tra questi figurano un ATR-72 600, un Airbus Eurocopter, un Y-12, Yak-130 e K-8. Gli aerei in questione, gli ATR-72 600, sono prodotti in Francia da ATR, unendo le forze lavorative della francese Airbus e l’italiana Leonardo Corporation. Gli Eurocopter, invece, sono prodotti in Francia da Airbus (la cui sede ufficiale è nei Paesi Bassi).
Anche se al momento non è ancora ufficialmente dimostrato che i golpisti usino gli aerei per scopi militari (potrebbero, ad esempio, essere destinati al trasporto di passeggeri), “il solo fatto che tale fornitura sia nelle mani della giunta militare in Birmania è di per sé grave”, si legge sul Manifesto.
Come sono fatti questi velivoli? Prendiamo l’ATR-72 600 aereo che può ricoprire molte funzioni ed è in grado di trasportare fino a 78 persone. La sua velocità di 510 Km/h gli permette di essere usato per diversi tipi di business, con ogni condizione climatica o tipologia di terreno d’atterraggio (anche non asfaltato). Sembrerebbe perfetto per un’operazione militare.
Un documento militare birmano del 2018, tenuto segreto e reso noto poi da Justice for Myanmar, rivela l’esistenza di indicazioni su cosa possono fare le forze armate con gli aerei e come possono essere convertiti per trasportare truppe e container. Con foto esplicative annesse.
L’assedio militare nei confronti del Myanmar prosegue ormai da quasi un anno, e il bilancio delle vittime si aggira attorno alle 100 al mese, tutte nelle file dell’opposizione. Gli scontri sono numerosi e qualsiasi mezzo nelle mani dei golpisti potrebbe potenzialmente essere utilizzato contro la popolazione.
Tweet dI Cecilia Brighi, Segretario Generale di Italia-Birmania.Insieme
Bisogna tenere presente che nei confronti del Myanmar è ancora attivo l’embargo del 1996, stabilito dall’UE, sul tema “armi e munizioni”. Oltre a queste, sono incluse nel “divieto” anche “parti di ricambio, riparazioni, manutenzione e il trasferimento di tecnologia militare”.
In aggiunta, dal 26 aprile 2018 è stato stabilito “il divieto di esportazione di beni a duplice uso per gli utenti finali militari e della Polizia di frontiera (e) restrizioni all’esportazione di apparecchiature per il monitoraggio delle comunicazioni che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna, l’addestramento militare e la cooperazione militare”.
L’intensificarsi di attacchi aerei nelle ultime settimane in alcune regioni del paese ha accresciuto i sospetti. Centinaia di civili continuano a morire e gli edifici crollano uno dopo l’altro. Il risultato è drammatico: 300.000 sfollati cercano dimora fuori dal Paese, e molti altri ancora, che non hanno la possibilità di andarsene, rimangono senza un posto in cui stare.
La Commissione Europea ha adottato questa settimana una proposta di revisione della Direttiva sulla repressione dei crimini ambientali (ECD), rafforzandone le misure. Lo riporta il WWF, che spiega come i risultati della Direttiva ottenuti nel 2020 non fossero soddisfacenti e come vi fossero ampi margini di miglioramento. In particolare, con quest’ultima revisione, viene prevista la reclusione di almeno 10 anni per i crimini ambientali di maggiore gravità. Il WWF ha partecipato alla consultazione con il progetto transnazionale SWiPE (Successful Wildlife Crime Prosecution in Europe), finanziato dall’UE, il quale richiedeva, tra le altre cose, il riconoscimento dei crimini contro la fauna selvatica e le foreste come reati gravi, per arrivare a identificare il problema come prioritario.
Secondo l’ultimo dossierStop Pesticidi realizzato da Legambiente, lo scorso anno c’è stato un piccolo calo dei residui di pesticidi negli alimenti. Il resoconto riporta i dati elaborati nel 2020 dai laboratori pubblici italiani, per quanto concerne il controllo ufficiale dei residui di prodotti fitosanitari. Tali strutture hanno inviato i risultati di 2.519 campioni di alimenti di origine vegetale, includendo i prodotti derivati da apicoltura – anche se non appartenenti propriamente alla categoria – di provenienza italiana ed estera. L’elaborazione dei dati riporta una percentuale bassa di campioni irregolari, ovvero con principi attivi oltre le soglie consentite, pari all’1.39% di quelli totali. Difatti, il 63% dei campioni analizzati è regolare e privo di sostanze nocive, mentre il restante 35% contiene uno o più residui, seppur nei limiti di legge.
Secondo quanto riportato dal dossier, la frutta si piazza al primo posto per la percentuale maggiore di campioni regolari con uno o più residui di pesticidi. Sono stati individuati un campione di pere con 12 residui, uno di ciliegie con 10 residui e uno di prugne con 9 residui. Quest’ultimo, però, è stato indicato come irregolare, per via del superamento dei limiti imposti e la presenza di sostanze non autorizzate. Nella categoria “frutta”, gli alimenti che presentano la maggior presenza di fitofarmaci, sono l’uva da tavola con il 85,71%, le pere con l’82,14%, le fragole con il 71,79% e le pesche con il 67,39%. Per quanto riguarda la verdura, è stata osservata una quantità maggiore di alimenti regolari senza residui (73,81%). In questo caso, solo poche tipologie presentano un’alta presenza di pesticidi, come i pomodori (60,20%) e i peperoni (48,15%). Infine, tra gli alimenti trasformati, il vino e il miele sono quelli a presentare una maggiore percentuale di residui permessi, contando rispettivamente circa il 39,90% e il 20%.
Quando si fa riferimento ai pesticidi, si parla principalmente di fungicidi e insetticidi, sostanze altamente nocive per l’uomo, ma anche per altri organismi importantissimi per i nostri ecosistemi. Nell’indagine, per esempio, ha destato preoccupazione la presenza dell’insetticida thiacloprid in campioni di mele, lamponi, melograno, mirtilli, pere, pesche, tè verde e miele, e dell’insetticida imidacloprid in campioni di peperoni e tè verde. Si tratta di due sostanze attive particolarmente nocive per le api, il cui impiego non è piùconsentito dai Reg. CE 2020/23 (thiacloprid) e Reg. CE 2020/1643 (imidacloprid), la cui data di entrata in vigore, tuttavia, potrebbe aver permesso l’accettabilità dei campioni.
Nel quadro generale di Legambiente, viene fatto riferimento anche a un positivo avanzamento della ricerca – con l’utilizzo di tecnologie innovative -, e al successo del biologico. Sono ben 23 milioni le famiglie che hanno acquistato bio almeno una volta nell’ultimo anno, e non si tratta soltanto di persone che si impegnano a condurre uno stile di vita salutista. Ad esempio, si sta riscontrando un cambiamento nella percezione del biologico tra i giovani, i cosiddetti millennial, i quali ricercano – in un rapporto maggiore del 50%-, prodotti provenienti da questa categoria. Infine, ulteriore dato positivo riguarda la credibilità che sta acquisendo sempre più il “bio italiano” sui mercati nazionali ed internazionali.
Alla luce di ciò è fondamentale continuare ad adoperarsi per raggiungere obiettivi sempre più importanti, come prefissato da Farm to Fork – piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per attivare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente – e dalla strategia Europea per la Biodiversità, avviata dal Ministero della Transizione Ecologica. Queste, entro il 2030 prevedono: riduzione del 50% dei pesticidi e del 20% dei fertilizzanti, riduzione del 50% degli antibiotici, raggiungimento del 10% delle aree agricole destinate ai corridoi ecologici e del 25% di superficie coltivata a biologico in Europa.
Le forze ribelli del TPLF (Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray) hanno annunciato il ritiro dalle regioni di Amhara e Afar, confinanti con quella del Tigray. In una lettera alle Nazioni Unite, il capo del TPLF ha scritto che la mossa costituisce “un’apertura decisiva per la pace”, oltre a chiedere una no-fly zone per gli aerei ostili sul Tigray, embarghi sulle armi ad Etiopia ed Eritrea (sua alleata) e aiuto per verificare che le forze armate etiopi si fossero effettivamente ritirate dalla regione. Il TPLF spera che in questo modo la comunità internazionale possa garantire gli aiuti umanitari, dopo il blocco imposto al loro ingresso dal governo etiope, secondo le accuse delle Nazioni Unite.
Tra le varie leggende metropolitane che sono circolate attorno ai vaccini contro il coronavirus, una delle più pittoresche è certamente quella che suggeriva che i medicamenti venissero sfruttati da Bill Gates per introdurre dei microchip nei corpi dei pazienti. A distanza di qualche mese da che quella voce aveva preso piede, fa dunque impressione lo scoprire che un’azienda svedese, Epicenter, ha ben pensato di cogliere l’attimo per reclamizzare un impianto sottocutaneo capace di custodire i dati della certificazione verde europea.
La trovata commerciale della start-up di Stoccolma ha colpito in pieno tutti gli obiettivi di una campagna marketing di successo, almeno a giudicare dall’impareggiabile valore espositivo che le ha garantito la notizia, tuttavia lo strumento non ha tanto impressionato per la sua innovazione tecnica – la quale non è dissimile da qualsiasi altro apparecchio “contactless” -, quanto per il sottotesto distopico che deriva dal fondere le macchine di raccolta dati alla struttura biologica di un essere umano.
Superato l’elemento quasi provocatorio che ha catalizzato l’attenzione, il panorama prospettato da questa campagna commerciale è però tutto meno che preoccupante, anzi è quasi banale. La moda del “chipparsi”, una moda puramente antropopoietica, ha preso piede in quel della Svezia e in alcune aziende tecnologiche statunitensi già a partire dal 2014, ma le funzionalità dell’innesto si limitano a quelle che normalmente vengono espletate dalle normali tessere magnetiche o dagli smartphone. Non una vera e propria rivoluzione, dunque, piuttosto una scelta estetica di un ramo derivante dalla sottocultura della modificazione corporea, una scelta estetica lanciata dal tatuatore Jowan Österlund che sottolinea un’appartenenza ideologica condivisibile da tutti coloro che ambiscono al successo del transumanesimo.
Nulla di preoccupante, dunque, almeno fintanto che la cosa rimarrà com’è allo stato odierno, ovvero finché l’intervento sarà eseguito su base volontaria da parte di un pubblico ristretto e dalla posizione sociale forte. Lo scenario distopico delle grandi aziende che marchiano i propri dipendenti e li monitorano trasformandoli letteralmente in cyborg è peraltro estremamente remoto: diversi Stati degli USA hanno già introdotto regole che vietano a priori una simile deriva, mentre la legislazione europea è tutelata da numerosissime norme che renderebbero il tutto inutile, ancor prima che inattuabile.
A ben vedere, la questione dei microchip sottocutanei ha origine nell’ormai remoto 1998, anno in cui lo scienziato Kevin Warwick ha voluto sperimentare letteralmente sulla propria pelle le possibilità tecniche di un impianto, e da allora diverse aziende hanno cercato di farne a più riprese un vero e proprio status symbol, fallendo ogni volta. Certo, rimane sempre la fantasia che vedrebbe un perverso regime autoritario imporre ai propri cittadini l’intervento chirurgico, tuttavia, in un mondo in cui 6,3 miliardi di persone sono dotate di smartphone, un simile approccio sarebbe quanto mai poco pratico, soprattutto perché non esistono al giorno d’oggi strumentazioni geolocalizzanti tanto piccole ed economiche da poter offrire un’alternativa più conveniente di quanto non sia già a disposizione delle dittature.
Se poi siete tra coloro che vorrebbero davvero un chip sottocutaneo, non possiamo che rimarcare che gli studi clinici sulle conseguenze di un simile intervento sono pochi e contraddittori, ma soprattutto che la tecnologia evolva a un ritmo sempre più marcato e non è improbabile che gli innesti debbano essere sostituiti a distanza di pochi anni da che lì si è acquistati. Uno sforzo forse eccessivo, se lo scopo finale è quello di trasformare il palmo della propria mano in una tessera dei mezzi pubblici.
In Birmania, almeno 40 uomini sono morti a causa di una serie di uccisioni di massa di civili effettuate dall’esercito nel mese di luglio: è quanto si evince da un’indagine della Bbc. Quest’ultima infatti nella giornata di oggi ha pubblicato un articolo che, tra l’altro, contiene un video in cui i residenti di uno dei villaggi presi di mira trovano i corpi di alcune delle vittime in una fossa comune. A tal proposito, secondo quanto riportato dalla Bbc le uccisioni di massa si sono verificate nel Kani Township, un Comune roccaforte dell’opposizione situato nel distretto di Sagaing, ed il villaggio più colpito è stato quello di Yin.
Nella giornata di mercoledì si è tenuta nell’aula bunker del carcere campano di Santa Maria Capua Vetere l’udienza preliminare del processo in cui sono imputati in 108 -tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) – per le violenze nei confronti dei detenuti di tale carcere avvenute nel mese di aprile 2020. I 108 individui sono accusati a vario titolo di: tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine (addebitato a 12 imputati). Quest’ultimo, un ragazzo di 28 anni di origine algerina, venne infatti messo in isolamento subito dopo il pestaggio in questione e fu poi trovato morto il 4 maggio 2020. Per quanto concerne il reato di tortura, invece, esso viene contestato a circa 50 pubblici ufficiali: si tratta della prima volta dall’introduzione – nel 2017 – dello stesso.
Venendo poi ai quasi 200 detenuti coinvolti nella vicenda, al momento sono 56 i difensori costituitisi come parte civile: tra questi troviamo associazioni come “Antigone” – che si è detta dispiaciuta per il «numero esiguo di difensori delle persone offese» – il garante campano per i detenuti Samuele Cambriello, che con le sue denunce ha dato il via all’indagine e, soprattutto, il ministero della Giustizia. Proprio nei confronti di quest’ultimo, però, si è creata una questione giuridica che il gup Pasquale D’Angelo dovrà dirimere. Gli avvocati di alcuni detenuti hanno infatti annunciato di voler chiedere l’autorizzazione a citare il ministero come responsabile civilmente. Proprio per tale motivo, dunque, non appare lontana l’ipotesi per cui il dicastero potrebbe comparire nella doppia veste di parte offesa e responsabile civile.
Attualmente quello che è invece certo è che la prossima udienza si terrà l’11 gennaio, con i difensori degli imputati che dovranno interloquire sulle costituzioni, in particolare su quelle delle associazioni. Altra certezza è legata alla decisione in merito alla richiesta della Procura di prorogare le misure cautelari per alcuni agenti, il cui termine era prossimo alla scadenza. Il gup infatti ha deciso di bocciare tale richiesta, motivo per cui gli arresti domiciliari per 20 agenti della polizia penitenziaria e l’interdizione dai pubblici uffici per altri 7 termineranno il prossimo 28 dicembre.
Detto ciò, per tutto il resto la giustizia dovrà fare il proprio corso: niente può al momento essere dato per certo e le responsabilità dei soggetti indagati andranno ovviamente accertate durante il processo. C’è da dire però che un video proveniente dalle telecamere di sicurezza del carcere mostra chiaramente i tremendi attiche gli agenti della polizia penitenziaria commisero ai danni dei detenuti. Manganellate, calci, pugni, testate, persone inermi stese a terra brutalmente picchiate: sono queste le violenze che si verificarono il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una vera e propria mattanza che gli agenti scatenarono quasi per vendetta, dato che il giorno precedente i detenuti inscenarono una protesta per la situazione all’interno del carcere in relazione alla pandemia da Covid-19.
La questione è così seria che l’Alto Commissariato dell’Onu ha spedito una delegazione in Veneto, per tastare con mano la situazione e fare chiarezza sulle cause dell’inquinamento diffuso. Una missione vera e propria, svoltasi tra il 30 novembre e il 13 dicembre, finalizzata a comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Dopotutto, poche settimane fa, il ricercatore del CNR che ha seguito la questione aveva definito senza mezzi termini la situazione veneta: «Il più grande inquinamento Pfas d’Europa per importanza ed estensione. Probabilmente il più grande anche del mondo se escludiamo la Cina». Stiamo parlando dell’inquinamento delle acque da parte di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas). Una vicenda di gravissimo allarme per l’ambiente e la salute umana, che da tempo scuote la popolazione veneta e sarebbe alla base di patologie molto pericolose . Un quadro che dovrebbe preoccupare anche i media ed occupare le prime pagine, eppure nessuno o quasi ne parla. Un muro di omertà che ha coinvolto la stessa Regione Veneto, accusata direttamente dall’emissario Onu Marcos Orellana: «Quando nel 2013 le autorità regionali hanno saputo della contaminazione provocata da Pfas – ha denunciato Orellana dopo aver depositato la relazione – hanno iniziato ad installare filtri a carbone attivo per garantire la salubrità dell’acqua potabile, ma in quel periodo le autorità regionali avrebbero dovuto informare la popolazione, distribuire informazioni delle implicazioni sulla salute in relazione a queste contaminazioni. Tutto ciò non è stato fatto».
Sebbene non sia ancora una posizione ufficiale, si può ritenere, già da ora, che quantomeno il diritto all’informazione sia stato tradito. Una prima risposta all’accorato appello del “Comitato Mamme No Pfas”, il fronte più attivo da quando la questione è esplosa. Secondo le donne, sarebbero però almeno altri due i diritti umani violati: quello alla salute e quello al rimedio effettivo. Per appurare la violazione, l’esperto Onu ha incontrato autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche chi ha vissuto e vive ogni giorno il dramma di abitare in un territorio oggetto di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale. E ancor più grave – come ha aggiunto il delegato delle Nazioni Unite – la mancata divulgazione delle informazioni alla popolazione. «Nel 2016-2017, nell’ambito di un piano di monitoraggio della salute – ha spiegato – alcune persone hanno ricevuto delle lettere nelle quali si invitavano a sottoporre i bambini a delle analisi. Ed è soltanto in quel periodo che hanno saputo di queste contaminazioni». Quindi, con un ritardo di almeno 3 anni. Almeno. Già nel 2006, infatti – secondo un rapporto di Greenpeace – l’Agenzia regionale del Veneto avrebbe potuto iniziare le operazioni di bonifica Pfas nella zona di Trissino.
Se poi tiriamo in ballo la salute pubblica, il tema si fa ancor più scottante. Nel 2015, l’azienda sanitaria locale vicentina avvia un primo screening su 270 persone dal quale emergonoi primi casi che superano di 35 volte il limite di 8ng/l di Pfas nel sangue. Nel 2019, invece, erano già almeno 350 mila le persone contaminate a causa dell’inquinamento dell’acqua di falda tra Vicenza, Verona e Padova. Un triangolo rosso, come è stato definito, che ha già ampiamente impattato sulla vita delle persone residenti entro il suo perimetro. L’acronimo Pfas, che sta anche per acidi perfluoroacrilici, indica un gruppo di sostanze chimiche di stampo industriale. La classe più diffusa, la Pfoa (acidi perfluoroottanoici), nel 2009, è stata dichiarata “sostanza inquinante resistente” dalla Convenzione di Stoccolma e, nel 2017, dalla Commissione europea su indicazione dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche, ne sono stati accertati i rischi inaccettabili per l’ambiente e la salute umana. Le sostanze in questione, oltre ad essere estremamente persistenti, infatti, alterano il sistema ormonale portando a diverse patologie, anche letali. Di particolare rilievo, l’aumentato rischio di malattie tiroidee, tumore a rene e testicolo (+30%), di cardiopatia ischemica (+21%), morbo di Alzheimer (+14%) e malattie correlate al diabete (+25%).
L’allarme maggiore è scattato poi quando, nel 2017, sono stati pubblicati i risultati di un biomonitoraggio sulla popolazione nata tra il 1956 e il 2002 e residente nella zona rossa. La conclusione è stata che i giovani al di sotto dei 15 anni sono particolarmente vulnerabili agli effetti delle sostanze tossiche incriminate. Da qui la nascita del “Comitato Mamme No Pfas” che oggi conta centinaia di aderenti. Anche grazie alla pressione da loro esercitata, la vicenda si è fatta via via più trasparente. Una vicenda che a quanto pare ha origini lontane, riconducibili agli anni ’60 con le attività della società di alta moda Rimar e che culmina nel 2013 con l’attribuzione del 97% dell’inquinamento da Pfas della zona alla Miteni Spa. Ora che sono state coinvolte le Nazioni Unite, con la speranza che sempre più provvedimenti vengano adottati, la questione diventerà presto di rilievo internazionale.
Per il Cile la giornata di ieri ha segnato un evento da ricordare. Al ballottaggio delle elezioni presidenziali l’ex leader delle proteste studentesche che infiammarono il paese nel 2019, Gabriel Boric, è diventato il nuovo presidente ricevendo il 55,86% dei voti. Un risultato a sorpresa, che lo ha visto superare ampiamente José Antonio Kast, candidato della borghesia liberista e dei settori della destra nostalgica dell’ex regime militare di Augusto Pinochet.
Una nuova vittoria per i movimenti di sinistra che si oppongono al liberismo in America Latina, dove i governi amici della tradizionale politica economica americana sono ormai ridotti a poche eccezioni, guidate dal Brasile di Bolsonaro (dove si voterà a breve). Del resto sono numerosi ormai i governi più o meno apertamente schierati verso un ordinamento socio-economico di stampo socialista: dagli storici Cuba, Venezuela, Bolivia e Nicaragua, passando per Argentina e Perù. Boric, classe 1986, sarà il Presidente più giovane della storia del Cile.
Perché la scelta dei cileni segna una svolta?
Fondamentalmente perché in queste elezioni i cittadini sono stati chiamati a compiere una scelta ben precisa, drastica e netta. Boric e Kast hanno mostrato durante la campagna elettorale di avere una visione del futuro molto diversa.
Antonio Kast, 55 anni, è un aperto ammiratore dell’ex dittatore Pinochet: suo fratello Miguel Kast, a tal proposito, ricoprì alcuni ruoli di rilievo durante il regime. E ancora. Il padre aveva scelto di aderire al Partito nazista nel 1942.
Nelle varie sessioni della propaganda elettorale si era presentato come “restauratore dell’ordine nel paese”, ispirandosi all’operato di Bolsonaro e a quello dell’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori, imprigionato per crimini contro l’umanità. Kast è contrario all’immigrazione, all’aborto e alle coppie omosessuali, ai movimenti femministi e al divorzio. Il suo spirito conservatore lo ha portato infatti ad una serrata difesa della famiglia tradizionale. Basti pensare che lui stesso è sposato da 30 anni e ha 9 figli.
Boric, invece, già deputato e storico leader dei movimenti studenteschi, ha promosso un programma incentrato sull’ambientalismo e sulla decarbonizzazione del Cile. Dichiaratamente femminista, dopo la vittoria ha detto che il suo sarà “il primo governo ecologista della storia del Cile”. Nel programma elettorale di Boric si legge che sarà sua priorità puntare a rendere pubblico il sistema sanitario e quello pensionistico (ad oggi entrambi privati), con una particolare attenzione per l’individualità delle comunità locali e indigene.
Mind-blowing scenes in Santiago, where hundreds of thousands have flocked onto the streets to celebrate Gabriel Boric’s victory pic.twitter.com/uirvG1mVBg
Per comprendere la sorpresa espressa dai media per l’elezione di Boric, bisogna fare un passo indietro e capire in che contesto il Cile ha vissuto gli ultimi anni, proprio a partire dalle proteste del 2019. All’epoca ci furono molte manifestazioni contro il governo conservatore di Sebatian Pinera, represse con l’esercito. Una forza militare che, evidentemente, non è riuscita a soffocare la voglia di cambiamento verso un sistema che, pur essendosi liberato della dittatura di Pinochet, continua a vederne i frutti. Nella Costituzione (che è in fase di revisione), ad esempio, e nel sistema economico di un paese fondato sulla disuguaglianza, in cui poche imprese ricche e private controllano quasi tutti i settori più importanti.
Le proteste erano cominciate dopo l’approvazione di una legge che aumentava il prezzo del biglietto della metropolitana per circolare nella capitale. Per i cileni la spesa era già molto alta se confrontata con lo stipendio medio di un normale lavoratore. Da dove nasce la disparità economica nel paese? Gli esperti dicono che l’origine può essere ricercata nelle pratiche di colonizzazione e decolonizzazione. Durante l’assegnazione delle terre, in epoca coloniale spagnola, il Governo favorì i discendenti degli europei e creò le basi per il latifondismo che ancora opprime economicamente gli strati popolari del paese.
Lucía Dammert, analista politica e docente dell’Universidad de Santiago aveva detto al País che «Le proteste di questi giorni sono guidate da una nuova generazione di cileni, che hanno meno di 30 anni, che non hanno conosciuto la dittatura di Pinochet e che sono aperti alla possibilità di esprimere le proprie sofferenze perché sentono che non hanno niente da perdere». Ovvio però che il 55% dei voti Boric non lo ha ottenuto solo con i voti dei giovani, segno che anche tra le generazioni più anziane c’è voglia di lasciarsi il passato alle spalle.
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