giovedì 13 Novembre 2025
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Il Cile ha eletto presidente il leader delle proteste studentesche

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Per il Cile la giornata di ieri ha segnato un evento da ricordare. Al ballottaggio delle elezioni presidenziali l’ex leader delle proteste studentesche che infiammarono il paese nel 2019, Gabriel Boric, è diventato il nuovo presidente ricevendo il 55,86% dei voti. Un risultato a sorpresa, che lo ha visto superare ampiamente José Antonio Kast, candidato della borghesia liberista e dei settori della destra nostalgica dell’ex regime militare di Augusto Pinochet.

Una nuova vittoria per i movimenti di sinistra che si oppongono al liberismo in America Latina, dove i governi amici della tradizionale politica economica americana sono ormai ridotti a poche eccezioni, guidate dal Brasile di Bolsonaro (dove si voterà a breve). Del resto sono numerosi ormai i governi più o meno apertamente schierati verso un ordinamento socio-economico di stampo socialista: dagli storici Cuba, Venezuela, Bolivia e Nicaragua, passando per Argentina e Perù. Boric, classe 1986, sarà il Presidente più giovane della storia del Cile.

Vittoria Cile Boric

Perché la scelta dei cileni segna una svolta?

Fondamentalmente perché in queste elezioni i cittadini sono stati chiamati a compiere una scelta ben precisa, drastica e netta. Boric e Kast hanno mostrato durante la campagna elettorale di avere una visione del futuro molto diversa.

Antonio Kast, 55 anni, è un aperto ammiratore dell’ex dittatore Pinochet: suo fratello Miguel Kast, a tal proposito, ricoprì alcuni ruoli di rilievo durante il regime. E ancora. Il padre aveva scelto di aderire al Partito nazista nel 1942.

Nelle varie sessioni della propaganda elettorale si era presentato come “restauratore dell’ordine nel paese”, ispirandosi all’operato di Bolsonaro e a quello dell’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori, imprigionato per crimini contro l’umanità. Kast è contrario all’immigrazione, all’aborto e alle coppie omosessuali, ai movimenti femministi e al divorzio. Il suo spirito conservatore lo ha portato infatti ad una serrata difesa della famiglia tradizionale. Basti pensare che lui stesso è sposato da 30 anni e ha 9 figli.

Boric, invece, già deputato e storico leader dei movimenti studenteschi, ha promosso un programma incentrato sull’ambientalismo e sulla decarbonizzazione del Cile. Dichiaratamente femminista, dopo la vittoria ha detto che il suo sarà “il primo governo ecologista della storia del Cile”. Nel programma elettorale di Boric si legge che sarà sua priorità puntare a rendere pubblico il sistema sanitario e quello pensionistico (ad oggi entrambi privati), con una particolare attenzione per l’individualità delle comunità locali e indigene.

Per comprendere la sorpresa espressa dai media per l’elezione di Boric, bisogna fare un passo indietro e capire in che contesto il Cile ha vissuto gli ultimi anni, proprio a partire dalle proteste del 2019. All’epoca ci furono molte manifestazioni contro il governo conservatore di Sebatian Pinera, represse con l’esercito. Una forza militare che, evidentemente, non è riuscita a soffocare la voglia di cambiamento verso un sistema che, pur essendosi liberato della dittatura di Pinochet, continua a vederne i frutti. Nella Costituzione (che è in fase di revisione), ad esempio, e nel sistema economico di un paese fondato sulla disuguaglianza, in cui poche imprese ricche e private controllano quasi tutti i settori più importanti.

Le proteste erano cominciate dopo l’approvazione di una legge che aumentava il prezzo del biglietto della metropolitana per circolare nella capitale. Per i cileni la spesa era già molto alta se confrontata con lo stipendio medio di un normale lavoratore. Da dove nasce la disparità economica nel paese? Gli esperti dicono che l’origine può essere ricercata nelle pratiche di colonizzazione e decolonizzazione. Durante l’assegnazione delle terre, in epoca coloniale spagnola, il Governo favorì i discendenti degli europei e creò le basi per il latifondismo che ancora opprime economicamente gli strati popolari del paese.

Lucía Dammert, analista politica e docente dell’Universidad de Santiago aveva detto al País che «Le proteste di questi giorni sono guidate da una nuova generazione di cileni, che hanno meno di 30 anni, che non hanno conosciuto la dittatura di Pinochet e che sono aperti alla possibilità di esprimere le proprie sofferenze perché sentono che non hanno niente da perdere». Ovvio però che il 55% dei voti Boric non lo ha ottenuto solo con i voti dei giovani, segno che anche tra le generazioni più anziane c’è voglia di lasciarsi il passato alle spalle.

[di Gloria Ferrari]

Ema: via libera al vaccino anti Covid Novavax

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È arrivato il via libera dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali) all’immissione in commercio condizionata nell’Ue del vaccino anti-Covid Nuvaxovid, prodotto da Novavax. La decisione è arrivata nello specifico da parte del Comitato tecnico per i medicinali a uso umano dell’agenzia, il quale ha svolto a tal proposito una riunione straordinaria. Il vaccino, che in base a quanto comunicato dall’Ema ha «un’efficacia di circa il 90%», è il quinto contro il Covid ad essere autorizzato in Europa. Tuttavia, aggiunge l’Ema, tale efficacia si riferisce alle vecchie varianti ed al momento i dati disponibili sull’efficacia contro la variante Omicron sono «limitati».

Milano, protesta per lo sgombero coatto dei senzatetto da parte della Polizia

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Nella giornata di sabato si è svolta, nei pressi della stazione centrale di Milano, una manifestazione di protesta contro gli sgomberi avvenuti giovedì sera. Nella serata del 16 dicembre, infatti, agenti della polizia di Milano e dipendenti dell’Amsa, il servizio addetto al recupero di rifiuti ingombranti, hanno sgomberato una strada nella quale dimoravano diverse persone senza fissa dimora, minacciando anche di querelare un giornalista che cercava di documentare i fatti. “Bivaccare sotto i tunnel non è umano e decoroso” scrive l’assessore alla sicurezza del Comune di Milano Granelli, che giustifica così l’operazione di polizia.

Secondo quanto denunciato dall’associazione Mutuo Soccorso Milano, almeno 40 agenti si sono presentati nella serata di giovedì 16 dicembre nel sottopasso nei pressi della Stazione Centrale per rimuovere materassi e coperte appartenenti a senzatetto che si riparavano in quella zona, invitandoli a cercare riparo presso la struttura provvisoria denominata Mezzanino. L’operazione è avvenuta senza preavviso nè la mediazione degli assistenti sociali, che sono arrivati quasi un’ora e mezza dopo la polizia. «Se l’organizzazione del Comune fosse efficiente si sarebbe intervenuti mandando avanti gli assistenti sociali aiutati dalle forze di polizia» dichiara all’Indipendente un rappresentante di Mutuo Soccorso.

«Giovedì mattina l’Assessore alla Sicurezza di Milano ha ordinato di aprire il Mezzanino, con tre giorni di anticipo (il 20 dicembre), in virtù dello sgombero» spiega l’operatore. Il Mezzanino, spiega, è una soluzione temporanea: 70 brandine all’incirca, montate in un sottopassaggio della stazione dalle sette di sera alle cinque di mattina, senza acqua corrente nè prese elettriche, con bagni chimici posti al di fuori della struttura. «Si tratta del posto peggiore di Milano, aperto in fretta e furia e temporaneo per sua stessa natura». L’operatore spiega infatti che «Lo sgombero non è avvenuto perchè il Comune ha trovato una soluzione abitativa migliore, ma per compiere un’azione in nome del decoro, trovando una soluzione di emergenza. Oggi i sottopassaggi della stazione sono di nuovo pieni di persone, perchè il Comune non è in grado di fornire una soluzione decente e dignitosa».

La ragione, a suo parere, è dovuta alla situazione dei dormitori milanesi, definita «tragica». «Il giorno dopo essere state portate al Mezzanino le persone possono andare al Casc [Centro Aiuto Stazione Centrale, nda] per essere inserite nel programma per portarle ad abbandonare la strada. Tuttavia entrare nei dormitori è un’impresa, ci sono liste d’attesa di mesi interi, i letti sono spesso pieni di cimici e manca l’acqua calda. Inoltre i dormitori possono trovarsi in una provincia piuttosto che in un’altra: se ti dicono che c’è un posto libero a Pavia tu puoi andare solo lì, con il risultato di distruggere il proprio network sociale».

Nel corso delle operazioni di giovedì notte la Polizia ha anche minacciato di denuncia un giornalista della testata Milano Today che cercava di documentare quella che l’agente stesso ha definito “un’operazione di Polizia”, salvo poi concedere la pubblicazione delle immagini “solo su Milano Today”. La domanda sorge spontanea: se si sta svolgendo un’operazione legittima, al fine della sicurezza pubblica, perchè vietarne la diffusione tramite immagini?

L’assessore di Milano Marco Granelli ha definito l’operazione come mirata a “evitare il bivacco” nei pressi della stazione, sottolineata come a gestirla fossero “operatori e volontari delle associazioni”, quando chi era presente sul posto dichiara fossero presenti solamente Amsa e Polizia. “Bivaccare sotto i tunnel non è umano nè decoroso” scrive Granelli, difendendo l’agire muscolare del Comune, che criminalizza la povertà senza, sembra, offrire soluzioni funzionali a un problema strutturale.

[di Valeria Casolaro]

 

 

Polonia, proteste per nuova legge su mezzi di informazione

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Numerose manifestazioni di protesta a tutela della libertà di stampa si sono svolte a Varsavia e in tutta la Polonia nel weekend, dopo che il Parlamento ha approvato un disegno di legge che vieta alle imprese extraeuropee di essere proprietarie di maggioranza di emittenti televisive o radiofoniche polacche. La decisione va a colpire in particolare l’emittente TVN24, la più grande rete televisiva polacca di proprietà dell’americana Discovery Inc., unico caso di proprietà da parte di media extra-Ue in Polonia. Per tale motivo alcuni suggerisono che la legge sia “mirata”. Gli Stati Uniti si sono detti “profondamente turbati”, dal momento che l’iniziativa “potrebbe minare la libertà di espressione”.

A che punto è la trattativa con l’Iran per il nucleare?

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«Se le altre parti che partecipano ai colloqui di Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 sono determinate a rimuovere le sanzioni, raggiungeremo sicuramente un buon accordo». Queste sono le parole rilasciate dal presidente iraniano Ebrahim Raisi lo scorso 11 dicembre. Due giorni prima erano infatti ripartiti i colloqui a Vienna tra l’Iran e i paesi segnatari dell’accordo sul nucleare del 2015 (i 5 membri permanenti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Russia, Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito più Germania e Unione Europea). A seguito delle dichiarazioni dei vari ministri degli esteri europei presenti a Vienna, appare però oramai improbabile si possa giungere ad una soluzione. Considerando che da parte di Washington non traspare la ben che minima volontà di volere fare il primo passo verso la rimozione delle sanzioni. 

Con la firma dell’accordo sul nucleare (noto anche come Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA), l’Iran si impegnava a rispettare dei limiti relativi all’arricchimento dell’uranio che le avrebbero garantito la produzione di energia atomica, ma non quella di armi. Il rispetto di tali limiti avrebbe garantito all’Iran la rimozione delle sanzioni economiche da parte di Stati Uniti, Unione europea e delle Nazioni Unite. Per monitorare poi che tali accordi venissero rispettati, Teheran aveva accettato di ricevere ispezioni regolari da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Nonostante questo, l’accordo era saltato nel maggio 2018, a seguito della decisione unilaterale dell’allora presidente americano Donald Trump di reintrodurre le sanzioni, nonostante Yukiya Amano (al tempo direttore dell’AIEA) avesse dichiarato in marzo che l’Iran stava rispettando tutti i limiti degli accordi

La decisione da parte di Washington di interrompere l’accordo sul nucleare e reintrodurre sanzioni venne giustificata (con l’appoggio di Israele), dal fatto che l’Iran avrebbe continuato a lavorare ad un progetto segreto, AMAD, per la costruzione di armi atomiche. Questa giustificazione apparve, da subito, come un pretesto per avvalorare quella che altro non era che una scelta politica. 

Considerando che nel 2015 la stessa AIEA aveva dichiarato che: “una serie di attività relative allo sviluppo di un ordigno nucleare era stata condotta in Iran prima della fine del 2003, ma che queste attività non erano andate oltre gli studi scientifici e l’acquisizione di determinate competenze e capacità tecniche pertinenti. L’Agenzia non ha indicazioni credibili di attività in Iran rilevanti per lo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009”.

Da dove nascono queste tensioni?

L’Iran, negli ultimi anni, ha assunto un ruolo di spessore nella regione medio orientale come potenza militare e a livello di influenza politica. Questo ruolo ha creato diversi contrasti con quelli che sono appunto i due principali alleati di Washington in Medio Oriente, Israele e Arabia Saudita. 

L’Iran non ha mai nascosto il proprio supporto, economico e militare, a vari gruppi armati nella regione come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano (entrambi inseriti nelle liste delle organizzazioni terroristiche). Un’altra causa di forti tensioni è dovuta al supporto militare ed economico da parte di Teheran al regime di Bashar al-Assad in Siria. Per Israele, e di conseguenza gli Stati Uniti, la possibilità che l’Iran potesse ottenere come ricompensa basi militari permanenti in Siria rappresentava una considerevole minaccia. Infatti, come ritorsione, Israele negli ultimi anni ha compiuto diversi raid aerei in Siria contro obiettivi iraniani. 

Anche nei confronti dell’Arabia Saudita, l’Iran ha utilizzato lo stesso modus operandi utilizzato contro Israele, supportando i ribelli Houthi in Yemen. Dal 2015, infatti, va avanti una guerra civile tra due fazioni, quella appunto degli Houthi e quella (sostenuta da Riyad) leale al governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi. Inoltre, Teheran sarebbe responsabile di attacchi con droni alle installazioni petrolifere saudite, in particolare va ricordato l’attacco occorso nel settembre del 2019 alle raffinerie della compagnia petrolifera saudita Aramco ad Abqaiq e Khurais. L’attacco rivendicato inizialmente dagli Houthi, ridusse del 50% la produzione di petrolio dell’Arabia Saudita (circa il 5% della produzione mondiale di petrolio), causando una certa destabilizzazione dei mercati finanziari globali.

Un’altra significativa causa di tensioni tra Stati Uniti e Iran è l’Iraq. A seguito dell’invasione americana nel 2003, l’Iran si è trovato a fronteggiare, o quantomeno a considerare, la possibilità di poter venir invaso, poichè in quel momento, era “circondato” da truppe statunitensi sia in Afghanistan che in Iraq. Per limitare l’influenza americana, il regime di Teheran ha sviluppato programmi per finanziare e formare milizie armate in territorio iracheno. Responsabile di questi programmi era appunto il generale Qasem Soleimani (comandante delle unità speciali delle Forze della Rivoluzione), che venne ucciso da un drone americano nel gennaio del 2020 all’esterno dell’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Altra decisione presa unilateralmente da parte di Washington, che avrebbe potuto avere conseguenze devastanti in una delle regioni più instabili del pianeta.

 Queste operazioni messe in piedi dal regime iraniano hanno un duplice scopo, il primo propagandistico per rinforzare l’influenza nella regione contro i nemici storici Stati Uniti e Israele. Mentre il secondo è quello di distogliere l’attenzione delle popolazioni dai problemi interni (crisi economica) e al contempo di stringere rapporti commerciali non ufficiali, per evitare le sanzioni. 

Ragioni economiche

Le tensioni tra Stati Uniti e Iran non sono esclusivamente di natura politica, anche la parte economica ricopre un ruolo centrale. L’Iran detiene circa il 13,1% delle riserve petrolifere conosciute a livello mondiale, e come la storia insegna, è più probabile entrare a far parte della lista dei “cattivi” per quei paesi che avendo tali risorse decidono di nazionalizzarle (vedi il Venezuela che detiene il 25% di tali riserve) piuttosto che renderle disponibili alle multinazionali dell’energia. Negli anni dello scià Mohammad Reza Pahlavi (che governò il paese dal 1941 al 1979), l’Iran era il principale alleato degli Stati Uniti nella regione e gli affari tra i due paesi erano fiorenti (petrolio in cambio di armi). Proprio in quegli anni, ad esempio, l’Iran inizio a sviluppare la costruzione di centrali nucleari grazie al supporto americano. Tutto venne poi interrotto dalla rivoluzione islamica del 1979, e la presa del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. La rivoluzione islamica porto anche alla nazionalizzazione dei pozzi petroliferi e solo nel 1998, alcune multinazionali del petrolio poterono poi tornare ad operare in Iran, seppur con un ruolo decisamente marginale.

Come se non bastasse, anche la posizione geografica dell’Iran ha comportato numerose tensioni di fondo economico: le minacce di chiudere lo stretto di Hormuz nel Golfo Persico, ad esempio. Da qui, infatti, passa circa il 20% della produzione mondiale di greggio ed è considerato una delle vie di navigazione più strategiche al mondo. 

Conclusioni

Ad oggi le sanzioni economiche, come spesso succede, hanno avuto ripercussioni principalmente sulla popolazione civile. Il declino dell’economia ha causato negli anni numerose ondate di protesta come nel novembre del 2019, quando un incremento del 300% del prezzo della benzina diede il via a manifestazioni di massa su scala nazionale che vennero poi represse brutalmente dal regime. Secondo un report di Amnesty International, almeno 324 persone vennero uccise dalle forze di sicurezza iraniane. Mentre secondo altre fonti (non confermate), i morti sarebbero oltre 1.500.

Poiché le sanzioni hanno fallito e i vari tentativi da parte di qualcuno di “esportare la democrazia” altro non erano che guerre mascherate, sarebbe utile cercare un dialogo con il regime iraniano magari ripartendo proprio dall’accordo sul nucleare, per ottenere concessioni da parte di Teheran anche su diritti umani e libertà individuali. L’Iran è ben lontano dall’essere una democrazia e tante sono state negli anni le violazioni e i crimini commessi dal regime. Ma crimini e violazioni dei diritti umani sono stati commessi da tanti altri paesi nella regione, basti pensare all’Arabia Saudita, paese con cui Stati Uniti e altri nazioni europee (o politici, vedi Renzi) non hanno remore a fare affari, nonostante la consapevolezza che il principe che la governa, Mohammed bin Salman, sia direttamente responsabile dell’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista

[Enrico Phelipon]

Cile, presidenziali: vince candidato di sinistra Boric

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Le elezioni presidenziali cilene si sono concluse con la vittoria del 35enne di sinistra Gabriel Boric sul conservatore Kast, sostenitore delle passate dittature cilene e del presidente brasiliano di estrema destra Bolsonaro. Boric ha vinto cavalcando l’onda della rabbia per il modello economico cileno sempre più improntato al mercato, considerato causa della crescita economica ma anche dell’esacerbarsi delle disuguaglianze sociali. Il suo programma prevede anche politiche di inclusione sociale a sostegno dei gruppi LGBTQ+. Il neoeletto presidente, il più giovane nella storia del Cile, salirà in carica a marzo e dovrà comunque cercare un dialogo con l’opposizione, vista la forte presenza del fronte di destra di Kast in Parlamento e in Senato.

Il grande spettacolo dell’informazione mainstream

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I mezzi di comunicazione di massa, specie quelli tipici della mondializzazione e della globalizzazione, televisione e internet, hanno assunto un ruolo di potere in una società basata sulle immagini. Giovanni Sartori ha spiegato quale sia la profonda trasformazione che i mezzi di comunicazione visivi andavano apportando all’Uomo e alla società. L’Homo videns, cresciuto e formato dalla televisione, si limita a guardare e perde la capacità di astrazione tipica di una società basata sulla parola, come prima dell’avvento degli schermi. Anche la politica si adegua allo schermo e alla sua forma, cambiando la propria sostanza. Una società di massa basata sulle immagini non può che portare ad un vuoto, passivo ed eterno vedere, guardare, niente più. Secondo Sartori il risultato è la regressione cognitiva e antropologica dell’essere umano.

La società dello spettacolo

«Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Questa è la prima tesi del celebre libro La società dello spettacolo scritto nel 1967 dal filosofo francese Guy Debord. La critica del filosofo francese era rivolta alla moderna società industriale capitalista e ai suoi metodi di produzione ma non mancavano critiche ai modelli socialisti/comunisti, anzi. Il blocco Occidentale era definito da Debord come “spettacolare diffuso” mentre quello Orientale come “spettacolare concentrato” in virtù di ciò che egli definiva “divisione mondiale dei compiti spettacolari” della società umana moderna. Il dominio di tali società su regioni sottosviluppate del mondo non è avvenuto solamente grazie all’egemonia economica in capo a loro ma anche per mezzo delle proprie immagini, arrivate ben prima che potessero essere poste le basi materiali del dominio stesso; la superficie sociale di tali regioni era già stata invasa dallo spettacolare della società portatrice dello spettacolo: «Essa definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costituzione. Nello stesso modo in cui presenta gli pseudo-beni a cui aspirare, offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione. Lo spettacolo proprio del potere burocratico che controlla alcuni paesi industriali fa precisamente parte dello spettacolo totale [..] Se lo spettacolo, visto nelle sue diverse determinazioni locali, mostra indubbiamente delle specializzazioni totalitarie della parola e dell’amministrazione sociali, queste vanno poi a fondersi, al livello del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale dei compiti spettacolari».

Infatti, secondo il filosofo, la divisione nei due blocchi ai tempi della guerra fredda celava un’unità: «lo spettacolo, come la società, è nello stesso tempo unito e diviso. Come questa, esso edifica la sua unità sulla lacerazione. Ma la contraddizione, quando emerge nello spettacolo, è a sua volta contraddetta per un rovesciamento completo del suo senso; di modo che la divisione mostrata è unitaria, mentre l’unità mostrata è divisa». Per tale motivo, nella rappresentazione della separazione la società moderna poneva le proprie basi su una solida base comune: «La lotta di poteri che si sono costituiti per la gestione dello stesso sistema socio-economico che si presenta come la contraddizione ufficiale, mentre appartiene di fatto all’unità reale; e ciò su scala mondiale come all’interno di ogni singola nazione». Per tale motivo, nel 1988, all’alba della dissoluzione dell’Unione Sovietica, nei Commentari alla società dello spettacolo, Debord spiega il superamento della vecchia “divisione mondiale dei compiti spettacolari” in favore di una loro fusione nella forma comune dello “spettacolare integrato” con cui il mondo viene unificato.

Atomizzare la società

Seguendo il ragionamento di Debord se ne deduce che la moderna società dello “spettacolare integrato”, che appare come unitaria, è una realtà lacerata e separata. Di fatti, nel corso degli ultimi trent’anni la società moderna è andata man mano atomizzando gli individui disfacendo i rapporti e i legami sociali tra i medesimi dimostrando quella divisione reale prodotta dallo spettacolo che mostra invece la propria unità. Così, lo spettacolo della moderna società “integrata” che mette in scena il “confortevole” e “pacifico” pensiero unico e unificato, sottende la spaccatura violenta del sociale.

Lo spettacolo «è il cuore dell’irrealismo della società reale» e se «compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente». Che si tratti di informazione, propaganda, pubblicità o consumo di distrazioni, lo spettacolo «è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente. Forma e contenuto dello spettacolo sono entrambe l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna». In sostanza, lo spettacolo è «una visione del mondo che si è oggettivata» poiché esso «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini».

Informazione o intrattenimento?

Lo spettacolo è divenuto immanente nella società degli schermi e delle immagini e del continuo e incessante flusso di informazioni. La televisione ha acquisito la funzione di oggetto religioso che pronuncia, senza mai interrompersi, il verbo dello spettacolo; essa è sacerdotessa del modello economico-politico-sociale dominante ripetendone i mantra e contribuendo alla (ri)produzione della realtà stessa.

Lo spettacolo del sociale deve intrattenere quotidianamente e l’informazione diviene spettacolare, non solo per il suo modo enfatico di essere presentata bensì per l’assoggettamento alle regole della produzione irreale della realtà sociale. Così abbiamo i vari programmi tv che sono “format”, ovvero “idea base” o “formula”, con cui si stabilisce la struttura portante che può essere utilizzata altrove tale e quale oppure dopo opportuni adattamenti in base al contesto dello spettacolo locale. Ma ovunque il format sia portato, forma e contenuto coincidono con le necessità e i fini della società dominante.

Barbara D’Urso è una regola

In un’intervista del 2009 condotta da Vittorio Zincone, Barbara D’Urso – nota conduttrice televisiva Mediaset – ebbe a dire: «La miscela alto-basso non l’ho inventata io. E comunque sono molto attenta a tener distinti i momenti di approfondimento da quelli di cazzeggio». La conduttrice ha anche affermato: «Mi prendo in giro. Scherzo. Poi vengono anche momenti importanti, soprattutto la mattina, quando parlo dei problemi dei cittadini». La D’Urso ha proseguito dicendo: «Mi sto occupando parecchio di violenza sulle donne e di anoressia. Molte ragazze mi scrivono per ringraziarmi». Nella medesima intervista, Barbara D’Urso dice di essere stata radiata dall’Ordine dei giornalisti perché faceva “spot”. Quanti sono gli articoli della Costituzione italiana lo ignora come pure quali siano i confini dell’Iraq; d’altronde, spiegando il motivo del suo rifiuto ad una candidatura politica, nel 2004, con Forza Italia di Silvio Berlusconi, la conduttrice dice: «Io conduco, recito, canto». Eppure nelle trasmissioni della D’Urso, oltre che dei reality show e di “storie d’amore” di personaggi (pseudo)famosi, si parla di temi sociali importanti e di politica e, adesso, pure di virologia; il tutto secondo le regole dello spettacolo: stacchetti, intermezzi e qualsiasi altra tecnica utilizzata nella produzione dell’irreale col solo fine di intrattenere e concentrare il pubblico sulla costruzione costante e senza fine del modello sociale dominante. Ogni elemento della narrazione è pronto ad essere sconvolto poiché niente deve consolidarsi al fine di proseguire potenzialmente all’infinito la sceneggiatura che diviene insieme al reale: tutto scorre sul piano liscio del pensiero unico dominante senza che vi sia possibilità di fermare e approfondire il discorso, in un caleidoscopio di informazioni spettacolari che non spiegano niente ma che intrattengono e producono la realtà sociale. Con le reti sociali digitali, che moltiplicano la potenza dello spettacolo, giornalisti, opinionisti, influencer, accrescono il flusso continuo della produzione sociale tramite l’irreale spettacolare delle “storie” e dei “cinguetii” che, come la TV, altro non sono che la mediazione di un rapporto sociale tra individui nella società atomizzata moderna.

La pandemia, “la guerra contro il virus”, è divenuta oggetto di consumo di massa, una merce, un feticcio, che i mass media hanno al contempo lanciato e cavalcato in una spasmodica ripetizione giornaliera di spettacoli macabri e horror con conta dei morti e sfilate di camion dell’esercito, thriller con caccia all’untore (prima il runner, poi quello con il cane, poi i giovani etc.) e poi tanta drammaticità in stile documentario pedagogico di stampo paternalista; ovviamente, per taluni, non è potuta mancare tanta pubblicità.

Infodemia

Con la “crisi pandemica” – crisi economica, democratica e sociale – lo spettacolo si è fatto totalizzante del sociale con i mass media che hanno generato e veicolato una cascata di informazioni cui il pubblico, l’opinione pubblica, è stato sottoposto costantemente. La parola infodemia è apparsa per la prima volta nel 2003 quando David Rothkopf pubblicò un controverso scritto, When the Buzz Bites Back, in cui spiegava che «è un fenomeno complesso causato dall’interazione di media mainstream, media specializzati e siti internet e media “informali”, vale a dire telefoni wireless, messaggi di testo, cercapersone, fax ed e-mail, che tutti assieme trasmettono una combinazione di fatti, voci, interpretazione e propaganda». Secondo l’autore la diffusione del virus SARS (SARS-Cov1) nel 2002 palesò in maniera chiara per la prima volta questo fenomeno che è «in grado di transitare istantaneamente tra continenti». Rothkopf spiega che l’infodemia è in grado di innescare il panico globale, scatenando comportamenti irrazionali e offuscando la capacità di vedere i problemi sottostanti: questo pone sotto costante pericolo le strutture sociali, politiche ed economiche. «La SARS è la storia non di un’epidemia ma di due, e la seconda epidemia, quella che è in gran parte sfuggita ai titoli dei giornali, ha implicazioni che sono molto più grandi della malattia stessa. Questo perché non è l’epidemia virale, ma piuttosto una “epidemia di informazione” che ha trasformato la SARS, o sindrome respiratoria acuta grave, da una pasticciata crisi sanitaria regionale cinese in una debacle economica e sociale globale», è quanto scriveva Rothkopf nel 2003. Egli paragonava l’infodemia ad un ronzio sempre presente nella società odierna, che varia nel tono e nell’intensità, il quale sarebbe di utilità se costantemente monitorato col fine di renderlo un “alert” su questioni sanitarie, sociali ed economiche. Otto anni più tardi ci siamo ritrovati nell’infodemia legata al SARS-Cov2 che ha totalizzato la produzione del sociale su scala mondiale con conseguenze di enorme portata a livello sociale, politico ed economico. Del resto, come non poteva essere così quando lo “spettacolare integrato” del mondo globalizzato ha deciso che fosse ora della guerra? Nel momento in cui, forse subito, si è veicolato il messaggio dell’entrata in guerra della società la questione si è fatta chiaramente politica squalificandone il senso sanitario. E proprio come in guerra, mezzi di comunicazione di massa e reti sociali sono stati utilizzati per identificare i nemici della società, quindi dello spettacolo stesso.

[di Michele Manfrin]

Hong Kong, elezioni: affluenza al 29% alla chiusura dei seggi

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E’ rimasta bassa l’affluenza alle urne per le (s)elezioni del Consiglio legislativo di Hong Kong, dove mezz’ora prima della chiusura dei seggi, aveva espresso il proprio parere solo il 29,3% degli aventi diritto. Le votazioni sono iniziate oggi e per la prima volta, l’ex colonia britannica ha votato in un modo diverso da quelli precedenti: soltanto i 153 candidati che hanno dato prova di essere dei “veri patrioti” si sono potuti presentare.

È la prima consultazione dopo la nuova legge elettorale approvata da Pechino a marzo. Il Comitato elettorale, ampliato da 1200 a 1500 membri e sempre più fedele a Pechino, ha nominato 40 deputati. Altri 30 spettano a figure vicine al governo centrale cinese e soltanto 20 sono ad elezione diretta.

Nei giorni scorsi, la governatrice Carrie Lam aveva già messo le mani avanti: “Se pochi andranno alle urne sarà un segno che sono soddisfatti dello status quo”. Ora tuttavia, incitare a non andare a votare è illegale. 

Le Big Pharma non vogliono vaccinare i migranti per timore delle spese legali

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Le aziende farmaceutiche distributrici dei vaccini anti-Covid hanno espresso preoccupazione riguardo la distribuzione delle dosi a migranti provenienti da Paesi con i quali non vi siano accordi sugli indennizzi in caso di effetti collaterali. Tutti i Paesi con i quali le bigpharma hanno stipulato contratti per la fornitura di vaccini prevedono clausole che sollevano l’azienda produttrice da ogni causa legale da parte di vittime di eventuali eventi avversi, e le multinazionali temono che vaccinando persone che hanno la cittadinanza di stati con i quali non vi è un accordo legale, queste potrebbero avere ragioni legali a rivalersi verso le aziende stesse. Un rischio che Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson e Astrazeneca non intendono correre in nessun modo, stando a quanto rivelato un’inchiesta pubblicata dall’agenzia Reuters, che ha analizzato i documenti interni di Gavi, ente di cooperazione mondiale che si occupa della distribuzione dei vaccini nei Paesi svantaggiati. Per questa ragione, milioni di profughi all’interno dei centri di accoglienza in tutto il mondo resterebbero esclusi dal programma vaccinale.

Che le aziende farmaceutiche tendessero a fare tutto il possibile per salvaguardarsi finanziariamente e legalmente era già stato reso evidente con la pubblicazione di alcuni dei contratti stipulati con i singoli Stati. In fondo la sanità per esse è innanzitutto un business e la prima regola è sempre la stessa che vale in ogni settore del capitalismo: minimizzare i rischi, massimizzare i profitti. Nemmeno il Covax, il programma internazionale che mira a garantire un equo diritto all’immunizzazione nei Paesi svantaggiati, è esente da tali misure.

Le grandi aziende farmaceutiche richiedono infatti il pagamento di un indennizzo da parte dei governi con i quali vengono stipulati i contratti per i vaccini, con il fine di poter disporre di una copertura finanziaria in caso di azioni legali per gli effetti avversi. Quando questo non sia possibile, come nel caso di Paesi con governi instabili – specifica l’inchiesta della Reuters – a meno che le ONG non siano disposte a pagare per intero le eventuali spese legali, i vaccini potrebbero non essere resi disponibili.

In questo modo, milioni di profughi stipati in strutture di accoglienza in tutto il mondo molto probabilmente non avranno accesso al vaccino. D’altro canto, proprio per questi timori legali, sono meno di due milioni le dosi di vaccino consegnate sino ad ora al programma Covax. Questo dovrebbe costituire una sorta di “cuscinetto umanitario” al quale, in caso le ONG non possano supportare le spese legali, si può attingere solo se i distributori di vaccini accettano le responsabilità legali. Stando ai documenti forniti da Gavi, le aziende che hanno deciso di sostenere tale rischio forniscono meno di un terzo della dose totale dei vaccini al programma. I due terzi provengono da Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca, le quali hanno rifiutato di rilasciare commenti.

La riluttanza delle Big Pharma di assumersi i rischi legali costituisce un grosso ostacolo per l’approvvigionamento di dosi da parte di Covax e quindi un’equa distribuzione di vaccini nel mondo. La IFPMA, la Federazione internazionale dei produttori e delle associazioni farmaceutiche, ha cercato di aggirare la polemica affermando che nessuna azienda farmaceutica si è rifiutata di “prendere in considerazione il rischio legale”, ma che non fosse possibile farlo, nel caso dei vaccini assegnati a Covax, senza una previa conoscenza di come e dove i vaccini sarebbero stati usati. Operazione assai difficile da portare a termine se si parla della distribuzione di vaccini nei campi profughi. In una dichiarazione rilasciata a Reuters, l’IFPMA afferma che un aumento delle cause legali potrebbe condurre al rischio che “la sicurezza e l’efficacia del vaccino siano pubblicamente messe in discussione“. Una questione di soldi e di immagine quindi, prima che di contenimento dell’emergenza sanitaria.

[di Valeria Casolaro]

 

L’India ha testato un nuovo missile balistico nucleare

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L’India ha testato, sulla sua costa orientale, il missile nucleare di nuova generazione “Agni Prime”. Il missile è equipaggiato con una serie di nuove tecnologie, tra cui un sistema di propulsione avanzato, in grado di colpire obiettivi fino a 2mila chilometri di distanza. Per questo motivo sarà destinato a far pendere la bilancia del potere a favore dell’India nella regione dell’Indo-Pacifico, contesa con la Cina.

Il successo del test di sabato, è dovuto all’Organizzazione per la Ricerca e lo Sviluppo della Difesa (DRDO), il principale ente indiano di ricerca sulle armi. Si tratta del secondo test di volo di Agni Prime. Il primo fu condotto il 28 giugno e ci si aspetta che venga presto introdotto nelle forze strategiche dell’India.