La Procura di Termini Imerese ha disposto perquisizioni della polizia in tutta Italia a seguito della scoperta dell’esistenza di un’organizzazione che vendeva green pass falsi tramite diversi canali Telegram. Sono 25 gli indagati in 15 diverse province italiane, tra i quali anche diversi minori i cui genitori avevano procurato la certificazione falsa. Il rilascio del green pass, che certificava la somministrazione anche della dose booster, avveniva previa consegna della copia della tessera sanitaria e il pagamento di 300 euro, solitamente in criptovalute.
“I danni si stanno intensificando”: nuovo rapporto sul cambiamento climatico
Secondo quanto riportato nel Sesto rapporto dell’IPCC, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite specializzato nello studio del cambiamento climatico, gli anni che verranno saranno segnati dall’aumento delle temperature. Queste, in base alla loro portata, determineranno danni ambientali più o meno profondi. Nello specifico, nel report si legge che con un +1,2°C (aumento che potrebbe verificarsi nel raggio di pochi anni), gli alberi comincerebbero a morire molto più rapidamente, così come la barriera corallina. I ghiacciai potrebbero letteralmente scomparire a causa di ondate di caldo improvvise. A questo, ovviamente, seguirebbero i rischi derivanti dall’innalzamento del livello del mare che potrebbero moltiplicarsi rapidamente (fino a 10 volte) prima del 2100. Se le cose dovessero andare peggio di così, e il pianeta dovesse essere sottoposto ad un aumento delle temperature di 4°C entro il 2100 gli incendi aumenterebbero del 30%.
Ad oggi già più di 3 miliardi di persone vivono in contesti fragili e soggetti a rapidi mutamenti e “gli attuali modelli di sviluppo insostenibili aumentano l’esposizione degli ecosistemi e delle persone ai rischi climatici”.
Nello specifico, qual è lo scenario previsto per l’Europa? In merito al nostro continente, il rapporto elenca quattro categorie di rischio. La prima si identifica con le ondate di calore dovute ad un innalzamento della temperatura di 3 gradi, che porterebbe ad un raddoppio (o forse più) di persone a rischio stress (oltre che a molti più decessi). La seconda categoria prevede grosse perdite per il settore agricolo, mentre la terza preannuncia scarsità di risorse idriche, soprattutto nella parte meridionale dell’Europa. L’ultima categoria di rischio prevede un’inevitabile maggiore frequenza e intensità delle inondazioni. In generale, sommando tutti questi fattori e stimando appunto un aumento attorno ai 3 gradi, 170 milioni di persone vivrebbero in estrema siccità. Se riuscissimo a contenere l’innalzamento attorno agli 1,5°C, le persone che subirebbero maggiormente la mancanza d’acqua in Europa sarebbero circa 120 milioni.
Un appunto particolare merita la regione mediterranea, che secondo l’IPCC continuerà a riscaldarsi un po’ più velocemente della media, comportando un rapido innalzamento del mare. I dati ci dicono che il livello del Mediterraneo è aumentato di 1,4mm l’anno durante il XX secolo, cifra che potrebbe sfiorare il metro attorno al 2100. Soprattutto se le emissioni continuano a viaggiare ai ritmi di oggi.
I rischi non riguardano solo il pianeta. Le città sono molto vulnerabili, in particolare quelle costiere. Molte zone sono state urbanizzate anche infrangendo divieti e nel totale disinteresse della salvaguardia ambientale. Mancano soprattutto dei piani urbani che siano sensibili al tema e che tengano conto del rischio climatico. Eppure, per citare un solo esempio, nei prossimi 100 anni il rischio di inondazione aumenterà del 20%. E riguarderà tutti.
[di Gloria Ferrari]
La Brexit e l’apocalisse economica che non c’è stata
Ci era stato detto che la Brexit avrebbe causato un’apocalisse economica – che avrebbe fatto sprofondare il Regno Unito in una profonda recessione, fatto crollare le esportazioni, fatto esplodere la disoccupazione e ridotto i salari, e che in generale avrebbe comportato un calo strutturale negli standard di vita della popolazione. Alcuni pronosticavano addirittura carenze di cibo e medicinali, carestie, rivolte e colpi di Stato. Insomma, la Gran Bretagna, secondo la quasi totalità dei commentatori nostrani, era destinata a diventare uno Stato fallito degno delle peggiori distopie: un paria internazionale, tagliato fuori dal mondo civilizzato.
A un anno di distanza dal recesso formale della Gran Bretagna dall’UE, avvenuto il 31 gennaio 2020, nessuna di queste profezie si è materializzata. Non solo la Brexit non ha prodotto un disastro economico, ma anzi si è rivelata per molti versi un successo. Iniziamo con il parametro più ovvio – la crescita del PIL. Per il 2021 nel suo complesso, la crescita del PIL del Regno Unito è stata del 7,5%. Questo è il ritmo più forte di crescita dalla seconda guerra mondiale e il più alto del G7 – rispetto a una crescita del PIL sia nell’eurozona che nell’UE del 5%. Sia l’FMI che l’OCSE prevedono che nel 2022 il Regno Unito registrerà la crescita del PIL più veloce tra i paesi del G7.
Certo, tale ritmo di crescita rappresenta in parte un rimbalzo dalla recessione particolarmente profonda registrata nel 2020. Ma ciò non basta a spiegare la ripresa. A novembre, l’economia del Regno Unito ha superato per la prima volta i livelli pre-pandemia – una ripresa in linea con il Canada, più veloce dell’Italia e della Germania, ma più lenta del Giappone e degli Stati Uniti. In altre parole, il Regno Unito si è ripreso dal peggior shock economico della storia moderna alla pari delle altre economie avanzate e più rapidamente delle sue controparti europee. Questo è in gran parte il risultato del massiccio stimolo monetario e fiscale implementato dal governo del Regno Unito in risposta alla pandemia – pari all’incirca al 20% del PIL, uno dei più grandi pacchetti di sostegno economico al mondo.
Su quest’ultimo punto, vale la pena menzionare un’altra delle previsioni più comuni sulla Brexit – quella secondo cui essa avrebbe causato un collasso nel valore della sterlina. Bene, oggi la sterlina, dopo una serie di alti e bassi, registra il valore più alto rispetto alle altre valute di riferimento (euro, dollaro ecc.) dai tempi del referendum del 2016. Attualmente 1 sterline vale 1,35 dollari e 1,2 euro. Alla faccia del crollo. E questo nonostante il massiccio stimolo monetario e fiscale degli ultimi due anni – qualcosa che in sé, secondo l’ortodossia economica, avrebbe dovuto far crollare il valore della sterlina. Sì, l’inflazione sta lentamente aumentando, come dappertutto, ma questo è dovuto a fattori esogeni, a partire dall’aumento del prezzo dell’energia e dei problemi nelle catene di approvvigionamento globali.
Che dire della previsione secondo cui la Brexit avrebbe causato una massiccia disoccupazione, bassi salari e peggiori condizioni per i lavoratori? Bene, la disoccupazione del Regno Unito oggi è al 4% – significativamente inferiore a quella registrata ai tempi del referendum e vicino ai minimi storici degli anni Settanta. In breve, l’economia del Regno Unito è vicina alla piena occupazione. In effetti, il rapporto tra i disoccupati e posti vacanti ora è oggi al livello record di 1:1 – il che significa che, in teoria, c’è un posto di lavoro disponibile per quasi tutte le persone senza lavoro. Nel frattempo, la disoccupazione nella zona euro e dell’UE è rispettivamente del 7% e del 6,4% – con picchi del 10% o più in paesi come Italia, Spagna e Grecia. Anche la crescita nominale dei salari nel Regno Unito è al livello più alto degli ultimi 15 anni – sebbene tale crescita non sia sufficiente per stare al passo con l’inflazione.
Questa stretta del mercato del lavoro – che è chiaramente una grande notizia per i lavoratori del Regno Unito, in quanto rafforza il loro potere contrattuale – è il risultato di diversi fattori, compresa una riduzione dell’afflusso di lavoratori non qualificati dall’UE, per effetto della Brexit (mi rendo conto che non è politicamente corretto da dire, ma sì, l’offerta di manodopera influenza i salari).
Infine, ci era stato detto che la Brexit avrebbe distrutto il commercio britannico e tagliato il Paese fuori dal resto del mondo. In realtà, sia le esportazioni che le importazioni hanno continuato a crescere costantemente dopo il referendum. Entrambi hanno registrato un profondo crollo nel 2020 a causa della pandemia (come in tutti i paesi), ma ora stanno crescendo di nuovo – dell’8,4 e del 4,9% rispettivamente nel 2021. La vera notizia è che, per la prima volta dal 1997, le importazioni da paesi non-UE hanno superato quelle dai paesi della UE, il che rappresenta un problema per quest’ultima più che per il Regno Unito.
Nel frattempo, la quota di commercio con l’UE è diminuita leggermente dal referendum, ma questo ha più a che fare con una tendenza a lungo termine piuttosto che con la Brexit: la percentuale delle esportazioni totali britanniche destinate all’UE, infatti, è progressivamente diminuita negli ultimi 15-20 anni, con i mercati di sbocco extra-UE che sono cresciuti molto più velocemente di quelli intra-UE. Ad ogni modo, una cosa è certa: la Brexit non ha fatto sprofondare il Regno Unito nell’autarchia.
Qual è la morale di questa storia? Che la fortuna economica di un paese dipende in gran parte dalle sue politiche interne, non dal fatto di appartenere o meno ad aree di libero scambio o ad organizzazioni sovranazionali come l’UE. Un ovvio corollario di ciò è che più margine di manovra un paese ha, in termini politici ed economici, maggiori saranno le sue possibilità di successo. Questo è il motivo per cui organizzazioni come l’UE (per non parlare della zona euro), che limitano l’autonomia politica ed economica degli Stati membri, rappresentano un problema per le economie dei paesi che ne fanno parte. Secondo ogni parametro, il Regno Unito ha preso una decisione che si sta rivelando fruttuosa nell’abbandonare questa UE fatta di parametri, obblighi di bilancio e di concorrenza forzata tra lavoratori dei paesi membri.
[di Thomas Fazi]
Terminati negoziati Ucraina-Russia, previsto nuovo incontro
I negoziati tra le delegazioni di Mosca e Kiev sulla situazione in Ucraina, svoltisi a Gomel, in Bielorussia, si sarebbero da poco conclusi, ma le parti avrebbero deciso di tenere un nuovo incontro nei prossimi giorni. A riportarlo è l’agenzia di stampa russa Ria Novosti, la quale fa sapere che secondo Vladimir Medinsky, membro della delegazione russa, sarebbero stati “trovati punti attraverso i quali è possibile prevedere posizioni comuni”.
Gas, che cosa significa lo stato di preallarme proclamato dal governo italiano?
Domenica 27 febbraio il Ministero della transizione ecologica (MiTe) ha dichiarato lo stato di preallarme relativo alla crisi energetica che potrebbe mettere a rischio le riserve e le forniture di gas naturale per l’Italia. Si attiva così il primo step di una procedura basata su tre livelli che, potenzialmente, potrebbe portare a una situazione di allarme prima e di emergenza poi. Questi ultimi due scenari sembrano oggi lontani, così come confermato dal MiTe nella stessa nota: “La situazione delle forniture è al momento adeguata a coprire la domanda interna”, nonostante i diversi mesi di crisi energetica vissuti dal Paese e l’instabile equilibrio geopolitico all’orizzonte.
Facciamo chiarezza: dichiarare uno stato di preallarme non ha alcun effetto sulla quotidianità dei cittadini in termini di energia, semplicemente li rende “sensibili e consapevoli” circa una situazione che, potenzialmente, potrebbe trasformarsi in qualcosa di più serio. Diverse volte nella storia repubblicana si è fatto ricorso a questa misura, come nel 2018 in risposta a un inverno particolarmente rigido. In sintesi, il primo livello prevede soltanto un monitoraggio più attento della situazione da parte delle autorità competenti, nel caso in cui ci fosse un evento (minaccia) che potrebbe deteriorare significativamente la situazione dell’approvvigionamento energetico. Se dal periodo ipotetico ci spostassimo a quello della realtà, vorrebbe dire che l’evento si è verificato e che, ad esempio, la fonte da cui dipende lo stoccaggio o è stata ridotta in modo massiccio o addirittura interrotta del tutto. In questo caso lo Stato dichiara sì l’allarme ma può ancora risolvere l’emergenza ricorrendo al mercato. Infine, nell’eventualità in cui tutte le misure legate al mercato siano state applicate senza riuscire a far fronte al problema (domanda interna di energia non coperta), si dichiarerà lo stato di emergenza. A questo punto si potrebbe ricorrere allo stoccaggio strategico, e quindi accedere a quelle riserve stanziate per le emergenze, oppure limitare la fornitura per alcune imprese (interrompibilità).
Presente e futuro dell’import italiano

Il Governo Draghi ha quindi deciso di ricorrere a una misura di cautela e monitoraggio per “predisporre eccezionali misure preventive volte a incentivare un riempimento dello stoccaggio anticipato rispetto alle procedure adottate in condizioni normali”. Attualmente le riserve di gas in Italia non preoccupano, visto che sono al 38,5% della loro capienza (contro una media europea del 29,7%) e ci si avvia verso la fine dell’inverno. Tuttavia l’obiettivo sembrerebbe arrivare a settembre 2022 con le riserve di gas al 90% della loro capienza massima, e per farlo si cercano accordi con Paesi diversi dalla Russia, da cui l’Italia riceve mediamente più del 40% del proprio fabbisogno energetico. Infatti, con l’avanzamento delle ostilità tra Mosca e Kiev, la minaccia di un’interruzione delle forniture russe non è poi così astratta e quindi è necessario pensare a un piano B. Tra le ipotesi più plausibili sembrerebbe esserci quella di puntare sulle forniture provenienti dal Gasdotto Trans-Adriatico (TAP) che collega la frontiera greco-turca all’Italia e che già nel 2021 ha fornito al nostro Paese 6,8 miliardi di metri cubi di gas, su un totale di 8 miliardi destinati all’Europa.

Le strade potenzialmente percorribili per diversificare gli approvvigionamenti energetici non sono pochissime, ma chiaramente necessitano di tempo, di stipulare contratti e di disponibilitàò da parte dei produttori: una di queste porta al Greenstream dalla Libia, e l’altra al TransMed (gasdotto Enrico Mattei) che collega Algeria e Tunisia all’Italia. Per concretizzare quest’ultima ipotesi e “rendere operative forniture addizionali” il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Luigi di Maio è volato a Tunisi con l’ad di Eni Claudio Descalzi. «L’Italia è impegnata ad aumentare le forniture di gas da vari partner internazionali, tra questi c’è l’Algeria che da sempre è un fornitore affidabile», ha detto Di Maio, affermando poi che «l’obiettivo è tutelare le imprese e le famiglie italiane da questa atroce guerra», in riferimento agli scontri che dal 24 febbraio scorso coinvolgono Ucraina e Russia.
E le rinnovabili?
La diversificazione, uno dei fondamenti basilari dell’economia, sembra essere stato preso poco in considerazione dall’Italia che nel 2021 ha consumato 71,34 miliardi di metri cubi di gas, di cui il 37,8% proveniente dalla Russia. Del totale utilizzato, invece, appena 3,2 miliardi di metri cubi derivano dalla produzione nazionale. Il nostro Paese si trova, dunque, a dover pensare a un piano d’emergenza, basato comunque sulle fonti fossili, in linea con quanto dichiarato da Mario Draghi su una possibile riapertura delle centrali a carbone per far fronte alla crisi energetica. Non stupisce, quindi, che l’Italia, braccata dalla burocrazia, risulti il peggior stato membro nell’autorizzare nuove infrastrutture “pulite”, puntando poco sulle uniche alternative sostenibili in ambito energetico. Queste scelte pesano non solo sulle tasche degli italiani, con stime che parlano di decine di miliardi di euro risparmiabili se il nostro Paese raggiungesse gli obiettivi climatici europei, ma soprattutto sulla loro salute.
[Di Salvatore Toscano]
Ucraina, telefonata Putin-Macron: impegno su stop attacchi a civili
Il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha avuto una conversazione telefonica con il presidente russo Vladimir Putin, durante la quale quest’ultimo si sarebbe impegnato a fermare tutti gli attacchi contro i civili ed i loro luoghi di residenza oltre che a preservare le infrastrutture civili ed a non compromettere la sicurezza delle strade principali, in particolare di quella a sud di Kiev. A renderlo noto è stato l’Eliseo tramite una nota, dalla quale si apprende che Putin avrebbe accettato di rimanere in contatto con Macron nei prossimi giorni per “evitare che la situazione peggiori”, così come proposto proprio dal Presidente della Repubblica francese.
Guerra in Ucraina: le cose stanno andando peggio del previsto per Putin?
Le prossime 24 ore saranno cruciali per il destino dell’Ucraina, è quanto dichiarato dal presidente Zelensky. Si stanno infatti svolgendo colloqui diplomatici tra la delegazione russa e quella ucraina a Gomel, Bielorussia. Difficile tuttavia pensare che da questi colloqui possa arrivare una soluzione al conflitto in corso, appare improbabile infatti, che Mosca possa accettare le due principali richieste di Kiev: un immediato cessate il fuoco e il ritiro delle truppe dall’Ucraina.
Entrando nel quinto giorno di combattimenti, la possibilità di una vittoria lampo da parte di Mosca, come inizialmente preventivato da numerosi esperti, appare in contrasto con quella che invece è la realtà sul campo. Ad oggi le truppe russe non sono state in grado di conquistare nessuna delle principali città ucraine, venendo fermate sia nella capitale Kiev che a Kharkiv, nell’Ucraina orientale. Nonostante la netta superiorità russa dal punto di vista miliare, a causa di diversi fattori l’offensiva russa parrebbe giunta ad una fase di stallo.
1) Nonostante i raid aerei, volti a colpire le infrastrutture militari ucraine, con cui Mosca ha dato il via all’invasione, l’esercito russo starebbero incontrando in Ucraina una resistenza molto maggiore di quella inizialmente preventivata. I dati rilasciati dal Ministero della Difesa ucraina indicano infatti perdite molto alte da parte dei russi, che in questi primi 5 giorni ammonterebbero a: 5.300 soldati, 60 tra aerei e elicotteri ed oltre 190 carri armati. Cifre difficilmente confermabili e verosimilmente gonfiate, ma che comunque lasciano l’idea di come l’esercito ucraino sia ancora in grado di combattere e di contrastare l’avanzata russa. Numeri che potrebbero inoltre essere destinati a salire visto che negli ultimi giorni molti paesi europei hanno annunciato di essere pronti a fornire assistenza militare a Kiev. Va inoltre tenuto presente, come dal 2014 ad oggi, l’Ucraina abbia ricevuto ingenti somme e forniture militari sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti per implementare le proprie capacità militari.
2) Non si può nemmeno escludere l’ipotesi che questa momentanea fase di stallo, altro non sia che il risultato di una precisa scelta di Mosca. Ossia quella di evitare di portare combattimenti feroci all’interno delle città al fine di evitare il più possibile le vittime civili. Secondo quanto riportato da Bloomberg, dal Cremlino avrebbero infatti lasciato trapelare come l’offensiva stia andando secondo i piani, che prevedevano un operazione della durata di alcune settimane e non di giorni. Inoltre, se Putin decidesse di aumentare l’intensità delle operazioni militari, ci sarebbero davvero poche speranze per gli ucraini di contrastare una decisa avanzata delle truppe russe. Obiettivo principale di Mosca – almeno secondo quanto dichiarato da Putin nel suo discorso alla nazione – è infatti quello di demilitarizzare l’Ucraina e imporre un cambio di governo, non tanto quello di occupare in pianta stabile tutto il territorio. Bisogna comunque considerare come problemi logistici e una resistenza inaspettata possano aver influito su quelli che erano i piani iniziali.
3) Un altro fattore importante, per valutare la situazione attuale in Ucraina è relativo alle conseguenze che tale invasione sta avendo sulle relazioni internazionali e sull’opinione pubblica mondiale. L’operato dei russi è stato prontamente condannato da tutto il blocco occidentale, apparentemente senza produrre divisioni sulle quali forse da Mosca contavano. Proteste contro la guerra si sono verificate anche in diverse città’ della Russia, risultando in numerosi arresti da parte delle autorità. Unione Europea e Stati Uniti hanno imposto una serie di sanzioni economiche, che seppur inefficaci nel breve periodo a fermare l’offensiva russa, avranno pesanti conseguenze a medio e lungo termine. Conseguenze che andranno ad interessare non solo la popolazione russa ma anche la cerchia di oligarchi legati a Putin. Il fronte interno per il governo russo, non è un pericolo al momento, dato che nessuno in Russia pare in grado di poter anche minimamente mettere in discussione l’autorità del presidente. Nel caso però in cui il conflitto dovesse prolungarsi nel tempo non è da escludere che ciò’ possa avvenire. A livello internazionale invece la situazione appare più complessa, la Russia al momento si trova praticamente isolata, con la sola, importante, eccezione della Cina e di pochi altri paesi. Il supporto da parte di Pechino, appare legato a doppio filo con la questione di Taiwan, che la Cina vorrebbe tornare ad avere sotto la propria autorità. Ed appunto in quest’ottica ritiene legittima l’operazione militare di Mosca. Anche i rapporti commerciali ricoprono un ruolo importante, dato che Mosca sarebbe in grado di garantire le forniture energetiche necessarie al gigante asiatico per funzionare e produrre. A lungo termine però la necessità di Pechino di poter contare sui mercati europei per le proprie merci potrebbe incrinare i rapporti con Mosca.
4) I costi umani dell’invasione. Stando a quanto riferito da Kiev, per ora sarebbero 352 i morti tra la popolazione. E oltre 150.000 sarebbero gli sfollati. Innalzare ulteriormente il livello del conflitto avrebbe costi altissimi a livello umano, sia per la popolazione civile in Ucraina che per l’esercito russo. Ogni giorno che passa in cui la capitale o le principali città restano sotto il controllo del governo di Kiev, rappresenta una vittoria per gli ucraini. Allo stesso modo ogni caduto russo rappresenta un colpo per il morale di questo esercito di “liberazione”. Tra le cause della caduta dell’Unione Sovietica viene spesso identificato il fallimento dell’armata rossa in Afghanistan. Guerra dai costi altissimi che durò 10 anni (dal 1979 al 1989) e che costò la vita a quasi 30.000 russi. Nemmeno la Russia di Putin può permettersi di impantanarsi in conflitto di durata, anche perché nel frattempo il fronte a lui nemico, ovvero Ue e Usa, si sta compattando e sta portando avanti piani finanziari e bellici per fiaccarne l’offensiva.
Difficile prevedere cosa succederà nei prossimi giorni, dato che il livello dei toni è al momento altissimo, e abbiamo sentito parlare anche di armi nucleari. Sia chiaro che la situazione in Ucraina è precipitata negli anni per colpe di tutti i protagonisti; da una parte Stati Uniti, NATO, Unione Europea e Ucraina dall’altra la Russia. Lo avevamo sottolineato in tempi non sospetti attraverso un articolo dal titolo “La Russia ha diverse buone ragioni per sentirsi accerchiata dalla NATO“. Le colpe le pagheranno, come sempre accade in caso di guerra, i civili a meno che non si riesca a trovare una soluzione diplomatica. Magari proprio nelle prossime 24 ore.
[di Enrico Phelipon]
Pnrr: ok preliminare Ue a prima rata da 21 miliardi all’Italia
Nella giornata di oggi è arrivato l’ok preliminare della Commissione europea alla prima rata di finanziamenti per l’Italia, da 21 miliardi di euro, del Recovery fund: Bruxelles, infatti, ha approvato una “valutazione preliminare positiva” della richiesta fatta dal nostro Paese a fine dicembre, riconoscendo il raggiungimento delle 51 tappe e obiettivi previsti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per il 2021. Adesso, per far sì che l’esborso avvenga c’è bisogno dell’ok da parte del Comitato economico finanziario (Cef), in seguito al quale la Commissione adotterà la decisione finale sull’erogazione del contributo finanziario.
Nasce il primo parco eolico marino d’Italia e dell’intero Mediterraneo
Nasce a Taranto il primo parco eolico marino d’Italia e dell’intero Mediterraneo. Il progetto, la cui installazione avverrà a 100 metri dalla costa e a 7 chilometri dalla città di Taranto, è nelle mani della società Renexia e si chiama Beleolico. Questo sarà formato da 10 aerogeneratori (turbine) per una capacità complessiva di 30 Mw, e sarà in grado di assicurare una produzione di oltre 58 mila MWh, quantità equivalente al fabbisogno annuo di 60mila persone residenti nella città. Ciò significa che, nell’arco di 25 anni di vita previsto per l’impianto, avverrà un risparmio di circa 730mila tonnellate di CO2.
Il parco ha iniziato a prendere definitivamente vita lo scorso settembre, con l’arrivo della nave cantiere e il posizionamento delle componenti del primo aerogeneratore, chiamato G07. Dopo l’infissione parziale nei fondali delle fondazioni monopalo di acciaio – lunghe 50 metri, spesse 4,5 metri e pesanti 400 tonnellate – sono state impiantate le torri, suddivise in quattro segmenti. Queste, alte circa 110 metri, serviranno a convogliare l’energia prodotta direttamente alla rete nazionale, attraverso un cavo sottomarino lungo due chilometri. Successivamente è stato il turno della prima turbina e infine, con il supporto di un sistema di gru, delle tre pale che gireranno spinte dal vento. Si stima che il parco, una volta terminato, sarà in grado di produrre 55.600 megawatt/anno, e renderà il porto di Taranto autosufficiente nella produzione energetica.
La presentazione del progetto di costruzione di Beleolico risale al 2008. All’epoca, però, la società si è trovata costretta ad aspettare quattro anni per l’ottenimento del via libera da parte del ministero dell’Ambiente, al fine di bypassare il parere contrariato della Regione Puglia e della Soprintendenza dei beni paesaggistici. I farraginosi processi burocratici si sono moltiplicati, anche a causa dell’avversione del Comune di Taranto, il quale ha presentato ricorso al TAR di Lecce per “illegittimità del provvedimento”. Ricorso bocciato dal Tribunale pugliese e dal Consiglio di Stato nel 2015. In più, alcune associazioni ecologiste si sono dichiarate contrarie all’impianto eolico, affermando la mancata valutazione dell’impatto sul territorio, specialmente per quanto concerne delfini e uccelli abitanti dell’area. Il tutto è andato avanti fino a oggi, anche a causa della pandemia, e Beleolico segna un passo significativo del Belpaese verso gli obiettivi del Piano nazionale energetico (Pniec) e del Piano per la transizione ecologica al 2030, su rinnovabili, efficienza energetica ed emissioni di gas serra.
[di Eugenia Greco]
Russia: la Farnesina raccomanda di lasciare il Paese
Questa mattina la Farnesina ha fortemente raccomandato “ai connazionali presenti in Russia a titolo temporaneo (turisti, studenti, persone in viaggio d’affari e simili) di organizzarsi tempestivamente per rientrare in Italia”, ricordando che restano “attivi voli con scalo a Istanbul, Doha, Abu Dhabi e Dubai”. La raccomandazione, consultabile sul sito Viaggiare sicuri del Ministero degli Esteri, fa riferimento alla chiusura dello spazio aereo italiano ed europeo ai voli provenienti dalla Russia disposta da domenica 27 febbraio.








