Secondo un’indagine del SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma), la spesa militare globale ha raggiunto nel 2021 il suo massimo storico, stabilizzandosi a quota 2.113 miliardi di dollari. Si tratta di una soglia superata per la prima volta dal 1949, anno in cui l’istituto ha iniziato a monitorare i dati della spesa militare globale. Ciò significa che nemmeno la pandemia da Covid-19, che ha avuto pesanti contraccolpi sulle economie di tutto il globo, ha arrestato l’aumento delle spese militari, la cui crescita è stata costante per il settimo anno di fila. I cinque paesi con gli investimenti più alti sono Stati Uniti, Cina, India, Regno Unito e Russia, che rappresentano complessivamente il 62% della spesa totale.
Spesa militare mondiale, SIPRI
Rispetto al 2020, la spesa militare in termini nominali è cresciuta nel 2021 del 6,1%. Tale incremento è stato “bruciato” dall’inflazione, che lo ha fatto attestare allo 0,7% (in termini reali, cioè rapportando l’investimento al livello generale dei prezzi). I finanziamenti statunitensi per la ricerca e lo sviluppo militare (R&S) sono aumentati del 24% tra il 2012 e il 2021, mentre i finanziamenti per l’approvvigionamento di armi sono diminuiti del 6,4% nello stesso periodo. L’anno scorso, gli Stati Uniti hanno investito 801 miliardi di dollari nel settore della Difesa, circa il 3,5% del proprio PIL di 23.000 miliardi. «L’aumento della spesa in R&S nel decennio scorso suggerisce una maggior concentrazione da parte degli Stati Uniti sulle tecnologie di nuova generazione», ha affermato Alexandra Marksteiner, ricercatrice del programma SIPRI per la spesa militare e la produzione di armi. «Il governo degli Stati Uniti ha più volte sottolineatol’obiettivo di preservare il vantaggio tecnologico del proprio esercito rispetto agli altri attori geopolitici», ha infine aggiunto. Alle spalle degli USA si posiziona la Cina che nel 2021 ha investito circa 293 miliardi di dollari (+4,7% rispetto al 2020) nel settore militare, confermando una crescita che va avanti da 27 anni consecutivi. Dopo un calo registrato tra il 2016 e il 2019 a causa dei bassi prezzi dell’energia e delle sanzioni in risposta all’annessione della Crimea, anche la Russia ha destinato più fondi al settore della Difesa, raggiungendo quota 65,9 miliardi di dollari nel 2021, ovvero il 4,1% del PIL che nello stesso anno si è stabilizzato sui 1.600 miliardi (14 volte inferiore di quello statunitense).
Secondo gli autori del rapporto, la guerra in Ucraina intensificherà l’aumento delle spese militari, alimentando la tendenza di crescita costante degli ultimi sette anni. D’altronde, segnali in questo senso sono arrivati da diversi paesi già nelle scorse settimane, quando è stata annunciata la volontà di allinearsi all’obiettivo NATO, prevedendo di investire nei prossimi anni (almeno) il 2% del PIL nazionale nel settore. Tra questi, figura anche l’Italia che, di fronte a una possibile crisi di governo, ha posticipato il raggiungimento dell’obiettivo dal 2024 al 2028.
Il governo britannico considera interamente legittimo l’uso da parte ucraina di armi fornite dal Regno Unito «per prendere di mira obiettivi all’interno del territorio della Russia». A dichiararlo è il viceministro della Difesa, James Heappey, ai microfoni della BBC. «Se il governo britannico considera legittimo l’uso da parte di Kiev di armi ricevute dall’Occidente» per colpire in profondità le linee di rifornimento di Mosca in territorio russo, la Russia «potrebbe ritenere altrettanto legittimo prendere di mira le linee di rifornimento ucraino all’interno di quei paesi che, trasferendo armi all’Ucraina, producono morte e distruzione», ha affermato Maria Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, in risposta alle dichiarazioni di Londra.
Di recente sono affiorati alle cronache parecchi scandali alimentari in cui aziende di caratura internazionale hanno dovuto riconoscere gravi colpe nei loro processi di produzione, in particolare per quanto riguarda la sicurezza microbiologica degli alimenti. E si sono registrati parecchi casi in Europa di ricoveri in ospedale, intossicazioni acute e persino decessi causati da batteri come l’Escherichia coli.
Quello che desta perplessità è però il fatto che tali spiacevoli episodi non siano successi nella bottega del contadino di paese, dove magari le condizioni microbiologiche non sono regol...
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Il Consiglio di Sicurezza della Transnistria ha riferito che tra ieri e oggi si sono verificati tre attacchi nel territorio della regione separatista moldava, non specificandone la provenienza. Nelle scorse ore è stato colpito anche il centro di trasmissione della radio russa. “Le due antenne più potenti sono state distrutte. Entrambe erano usate per ritrasmettere la radio russa. Nessuno dei dipendenti della stazione radio o la gente del posto è stato ferito”, ha dichiarato il servizio stampa del ministero dell’Interno della Transnistria. Nel frattempo, è stata emanata l’allerta rossa per terrorismo e la parata del 9 maggio è stata cancellata. Sia Mosca sia Bruxelles hanno dichiarato di “star monitorando la situazione nella regione”, seguendone “con apprensione gli sviluppi”.
Resistenti sono tutti coloro che «con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita, si oppongono a una invasione straniera, frutto dell’arbitrio e contraria al diritto, oltre che al senso stesso della dignità». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha così argomentato il senso attuale delle celebrazioni del 25 aprile nell’anniversario della Liberazione. Bene, benissimo. Era ora che l’Italia decidesse di schierarsi con decisione dalla parte di tutti quei popoli oppressi che in giro per il mondo lottano per liberarsi da un’occupazione straniera. Tutti significa tutti, giusto?
Quindi, con lo stesso ardore con il quale si supporta e si arma la lotta ucraina contro l’invasione straniera, ci apprestiamo a supportare la lotta dei palestinesi, che dal 1948 aspettano di vedersi riconosciuti come Stato indipendente, che subiscono da parte di Israele una occupazione straniera evidentemente «frutto dell’arbitrio e contraria al diritto», considerando che è stata dichiarata illegale da molteplici risoluzioni dell’Onu, nonché giudicata discriminatoria e violenta al pari dell’apartheid dalle organizzazioni per i diritti umani. Allo stesso modo manderemo finalmente armi per difendersi ai curdi che, dopo essere morti al posto nostro per difendere il mondo dai terroristi dell’Isis, sono stati di nuovo abbandonati alle bombe della Turchia, membro della NATO e quindi alleato nostro. Manderemo, probabilmente, armi anche al governo della Siria, sul cui suolo americani, turchi, russi e israeliani giocano da oltre dieci anni un indecente risiko sulla pelle di milioni di civili, e se non è questa una «invasione straniera» non si capisce cosa possa esserlo.
Naturalmente non sarà così. Il Mattarella che sposa con vigore l’analogia tra la lotta Partigiana e quella ucraina è lo stesso presidente della Repubblica che il 2 novembre 2016, in visita a Gerusalemme, definiva Israele (che appena due anni prima aveva massacrato a forza di bombe oltre millequattrocento civili a Gaza con l’operazione “Margine di protezione”) un paese con il quale l’Italia ha affinità totali «sul piano dei valori e della democrazia». È lo stesso che il 5 febbraio 2018 riceveva il presidente turco Erdogan con grande cortesia, e senza sollevare alcun appunto sul diritto all’autodeterminazione della nazione curda.
E quindi quella che emerge indiscutibile è l’ipocrisia delle parole dette dal presidente in questo 25 aprile. Perché per leggerne il reale significato manca evidentemente un pezzo, non detto: resistenti sono tutti coloro che «con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita, si oppongono a una invasione straniera»… purché l’invasore non sia un nostro alleato. Se la condizione è assolta si diventa di diritto partigiani per la libertà, anche se si è miliziani neonazisti del battaglione Azov, in alternativa si continua ad essere considerati banditi e terroristi, gli stessi termini con i quali nazisti e fascisti definivano i partigiani che liberarono l’Italia il 25 aprile 1945.
Con una sentenza di un tribunale di Istanbul emessa il 25 aprile, il filantropo e attivista turco Osman Kavala è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di aver tentato di rovesciare il governo di Erdogan finanziando le proteste di massa che avevano avuto luogo nel parco di Gezi a Istanbul nel 2013. Altri 7 coimputati (Mücella Yapıcı, Çiğdem Mater, Hakan Altınay, Mine Özerden, Can Atalay, Tayfun Kahraman e Yiğit Ali Ekmekçi), accusati di aver collaborato con lui, sono stati condannati a 18 anni di carcere. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e numerose organizzazioni internazionali, tra le quali Amnesty International, le accuse contro Kavala sono del tutto prive di fondamento e indirizzate, piuttosto, a reprimere il dissenso e costituire un deterrente per chiunque voglia opporsi al potere nella Turchia di Erdogan.
Osman Kavala, 64 anni, è un uomo d’affari di origini turche che nella sua vita ha contribuito alla fondazione di numerose organizzazioni non governative e movimenti della società civile impegnati nella difesa dei diritti umani, della cultura, della protezione dell’ambiente e degli studi sociali. Kavala si trovava in regime di detenzione preventiva da oltre 4 anni. Nell’ottobre 2017 era stato infatti arrestato con l’accusa di “tentativo di rovesciare l’ordine costituzionale” e “tentativo di rovesciare il governo della Repubblica e impedirgli di svolgere i suoi compiti”.
Le accuse si riferivano alla supposta attività di finanziamento da parte di Kavala delle proteste che avevano avuto luogo al parco di Gezi di Istanbul nella primavera del 2013. Durante quel periodo la Turchia era stata infatti travolta da una potente ondata di dissenso contro il governo del partito conservatore AKP (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo), il cui leader è Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro della Turchia. Nate inizialmente per contestare la costruzione di un centro commerciale e una moschea nel parco di Gezi, le proteste avevano visto una violenta risposta da parte delle forze di polizia, che aveva portato a centinaia di feriti negli scontri e oltre 1700 arresti. Il movimento aveva quindi velocemente assunto i toni di una vera e propria manifestazione di dissenso contro la deriva autoritaria del governo turco, il cui primo ministro Erdogan veniva identificato come un dittatore. La stagione di contestazioni vide un vero e proprio rifiorire dell’opposizione e dell’attivismo politico, che subì una violenta repressione da parte dello Stato.
Altre accuse mosse nei confronti di Kavala, dalle quali è stato poi assolto, riguardavano l’attività di spionaggio per il suo supposto coinvolgimento nel colpo di stato militare avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, quando un gruppo di membri delle forze armate turche aveva tentato di rovesciare il Parlamento, il governo e il presidente della Turchia. Durante quella notte oltre 250 persone furono uccise e più di 2500 i feriti.
Alla base della detenzione preventiva imposta nel 2017 vi era l’accusa nei confronti di Kavala di aver guidato contro il governo un’insurrezione composta da numerose “organizzazioni terroristiche”. Tale accusa, come denunciato da Amnesty, viene utilizzata spesso dal governo turco per incarcerare dissidenti e oppositori politici.Il suo caso è giunto fino ai banchi della CEDU, che nel 2019 ne ha sollecitato la scarcerazione in quanto ritenuta non giustificata. Le accuse nei suoi confronti, avevano sostenuto i giudici della Corte europea, erano “al di là di ogni ragionevole dubbio” volte a “ridurre al silenzio il signor Kavala e con lui tutti i difensori dei diritti umani”. Ankara aveva tuttavia ignorato l’ordine di scarcerazione, ritenendola non vincolante.
La detenzione di Kavala ha rischiato anche di scatenare una crisi diplomatica, quando Erdogan ha ordinato al ministro degli Esteri di dichiarare “persone non grate” 10 ambasciatori occidentali in Turchia firmatari di un appello per la scarcerazione del filantropo.
Il direttore di Amnesty International per l’Europa, Nils Muižnieks, ha definito il caso di Kavala e la sua condanna all’ergastolo come “una parodia della giustizia di dimensioni spettacolari”, in quanto “la sentenza sfida ogni logica. La pubblica accusa non è mai stata in grado di portare prove a sostegno dell’accusa. Questo verdetto ingiusto dimostra che il processo aveva l’unico scopo di tappare la bocca a delle voci indipendenti”.
Kavala, che ha sempre sostenuto che la propria incarcerazione fosse motivata dalle posizioni critiche mantenute nei confronti del governo turco, ha un’ultima possibilità di appellarsi alla decisione sperando in un’annullamento della sentenza. I suoi avvocati hanno dichiarato di voler presentare ricorso per un processo di secondo grado presso la CEDU.
Twitter ha accettato l’offerta di acquisizione da 44 miliardi di dollari avanzata da Elon Musk. Il social network da oltre 200 milioni di utenti, utilizzato come potente strumento di informazione, diventa così di proprietà dell’uomo più ricco del mondo. Musk ha già dichiarato di voler apportare numerosi cambiamenti, tra i quali portare i post a 280 battute e di spostare il focus economico dalle inserzioni alle iscrizioni. Ha anche annunciato di voler eliminare le limitazioni all’accesso alla piattaforma, con il probabile rientro di personalità come Trump ed esponenti dell’estrema destra i cui account erano stati bloccati.
Il Québec è la prima giurisdizione al mondo a vietare l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas sul proprio territorio. L’adozione del disegno di legge, che porrà anche fine al finanziamento pubblico nel settore, è arrivata dopo anni di campagne da parte di gruppi ambientalisti, cittadini e studenti. Una decisione tanto più rilevante, quella della provincia autonoma perché giunta mentre il governo centrale canadese marcia nella direzione opposta, avendo approvato da pochi giorni un grande progetto petrolifero nell’oceano Atlantico, Bay du Nord, che prevede di sfruttare un giacimento profondo più di un chilometro, al largo delle coste dell’isola di Terranova.
Il disegno di legge revoca le licenze di esplorazione e produzione di petrolio e prevede che il governo stabilisca un compenso per questo. Inoltre, richiede ai titolari di una licenza revocata di ripristinare i siti secondo i termini e le condizioni da essa stabiliti, ad eccezione dei pozzi per i quali il Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali possa autorizzare progetti per l’acquisizione di conoscenze geoscientifiche. In generale, il disegno di legge modifica il Petroleum Resources Act per limitarne il campo di applicazione nello stoccaggio di gas naturale e negli oleodotti.
Il Québec sta lanciando un potente segnale, considerando anche che il Canada si posiziona tra i primi posti al mondo per la produzione dell’oro nero. Già l’anno scorso, la provincia canadese aveva aderito alla Beyond Oil and Gas Alliance (BOGA), alleanza di governi internazionale con l’obiettivo di eliminare gradualmente le esplorazioni petrolifere tramite giurisdizioni mirate. Oggi, il Québec è il primo membro dell’alleanza ad approvare una legislazione ad hoc in questo senso e a chiudere i siti di perforazione esistenti entro tre anni, dodici mesi se a rischio perdite.
La lotta del Québec ai combustibili fossili ha avuto inizio nel 2011, con diverse petizioni per raccogliere più consensi possibili. Nello specifico, in questi anni, la provincia canadese ha fatto in modo di non finanziare più le compagnie petrolifere e del gas; bloccare gli investimenti nel progetto Galt; porre fine allo sfruttamento del gas di scisto nella valle di San Lorenzo. La sua presa di posizione è, quindi, indubbiamente una grande vittoria sia nella storia dei combustibili fossili, sia in quella della biodiversità, e lancia un importante messaggio al mondo intero.
Che la guerra in scena in Ucraina sia in realtà un capito dello scontro che oppone Mosca a Washington è chiaro ormai a molti. Quello che risulta certamente più difficile da contornare precisamente è il reale disegno americano. Ne abbiamo parlato con Federico Petroni, analista geopolitico, esperto di politiche militari statunitensi, consigliere redazionale e coordinatore didattico della scuola di Limes.
Cominciamo dalla questione che più influirà sulle prospettive di pace che tutti i cittadini desiderano: gli Usa hanno interesse a facilitare una fine rapida del conflitto in Ucraina tramite un tavolo di pace?
Gli Usa non hanno interesse a fare finire prima possibile il conflitto, come dimostra il fatto che gli armamenti inviati a Kiev servono sostanzialmente a questo scopo, permettendo agli ucraini di resistere ma non di ribaltare le sorti del conflitto. Sicuramente gli Usa vedono questo conflitto come un fastidio e una questione non esistenziale. Biden era preso da altri problemi e aveva iniziato la presidenza con due obiettivi: occuparsi di politica interna e concentrarsi sulla gestione della Cina in politica estera. Tuttavia è certo che, ora che ci si trovano di fronte, gli Usa vedono questo conflitto come una grossa opportunità per tentare di dividere Russia e Cina, indebolendo Mosca al punto da non essere più un partner fungibile per Pechino.
Per ora tuttavia l’alleanza tra Russia e Cina appare quanto mai salda, può riuscire questa strategia?
Credo che i cinesi siano molto imbarazzati. Un conto è avere come alleato un Putin che costituisce una spina nel fianco occidentale, altro conto è avere un Putin che con questa guerra rischia di ribaltare il sistema internazionale. Questa è probabilmente la grande differenza tra Pechino e Mosca: Putin intende rovesciare il tavolo, Xi Jinping invece a quel tavolo vuole continuare a sedersi cercando di rinforzare la propria posizione. La Russia è già isolata e ha una certa propensione all’autarchia, la Cina si nutre dei traffici economici globali.
Gli Stati Uniti quindi, indebolendo e mettendo all’angolo la Russia, puntano ad essere i veri vincitori della guerra in Ucraina?
Comunque vada non credo che vedremo dei vincitori. La Russia ha deciso di chiudersi in un eremo geopolitico puntando a raccogliere qualcosa in Asia, all’Ucraina serviranno decenni per riprendersi, gli stati europei pagano i costi della guerra e vengono posti di fronte a una opzione indesiderata, ovvero tagliare i ponti con la Russia. Gli americani comunque rischiano che il conflitto deflagri e coinvolga alleati della NATO, con la considerevole possibilità che i cittadini statunitensi non vogliano seguire il governo nell’ennesimo conflitto degli ultimi anni. Quindi non credo sia una vittoria per Washington, ma di certo la possibilità di far sanguinare la Russia è percepita come un’opportunità. È ad ogni modo un’opzione che comporta enormi rischi e che andrebbe gestita con una certa perizia, anche se la scarsa preparazione di buona parte dell’amministrazione Biden non mi fa ben sperare sulle capacità di calcolo dei rischi.
Anche scavare una frattura tra Europa e Russia è un obiettivo statunitense?
Sicuramente c’è un interesse in questo senso da parte americana, ma sempre in ottica anticinese. Biden voleva usare i 4 anni di mandato per decidere come affrontare la Cina, sapendo che in quest’ottica una delle risorse più importanti per gli Usa sono gli alleati europei. Alcuni alleati europei facevano affari fiorenti con la Cina, come la Germania e l’Italia, dal punto di vista statunitense occorreva riportarli a bordo ricordandogli chi comanda, ovvero gli americani stessi. Biden ha ricordato agli alleati quali sono i punti fermi che devono rispettare: Putin è un killer con il quale non si negozia, con la Cina invece si parla ma non si devono fare troppi affari e meno che mai aderire alla via della Seta, nei fatti un progetto di contro globalizzazione, come aveva fatto l’Italia durante il governo Conte I.
L’Europa si sta mostrando ancora una volta incapace di fissare obiettivi geopolitici autonomi, facendo in buona sostanza il gioco di Washington e non il proprio…
L’Unione Europea non è concepita come una potenza, è illusorio pretendere che debba esprimere una voce sola e avere obiettivi univoci. Si tratta di un gruppo di paesi che negoziano interessi e trovano accordi su problemi che non hanno a che fare con gli aspetti più duri della politica estera e militare. Inoltre per mediare devi essere accettato come mediatore, e i russi considerano gli stati europei come cobelligeranti. Quello che sarebbe più interessante da parte degli stati europei sarebbe definire chiaramente i loro interessi nazionali e coordinarli meglio.
Una prospettiva che all’Italia manca evidentemente, dall’inizio del conflitto assistiamo a Di Maio e Draghi che sostanzialmente ripetono quanto detto da Washington senza alcuna posizione propria…
È vero ed è perché deve recuperare un pesante deficit di credibilità. Da Washington siamo visti come un alleato inaffidabile che alla prima occasione fa delle scappatelle con i rivali, ma se questo è tollerabile in tempo di pace, in tempo di guerra diventa insubordinazione e tradimento, dunque il nostro Paese deve spendere tempo e dichiarazioni per dimostrare di essere un alleato affidabile.
Da quando Biden si è insediato abbiamo dato cronaca di diversi atti ostili nei confronti della Russia: esercitazioni militari vicino ai confini, sanzioni economiche, fino alla dichiarazione televisiva nella quale definì Putin un assassino. Poi da Washington si è ribadito che le porte della NATO erano aperte per l’Ucraina, nonostante Mosca avesse specificato di considerare la neutralità di Kiev una questione di sicurezza nazionale. Avvicinandosi a queste settimane, quando la Russia ha avviato i movimenti militari vicino al confine ucraino, Biden ha fatto evacuale il personale statunitense a Kiev e specificato che gli Usa non sarebbero intervenuti in caso di invasione russa: atti che in molti hanno interpretato come un sostanziale via libera a Putin. Alla luce di questi fatti si può quantomeno ipotizzare che gli Usa abbiano in qualche modo intenzionalmente provocato l’azione russa in Ucraina?
Il sistema di potere americano è attraversato da diverse correnti. È certo che una di queste teorizzasse la necessità di indurre la Russia ad una sconfitta strategica allo scopo di costringerla a scendere a patti con gli Usa da una posizione di debolezza. Secondo questa teoria la Russia si è sbilanciata negli ultimi anni, militarmente ed economicamente, intervenendo in molteplici scenari internazionali dalla Libia, alla Siria, fino all’Africa e al Venezuela. Dire che questa sia la linea di Biden è molto difficile, anche perché questa teoria è in voga soprattutto in ambienti repubblicani, tuttavia si può pensare che un’influenza possa esserci stata.
Arriverà un momento del conflitto in cui gli Usa cercheranno di favorire una trattativa di pace?
L’obiettivo dichiarato degli americani non è favorire immediate trattative ma è isolare e indebolire la Russia. Questo non significa però permettere agli ucraini di riconquistare tutto, gli americani mettono una museruola agli ucraini e lo dimostra il fatto che non gli danno tutte le armi che chiedono. Questo significa a mio avviso che sarebbero disposti di fatto, seppur informalmente, a riconoscere l’occupazione russa su parte del territorio. Non si legano le mani a tal punto da affermare che i russi devono andarsene da Crimea e Donbass, e questo serve a lasciare una via di uscita propagandistica a Putin per rivendicare comunque una vittoria. Questa è la chiave per evitare una escalation molto pericolosa.
È evidente che Russia e Cina stiano chiedendo una ridefinizione dell’ordine mondiale o, in altre parole, la convocazione di un tavolo strategico per ridiscutere le regole del gioco. La mia impressione è che gli Usa abbiano in mano il pallino ora, nel senso che le richieste sono chiare e più volte formalizzate da Mosca e Pechino. Gli americani accetteranno di ridefinire l’ordine mondiale o difenderanno con il coltello tra i denti il loro status di potenza egemone costi quel che costi?
Secondo me gli Usa hanno capito che le architetture pensate per organizzare il loro potere nel mondo stanno battendo in testa, per usare una metafora motoristica. Di fronte alla sfida di Mosca e Pechino hanno deciso di accettare il duello e si è inaugurato un periodo che culminerà necessariamente nella ridefinizione delle regole con cui funziona il mondo. Nascerà una nuova architettura di potere, che chiamare ordine sarà molto difficile dato che l’egemonia Usa è sempre più sfidata. Ma anche gli Stati Uniti si sono accorti che l’ordine mondiale non funziona più e andrà ridefinito. Non lotteranno per ripristinare quello vecchio ma per dominare anche quello nuovo, ma non è detto che ci riescano.
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