mercoledì 17 Settembre 2025
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Ecuador: al via una nuova riserva marina per salvare le specie in estinzione

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Il presidente dell’Ecuador Guillermo Lasso ha annunciato la creazione di una nuova riserva marina al largo delle Isole Galapagos. L’area protetta andrà ad espandere la già esistente Riserva Marina della Galapagos, creata nel 1998 e che ricopre all’incirca 138 mila chilometri quadrati. Si creerà così un nuovo corridoio sicuro per alcune specie marine in via d’estinzione e per la biodiversità ittica, fondamentale anche per il sostentamento delle popolazioni locali.

«Riconoscendo che il successo futuro sia dell’umanità che della natura richiede un equilibrio sostenibile tra le due, l’Ecuador è orgoglioso di annunciare la creazione della Riserva Marina Hermandad nei prossimi giorni» annuncia il presidente dell’Ecuador Guillermo Lasso. L’intenzione di costituire una nuova area protetta era stata preannunciata da Lasso già durante la Cop26 tenutasi a Glasgow lo scorso novembre, quando anche i presidenti di Panama, Colombia e Costa Rica si erano detti intenzionati a collaborare al progetto.

È stata così creata la Reserva Marina Hermandad, di 60 mila chilometri quadrati, la quale permette il costituirsi di un corridoio sottomarino tra l’isola Cocos, appartenente alla Costa Rica, e le isole Galapagos, che permetterà il transito sicuro di numerose specie. Solamente in metà di quest’area sarà concessa la “pesca responsabile”, mentre l’altra metà sarà destinata a tutelare le rotte migratorie e le zone di alimentazione delle specie marine minacciate e sarà preclusa a qualsiasi tipo di attività estrattiva. In quest’area si realizzeranno anche indagini scientifiche, volte a migliorare le conoscenze riguardo la biosfera.

La Riserva, spiega il presidente Lasso, tutela l’area di transito e riproduzione di una incredibile varietà di specie marine, molte delle quali endemiche ed esistenti solo in questa parte del mondo. A minacciare la biodiversità oceanica vi sono tuttavia fattori quali l’inquinamento delle acque, i cambiamenti climatici e la pesca indiscriminata e illegale, che ha portato al rischio di estinzione specie come lo squalo balena. Il monitoraggio di alcuni di questi esemplari, spiega Lasso, ha portato ad osservare come questi sparissero improvvisamente quando venivano a trovarsi nelle vicinanze di navi da pesca straniere in transito all’esterno del perimetro dell’area protetta.

Lo squalo balena

La salvaguardia della fauna permette inoltre di garantire il benessere delle popolazioni locali, che vivono soprattutto di pesca e turismo. La tutela di queste aree marine ha infatti permesso una crescita esponenziale della popolazione ittica e, di conseguenza, lo sviluppo del settore commerciale, del turismo, della pesca e della ricerca.

«Attraverso la creazione di questa riserva marina, invito le altre nazioni ad unirsi a questo sforzo collettivo e preservare con successo gli insostituibili tesori biologici dell’oceano» conclude Lasso.

[di Valeria Casolaro]

Corea del Nord: lanciati 2 missili balistici a corto raggio

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Due sospetti missili balistici a corto raggio sono stati lanciati oggi dalla Corea del Nord da un aeroporto della capitale Pyongyang, nel quarto test dall’inizio del 2022 atto a dimostrare la sua potenza militare. A riportarlo è l’agenzia di stampa Reuters, la quale comunica che a riferire ciò è stato l’esercito sudcoreano. Anche il Giappone però ha riferito del lancio, con il segretario capo di gabinetto Hirokazu Matsuno che lo ha condannato come una minaccia alla pace e alla sicurezza, mentre la Cina ha esortato tutte le parti a preservare la stabilità.

 

L’Italia regala 4 miliardi l’anno alle multinazionali dell’acqua

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Con un fatturato di quasi 4 miliardi di euro annuo, il business dell’acqua minerale in Italia si rivela estremamente redditizio. Il nostro mercato si colloca al nono posto su scala mondiale, al terzo se si conta solamente il settore delle esportazioni, che si aggira intorno a 1,3 miliardi di euro. Si tratta di ricavi da capogiro se si pensa che scaturiscono da fonti pregiate naturalmente presenti nel nostro territorio: peccato che quello che le multinazionali lasciano alla collettività, tramite il pagamento dei canoni sulle concessioni statali, sia molto meno delle briciole. Molto poco è stato fatto, inoltre, in termini di contenimento dell’impatto ambientale della commercializzazione dell’acqua in bottiglia, considerato che ad oggi ancora l’82% del mercato è costituito da contenitori in PET.

Quattro miliardi di fatturato annuo: tanto vale il mercato dell’acqua minerale in Italia. Le fonti presenti sul nostro territorio, beni naturali e di pregio, fruttano alle multinazionali un giro d’affari da capogiro. Tuttavia, secondo le ultime rilevazioni fatte dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sono nemmeno 20 milioni di euro ad entrare nelle tasche dello Stato tramite i canoni di concessione. Rispetto al valore totale del mercato, si tratta di un misero 0,5%. Questo perché le aziende che hanno concessioni per imbottigliare l’acqua possono contare su costi irrisori da corrispondere alle Regioni. Nel migliore dei casi si parla di 2 millesimi di euro al litro, una cifra a dir poco esigua considerato che il prezzo di una bottiglia d’acqua acquistata al supermercato si aggira tra i 20 e i 30 centesimi al litro. I guadagni salgono ulteriormente se si considera che nei bar e negli esercizi commerciali il costo di una bottiglietta d’acqua da mezzo litro è mediamente di un euro.

Buona parte del prezzo finale è certamente da imputare al costo delle bottiglie in PET, che in Italia costituiscono ancora l’82% del mercato. Le aziende stanno cercando di ridurre il peso delle bottigliette per abbattere costi e impatto ambientale, anche se la soluzione migliore sarebbe certamente un abbandono definitivo della plastica, una delle primarie cause di inquinamento degli ecosistemi. L’Italia si colloca infatti ancora a parecchia distanza da Paesi come la Germania, dove il tasso di bottiglie avviate a riciclo è del 95% (contro il nostro 46%) ed esiste un sistema di vuoto a rendere da noi ancora assente. In altri Paesi europei, come la Danimarca, è inoltre obbligatorio l’uso delle bottiglie in vetro il quale, se combinato con il metodo del vuoto a rendere, può comportare importanti risparmi in termini di dispendio energetico e impatto ambientale.

Stando agli ultimi dati disponibili, in Italia sono 307 le concessioni per fonti di acqua minerale, distribuite variamente su tutto il territorio. Di queste, se ne contano 113 solo tra Piemonte, Lazio e Lombardia. Il maggior numero di imprese è distribuito tra Centro, Meridione e Isole, ma sono le aziende del Nord a fatturare maggiormente, con incassi intorno ai due miliardi di euro. La quota di esportazione complessiva costituisce quasi il 33% del fatturato (1,3 miliardi, contro i 2,5 miliardi del mercato domestico). Con numeri di questo genere, l’Italia costituisce il nono mercato al mondo e il terzo per l’esportazione, contando su prezzi dell’acqua al litro tra i più bassi che esistano. Sono i numeri che emergono da un rapporto stilato da Mediobanca, che aggrega i dati economici e finanziari del triennio 2017-2019 delle aziende nazionali che nel 2019 superavano il milione di euro di fatturato, 82 in tutto. Le cinque aziende in cima alla lista costituiscono da sole il 66% del fatturato totale, mentre le sei imprese a controllo straniero valgono un fatturato di 1,5 miliardi di euro.

Secondo gli ultimi dati a disposizione, sono il gruppo Nestlè (proprietario di Sanpellegrino) e il gruppo San Benedetto (cui fanno capo Nepi, San Benedetto, Guizza e diversi altri marchi) a dominare il mercato dei produttori, costituendo da soli ben un terzo della produzione italiana. Seguono Fonti di Vinadio, Lete, Ferrarelle, Gruppo Norda, Gruppo Co.Ge.Di. (Uliveto e Rocchetta), Spumador, Società Italiana Acque Minerali e Fonti del Vulture (di proprietà del Gruppo Coca Cola) a completare la lista delle “big 10”.

Un business da capogiro maturato sulla commercializzazione di un bene fondamentale e naturalmente presente sul territorio, quindi di teorica proprietà della comunità. A ricavarne beneficio, tuttavia, sono ancora una volta solamente le multinazionali.

[di Valeria Casolaro]

Monthly Report: un mondo di proteste, il cambiamento cova sotto la cenere

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Informandosi sulle tv e sui giornali si ha l’impressione che il mondo non sia mai stato così in pace e coeso dietro i propri leader democratici. Ma è vero il contrario. Un corposo studio intitolato “World Protests”, condotto da ricercatori di tre continenti, ha mappato i conflitti sociali che attraversano il pianeta, concludendo che la situazione odierna è simile ad altri tre periodi storici contemporanei: quello che va dal 1830 e il 1848, il 1917-1924 e gli anni ’60 del secolo scorso. Tre periodi culminati in moti rivoluzionari generalizzati. “Decadi di politiche neoliberali hanno generato grandi disuguaglianze ed eroso i redditi e il benessere delle classi medie e basse, alimentando sentimenti di ingiustizia, delusione per il cattivo funzionamento delle democrazie e frustrazione per i fallimenti dello sviluppo economico e sociale. E dal 2020, la pandemia di coronavirus ha accentuato i disordini sociali”, scrivono gli autori, dimostrando la tesi con i dati che certificano le esplosioni delle proteste a partire dai paesi Occidentali.

Se questa è la realtà delle cose perché la percezione che ne abbiamo è tanto diversa? “I mass media prima ci hanno convinto che l’immaginario fosse reale, e ora ci stanno convincendo che il reale sia immaginario” ebbe a dire Umberto Eco. La realtà delle proteste, delle rivendicazioni e delle lotte è tenuta sapientemente ai margini della narrazione pubblica al punto di renderla, appunto, immaginaria – quindi irreale – nella coscienza degli spettatori. Si parla delle mobilitazioni solo quando queste diventano troppo grandi per poter essere ignorate. In Italia è successo prima al movimento contro la globalizzazione, poi a quello contro il Tav in Val di Susa, in ultimo a quello contro il green pass. In tutte e tre le occasione la strategia è stata la medesima, in un copione perfettamente oliato: passare dalla marginalizzazione alla criminalizzazione. Un processo che passa per evidenti strategie mediatiche, come il porre l’accento su eventuali infiltrazioni violente nei movimenti in questione al fine di parlare delle proteste solo come problema di ordine pubblico senza discuterne le ragioni. Un processo che, sempre di più, si nutre anche degli apparati repressivi e giudiziari dello stato: multe ai danni dei partecipanti, fogli di via, arresti arbitrari, condanne a pene esemplari tramite la riesumazione, sempre più frequente, del reato “devastazione e saccheggio”. Un orpello della legislazione d’epoca fascista grazie al quale chi ha preso parte a un blocco stradale rischia sovente pene più severe di un rapinatore.

Nonostante queste strategie di marginalizzazione e criminalizzazione i movimenti di protesta sono sempre più diffusi, in Italia e nel mondo intero. Ogni giorno migliaia di persone scendono in piazza per i motivi più disparati: domandare diritti sociali o civili, reclamare migliori condizioni di lavoro, opporsi a opere pubbliche giudicate contro l’interesse dei territori, chiedere rispetto dell’ambiente e dalla salute. Se queste mobilitazioni porteranno a un cambiamento dipenderà da molti fattori, innanzitutto dalla capacità di organizzarsi e di legarsi tra loro. Intanto noi abbiamo deciso di parlarne e di cercare di farlo nel modo giusto, per evitare che – come affermava con acume Malcom X ormai sessantanni fa – i media riescano a farci odiare le persone oppresse e amare quelle che opprimono.

Il sesto numero del nostro Monthly Report, il mensile di approfondimento e inchiesta riservato agli abbonati de L’Indipendente, è dedicato a questo tema. Al suo interno 45 pagine di contenuti esclusivi per scoprire le lotte che agitano l’Italia e il mondo intero, muovendosi su più direttrici e con tattiche differenti, incluso il “disaccoppiamento sociale” messo in pratica dai movimenti contro il passaporto sanitario.

Indice:

  • Nuove forme di resistenza: il “disaccoppiamento sociale” al tempo del green pass
  • Quando l’inconscio collettivo scende in piazza
  • A sarà düra! Storie di ostinata resistenza tra le valli di Susa
  • Essere movimento al tempo dalla società post-moderna
  • La Rete: croce e delizia delle voci dissonanti
  • Sorveglianza e carcere per chi lotta: quando la magistratura si fa apparato repressivo
  • Le occupazioni studentesche non si fermano
  • Cosa chiedono gli studenti che stanno occupando le scuole superiori
  • In tutto il mondo crescono le proteste: la storia insegna che qualcosa succederà
  • Quello che abbiamo lo dobbiamo alle proteste di chi ci ha preceduto
  • India, vincono i contadini: la riforma agraria sarà abrogata
  • La lotta eco-sociale degli indigeni non si ferma in tutto il Nord America
  • Come i media mainstream occultano la pubblicità facendola passare per informazione

Il mensile, in formato PDF, può essere scaricato dagli abbonati a questo link: lindipendente.online/monthly-report/

Gibuti, il piccolo stato africano dove si confrontano le potenze mondiali

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Sale sempre di più l’attenzione verso il piccolo Stato di Gibuti, affacciato sulle coste dell’Africa Orientale nella parte meridionale del Mar Rosso, sul Golfo di Aden. In posizione strategica rispetto al passaggio dall’Asia all’Europa via Suez, l’ex colonia francese è diventata terreno di scontro nella sfida globale tra la superpotenza statunitense e quella cinese. La presenza militare straniera a Gibuti risulta essere elevata, vista anche l’estensione territoriale del piccolo Stato africano; oltre a Stati Uniti e Cina sono presenti: Francia, Giappone, Arabia Saudita e Italia – presente dal 2013 con una base anti-pirateria – mentre Germania, Regno Unito e Spagna sono presenti appoggiandosi alle basi militari degli alleati. Russia e India hanno invece avanzato proposte di installazione. L’affitto delle aree ad uso militare straniero sono la principale fonte economica di Gibuti, uno tra gli stati più poveri al mondo: gli Stati Uniti pagano 63 milioni ogni 10 anni mentre la Cina paga 20 milioni di dollari all’anno, tra soldi liquidi e investimenti commerciali.

Gli Stati Uniti sono insediati dal 2002 nell’ex base francese Camp Lemmonier, sede della Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HOA) del Comando Africa degli Stati Uniti (USAFRICOM o AFRICOM). Questa base ospita 4.000 unità tra personale militare e civile e appaltatori del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e risulta essere la più grande base permanente USA su suolo africano.

Nel 2017, a poche decine di chilometri a nord di Camp Lemmonier, la Cina ha costruito la sua prima base militare all’estero, destando non poche preoccupazioni per la strategia globale statunitense. Sebbene due anni prima i cinesi si fossero già insediati nell’area, le motivazioni apparivano di carattere commerciale, ovvero creare una struttura logistica di interscambio funzionale all’espansione economica cinese nel continente africano. La struttura cinese, oltre a comprendere diversi tipi di forze, è dotata anche di eliporto per droni e, dall’aprile dello scorso anno, anche di un molo lungo 660 metri per l’attracco di portaerei.

Il generale Stephen Townsend di AFRICOM, sempre lo scorso aprile, proprio in merito agli sviluppi della base cinese nel Paese, ha lanciato moniti parlando al Comitato dei servizi armati della Camera, definendola una «piattaforma per proiettare il potere in tutto il continente e le sue acque». Il generale ha anche aggiunto che i cinesi «cercano risorse e mercati per alimentare la crescita economica in Cina e sfruttare gli strumenti economici per aumentare la loro portata e influenza globale». Ciò risulta essere una spina nel fianco per gli Stati Uniti e per lo Strategic Competition Act, di cui vi abbiamo parlato lo scorso anno, ovvero la strategia globale di contenimento e offensiva nei confronti dell’ascesa cinese.

Secondo il generale, senza fornire alcuna reale prova, Pechino vorrebbe costruire anche ulteriori basi per legare «i loro investimenti nei porti marittimi commerciali in Africa orientale, occidentale e meridionale strettamente con il coinvolgimento delle forze militari cinesi al fine di promuovere i loro interessi geo-strategici». Nel dicembre passato, prima il Wall Street Journal e poi il New York Post, hanno riferito di funzionari governativi che hanno espresso preoccupazione per la possibilità che la Cina si installi con una base anche sulla sponda atlantica dell’Africa e, più precisamente, in Guinea Equatoriale.

Ciò che invece risulta certo è che la base statunitense di Gibuti è un hub per l’addestramento di forze etiopi, somale, ugandesi e di altri paesi africani. Inoltre, il Paese ospita emittenti di propaganda regionali e gruppi privati che operano come agenzie umanitarie. Un cablogramma pubblicato da Wikileaks, risalente al 2010, inviato dall’ambasciata degli Stati Uniti a Gibuti alla CIA, riporta che Gibuti è sede di «strutture di trasmissione [del governo degli Stati Uniti] utilizzate da Radio Sawa in lingua araba e dal Servizio somalo Voice of America, l’unico magazzino USAID Food for Peace per aiuti alimentari di emergenza pre-posizionati al di fuori [degli Stati Uniti continentali] e strutture di rifornimento navale per le navi statunitensi e della coalizione».

Nello stesso anno, Camp Lemonnier ha ospitato la prima conferenza al vertice di comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence, sorveglianza e ricognizione dell’Africa, per la guerra a distanza con i droni. Due anni più tardi, BT (ex British Telecom) ha costruito un cavo in fibra ottica da 23 milioni di dollari per la US Defense Information Systems Network e la National Security Agency. Il cavo andava dalla Royal Air Force Croughton (a nord di Londra) – gestita dalla US Air Force a Napoli (Italia) – fino a Camp Lemonnier, utile alla “guerra a distanza”. Continue sono le esercitazioni militari e l’addestramento di forze alleate e partner militari, tra il soft power della propaganda e la messa in mostra dei muscoli d’acciaio di navi e velivoli, come accaduto lo scorso novembre.

È innegabile la strategia economica aggressiva della Cina nel continente africano, tra investimenti infrastrutturali e finanziamenti a lungo termine in cambio dell’apertura di nuovi mercati e dell’estrazione di enormi quantità di risorse minerarie. Al momento però le forze militari sul continente africano sembrano essere alquanto impari con gli Stati Uniti che certamente hanno una presa maggiore, sia direttamente che indirettamente, su buona parte del continente.

Il piccolo Gibuti, paese ad alto valore geostrategico, commerciale e militare, appare l’emblema di un mondo multipolare dove le potenze si confrontano camminando spericolatamente sul filo sottile che separa pace e guerra.

[di Michele Manfrin]

Lamorgese a Foggia per allarme bombe contro imprenditori locali

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La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si recherà oggi a Foggia per presiedere un Comitato Straordinario, in seguito ai nove attacchi dinamitardi e incendiari ai danni di imprenditori locali che hanno avuto luogo nelle scorse settimane. La zona dove si svolgerà l’incontro è pattugliata da 150 agenti, tra i quali anche artificieri e unità antisabotaggio e cinofile. In seguito agli attentati sono stati assegnati 50 agenti di polizia in più alla questura di Foggia, mentre sabato la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina ha annunciato l’inizio dei lavori per spostare a Foggia il pool di magistrati in carico alla DDA di Bari che indagano sulla mafia foggiana.

Governo USA e Big Tech ridiscutono l’internet open source

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Giovedì 13 gennaio la Casa Bianca ha riunito in fretta e furia le voci più importanti del settore digitale per discutere una questione che ultimamente viene vista come problematica, quella della vulnerabilità di sistemi open source. Si tratta di codici e programmi che vengono messi a disposizione del mondo perché possano essere replicati, modificati e adattati da chiunque voglia metterci mano, entità che nell’ultimo periodo sono finiti al centro della cronaca a causa di un paio di incidenti eclatanti.

Il summit emergenziale ha coinvolto grandi nomi. Apple, Google, Amazon, Meta, IBM, Microsoft, Apache Software Foundation, Oracle, GitHub e la Linux Open Source Foundation hanno tutti preso parte al meeting con l’obiettivo di definire un piano d’azione per cui risolvere un dubbio che il MIT aveva già preso recentemente in considerazione: il come assicurarsi che progetti tenuti in piedi per spirito di volontariato, quando dannosi, non colpiscano l’intera galassia informatica.

Sebbene sia facile pensare che l’utilizzo dell’open source sia a uso esclusivo dei programmatori indipendenti, infatti, sono molte le grandi aziende che sono solite farvi affidamento per creare software che poi vengono diffusi su innumerevoli device. Attingere a soluzioni prefabbricate e gratuite è ovviamente più conveniente che produrre internamente un proprio codice, tuttavia il difetto dietro a questo modus operandi è evidente: se si usa un codice sorgente difettato, tutto ciò che ne deriva è altrettanto menomato.

Gli sviluppatori che regalano il proprio lavoro attraverso piattaforme quali GitHub lo fanno a titolo benefico e spesso non hanno le risorse o il tempo per testare, supervisionare ed aggiornare il proprio prodotto in maniera professionale. In molti casi i progetti sono creati da professionisti alle prime armi che cercano visibilità in attesa di un mestiere remunerato o da individui che vi dedicano solamente il loro tempo libero, contesti in cui è facile incappare in disillusione e vulnerabilità critiche.

Washington è in allarme proprio per una di queste falle. Una libreria Java distribuita gratuitamente, log4j, ha trasmesso un proprio difetto a una fetta gigantesca di strumenti derivati scatenando quella che è stata etichettata da alcuni come «la vulnerabilità più critica dell’ultimo decennio». I malesseri del settore sono tuttavia storici, che si tratti di bug o atti politici: recentemente il programmatore Marak Squires, stufo di vedere le Big Tech appoggiarsi a lui senza alcun riconoscimento economico, ha sabotato alcuni dei suoi codici per danneggiare chiunque ne faccia uso, manifestando un sentimento di frustrazione che ricorda quello del creatore del progetto ua-parser-js, il quale ha abbandonato nel 2018 la propria creatura proprio per la mancanza di un qualsiasi ritorno finanziario.

Poco sorprende dunque che, in occasione della discussione, il gruppo abbia a più riprese evidenziato la necessità di una partnership tra pubblico e privato che serva a identificare progetti open source di vitale importanza da sostenere con fondi e assistenza tecnica. Come si intenda classificare l’urgenza degli open source è ancora confuso, d’altro canto l’incontro è servito perlopiù a fare riconoscere al Governo USA che ormai non si possa fare a meno di questo genere di risorsa, che non esistano alternative valide e che sia necessario intervenire passando attraverso i piccoli sviluppatori. Una simile evoluzione non sarà comunque immediata, la Casa Bianca si prospetta già nuovi meeting da fissare nel prossimo futuro.

[di Walter Ferri]

USA a colloquio con compagnie energetiche per fornitura gas a Europa

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Funzionari americani avrebbero incontrato rappresentanti di diverse compagnie energetiche internazionali per discutere di un’eventuale fornitura di gas all’Europa nel caso di esplosione del conflitto tra Russia e Ucraina. Lo riporta Reuters. Mosca nega di avere intenzione di invadere l’Ucraina, ma gli USA continuano a esprimere preoccupazione. In caso di conflitto, le sanzioni americane alla Russia potrebbero portare all’interruzione delle forniture di gas, dalle quali l’Europa dipende per un terzo. Le aziende incontrate dai funzionari statunitensi avrebbero affermato che non esistano risorse di gas naturale grandi a sufficienza da sostituire i grandi volumi provenienti dalla Russia.

Ucraina, dietro attacco informatico intelligence bielorussa

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Dopo aver inizialmente rivolto i propri sospetti contro la Russia, l’Ucraina ha dichiarato di ritenere che dietro all’attacco ai siti governativi avvenuto venerdì 14 gennaio vi sia l’intelligence bielorussa. Il vice segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza e Difesa ucraino Sergey Demedyuk ha affermato che i responsabili del cyberattacco potrebbero afferire a un gruppo di spionaggio informatico “affiliato ai servizi speciali della Repubblica di Bielorussia” e sarebbe servito come diversivo per “azioni più distruttive” svoltesi “dietro le quinte”. A quest’ultimo riguardo, tuttavia, non sono stati forniti dettagli. Venerdì 14 gennaio i maggiori siti web ucraini, tra i quali il sito della Difesa, sono stati oscurati ed è apparso un messaggio che recitava “Abbiate paura e preparatevi al peggio”.

Nelle Filippine è in atto una carneficina nel nome della lotta alla droga

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Stando ai dati ufficiali del governo di Manila, la guerra alla droga nelle filippine avrebbe causato 6.200 morti, tra trafficanti e consumatori, dal giugno 2016 al novembre 2021. Mentre per il Tribunale Penale Internazionale (ICC), che ha aperto un procedimento su Duterte per crimini contro l’umanità nel settembre scorso, le morti causate dalla guerra alla droga ammonterebbero ad una cifra che va dalle 12.000 alle 30.000 persone. Secondo i giudici, infatti, la cosiddetta campagna di guerra alla droga non può essere vista come un’operazione legittima delle forze dell’ordine ma piuttosto come un attacco sistematico ai civili. Numerosi gruppi per i diritti umani accusano infatti Duterte di aver dato mano libera alla polizia, affermando che in numerose operazioni antidroga le forze dell’ordine avrebbero ucciso sospetti disarmati. Le autorità filippine hanno sempre sostenuto che la polizia avesse l’ordine di uccidere solo per legittima difesa.

Duterte, presidente delle Filippine dal 2016, è noto in patria con il soprannome di “The Punisher” (Il Castigatore) a causa della rigida politica di ordine pubblico e della cosiddetta tolleranza zero applicata nei confronti delle organizzazioni criminali quando era sindaco nella città di Davao. Le stesse politiche di tolleranza zero sono state poi attuate anche su tutto il territorio nazionale appena diventato Presidente. 

Sebbene le violenze riconducibili alla guerra alla droga siano diminuite negli anni rispetto ai picchi del 2016, va notato come ci siano stati importanti cambiamenti nella geografia delle violenze e nel ruolo crescente dello stato. Nei primi anni della “guerra”, infatti, quasi la metà delle operazioni antidroga e delle relative uccisioni extragiudiziali erano state portate a termine da “vigilantes”. Dal 2020, tuttavia, si è notato un aumento del coinvolgimento dello stato che ha assunto un ruolo sempre più significativo nel prendere di mira i civili stessi, non cercando più di creare distanza “esternalizzando” la maggior parte della violenza ai vigilantes. Finora nel 2021, le forze statali hanno portato a termine circa l’80% delle operazioni antidroga. Anche la geografia della violenza si è spostata, dalla capitale Manila a Luzon, in concomitanza con il trasferimento di alti funzionari di polizia. 

La guerra alla droga nelle Filippine in realtà ha assunto i connotati di una guerra contro i poveri come denunciato da Amnesty International: “Questa non è una guerra alla droga, ma una guerra ai poveri. Spesso sulla base delle prove più inconsistenti, le persone accusate di usare o vendere droga vengono uccise per denaro in un’economia di omicidi”. Con la scusa di combattere il crimine e riportare l’ordine, “The Punisher” ha di fatto dato vita a quella che può essere definita come un’operazione criminale di Stato. Le esecuzioni extragiudiziali sono di fatto omicidi illegali compiuti da vigilantes o funzionari di polizia su ordine o grazie alla complicità’ del governo. Gli omicidi venivano “decisi” dall’alto in base a quote e incentivati grazie a ricompense in denaro che hanno creato un’economia della morte. Importante inoltre sottolineare come queste operazioni, basate su liste non verificate dei consumatori o trafficanti di droga, venissero nella quasi totalità dei casi sempre effettuate nelle aree più povere delle città. Un ufficiale di polizia avrebbe infatti dichiarato ad Amnesty International: “Veniamo sempre pagati, l’importo varia da 8.000 pesos (USD 161) a 15.000 pesos (USD 302) per ogni persona. Quindi, se l’operazione è contro quattro persone, sono 32.000 pesos (USD 644). Siamo pagati dal quartier generale in contanti e di nascosto mentre non c’è alcun incentivo per l’arresto, per il quale non riceviamo alcun compenso”.

Duterte non ha mai nascosto le sue responsabilità per le morti causate dalla guerra alla droga, nel 2016 non ebbe problemi nel definirsi l’Hitler delle Filippine dicendo che sarebbe stato felice di sterminare i 3 milioni di tossicodipendenti presenti nel paese. Inoltre, da leader autoritario e con evidente tendenze populiste, non ha mai avuto remore nel prendere decisioni “singolari”, basti pensare che pochi giorni fa, per combattere l’aumento dei casi di Covid, ha emanato l’ordine di arrestare le persone non vaccinate che escono dalle proprie abitazioni.

Duterte, il cui mandato scadrà nel 2022, è costituzionalmente escluso dal cercare la rielezione e potrebbe quindi trovarsi in una posizione scomoda visto il procedimento in corso contro di lui da parte del Tribunale Penale Internazionale. Nonostante le Filippine abbiano annullato unilateralmente l’appartenenza alla ICC nel marzo 2018, la possibilità che Duterte venga comunque processato rimane alta, per questo non è da escludere che possa cercare alleati politici durante le prossime elezioni presidenziali in grado di garantirgli protezione da qualsiasi azione legale da parte di organismi internazionali. Così come è possibile che possa tentare modifiche costituzionali tali da garantirgli la ricandidatura. Insomma, il rischio di ritrovarsi ancora “l’Hitler delle Filippine” non è affatto da escludere.

[Enrico Phelipon]