I 38 chilometri di portici antichi della città di Bologna (53km se si contano anche quelli fuori dalle porte del centro storico) sono stati ufficialmente riconosciuti patrimonio dell’umanità dall’Unesco. “Grazie alla loro grande diffusione e permanenza, i Portici di Bologna sono considerati eccezionale valore universale”, questa una delle motivazioni adottate dall’Unesco, che sottolinea come “la loro lunga permanenza ed uso (circa 1.000 anni) è dovuta all’importanza data a questi manufatti nella città di Bologna nel corso dei secoli”. Bologna è la città con il complesso di portici più sviluppato al mondo.
Il Regno Unito progetta di controllare le abitudini alimentari per premiare i virtuosi
Nel 2020, durante le prime battute della diffusione pandemica del coronavirus, il Regno Unito aveva preso straordinariamente sottogamba la minaccia che stava insediando i propri cittadini e aveva pertanto posto la loro sicurezza molto al di sotto degli interessi economici della nazione. Le cose sono cambiate nel momento in cui Boris Johnson, Primo Ministro britannico, ha rischiato la vita proprio a causa del Covid-1, o almeno questo è quanto ha raccontato.
Il premier inglese sostiene di aver capito che avrebbe dovuto fare qualcosa non solo per rallentare i contagi nazionali, ma anche intervenire su un ulteriore fattore sanitario: l’obesità. La sua stazza corpulenta lo ha reso infatti reso maggiormente vulnerabile alle complicazioni del Covid, cosa che a sua volta lo ha spinto a intraprendere una dieta. Ora, il Governo UK sta valutando di introdurre un sistema che premi quei cittadini che si impegneranno ad adottare uno stile di vita più sano ed equilibrato. Un sistema che muove da ragioni logiche e sensate, ma che ovviamente – come tutti i sistemi basati sul controllo delle abitudini dei cittadini e l’intervento nella loro privacy – genera ovvi possibili problemi.
Il lancio del programma é previsto per il gennaio del 2022 e prevede che gli inglesi, in via volontaria, scarichino un’applicazione per telefono con cui tenere traccia delle proprie compere alimentari, nonché dei passi eseguiti nell’arco della giornata. Coloro che si dimostreranno solerti verranno premiati con “punti fedeltà” che saranno poi convertibili in sconti, voucher e biglietti gratuiti per concerti e spettacoli.
L’idea britannica pare sia stata liberamente modellata su immagine e somiglianza della HPB Rewards Programme di Singapore, un’iniziativa – sponsorizzata tra le altre da Coca Cola – che prevede i partecipanti si dotino di un “passaporto digitale” con cui tener traccia dei propri modelli di consumo.
Il Regno Unito starebbe tuttavia valutando un approccio ancor più radicale di quello asiatico, ovvero starebbe considerando la possibilità di offrire i suddetti punti fedeltà anche a coloro che si sottoporranno a visite mediche quali check-up e mammografie. Una mossa neppure troppo sorprendente, considerando che l’intero progetto nasce dalla necessità di sviluppare comunità salubri che pesino meno sul sistema sanitario nazionale.
Il problema dell’obesità rappresenta d’altronde un’epidemia di cui fatichiamo ad ammettere la portata, basti pensare alla relativa noncuranza con cui se ne parla in Italia, nazione che é quarta nella classifica europea dei Paesi maggiormente portati all’obesità infantile. Allo stesso tempo, quando uno Stato elargisce benefit di questo tipo non é possibile evitare di pensare che la cosa possa finire con l’ampliare le disparità sociali, magari occhieggiando a quel tipo di sistema detto di “credito sociale” (largamente sperimentato in Cina) in cui i “cattivi” cittadini vengono relegati ai margini.
[di Walter Ferri]
Vaccino Moderna: via libera dell’Aifa per fascia d’età 12-17 anni
L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato l’utilizzo del vaccino anti Covid Spikevax (Moderna) per la fascia di età 12-17 anni. Lo ha comunicato la stessa agenzia tramite una nota, nella quale si legge che la Commissione Tecnico Scientifica (CTS) dell’Aifa ha approvato tale estensione della somministrazione del siero «accogliendo pienamente il parere espresso dall’Agenzia europea per i medicinali (Ema)» in quanto «i dati disponibili dimostrano l’efficacia e la sicurezza del vaccino anche per i soggetti compresi in questa fascia di età».
Tribunale di Modena: chi non si vaccina può essere sospeso dal lavoro
Un datore di lavoro ha la facoltà di sospendere dal servizio e dalla retribuzione i dipendenti che non vogliono sottoporsi al vaccino anti Covid: è quanto stabilito da una recente sentenza del tribunale di Modena. Quest’ultima, senza dubbio destinata a far discutere, rappresenta un precedente giuridico sul trattamento da riservare alle persone non vaccinate nel mondo del lavoro privato.
Secondo il giudice emiliano, infatti, «il datore di lavoro si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo, ai sensi dell’art. 2087 del Codice civile, di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori». Tuttavia, questa non è l’unica motivazione alla base della sentenza, nella quale si fa appunto riferimento anche alla direttiva dell’Unione europea di giugno 2020 con cui è stato inserito il SARS-CoV-2 tra gli agenti biologici che possono causare malattie infettive nell’uomo e contro i quali è necessario tutelare gli ambienti di lavoro. Alla luce di ciò, il giudice sottolinea come il datore di lavoro abbia il dovere di proteggere il personale dal Covid e come la mascherina, però, rappresenti una misura di protezione non sufficiente. È proprio per questo, dunque, che il titolare dell’attività può decidere di sospendere i dipendenti dal loro lavoro e dalla relativa retribuzione se non si vaccinano.
Inoltre, nella sentenza viene precisato che il datore di lavoro non può applicare alcun tipo di sanzione disciplinare nei confronti di chi rifiuta il siero, e che gli eventuali provvedimenti sopracitati devono basarsi su una oggettiva valutazione circa l’idoneità del lavoratore a svolgere il suo dovere la quale assicuri, in pratica, che i principi alla base della decisione possano essere soddisfatti. Perciò, sono i dipendenti che lavorano a contatto con il pubblico o in spazi ridotti affianco ai loro colleghi a poter essere sospesi e non retribuiti.
In più, sempre in virtù dell’articolo 2087 del Codice civile, nonché del Testo unico sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il giudice sottolinea che il datore ha il potere ed il dovere di far rispettare agli impiegati ogni misura finalizzata a garantire la sicurezza della mansione. Perciò, egli può conseguentemente anche imporre l’obbligo di munirsi del Green pass all’interno dell’azienda, in quanto da tali norme non emerge alcuna distinzione tra le classiche misure che tutelano i lavoratori (come ad esempio il dover indossare un casco) ed un trattamento sanitario quale il siero anti Covid.
Detto ciò, la conclusione a cui è arrivato il giudice del tribunale di Modena fa seguito a quelle precedenti dei giudici del tribunale di Belluno e di Verona, che anche nei loro casi avevano basato la decisione sull’art. 2087 del Codice civile e sulla direttiva europea. E mentre i tribunali si pronunciano a favore della possibilità di sospendere i lavoratori non vaccinati, in Italia si discute sulla introduzione di una norma specifica che imponga il Green pass obbligatorio nelle aziende.
[di Raffaele De Luca]
Morto suicida il medico Giuseppe De Donno, curò Covid con plasma iperimmune
Nella giornata di ieri si è tolto la vita Giuseppe De Donno, l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova noto per essere stato il primo ad iniziare a curare il Covid tramite la terapia basata sulla trasfusione di plasma iperimmune. Egli aveva 54 anni e, dopo essersi dimesso dall’ospedale di Mantova all’inizio del mese di giugno, aveva iniziato lo scorso 5 luglio a lavorare come medico di base a Porto Mantovano. Le circostanze del suicidio e del ritrovamento del corpo (che sarebbe avvenuto da parte dei parenti) al momento non sono chiare.
I popoli di Uganda e Tanzania in lotta contro l’oleodotto più grande al mondo
East African Crude Oil Pipeline (Eacop) è il nome dell’ambizioso progetto che vede la costruzione in Africa di quello che diverrebbe l’oleodotto più grande al mondo. Più di mille chilometri – 1445 per l’esattezza – di infrastrutture, le quali pomperanno 216mila barili di greggio al giorno tra Uganda e Tanzania. L’origine è prevista a Hoima, nei pressi del lago Alberto, dove è stato scoperto un giacimento da 1,7 miliardi di barili di greggio. Un sito pullulante di oro nero che la francese TotalEnergies e la cinese China National Offshore Oil Corporation bramano da anni.
Il percorso dell’oleodotto – il cui progetto vede come partner l’Uganda National Oil Company e la Tanzania Petroluem Development Corporation – attraverserà mezzo continente, tra paesaggi incontaminati fatti di laghi e foreste – compreso il parco nazionale di Murchison Falls, la più grande area protetta del paese – per approdare a Tanga, il secondo porto più grande della Tanzania, dove il petrolio verrà caricato sulle navi cargo. Un vero e proprio strazio per l’ambiente e le popolazioni locali, che ha allertato ambientalisti e attivisti. Già da almeno sei mesi una trentina di Ong ugandesi, francesi e congolesi si sono mobilitate per ostacolare il progetto e mettere in guardia l’opinione pubblica, lanciando la campagna #StopEacop.
Eppure, malgrado fauna e flora siano a rischio – il percorso dell’oleodotto toccherà l’habitat di elefanti, bufali, coccodrilli e gorilla – così come le tantissime famiglie africane che, da sempre, lungo quei 1.400 chilometri vivono e lavorano con le loro attività agricole, pare ci sia poca probabilità di rettifica. Il governo della Tanzania, infatti, sta facendo di tutto per convincere che Eacop sia la cosa giusta per i proventi stimati pari a 3,24 miliardi di dollari e i 18mila posti di lavoro che, a quanto dice, verrebbero a crearsi in 25 anni. Ma i dubbi sono tanti e il malcontento non diminuisce, tant’è vero che TotatEnergies ha assicurato una restrizione dell’area del parco Murchison utilizzata per far passare l’oleodotto (dal 10% all’1% della superficie), e un incremento del 50% dei ranger che tutelano la zona protetta. Ma tali rassicurazioni non sono state messe nero su bianco e non fanno ancora parte di un vero e proprio “piano di mitigazione” atto a evitare danni alla biodiversità e alle comunità.
[di Eugenia Greco]
Nel mondo 7 volatili su 10 sono polli d’allevamento, e questo non è sostenibile
Negli ultimi cinquanta anni, il consumo di carne è cresciuto tanto che nel mondo, oggi, il 70% della biomassa di uccelli è composto da pollame destinato all’alimentazione umana. Solo il 30% sono invece uccelli selvatici. Numeri preoccupanti per l’ambiente, per la conservazione della biodiversità e indirettamente anche per la salute umana che emergono dal report del WWF “Dalle pandemie alla perdita di biodiversità. Dove ci sta portando il consumo di carne“. In vista del Pre Summit Food dell’Onu, l’organizzazione di protezione ambientale ha messo in evidenza la grave crisi ecologica attuale, sottolineandone il primo responsabile: il sistema alimentare. È la filiera della carne a causare i problemi maggiori; basti pensare che, prendendo in considerazione solo gli allevamenti intensivi, questi causano il 14,5% delle emissioni totali di gas serra, occupando circa il 20% delle terre emerse (pascolo) e il 40% dei terreni coltivati sono utilizzati per produrre mangimi. Il report del WWF è parte della campagna Food4Future, che da aprile 2021 si occupa di trovare soluzioni non più devastanti per il Pianeta. I numeri riportati dal WWF sono preoccupanti e devono aiutare a riflettere sul nostro modello di sviluppo e di consumo.
Dal report si apprende inoltre che sono 50 miliardi i polli macellati ogni anno, il 70% dei quali proveniente da allevamenti intensivi. Per quanto riguarda invece i mammiferi, di selvatici ce ne sono, in percentuale, solo il 4%. Diversamente, l’essere umano costituisce il 36% dei mammiferi presenti sul Pianeta. Ciò che resta è costituito da animali messi al mondo e cresciuti semplicemente per soddisfare i fabbisogni della specie umana. Bovini e suini da allevamento costituiscono addirittura il 60% del peso della biomassa sul Pianeta. Anche da qui, la spinta del WWF a cambiare le cose quanto prima, viste le cause devastanti tanto per la salute umana tanto per quella del Pianeta di un inconsapevole sfruttamento delle risorse. La crescita delle popolazione umana e i modello dominanti di produzione e consumo hanno portato a sfalsare i delicati processi vitali del pianeta e se il sistema alimentare globale non conoscerà un vero e netto cambiamento, tutto andrà peggiorando. Un problema anche di salute, visto i problemi causati da un vero e proprio pianeta “allevato”: gran parte delle malattie infettive che affliggono l’uomo sono trasmesse proprio dagli animali. Non solo, il 60% delle malattie infettive umane e circa il 75% di quelle emergenti, che hanno colpito l’uomo negli ultimi 10 anni (come la malattia del Nilo occidentale, la Sars, l’influenza suina A H1N1), sono di origine animale.
Un sistema alimentare globale come quello attuale, letteralmente sfuggito di mano negli ultimi decenni, è causa di tangibili danni per la salute degli esseri umani e del Pianeta. L’impatto è evidente anche per quanto riguarda il riscaldamento climatico, e si stima che solo in Europa gli allevamenti intensivi siano responsabili del 17% delle emissioni di gas serra. L’allarme del WWF giunge appunto in occasione del Pre Summit Food delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari attualmente in corso, un evento che mira a considerare il cambiamento climatico, mettendo in discussione l’attuale andamento del sistema alimentare e non solo, cercando di puntare sulla sostenibilità con l’obiettivo primario di salvare il Pianeta. Per agire realmente, è il monito che lanciano questi numeri, occorre agire rapidamente e con decisione a livello politico per rivedere profondamente il modello di produzione di cibo.
[di Francesca Naima]
Germania: esplosione in impianto chimico, 16 feriti e 5 dispersi
In Germania, nella città di Leverkusen, un’esplosione verificatasi in un impianto chimico ha provocato 16 feriti, di cui 4 in condizioni gravi, e 5 dispersi. A riferirlo sono state le autorità locali. L’esplosione, avvenuta precisamente alle 9:30 in un deposito dell’inceneritore di rifiuti situato nel quartiere di Buerrig, è stata classificata dall’Ufficio federale per la protezione civile come «una minaccia estrema», motivo per cui i residenti sono stati esortati a non lasciare le proprie abitazioni ed a tenere le finestre chiuse. Inoltre, la causa dell’incidente al momento non è ancora nota.








