venerdì 21 Novembre 2025
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Contrordine Biden: gli Usa si sono ritirati ma continueranno a bombardare l’Afghanistan

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Entro il 31 agosto 2021, gli americani dovrebbero ritirare tutte le loro truppe (regolari e NATO, inclusi 800 militari italiani) dall’Afghanistan. Si tratta di una decisione ufficialmente sancita con il trattato di pace di Doha, risalente al 29 febbraio 2020 e firmato da Usa e talebani. In cambio della ritirata, i talebani hanno promesso negoziazioni con il governo afghano e azioni di arginamento del gruppo terroristico di Al-Qaeda. Nonostante l’impegno preso, gli Stati Uniti hanno dichiarato che continueranno a sostenere il governo con tanto di bombardamenti.

Quella del ritiro americano è stata una notizia non da poco. Si è trattato di una guerra sanguinosa, durata quasi 20 anni (e costata quasi 10 miliardi solo all’Italia). Dopo anni di forte ingerenza, Biden ha sorpreso il mondo intero dichiarando che «l’Afghanistan deve scegliere da sé il proprio futuro.» Da quando gli Usa, nel maggio scorso, hanno iniziato a ritirare le truppe, la presenza talebana in Afghanistan ha però ripreso a consolidarsi. Ad oggi, il gruppo islamista sembrerebbe avere il controllo dell’80% del paese.

Ci sono anche questioni interne all’accordo stesso, per esempio il fatto che i firmatari rappresentano solo una parte del gruppo dei talebani (fortemente frammentato al proprio interno). Inoltre, il governo di Kabul non è stato coinvolto nell’accordo in maniera diretta. Ma la questione principale è che gli Usa non vogliono realmente lasciare la presa sul paese, per via di interessi strategici, geopolitici ed economici.

Con il malaugurato progetto “Over the horizon”, il Pentagono investirà 10 miliardi di dollari in operazioni di lotta al terrorismo volte a proteggere i suoi interessi in terra afghana. Il piano prevede l’invio di droni (a scopo di sorveglianza e di attacco) verso l’Afghanistan dalle basi americane localizzate in Qatar, nel Kuwait e negli Emirati Arabi. Durante la conferenza stampa del 6 luglio 2021, l’addetto stampa del Pentagono John F. Kirby ha dichiarato esplicitamente che gli Usa continueranno a dare supporto alle forze armate afghane. Alla domanda su come esattamente gli Usa abbiano in programma di farlo, Kirby ha risposto candidamente «nel modo in cui l’abbiamo sempre fatto in passato – con i bombardamenti».

Come evidenziano le voci critiche, questa nuova modalità di interferenza – invasione, spostata dalla terra al cielo – non solo continuerà a causare morti tra i civili, ma inasprirà le tensioni che esistono in Afghanistan, ritardando ulteriormente la pace e la stabilità politica nel paese. Insomma, la guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti continuerà a durare, anche se non sulla carta. L’Afghanistan continuerà ad essere un campo di battaglia statunitense, con l’ulteriore rischio di causare tensioni geopolitiche con le altre potenze che vi orbitano intorno, Russia in testa. Ma soprattutto si apre un nuovo capitolo di violenza, che come sempre va a colpire la popolazione locale più di chiunque altro.

[di Anita Ishaq]

La Francia ha definitivamente approvato il pass sanitario

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Il Parlamento francese ha approvato definitivamente, con 156 voti favorevoli, 60 contrari e 14 astenuti, il disegno di legge presentato dal governo di Emmanuel Macron che prevede l’estensione del Green pass e la vaccinazione obbligatoria per alcune categorie di lavoratori. Il via libera è arrivato nella notte tra domenica 25 e lunedì 26 luglio, tramite una commissione parlamentare mista che è riuscita a raggiungere l’accordo nei confronti di un testo di compromesso. Le trattative infatti non sono state facili: il partito di Macron, La République en Marche, gode della maggioranza all’Assemblea nazionale (ramo del Parlamento), dove è riuscito a far approvare gran parte del disegno di legge originale, ma non al Senato, che ha introdotto una serie di modifiche allo stesso.

Il testo definitivo, dunque, prevede una serie di novità: innanzitutto l’obbligo del pass sarà valido fino al 15 novembre e potrà essere esteso oltre tale data solo tramite un nuovo voto del Parlamento. Inoltre, esso entrerà in vigore per la fascia di età 12-17 anni a partire dal 30 settembre anziché ad agosto, mese in cui l’obbligo di munirsi del certificato verde è stato confermato per accedere a: bar, ristoranti, istituti medici, aerei, treni ed autobus a lunga percorrenza. Tali restrizioni si aggiungeranno a quelle già in atto che subordinano al possesso del lasciapassare sanitario l’accesso a musei, cinema ed altri luoghi culturali. Detto questo, un’altra modifica riguarda le sanzioni da applicare a coloro che non rispetteranno l’obbligo vaccinale: non vi sarà il licenziamento, ma vi sarà la sospensione dello stipendio. E per evitare ciò, entro il 15 settembre i soggetti obbligati dovranno essersi sottoposti alla prima dose del siero ed entro il 15 ottobre anche alla seconda. Questi ultimi precisamente sono: i sanitari, tutti coloro che prestano servizio in ospedali, case di cura e case di riposo ed i vigili del fuoco.

Infine, un’ultima modifica apportata al testo riguarda l’accesso ai centri commerciali: seppur essi siano aperti a tutti, le Regioni potranno richiedere il certificato verde qualora lo ritengano necessario. Il tutto grazie ad un emendamento dell’ultimo minuto del governo, che appunto dà ai prefetti la possibilità di imporre il pass sanitario nei centri commerciali.

Detto ciò, il testo prima di diventare legge dovrà essere esaminato dal Consiglio costituzionale e la decisione dovrà essere comunicata entro il 5 agosto: si tratta di un passo in più che il primo ministro Jean Castex ha scelto di fare così da evitare eventuali accuse di violazione delle libertà civili. A tal proposito, va ricordato che in Francia non tutti i cittadini vedono di buon occhio tali misure. Infatti, negli scorsi giorni vi sono state massicce proteste nel Paese, ultime in ordine di tempo quelle di questo fine settimana, con più di 160mila persone che sono scese in strada ad esprimere il loro dissenso. E non sono di certo pochi i cittadini che ritengono giuste le manifestazioni: da un sondaggio recentemente pubblicato dal tabloid Le Journal du dimanche, si apprende che il 35% dei francesi «sostiene» o «prova simpatia» per i cortei.

[di Raffaele De Luca]

I cibi sani che si possono acquistare (anche) al supermercato

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Spesso associamo l’idea di supermercato a quella di cibo industriale e poco salutare, ma non sempre le cose stanno in questo modo. Con le giuste conoscenze sull’alimentazione corretta chiunque può acquistare alimenti di qualità anche all’interno di supermercati e centri commerciali. Non tutto è cattivo e da buttare via insomma, anche se mediamente il supermercato non è il luogo dove acquistare il cibo salutare. Se nello scorso articolo abbiamo parlato di come l'industria alimentare abbia cambiato i cibi che mangiamo, oggi invece affrontiamo il tema opposto: quali sono i cibi di qualità che pos...

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Migranti: naufragio al largo della Libia, almeno 57 morti

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Un naufragio al largo della Libia ha provocato la morte di almeno 57 persone, tra cui 20 donne e 2 bambini. A comunicarlo è stata Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). «Un’altra tragedia. Con questo naufragio la stima dei morti nel Mediterraneo Centrale si avvicina a quasi mille (oltre 980). L’anno scorso a fine luglio erano 272», ha scritto su Twitter il portavoce Oim per il Mediterraneo, Flavio Di Giacomo. «Non bisogna più esitare e fare di tutto per rafforzare il sistema di pattugliamento in mare. Da subito», ha aggiunto.

Usa: quattro Big Pharma patteggiano 26 miliardi per aver alimentato l’abuso di oppiodi

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«L’epidemia di oppioidi è una crisi di salute pubblica nazionale che ha bisogno di una soluzione nazionale», ha dichiarato il Procuratore Generale della North Carolina, uno dei principali negoziatori della coalizione bipartisan di procuratori di stato USA che a questa soluzione sembra ci si stia avvicinando. Il 21 luglio, infatti, è stata annunciata una risoluzione che prevede il pagamento, a beneficio delle casse di diversi Stati americani, di 26 miliardi di dollari da parte di 4 grandi aziende farmaceutiche (tra cui la Johnson & Johnson) coinvolte nella distribuzione di oppioidi antidolorifici, nonostante dipendenze e morti da overdose stiano crescendo esponenzialmente.

Un oppioide è un composto chimico psicoattivo che ha effetti farmacologici assimilabili a quelli della morfina. Si va dunque dalla codeina al Fentanyl, dall’eroina al metadone. I dati del 14 luglio del National Center for Health Statistics evidenziano un’impennata di morti di overdose proprio in coincidenza con il picco dell’epidemia di covid-19. Tra il dicembre 2019 e il dicembre 2020 più di 93.000 americani sono morti di overdose; circa il 29,4% in più rispetto all’anno precedente. Dati impressionanti: stiamo parlando di circa 255 morti al giorno. Più o meno la media attuale delle morti di coronavirus in USA. L’autorevole rivista scientifica The Lancet dice in proposito che «dalla metà degli anni ’90 più di mezzo milione di morti sono state attribuite agli oppioidi, alimentate da recessione economica, avidità aziendale e atteggiamenti mutevoli riguardo alla gestione del dolore». Evidentemente, la situazione di crisi economica, sociale e psichica innescata dalla pandemia ha funzionato da acceleratore di questo fenomeno. Si pensi solo alle interruzioni nei servizi di trattamento, all’accesso ridotto alle pratiche di riduzione del danno, e alla chiusura di siti di iniezione sicuri. Prevedibilmente, i numeri sono più alti in aree urbane afflitte dalla depressione economica e tra la popolazione nera.

Purdue Pharma, uno tra i maggiori colossi del farmaco, nel 2020 si è dichiarato colpevole rispetto alle accuse circa la promozione di farmaci a base di Ossicodone, un oppioide che da grandissima assuefazione, disinformando riguardo ai potenziali rischi, influenzando l’educazione medica e garantendosi una legislazione meno restrittiva attraverso attività di lobbying e contributi a campagne elettorali. Letitia James, Procuratore Generale dello Stato di New York, ha detto che aziende come Purdue e Johnson & Johnson «hanno soffiato sul fuoco della dipendenza da oppioidi per più di vent’anni». Le aziende McKesson, Cardinal Health e AmerisourceBergen sono state accusate di aver ignorato le spedizioni di antidolorifici deviate verso canali illegali, mentre Johnson & Johnson avrebbe minimizzato il rischio di dipendenza nei suoi contenuti di marketing per gli oppioidi. Tutte le aziende hanno negato le accuse, ma hanno patteggiato un pagamento complessivo di 26 miliardi che verranno distribuiti proporzionalmente ai diversi Stati al fine di trattamenti di cura e prevenzione.

Certamente un importante passo avanti, sebbene alcune personalità istituzionali, come il procuratore di Washington, hanno dichiarato che un patteggiamento del genere non è abbastanza e che le aziende devono essere dichiarate penalmente responsabili in tribunale.

[di Jacopo Pallagrosi]

Presto avremo dispositivi elettronici indistruttibili?

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Un passo molto importante è stato da poco compiuto nella tecnologia. Si tratta dell’invenzione di un circuito elettrico resistente e flessibile che permetterà di produrre dispositivi elettronici non solo indistruttibili e in grado di autoripararsi e riconfigurarsi, ma anche interamente riciclabili. Il circuito innovativo ha la particolare caratteristica di continuare a funzionare anche se estremamente danneggiato. Ad esempio, se questo dovesse subire un forte urto e bucarsi, non smetterebbe di funzionare, perché composto da goccioline di metallo liquido che, unendosi attorno al buco formatosi, fungerebbero da conduttori continuando a trasmettere energia. Queste gocce passano all’interno di un elastomero – un polimero “gommoso” – per far sì che siano isolate, particolarità la quale consente di separarle localmente per costruire nuovi circuiti o distruggere tutti i legami e ricostruirne di nuovi, riciclando del tutto i materiali.

I dispositivi attualmente in commercio, come smartphone e computer, sono dotati di cavi rigidi e saldati tra loro, i quali smettono di funzionare se subiscono guasti o recisioni. Per questo motivo si cerca di proteggere i beni tecnologici con cover e custodie particolarmente spesse. In molti casi, tuttavia, anche queste non riescono ad evitare guasti permanenti. Ecco quindi l’importante aspetto rivoluzionario dei circuiti flessibili: la loro resistenza. Stando agli esperti, con questa invenzione, saremo presto in grado di fabbricare dispositivi ultra moderni, ma dalla resistenza tipica dei modelli delle origini.

Insomma, la tecnologia per rendere potenzialmente quasi indistruttibili i dispositivi elettronici è a un passo. Resterà ora da capire la disponibilità delle aziende ad utilizzarla, a meno che non intervengano le leggi ad obbligarle a farlo, visto che i modelli di prodotti tecnologici attualmente in commercio utilizzano sotto vari profili quella che viene chiamata “obsolescenza programmata”, obbligando i consumatori a cambiare spesso i dispositivi perché vi sono componenti secondari costruiti volontariamente in modo non resistente, o attraverso altri meccanismi, come il rilascio di aggiornamenti che servono a rendere obsoleti e non più ben funzionanti i dispositivi dopo alcuni anni di vita.

[di Eugenia Greco]

Whirlpool: nuova protesta dei lavoratori a Napoli

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Questa mattina, gli operai della Whirlpool di Napoli hanno protestato al Molo Beverello, nel porto della città. Nello specifico, sono stati un centinaio i lavoratori del sito di via Argine che hanno manifestato esponendo striscioni e bloccando le operazioni di imbarco per le isole. Tale protesta fa seguito a quella effettuata la settimana scorsa a Napoli per lo stesso motivo, ovvero contestare la decisione della multinazionale americana, che negli scorsi giorni ha annunciato il licenziamento collettivo dei lavoratori impiegati nello stabilimento della città partenopea.

Veneto, congelate sospensioni medici non vaccinati: “non basta il personale”

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Al contrario di quanto previsto dal decreto con cui in Italia è stato introdotto l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, in Veneto al momento non verranno sospesi i sanitari che non si sono sottoposti al siero anti Covid. Lo si apprende dalle parole pronunciate recentemente dal presidente della Regione, Luca Zaia, durante la tradizionale conferenza stampa presso la sede della protezione civile regionale a Marghera. «Non sono dalla parte della ragione, ma per ora non si procede con le sospensioni per i medici non vaccinati. Esse sono state congelate per un semplice motivo: ci vuole un coordinamento nazionale», ha affermato Zaia. «Dietro alle sospensioni c’è anche un altro problema, che giocoforza pesa su di noi: la mancanza di professionisti. Chi ha fatto questo decreto non ha tenuto conto del fatto che manca il personale», ha aggiunto. Il governatore ha inoltre specificato che le sospensioni per le quali la procedura è già stata avviata saranno portate a termine, facendo riferimento in tal senso ai 34 sanitari sospesi a Vicenza. Tutte le altre, però, al momento non verranno effettuate.

Detto ciò, le difficoltà legate alle sospensioni non riguardano esclusivamente la Regione Veneto: basterà ricordare che anche il Trentino-Alto Adige sta facendo i conti con i problemi derivanti da esse. Tuttavia, era prevedibile che ciò potesse andare ad influire sulla capacità di garantire prestazioni mediche adeguate in Italia. Si tratta, infatti, di un’ovvia conseguenza: come abbiamo recentemente sottolineato, impedire ai sanitari di svolgere il proprio mestiere produrrà inevitabilmente un ulteriore danno al sistema sanitario pubblico, già deteriorato dai tagli effettuati negli ultimi anni.

[di Raffaele De Luca]

Il Vaticano ha rivelato per la prima volta le sue proprietà immobiliari

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Il patrimonio della Santa Sede conta oltre 5000 immobili: lo si apprende dal bilancio relativo all’anno 2020 dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica), pubblicato per la prima volta dalla sua costituzione nel 1967. Il documento, diffuso dal portale ufficiale del Vaticano, Vatican News, rivela nello specifico che attualmente sono 4.051 le unità immobiliari gestite in Italia, delle quali il 92% si trova nella Provincia di Roma (il 64% di esse nelle zone adiacenti alla Città del Vaticano), il 2% tra Viterbo, Rieti e Frosinone ed il restante 6% fuori dal Lazio. Sono poco più di 1.200, invece, gli immobili gestiti all’estero tra Londra, Parigi, Ginevra e Losanna, e in Italia dalle società partecipate. Detto ciò, come affermato dal presidente dell’organismo della Santa Sede, Nunzio Galantino, il 14% delle unità è destinato al libero mercato mentre il rimanente 86% è «funzionale alle necessità istituzionali e/o per dipendenti e pensionati della Curia romana».

Venendo agli utili, poi, dal bilancio dell’Apsa emerge che essi sono stati inferiori di 51,2 milioni rispetto all’anno precedente, con un risultato gestionale di 21,99 milioni. Precisamente, la gestione immobiliare ha generato un risultato di 15,25 milioni (-8,3 rispetto al 2019), quella mobiliare di 15,29 milioni (-27,1) e le altre attività un disavanzo di 8,56 milioni (con un calo di 15,8 milioni sul 2019). Inoltre, il contributo dell’Apsa alla copertura del deficit della Curia è stato di 20,6 milioni: si tratta però di un esito comunque positivo, in quanto c’è da tener conto degli effetti della pandemia.

In tal senso, nell’anno dell’emergenza sanitaria il deficit è salito a 66,3 milioni di euro, una cifra di gran lunga superiore rispetto agli 11,1 milioni del 2019. Lo si apprende dal bilancio consolidato della Santa Sede che padre Juan Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria per l’Economia, ha illustrato nella giornata di sabato. Anche in questo caso, però, si tratta di una cifra migliore rispetto a quella prevista a causa della pandemia. «Quando è apparso il Covid, le previsioni di deficit che abbiamo fatto nel migliore scenario sarebbero state di 68 milioni di euro e nel peggiore di 146 milioni di euro». Dunque, ha aggiunto, «abbiamo rivisto il bilancio in marzo accettando un deficit di 82 milioni di euro. Il risultato che si è invece verificato, con un deficit di 66,3 milioni di euro, è stato leggermente superiore al migliore degli scenari ipotizzati».

[di Raffaele De Luca]

Solo darwinismo sociale: tre studentesse denunciano la svolta liberista dell’università italiana

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«Il processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale». È una tendenza esistente e pervasiva che ha contagiato gran parte dell’accademia italiana. Eppure, nonostante sia un fenomeno a dir poco evidente, è pressoché innominabile. Deregolamentazione, privatizzazioni e taglio alla spesa sociale, i capisaldi del pensiero economico neoliberista hanno ormai conquistato anche gli avamposti dell’educazione e della ricerca. Dire questo, far notare questo processo di cambiamento è quasi impossibile all’interno dell’università stessa. Ma, si sa, per sfatare i tabù a volte servono dei semplici gesti, dei gesti pubblici e coraggiosi di chi si assume il rischio di indicare l’elefante nella stanza.

Questo è quello che hanno fatto il 9 luglio, durante la cerimonia di consegna dei diplomi della Scuola Normale Superiore di Pisa, Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, rappresentanti delle allieve e degli allievi della Classe di Lettere. Le tre neodiplomate hanno colto l’occasione per imbastire una riflessione sul bilancio contraddittorio dei loro anni alla Normale. Dopo aver riconosciuto il debito nei confronti dell’istituzione d’élite di cui hanno fatto parte, e dopo aver ringraziato docenti e personale tecnico-amministrativo (troppo spesso dimenticato), hanno pronunciato parole di denuncia: la Normale di Pisa ha legittimato il processo di trasformazione dell’università in azienda, «in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un’università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le diseguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali». Analisi molto dura suffragata da dati: l’Italia spende molto meno della media europea nell’istruzione terziaria (0,3% del PIL contro lo 0,7%), tagli del 20% in soli 10 anni alla spesa pubblica per l’istruzione, crollo delle iscrizioni all’università (-9,6% nell’ultimo decennio), dal 2007 al 2018 -43% di borse di dottorato, – 14% di ricercatori negli ultimi 13 anni nelle università statali. Insomma, un quadro desolante di precarizzazione ed esclusione che ovviamente si fa sentire in modo più pesante al Sud e sulle donne. Inoltre, meno fondi strutturali e più quote premiali fanno sì che si allarghi il divario tra i cosiddetti «poli di eccellenza» (come la Normale ed altre Scuole Superiori) e gli altri atenei pubblici. Ma «quale eccellenza tra queste macerie?» – si chiede Virginia Magnaghi – costruire contesti elitari a fronte dello smantellamento progressivo della ricerca non equivale infatti a costruire «cattedrali nel deserto» nelle quali la classe che se lo può permettere riproduce se stessa?

Le tre rappresentanti hanno dunque puntato il dito sugli effetti dannosi della «retorica dell’eccellenza». Spesso, infatti, quello che viene spacciato per «meritocrazia» (altro termine abusato e problematico) è semplicemente darwinismo sociale: sopravvive e si afferma chi è più in grado di adattarsi alle condizioni della competizione, ma la gara è spesso inficiata da diseguaglianze di classe e/o di genere che si trovano a monte. «La retorica del merito e del talento – dice Valeria Spacciante nel suo intervento – è un alibi per generare una competizione malsana». Tanto esasperata da generare nelle studentesse e negli studenti malessere e tanti disagi psicologici e fisici (le tre ragazze parlano della «sindrome dell’impostore» derivata dal senso di inadeguatezza suscitato dal ritornello dell’eccellenza, e della performatività esasperata ed esibizionistica adottata per cercare di porvi rimedio). Il modello attuale della Scuola Superiore, e l’ideologia della competizione e iperproduttività sui cui essa poggia, è, a detta delle rappresentati, insostenibile, e «incompatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuna di noi»

Un altro punto fondamentale dell’intervento, cui ha dato voce Virginia Grossi è la disparità tra uomini e donne nell’accesso alla carriera universitaria. Se, infatti, borse di dottorato e assegni di ricerca sono equamente distribuiti, le cattedre di seconda e prima fascia sono affidate a uomini nella stragrande maggioranza dei casi (solo il 25% della prima fascia è ricoperto da donne). I ritmi della ricerca odierna, quelli per i quali il precariato si vince solo dopo i 40 anni di eta, e avendo dedicato i precedenti 20 a nient’altro che alle pubblicazioni, sono incompatibili con la volontà di avere una famiglia, e con il fatto che il lavoro di cura nel nostro paese ricade quasi interamente sulle donne».

Quali sono state le reazioni? A L’Indipendente le allieve della Normale hanno detto che il loro intervento ha spaccato in due la Scuola: «alcuni professori si sono dimostrati favorevoli e hanno chiesto ai nostri colleghi un confronto per capire quali azioni concrete si possano intraprendere per migliorare le cose; altri si sono espressi contro il discorso dal punto di vista dei contenuti, mentre alcuni hanno approvato il discorso, ma non la scelta di diffonderlo sulla stampa. Tutti, ad ogni modo, hanno riconosciuto l’importanza di discutere i temi da noi sollevati in un momento collettivo, come ad esempio la conferenza di ateneo o un’assemblea. Non abbiamo notato però prese di posizione pubbliche, a parte la replica del direttore sul Tirreno». Per quanto riguarda le reazioni del corpo studentesco, nonostante alcuni dissensi circa «l’eccessività» del loro gesto, Grossi, Magnaghi e Spacciante si sono dichiarate «piacevolmente sorprese di ricevere la solidarietà e il sostegno di tanti studenti sparsi per l’Italia e il mondo, così come di persone appartenenti al mondo della scuola e dell’Università».

Per quel che riguarda l’ispirazione generale della loro denuncia, le allieve della Scuola hanno tenuto a precisare il carattere collettivo della loro riflessione. Dare risalto alle criticità della loro stessa posizione di privilegio accademico è stato un gesto di grande responsabilità: «dare voce a tutte le perplessità che ci hanno accompagnato in questi anni (e che continuano ad accompagnarci) è stata per noi una necessità, ci sembrava l’ultimo atto di attaccamento e responsabilità che potessimo fare nei confronti della Scuola».

[di Jacopo Pallagrosi]