mercoledì 19 Novembre 2025
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Per proteggere l’ambiente è ora di ripensare il commercio marittimo

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Il commercio via mare non è stato abbastanza presente nell’importante dibattito sulla riduzione delle emissioni globali, motivo che ha portato molte comunità nel mondo a muoversi purché venga riconsiderato il pesante impatto ambientale da esso causato. Sorge quindi la necessità di un drastico cambiamento di rotta, fino a ridurre a zero le emissioni di gas serra causate dal trasporto marittimo internazionale entro e non oltre il 2050; questa è l’ultima richiesta avanzata da alcuni stati delle Isole del Pacifico (la Repubblica delle Isole Marshall, Kiribati e le Isole Salomone) i quali, la scorsa settimana, si sono rivolti all’International Maritime Organization (Imo, ovvero l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di regolare il trasporto navale).

L’80 per cento, circa, del commercio globale avviene grazie alle navi da carico alimentate da combustibili fossili, responsabili dell’emissione di quasi 940 milioni di tonnellate di CO2 all’anno (circa il 2,5 per cento delle emissioni di gas serra nel mondo): un dato allarmante che, invece di diminuire, sembra stia pericolosamente aumentando. Infatti, senza una drastica azione da parte di tutti – mettono in guardia i ricercatori – entro il 2050 il trasporto via mare potrebbe arrivare a generare ben il 10 per cento di tutte le emissioni globali. Secondo un recente rapporto dell’IPCC, l’obiettivo stabilito durante gli Accordi di Parigi – ovvero limitare il riscaldamento a circa 1,5 gradi centigradi – è ancora possibile ma solo se verranno messi in atto dei cambiamenti molto significativi, da parte di tutti. A breve avrà anche luogo la ventiseiesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (Cop 26, prevista per novembre a Glasgow) e sarà decisivo trattare – anche – di un’attività tanto inquinante come quella del trasporto marittimo, troppo trascurata fino ad oggi. Seguendo le novità emerse dell’ultimo rapporto dell’IPCC, il mancato raggiungimento dell’obiettivo stabilito nel 2015 a Parigi porterà all’innalzamento del livello del mare, che causerà la perdita di interi paesi, in particolare nella regione del Pacifico.

Nonostante ciò, per il momento l’Imo prevede soltanto di dimezzare le emissioni dei trasporti marittimi entro la metà del secolo, ed ecco perché gli stati insulari del Pacifico hanno chiesto di riconsiderare tale piano, per allineare al meglio anche il settore marittimo, cosicché si possa realmente raggiungere quanto deciso durante gli Accordi di Parigi. Anche a marzo di quest’anno, le Isole Marshall e le Isole Salomone, avevano avanzato la proposta di introdurre una tassa sul carbonio, che avrebbe incentivato il passaggio dai combustibili fossili a nuovi combustibili a zero emissioni di carbonio. I portavoce fanno sapere che la proposta per una tassa sul carbonio sarà discussa all’Imo a ottobre, e poi alla 77esima riunione del comitato per la protezione dell’ambiente marino dell’Imo a novembre, momento in cui si dibatterà anche sulla proposta appena presentata relativa al commercio navale a emissioni zero.

[di Francesca Naima]

La NATO si sfalda nell’Indo-Pacifico: una vicenda interessante

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Non è raro che le scelte di approvvigionamento di un Governo sollevino una qualche forma di risonanza, tuttavia le conseguenze di simili scelte si limitano abitualmente a qualche bisticcio tra establishment e imprenditori. Non è il caso delle ultimissime manovre dell’Australia, le quali stanno scatenando un putiferio che ha assunto dimensioni di scala internazionale.

Canberra ha infatti deciso di alterare repentinamente il programma di aggiornamento bellico della Royal Australian Navy così da includere nella propria flotta una serie di sottomarini nucleari. In senso più superficiale e immediato, questa rivoluzione ha mandato su tutte le furie la Francia, Paese che ospita il gruppo industriale che avrebbe dovuto rifornire originalmente le basi navali australiane, il Naval Group. La ditta contraente, specializzata in sottomarini diesel, si è vista sfilare da sotto i piedi un contratto da 90 miliardi di dollari australiani (circa 56 miliardi di euro), con il risultato che i Ministri francesi degli Esteri e della Difesa hanno cofirmato immediatamente una dichiarazione piccata e velatamente rancorosa che andasse a riportare ufficialmente la delusione dell’intera nazione, dichiarazione che è poi stata seguita dal ritiro degli ambasciatori francesi dalle sedi di Stati Uniti e Australia.

La frustrazione di Parigi è tuttavia poca cosa, se si considera il disegno nel suo complesso. Il nuovo piano dell’Australia non si limita infatti alla sola sfera commerciale, piuttosto sfocia in una vera e propria alleanza tripartita al fianco di Stati Uniti e Regno Unito, alleanza nota come AUKUS. Il fatto che Canberra finisca con l’appoggiarsi agli USA e all’Inghilterra per costruire i suoi nuovi sottomarini non fa altro che suggellare degli accordi che sono decisamente più profondi e capillari, con le tre parti che si sono impegnate a condividere tra loro ogni avanzamento tecnico che abbia a che vedere con i sistemi subacquei, quelli ipersonici, la tecnologia quantica e le intelligenze artificiali.

I tre Governi, già parte dell’alleanza di sorveglianza Five Eyes, stanno quindi cementando i reciproci legami in vista del rapidissimo deterioramento della stabilità politica dell’area indo-pacifica, ovvero dal crescente numero di sfide legate agli attriti sviluppati con l’Amministrazione Xi Jinping. Il giornale controllato dal Partito Comunista, il Global Time, non ha mancato di denunciare il cambio di rotta australiano, accusando apertamente la Casa Bianca di star armando i “poteri mediani” in modo che questi possano portare avanti battaglie che altrimenti cadrebbero in seno agli Stati Uniti.

Nelle comunicazioni congiunte dell’AUKUS non si fa ovviamente menzione di un’aperta ostilità nei confronti della Cina, tuttavia è lecito credere che i timori sollevati dal gigante d’Oriente siano basati su fondamenta più che solide: i sottomarini nucleari sono particolarmente utili quando adoperati lontani dalle coste, dettaglio che da a intendere che l’Australia si stia preparando a intervenire nelle aree marittime la cui sovranità è rivendicata da Beijing

Il nuovo patto va peraltro ad agitare le già non quiete acque NATO, suggerendo nei fatti che la Casa Bianca si stiano formando un personale network di Governi fedelissimi alla causa statunitense capace di muoversi parallelamente alle alleanze già consolidate. Non per nulla, Jean-Yves Le Drian, Ministro degli Esteri francese, ha già promesso che porterà questa «grave crisi» all’attenzione dell’organizzazione internazionale in occasione del vertice di Madrid del 2022.

Tenendo conto che l’UE si è già rassegnata al non poter più fare affidamento certo sul supporto armato degli Stati Uniti, è facile che la Francia troverà terreno fertile nel promuovere una coesione interna tra i Paesi Membri a discapito della potenza d’oltreoceano. In tutto questo, però, almeno il Regno Unito sembra esserne uscito diplomaticamente incolume, visto che Parigi la considera come una «terza ruota» con poca o nessuna voce in capitolo.

«Abbiamo richiamato i nostri ambasciatori [di Canberra e Washington] per rivalutare la situazione. Non c’è bisogno di farlo con la Gran Bretagna. Siamo ben consci del loro costante opportunismo, quindi non c’è bisogno che il nostro ambasciatore rientri per fornire ulteriori dettagli», ha ruggito Le Drian.

[di Walter Ferri]

 

 

Russia: sparatoria all’università di Perm’, 8 morti e 6 feriti

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Questa mattina ha avuto luogo una sparatoria nell’università di Perm’, città della Russia orientale. Il Comitato Investigativo della Federazione Russa ha riferito alla TASS (principale agenzia di stampa russa) che il bilancio della strage è, per il momento, di otto morti e sei feriti. Ad aprire il fuoco sarebbe stato uno studente dell’ateneo di diciotto anni, armato di una pistola e poi freddato dalla polizia. Per fuggire dall’ira incontrollata dell’aggressore, decine di studenti sono saltati fuori dalle finestre delle aule universitarie e altri (tra studenti e insegnanti) si sono invece rifugiati nell’auditorium dell’università.

Elezioni in Russia: il partito di Putin è in vantaggio

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Elezioni parlamentari in Russia, i dati della Commissione elettorale centrale (CEC): secondo quanto pervenuto finora con l’elaborazione dell’80,1 per cento dei risultati, il partito Russia Unita (dell’attuale presidente Vladimir Putin) è in vantaggio con il 49,42 per cento dei consensi (più del 55 per cento de voti). Nel frattempo, l’opposizione sottolinea l’esistenza di frodi elettorali, con circa 750 denunce mosse per presunti brogli elettorali e svariate segnalazioni di irregolarità nelle votazioni da parte dell’ONG Golos (Movimento per la difesa dei diritti degli elettori).
Subito dopo il partito Russia Unita si trova per ora – con il 19,28 per cento dei consensi – il Partito Comunista.

Tribunale Milano: i datori di lavoro non possono sospendere gli OSS non vaccinati

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I datori di lavoro non possono sospendere dal servizio e dalla retribuzione gli OSS che rifiutano di farsi somministrare il vaccino anti Covid: è quanto stabilisce una sentenza della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano, con la quale è stata giudicata illegittima la decisione di una cooperativa privata di congelare il rapporto di lavoro di un’operatrice sanitaria sua dipendente non sottopostasi al vaccino. All’interno della sentenza, pubblicata in esclusiva dal sito Database Italia, si legge che la ricorrente si era rifatta al Tribunale dopo «aver ricevuto notifica, il 9/2/2021, di un provvedimento di messa in aspettativa da tale data al 30/4/2021». La sospensione, tuttavia, era stata successivamente prolungata sino al 31/12/2021, termine previsto dal decreto-legge 44/2021 entrato in vigore nel mese di aprile ed avente ad oggetto l’obbligo vaccinale per i sanitari.

La misura datoriale, però, era stata appunto presa prima dell’introduzione dell’obbligo, ed era stata basata sull’articolo 2087 del Codice civile, che impone all’imprenditore l’adozione, nell’esercizio dell’impresa, delle misure che «sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». In tal senso, la Cooperativa aveva sostenuto che vi fosse una «violazione della migliore tutela dei collaboratori, degli ospiti e di tutti gli utenti» determinata dalla omessa inoculazione del vaccino. Ma tali motivazioni non sono bastate ad evitare la sconfitta giudiziaria.

Ciò innanzitutto poiché, secondo il giudice, «la sospensione del lavoratore senza retribuzione rappresenta l’extrema ratio»: il datore ha infatti l’onere (il cosiddetto obbligo di “repêchage”) di «verificare l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, atte a preservare la condizione occupazionale e retributiva, da un lato, e compatibili, dall’altro, con la tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro, in quanto non comportanti il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2». Tale onere probatorio, però, nel caso di specie non era stato assolto dalla Cooperativa.

Inoltre, dato che al momento del provvedimento non vi era l’obbligo vaccinale, per il giudice «non può addursi la determinazione della cooperativa di richiedere la vaccinazione a tutto il personale». E anche se tale obbligo è stato successivamente introdotto con il decreto legge sopracitato (convertito con modificazioni in legge tramite la legge n.76 del 28 maggio 2021), i «profili di illegittimità non risultano in alcun modo elisi». In pratica nonostante l’entrata in vigore di tale legge, che appunto prevede la possibilità di sospendere i soggetti non vaccinati che sono obbligati ad esserlo, la messa in aspettativa da parte del datore di lavoro non è stata comunque ritenuta legittima.

La legge infatti prevede che prima di arrivare alla eventuale sospensione vi debba essere un lungo procedimento, al termine del quale l’ATS (Agenzia di Tutela della Salute) dovrà adottare l’atto di accertamento sulla non sottoposizione al vaccino da parte dell’individuo obbligato. Tale adozione determina la sospensione da mansioni o prestazioni che comportano il rischio di diffusione del contagio, tuttavia la legge impone al datore di lavoro, così come già stabilito anche dal sopracitato obbligo di “repêchage”, di adibire il lavoratore a mansioni che non implicano tale rischio, e solo se ciò non è possibile non sarà dovuta la retribuzione né altro compenso.

Questa procedura però non è stata rispettata dalla cooperativa non solo poiché, come detto, il datore di lavoro non ha cercato di conferire un impiego alternativo alla lavoratrice, ma anche perché, tra le altre cose, non risulta esservi «l’atto di accertamento che determina la sospensione». Ciò significa che il datore di lavoro privato, al contrario di quanto previsto dalla legge, ha sospeso in prima persona la dipendente non vaccinata ed anche per questo, quindi, il giudice ha dichiarato illegittimo il provvedimento di collocamento in aspettativa non retribuita ed ha condannato la Cooperativa «al pagamento, in favore della ricorrente, delle retribuzioni maturate dalla data di sospensione alla data di effettiva riammissione in servizio o di legittima sospensione della prestazione lavorativa, con interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo».

Detto questo, ciò che conferisce alla sentenza una notevole importanza è il fatto che con essa sia stato ribaltato l’andamento giurisprudenziale finora affermatosi: nei mesi scorsi infatti i giudici di alcuni Tribunali italiani, come quello di Modena, si erano schierati a favore delle sospensioni dal servizio e dallo stipendio attuate dai datori di lavoro e basate, tra l’altro, sull’articolo 2087 del Codice civile. Lo stesso articolo che, ora, è stato giudicato non idoneo a giustificare l’interruzione del rapporto lavorativo.

[di Raffaele De Luca]

Internet è un luogo sempre meno sicuro per gli attivisti? Il caso ProtonMail

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Lunedì 6 settembre 2021, un giovane francese, attivista per il clima presso il gruppo Youth for Climate, è stato arrestato. Il servizio di posta elettronica che utilizzava, il super-criptato ProtonMail, ha consegnato il suo indirizzo IP alle autorità francesi. Queste ultime stavano conducendo un'indagine su alcuni militanti che avevano occupato degli immobili a Parigi. Un atto che, dal punto di vista degli attivisti, era una protesta contro la gentrificazione del quartiere e il conseguente aumento degli affitti. L'evento ha fatto molto scalpore, soprattutto tra i molti attivisti che usano Prot...

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Allerta in USA per il raduno di destra a Capitol Hill

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Capitol Hill: alle 18:00 (ora italiana) è previsto l’inizio della manifestazione pro-Trump davanti al Campidoglio. Sono stati schierati centinaia poliziotti, con i rinforzi della Guardia Nazionale -la quale ha mandato uomini non armati – per il raduno del movimento “Giustizia per J6” a supporto di chi, il 6 gennaio 2021, fece irruzione nel Campidoglio a seguito delle elezioni in cui l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, fu sconfitto da Joe Biden. Nonostante sia stata assicurata, da parte degli organizzatori, la realizzazione di una manifestazione pacifica, J. Thomas Manger – il capo della polizia del Campidoglio degli Stati Uniti – teme scontri e violenze, visti alcuni indizi sospetti.

Il costo della transizione ecologica è finito in bolletta?

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Qualche giorno fa il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani ha annunciato un rincaro del 40% nei costi della bolletta elettrica. Una notizia che ha letteralmente freddato gli italiani, soprattutto dopo i sacrifici economici legati all’emergenza pandemica. Un vero e proprio allarmismo quello fatto dalle istituzioni, per giunta, in assenza di spiegazioni dettagliate e senza delle necessarie ammissioni di colpa. Ciononostante, per il prossimo trimestre sarebbe quindi previsto questo aumento tutt’altro che trascurabile. Riguardo le motivazioni che lo hanno scaturito, però, si è generata molta confusione. Cerchiamo di fare chiarezza. Lo stesso ministro, seppur superficialmente, quando ha annunciato la novità ha dichiarato che questo «succede perché il prezzo del gas a livello internazionale aumenta e perché aumenta anche il prezzo della CO2 prodotta».

In sostanza, Cingolani ha imputato il rincaro a due fattori: all’incremento nel costo delle materie prime da cui dipendiamo e alla ‘transizione ecologica’. Nel primo caso, le cause, a loro volta, dipendono da più fattori. Da un lato, l’aumento dei costi del gas metano, da cui dipende la maggior parte dell’energia elettrica italiana, è stato dovuto ad un inverno europeo particolarmente lungo, il quale ha impedito un rifornimento adeguato per tale fonte energetica. Inoltre, manutenzioni, incidenti, nonché le stesse crisi politiche in Ucraina e Bielorussia potrebbero aver giocato un ruolo chiave. C’è poi da dire che il rincaro delle materie prime è dipeso sicuramente anche dall’aumento della domanda determinato dalla ripresa economica post-pandemia.

Per quanto riguarda invece il fattore ‘transizione ecologica’ le cose appaiono forse ancor più complesse. «In questo contesto – spiega QualEnergia – un ruolo lo ha avuto indubbiamente il rincaro dei certificati Ets di scambio della CO2». In altre parole, infatti – ora più che mai – tanto più un’azienda continua ad emettere gas serra, tanto più questi avranno dei costi via via maggiori, così come stabilito dal cosiddetto ‘mercato del carbonio’. Tuttavia, il peso di questi aumenti, analizzando meglio la questione, sembrerebbe più che marginale. Innanzitutto, a livello europeo, solo un quinto dell’attuale aumento dei prezzi dell’energia può essere effettivamente attribuito alla crescita del prezzo della CO2. E in Italia, in particolare, questo fattore inciderebbe non più del 20% nei rincari della bolletta. Da questo emerge quindi un’importante verità: dipendiamo ancora troppo dal gas naturale mentre la transizione energetica è in ritardo. Questo è il problema.

L’approvvigionamento di energia italiano, infatti, è ancora fortemente vincolato al gas. In particolare, per più del 39% del mix energetico. Una fonte fossile da molti considerata come un ‘ponte’ verso la transizione ecologica che tuttavia impedisce la spinta e la conversione alle rinnovabili di cui si avrebbe bisogno. Al riguardo Cingolani avrebbe giustificato questa persistenza centrale del gas affermando che è necessaria per evitare le fluttuazioni delle fonti pulite. È sì vero che le rinnovabili sono caratterizzate da una certa intermittenza (fornitura di energia non continua), ma questo si risolverebbe investendo molto di più in capacità di accumulo. Ad ogni modo, nel complesso, per i ritardi nella conversione energetica vera e propria il ministro non ha ancora trovato delle scuse adeguate. Perché è chiaro che, al di la di ogni possibile causa, se ci fossero più rinnovabili, gli aumenti dei prezzi del gas e del carbonio graverebbero molto meno sulle bollette degli italiani. Questo, non a caso, è stato ribadito su più fronti. A rincarare la dose, ad esempio, un comunicato congiunto delle principali associazioni ambientaliste. Queste, per l’appunto, sottolineano quanto la maggiorazione della bolletta sia frutto della dipendenza dal gas e chiedono a gran voce che si acceleri sulla transizione ecologica.

In ultimo, ma non meno importante, qualunque sia la motivazione alla base del fenomeno, non è accettabile che a pagare siano i cittadini. Fortunatamente, però, sembra che l’ondata di critiche scaturita dalla notizia abbia smosso le acque. «Bisogna ragionare su come viene costruita la bolletta e qui va un po’ riscritto il metodo di calcolo. Lo stiamo facendo in queste ore, ci stiamo lavorando», ha dichiarato ieri il ministro Cingolani. Oltre poi a fornire le dovute spiegazioni, sembra quindi che sia in atto un tentativo finalizzato ad evitare, o per lo meno a mitigare, tale allarmante rincaro.

[di Simone Valeri]

Afghanistan: attentati a Jalalabad, 2 morti e 19 feriti

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Sono stati registrati diversi attentati a Jalalabad, in Afghanistan, come hanno fatto sapere i media locali. Dopo gli svariati attentati, sono esplose delle bombe e si contano, per il momento, due morti e ben diciannove persone ferite. Almeno due delle bombe esplose miravano a distruggere i veicoli delle forze di sicurezza talebane. Gli attentati registrati oggi sono i primi che avvengono dopo il 7 settembre ( data di inizio del Governo ad interim dei talebani).

Referendum per abrogare il Green Pass: da oggi la raccolta firme

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Parte oggi la raccolta firme per il “Referendum No Green Pass”, il cui intento è quello di abrogare le disposizioni legislative relative al lasciapassare sanitario. L’iniziativa di promozione referendaria, infatti, consente agli italiani di esprimere la propria contrarietà al certificato verde rispondendo nello specifico a quattro quesiti riguardanti l’abrogazione dei diversi provvedimenti su tale strumento che si sono succeduti nel tempo. A tal proposito, l’apposito sito offre la possibilità di firmare in forma telematica ma non solo: la raccolta delle firme potrà infatti avvenire anche mediante le tipiche modalità referendarie.

Dietro tale referendum vi sono cittadini comuni e studenti universitari, che lo hanno «ideato, organizzato e promosso». Tuttavia, «l’impegno dei promotori è supportato da un Comitato organizzativo e da un Comitato di Garanti», all’interno dei quali vi sono avvocati e cattedratici italiani tra cui il docente di diritto internazionale presso l’università “La Sapienza” di Roma, Luca Marini, il docente di diritto civile presso l’Università di Torino, Ugo Mattei, il presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione, Paolo Sceusa e, ultimo ma non meno importante, Carlo Freccero, accademico, giornalista e già consigliere di amministrazione della Rai.

Detto ciò, per quanto concerne le ragioni del “No”, sul sito si legge che il Green Pass «esclude dalla vita economica e sociale della nazione quei cittadini che sostengono convinzioni ed evidenze diverse da quelle imposte dal Governo» e che esso «costituisce un palese strumento di discriminazione che collide con i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico». In tal senso, viene citato l’articolo 3 della Costituzione, secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Inoltre, viene anche menzionato l’articolo 32: secondo i promotori infatti il divieto da esso sancito, ossia quello per cui «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» sarebbe aggirato dal lasciapassare sanitario, che «spinge surrettiziamente i cittadini alla vaccinazione».

Infine, coloro che promuovono l’iniziativa sostengono che il Green Pass generi problemi anche sul piano internazionale, ed a tal proposito si rifanno, tra l’altro, ad alcuni «accordi internazionali giuridicamente vincolanti di cui l’Italia è parte contraente», tra cui la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950. Quest’ultima sancisce diritti quali il diritto alla vita e libertà quali, ad esempio, quella di riunione e di associazione. Tuttavia, al suo interno si legge che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti «deve essere assicurato senza nessuna discriminazione».

Dunque si ha a che fare, concludono i promotori, con tutta una serie di «violazioni gravi ed evidenti dello stato di diritto», motivo per cui il popolo deve ora «farsi garante della Costituzione e rendersi parte attiva per ripristinare i principi di uguaglianza e di parità tra cittadini su cui si fonda la nostra civiltà giuridica».

[di Raffaele De Luca]