mercoledì 19 Novembre 2025
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Referendum cannabis: raggiunte le 500mila firme

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La raccolta firme per il referendum sulla cannabis legale – promosso dalle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone e dai partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani – ha raggiunto e superato quota 500mila, cifra limite che consentirà al quesito di andare al voto nella primavera del 2022. Il tutto ad una settimana dal lancio della piattaforma: si tratta infatti della prima raccolta firme italiana per un referendum avvenuta interamente online sul sito referendumcannabis.it. Gli organizzatori, però, invitano ad andare avanti ed a raccogliere almeno un altro 15% di firme in più per sicurezza.

Musiche di strada, al tempo del distanziamento

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Ci sono parole, suoni che superano i muri, reali e virtuali, senza fare troppo rumore. Ogni viaggio lascia mille punteggiature: orizzonti improvvisi, strascichi di venti e profumi, scorci come flash, lampi di sguardi.

Di un mese in Germania, ora che sono tornato, trattengo anche le soste dai musicisti di strada: i tre bielorussi con balalaika che ci omaggiano con arie napoletane, il maestro ucraino di fisarmonica che alterna Vivaldi e Bach con coloriture dodecafoniche, l’andino con la sua noiosissima arpa che a tratti sa di rivoluzione, i due slovacchi, improbabili saints marching in, glabri e insieme paonazzi alle trombe, il vecchietto sul ponte che soffia sotto tono nel suo strumento, la giovane violinista fresca di studi.

I gruppi degli ascoltatori itineranti allestiscono scenografie improvvisate, dicono che la strada è luogo creativo, come nelle commedie di Goldoni o nelle passeggiate romantiche, come nelle vicende narrate da Kerouac o nei film del nostro neorealismo.

Incontri di un mondo capovolto, nelle vie e nelle piazze, che va su e giù e che mangia sempre di più all’aperto, anche se piove, perché evidentemente non ha gli adeguati titoli sanitari per entrare nei locali.

Street food e musica: è vero, si tengono le distanze ma tutti, se siamo qui, è perché amiamo gli orizzonti marini, i panini di pesce, la vita all’aperto, le voci alte e chiassose. Che superano appunto i muri, gli artifici di un periodo storico che ci obbligherebbe a sentirci tutti estranei se non nemici.

Compagni invece di due minuti di festa sonora, l’inno variegato di una umanità che ha bisogno di fantasie ma che non vuole rinunciare ad ascoltare e a capire.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Usa: esperti Fda dicono no a terza dose Pfizer sotto i 65 anni

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Il panel di esperti indipendenti della Fda (Food and Drug Administration), l’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici, ha respinto la proposta di offrire una terza dose del vaccino anti Covid Pfizer a tutti i cittadini di età superiore ai 16 anni. Via libera, invece, al richiamo per le persone dai 65 anni in su e per i più vulnerabili, a partire dal sesto mese dopo la seconda dose. Adesso dunque la decisione finale, la prossima settimana, dovrà prenderla la Fda, che generalmente però segue le raccomandazioni dei propri esperti indipendenti.

Italia: 3,4 milioni di over 50 non si sono ancora vaccinati

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Sono 3,4 milioni (3.424.070) gli over 50 italiani che non si sono sottoposti alla vaccinazione anti Covid (nemmeno alla prima dose). Lo si apprende dal rapporto settimanale della struttura del commissario Francesco Figliuolo. Tale numero corrisponde al 12,3% della popolazione over 50. Più della metà dei non vaccinati, inoltre, rientra nella fascia di età tra i 50 ed i 59 anni, con 1,7 milioni di persone che non si sono sottoposte ad alcuna somministrazione: si tratta del 17% di tale fascia.

Il Parlamento europeo ha votato per i diritti dei riders

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I deputati del Parlamento europeo nella giornata di ieri hanno approvato, con 524 voti a favore, 39 contrari e 124 astensioni, una risoluzione avente ad oggetto i diritti dei «lavoratori delle piattaforme digitali», riferendosi con tale espressione soprattutto ai riders e agli autisti. La richiesta degli eurodeputati è la seguente: essi devono «avere la stessa protezione e remunerazione dei dipendenti tradizionali», dato che «sono spesso erroneamente classificati come lavoratori autonomi, il che non garantisce loro diversi diritti dei lavoratori, tra cui la protezione sociale». Con essa, i membri del Parlamento fanno riferimento precisamente ai «contributi di sicurezza sociale, alla responsabilità per la salute e la sicurezza e al diritto alla contrattazione collettiva».

Per affrontare tali problemi, però, il Parlamento propone alcune soluzioni: in primis si dovrebbe attuare un’inversione dell’onere della prova, con i datori di lavoro che dovrebbero essere tenuti a dimostrare che effettivamente non ci sia un rapporto di lavoro, e non viceversa. Questo infatti permetterebbe di fornire maggior certezza giuridica a queste figure professionali. Ad ogni modo, però, ciò non significa che i deputati siano a favore di una classificazione automatica di tutti i lavoratori delle piattaforme, anzi, secondo questi ultimi «coloro che sono veramente lavoratori autonomi dovrebbero essere autorizzati a rimanere in tale posizione».

Oltre a ciò, poi, per quanto concerne la salute e la sicurezza, i deputati sottolineano che, siccome i lavoratori delle piattaforme sono spesso soggetti a maggiori rischi in tal senso, dovrebbero «essere dotati di adeguati dispositivi di protezione personale, e quelli attivi nei servizi di trasporto e consegna dovrebbero avere un’assicurazione contro gli infortuni garantita».

Infine, ad essere menzionati sono anche gli algoritmi dai quali dipendono, tra l’altro, l’assegnazione dei compiti, le valutazioni e i prezzi. Ebbene, la richiesta dei deputati è che essi siano «trasparenti, non discriminatori ed etici». Nello specifico, inoltre, i lavoratori dovrebbero «avere la possibilità di contestare le decisioni prese dagli algoritmi e dovrebbe sempre esserci una supervisione umana del processo».

Detto ciò, la risoluzione può essere definita come una sollecitazione nei confronti Commissione, alla quale, in maniera neanche troppo indiretta, si chiede di affrontare adeguatamente tale tema. Quanto votato dagli europarlamentari va infatti contestualizzato: come si legge nel comunicato stampa del Parlamento, «l’attuale quadro legislativo europeo non copre le nuove realtà di questo tipo di lavoro, rendendo necessario un aggiornamento delle regole. Nel suo Piano d’azione sul Pilastro europeo dei diritti sociali, la Commissione europea ha annunciato che entro la fine di quest’anno presenterà un’iniziativa legislativa per migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme. Questa risoluzione rappresenta dunque il contributo del Parlamento a tale proposta».

Contributo che, stando ai fatti, era d’obbligo. Una regolamentazione di questo settore infatti sembra essere davvero necessaria dato che, oltre a quanto sopracitato, bisogna anche tenere conto del fatto che, secondo le stime della Commissione europea, l’economia delle piattaforme digitali è quasi quintuplicata negli ultimi anni all’interno dell’Unione, passando da un valore di «circa 3 miliardi di euro nel 2016 a circa 14 miliardi di euro nel 2020».

[di Raffaele De Luca]

Farm to Fork: in Europa lo scontro tra interessi ambientali e agrobusiness

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Nell’ultimo periodo le politiche europee che hanno a che fare con la sostenibilità ambientale stanno generando un vero e proprio scontro tra coloro che fanno parte del mondo agricolo e gli ambientalisti, con i primi che cercano di porre un limite al perseguimento della tutela dell’ambiente a tutti i costi ed i secondi che, invece, non sono disposti ad accettare mezze misure.

A tal proposito, innanzitutto bisogna ricordare che dopo il primo ok del Parlamento Ue alla riforma della politica agricola comune (PAC), con la Commissione parlamentare Agricoltura che ha approvato l’accordo di giugno del trilogo (Parlamento, Commissione, e Consiglio Ue) sui tre regolamenti che disciplineranno la PAC 2023-2027, la stessa Commissione Agricoltura (AGRI) e la Commissione Ambiente (ENVI) hanno approvato con un voto congiunto la relazione sulla Strategia Farm to Fork, presentata dalla Commissione europea nel maggio del 2020. Essa, così come la PAC, rappresenta un tassello fondamentale del Green Deal europeo (piano con cui si mira a raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050) e in tal senso con l’adozione della relazione, che «dovrebbe essere discussa e votata in plenaria ad ottobre», gli eurodeputati hanno sostenuto l’obiettivo della Farm to Fork di rendere sostenibili i sistemi alimentari dell’Ue, riducendo la loro impronta ambientale e climatica, pur continuando a garantire la sicurezza alimentare e l’accesso ad un’alimentazione sana.

Gli stessi eurodeputati che hanno dato il via libera al testo sulla strategia, hanno però anche adottato 48 “emendamenti di compromesso” ed hanno chiesto, tra l’altro, di imporre un tetto massimo nei confronti delle emissioni del settore agricolo e di «ripristinare e migliorare i pozzi di carbonio naturali». Tuttavia, proprio in seguito alle proposte dei membri delle commissioni si sono palesate le tendenze conservatrici dell’agrobusiness. Critiche sono infatti arrivate da parte di “Copa-Cogeca”, il più forte gruppo di interesse per gli agricoltori europei che esprime la voce unanime di questi ultimi e delle cooperative agricole dell’Ue, il quale tramite un comunicato ha precisato che gli eurodeputati «hanno deciso di andare oltre la strategia proposta dalla Commissione e di rendere la necessaria transizione insostenibile per gli agricoltori». Ciò poiché sono state fatte «proposte che superano il limite e mettono in pericolo la nostra sovranità alimentare, il futuro della nostra agricoltura e delle nostre zone rurali». Perciò, si legge ancora nel comunicato, Copa-Cogeca chiede a «tutti gli eurodeputati, che dovranno prendere posizione in plenaria, di sostenere la riformulazione delle proposte più penalizzanti approvate da AGRI ed ENVI così da garantire la fattibilità della transizione verso un sistema alimentare più sostenibile».

Diversa invece la posizione di Paolo De Castro, coordinatore del gruppo socialisti e democratici (S&D) alla commissione AGRI, secondo cui gli emendamenti costituiscono una «robusta correzione di rotta verso la dimensione economica e sociale». La sua visione, però, è stata criticata dal responsabile Agricoltura del Wwf Italia, Franco Ferroni, che ci ha rilasciato un commento in merito. Egli, dopo aver premesso che «le Strategie UE non sono vincolanti per gli Stati membri e devono tradursi in Direttive o norme regolamentari» e che «con l’approvazione dei nuovi Regolamenti della PAC si è persa l’occasione di recepire gli obiettivi delle due Strategie UE Farm to Fork e Biodiversità 2030, motivo per cui ora lo strumento più importante per l’attuazione di tali strategie è il Piano Strategico Nazionale della PAC (la cui redazione in Italia è in grave ritardo)», ha criticato «l’uso strumentale che alcuni parlamentari italiani (Paolo De Castro in particolare) hanno fatto con le loro dichiarazioni sul voto delle Commissioni Ue AGRI e ENVI in relazione al dibattito in corso a livello nazionale sulle due Strategie UE, con la contrapposizione della sostenibilità ambientale alla sostenibilità economica delle aziende agricole».

A tal proposito, continua Ferroni, per il Wwf e la Coalizione Cambiamo Agricoltura (lanciata in Italia da diverse associazioni tra cui il Wwf) è «un grave errore contrapporre ambiente ed economia e subordinare la sostenibilità ambientale a quella economica: entrambe sono collegate e dipendenti l’una dall’altra, e tale contrapposizione ha la sola finalità di condizionare la redazione del Piano Strategico Nazionale della PAC post 2022 riducendo al minimo gli impegni ambientali degli agricoltori pur garantendo comunque i sussidi della PAC». Dunque in questo contesto, precisa il responsabile Agricoltura del Wwf Italia, «si collocano le dichiarazioni di De Castro». Ma, aggiunge, «gli effetti dei cambiamenti climatici e della perdita di biodiversità sull’agricoltura europea e italiana sono evidenti, e continuare a rinviare l’adozione di provvedimenti efficaci per contrastare queste emergenze ambientali in nome della tutela del reddito delle aziende agricole è un grave errore. La nostra posizione critica – conclude Ferroni – non è quindi sul voto in sé del Parlamento ma sull’uso strumentale di esso da parte di alcuni Parlamentari Ue italiani, gli stessi parlamentari che hanno votato una pessima riforma della PAC post 2022».

[di Raffaele De Luca]

Missione spaziale da record per la Cina: tornati oggi sulla Terra gli astronauti protagonisti

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Nie Haisheng, Liu Boming e Tang Hongbo sono tornati oggi sulla Terra; i tre astronauti  dell’Agenzia Spaziale Cinese (Cnsa) sono rimasti in orbita per tre mesi e la loro missione (Shenzhou-12) è partita il 17 giugno, quando i tre sono partiti dal deserto del Gobi (al Nord-ovest del Paese) verso la stazione spaziale Tiangong. La suddetta missione è stata per la Cina la più lunga mai effettuata e oggi è stato confermato il corretto atterraggio della capsula takonauti, avvenuto con successo alle 7:35 (ora italiana).

La resistenza dei popoli indigeni contribuisce anche a salvare il Pianeta

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I moti di resistenza guidati dalle popolazioni indigene sono salvifici per l’ambiente. Lo si specifica nel recente rapporto Indigenous Resistance Against Carbon di Indigenous Environmental Network (IEN) e Oil Change International (OCI): basti pensare che negli ultimi dieci anni, le lotte da parte degli indigeni contro ventuno diversi progetti di combustibili fossili negli Stai Uniti e in Canada, hanno fatto la differenza. La quantità di emissioni di gas serra ritardata o del tutto fermata grazie alla resistenza voluta e portata avanti dagli indigeni è infatti equivalente ad almeno un quarto delle emissioni totali annue degli Stati Uniti e del Canada.

Una lotta che riguarda il bene di tutti

Nonostante i violenti tentativi volti a contrastare l’azione degli indigeni – dall’incarcerazioni di manifestanti pacifici a ingenti multe, alla promulgazione di leggi anti-protesta fino all’uccisione di attivisti – questi ultimi hanno portato avanti la loro battaglia anche e soprattutto impedendo fisicamente alcuni lavori per progetti già approvati e avviati. Progetti, ovviamente, molto redditizi – motivo per cui spesso le compagnie petrolifere sono arrivate a ingaggiare dei vigilantes privati, i quali hanno compiuto svariate violenze – che avrebbero portato fino a 780 milioni di tonnellate di gas serra all’anno.

Il rapporto sopracitato vuole evidenziare quanto realmente positivo e particolarmente tangibile sia il risultato che deriva dall’impegno continuo dei popoli indigeni contro i devastanti progetti di combustibili fossili, e non solo. Quello delle popolazioni indigene – e di chi appoggia queste ultime – è un impegno quotidiano da parte di chi dedica la propria vita a difendere il Pianeta. Contro coloro intenti a distruggere il mondo con l’estrazione, la risposta degli attivisti è sempre molto decisa ma non violenta; c’è stata, però, una vera e propria demonizzazione degli attivisti, senza che ci siano basi reali. Come dimostra il rapporto redatto da Dallas Goldtooth e Alberto Saldamando (leader, rispettivamente, di IEN e OCI), le diverse battaglie avvenute non hanno fatto altro che del bene al mondo e rappresentano un reale contrasto alla devastazione ambientale in atto: con i dati raccolti analizzando nove diversi gruppi di regolamentazione ambientale e petrolifera, sono state fermate 1.587 miliardi di tonnellate di emissioni annuali di gas serra, nonché l’equivalente delle emissioni di circa 400 nuove centrali elettriche a carbone (un dato che dovrebbe far riflettere, considerando che recentemente il buco dell’ozono ha raggiunto una delle estensioni più grandi e profonde degli ultimi anni, pari per dimensione al territorio dell’Antartide).

“Difensori della Madre terra”

Non solo, l’importante resistenza indigena sta avendo – e ha avuto – un essenziale impatto sociale e politico. Oltre al fatto di quanto le proteste abbiano seriamente contribuito all’intensificazione del dibattito sui combustibili fossili, la battaglia per contrastare la crisi climatica è di matrice polisemica: è anche un flusso naturale volto a contrastare l’attuale società dei consumi schiava dell’avere e combattere i sistemi coloniali e neocoloniali.

Anche se continuano le razzie e le ingiustizie nei confronti degli indigeni, il ruolo che essi riescono ad avere come “difensori della Madre Terra” è reale e di grande importanza: lo dimostra anche un recente rapporto della Fao, dal quale si evince quanto le popolazioni indigene lasciate vivere liberamente abbiano letteralmente salvato le sorti delle foreste. Dove sono presenti le popolazioni indigene, le foreste si sono conservate in maniera eccellente rispetto al resto dei territori in cui gli indigeni non riescono a condurre la propria esistenza liberamente. Ovviamente, le grandi multinazionali e le aziende in generale sono ben coscienti di come le popolazioni indigene siano un vero e proprio “antidoto” per la devastazione ambientale. Non è dunque un caso se si continua a contrastare in più modi e a più livelli un modo di vivere naturale che – come dimostrato – aiuta a salvare il Pianeta. Come il caso del parlamento indonesiano, il quale non ha approvato un importante disegno di legge sui diritti degli indigeni, già ritardato da tempo. Il motivo è sempre relativo a interessi commerciali – dove gli stessi legislatori svolgono attività legate alle industrie estrattive – che verrebbero compromessi se ci fosse il riconoscimento dei diritti alla terra degli indigeni.

[di Francesca Naima]

La Nigeria al centro della strategia anti-cinese degli Usa in Africa

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La Nigeria risulta essere sempre di più sotto l’influenza e il controllo statunitense: lo dimostrano gli avvenimenti, oltre che una serie di documenti che forniscono la cornice di riferimento entro cui tali avvenimenti si compiono. Perché il paese africano è importante per gli USA? La risposta è: idrocarburi e presenza geostrategica in funzione anticinese.

Le relazioni tra USA e Nigeria si sono andate intensificando parallelamente alla rumorosa “ritirata” dall’Afghanistan effettuata da Washington. Esercitazioni militari, addestramenti, cessioni di aerei e calorosi inviti presidenziali hanno riguardato i rapporti tra i due paesi che si sono succeduti negli ultimi mesi.

Sull’onda della ritirata afgana, lo scorso agosto, il Presidente nigeriano Muhammadu Buhari, dalle colonne del Financial Times, ha rivolto un accorato appello alle istituzioni statunitensi affinché l’Africa e il suo paese ricevano il giusto aiuto da parte degli Stati Uniti, e non solo nel settore militare e dell’antiterrorismo: energia, infrastrutture, trasporti, servizi.

Il 31 agosto scorso, alti funzionari del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ospitati dal Ministro della Difesa nigeriano Bashir Salihi Magashi e dall’aeronautica nigeriana hanno partecipato alla cerimonia di introduzione dell’aereo A-29 Super Tucano. Come parte di un più ampio programma di partnership, il Corpo degli ingegneri dell’esercito USA sta fornendo 36,1 milioni di dollari in supporto infrastrutturale alla base aerea di Kainji, per la partenza degli A-29 Super Tucano. «La Nigerian Air Force è uno dei nostri partner chiave che svolge un ruolo fondamentale nel promuovere la sicurezza e la stabilità regionale», ha dichiarato il generale Jeff Harrigian. Numerose esercitazioni congiunte si sono svolte nel corso degli ultimi decenni, specie dopo l’istituzione da parte degli USA del comando militare AFRICOM, nel 2008, la cui creazione era già stata paventata in una pubblicazione dello United States Army War College nel 2000, stesso anno dello U.S.- Nigerian Cooperation on Peacekeeping and Military Reform.

Joint Combined Exchange Training, del luglio di questo anno, è soltanto l’ultimo esempio della partnership militare che i due paesi portano avanti in ogni settore militare. La volontà statunitense è quella di contrastare la penetrazione cinese in Africa, nell’ottica della strategia globale anti-cinese.

La Nigeria, nel 2018, ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina per l’adesione del paese alla Belt and Road Initiative e l’anno successivo il gigante asiatico ha messo sul piatto 16 miliardi di dollari di investimenti nel settore petrolifero nigeriano. Gli Stati Uniti non voglio permettere alla Cina di attecchire con il proprio potere economico, Nigeria compresa, cercando di rendere costose le scelte cinesi: creare danni economici, politici o mediatico-narrativi in ogni parte del globo, così come da noi esposto nel maggio scorso, circa lo Strategic Competition Act del 2021.

L’importanza della Nigeria nello scacchiere geopolitico africano e nelle sue possibili proiezioni strategiche globali, lo si evince da due differenti documenti. Un documento è stato prodotto nel 2007 dallo Strategic Studies Institute, all’interno del quale viene delineata la strategia di contrasto alla Cina nei paesi africani ritenuti rilevanti e in cui essa cerca di operare. L’altro documento è una tesi prodotta presso la Naval Postgraduate School di Monerey, in California, ove si spiega l’interesse strategico statunitense per il Golfo di Guinea e, dunque, per la Nigeria, in ragione dei suoi immensi giacimenti di idrocarburi e per la sua posizione nella regione in merito agli interessi strategici di concorrenti come Cina, Giappone, India e stati europei.

In Africa, la Nigeria riveste un ruolo importante nella strategia statunitense di lotta al terrorismo, specie negli ultimi anni, vista la presenza del sedicente Stato Islamico della Provincia dell’Africa Occidentale (ISWAP), oltre che altri movimenti di vario stampo religioso, politico oppure etnico.

Il paese africano conta più di 200 milioni di abitanti molto diversi tra loro per cultura, religione e lingua. La Nigeria potrebbe essere una potenza economica e invece è afflitta dalla povertà, dalle sanguinose divisioni interne, dalla corruzione alimentata dalle multinazionali delle energie fossili e dai loro squadroni della morte, nonché dal disastro ambientale prodotto per l’ingente profitto di pochi e per la soddisfazione dei bisogni occidentali. Nel riassetto del potere globale la Nigeria è luogo ideali per scontri per procura, oltre che essere base stessa della proxy war statunitense in Africa nei riguardi della Cina e di tutti coloro che intendono ostacolare gli interessi USA.

[di Michele Manfrin]

Con l’inizio delle elezioni in Russia, l’app di Navalny è stata rimossa

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Nello stesso giorno dell’inizio delle elezioni parlamentari in Russia, Google e Apple hanno rimosso l’app creata per fare rimanere Alexei Navalny in contatto con i propri sostenitori. Gli alleati di Navalny, avevano infatti ideato l’app anche col fine di organizzare una campagna di voto tattica per dare un colpo a Russia Unita. È stato il FAS (Servizio Federale Antimonopoli russo) a chiedere di eliminare l’app entro il 30 settembre dagli store, accusando le aziende tecnologiche statunitensi di interferire negli affari interni russi.