mercoledì 19 Novembre 2025
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Anche il Vaticano impone l’obbligo del green pass

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Il Presidente della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano ha emesso un’ordinanza con la quale a partire dal 1° ottobre si richiede il Green Pass per l’accesso all’interno della città del Vaticano e all’interno dei “vari Organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate a tutti i visitatori e fruitori di servizi”. Sono esentati solo “coloro che partecipano alle celebrazioni liturgiche per il tempo strettamente necessario allo svolgimento del rito, fatte salve le vigenti prescrizioni sanitarie sul distanziamento, sull’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, sulla limitazione della circolazione e dell’assembramento di persone e sull’adozione di peculiari norme igieniche”.

L’era del carbone sta finalmente arretrando

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Dalla firma degli Accordi di Parigi (2015) gran parte dei piani volti a realizzare nuove centrali a carbone sono stati annullati. A rivelarlo è un nuovo rapporto dei gruppi per il clima E3G, Global Energy Monitor ed Ember richiamato anche dal prestigioso The Guardian, il quale si è occupato di riportare le novità emerse: quarantaquattro paesi hanno scelto di evitare un qualsivoglia piano futuro per l’energia a carbone (una delle più inquinanti, visto che il carbone è uno dei combustili fossili più dannosi per il clima).

Sembra quindi che la fine “dell’era del carbone” sia vicina e che le nazioni stiano mettendo in pratica parte delle decisioni prese durante gli Accordi di Parigi, nonostante una recente analisi di Climate Action Tracker abbia dimostrato quanto molti paesi siano ancora tristemente lontani dal raggiungimento di tale obiettivo. Sarebbe infatti essenziale vedere cambiare rotta anche ai trentuno paesi che – per ora – stanno mantenendo i progetti relativi alla costruzione di nuovi impianti. C’è anche da dire che la metà dei trentuno paesi citati prevede la costruzione di una sola nuova centrale, notizia che fa comunque ben sperare per il “no new coal by 2021″ (appello lanciato del Segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres); se solo la Cina – responsabile di oltre la metà dei piani mondiali per le centrali a carbone – così come India, Vietnam, Indonesia, Turchia e Bangladesh, decidessero di eliminare i propri progetti, il numero previsto di nuovi impianti a carbone si ridurrebbe del 90 per cento. Ridimensionare il più possibile l’uso del carbone è uno degli obiettivi principali per frenare la crisi climatica e, come ha suggerito l’ONU, l’utilizzo dell’inquinante combustibile fossile dovrebbe ridursi del 79 per cento rispetto ai livelli del 2019 entro la fine del decennio, se si vuole davvero tenere fede alla promessa fatta a Parigi.

Senza un reale impegno da parte di tutti paesi a eliminare gradualmente il carbone, sarà però impossibile impedire che le temperature aumentino di oltre 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, com’è stato stabilito durante gli Accordi di Parigi. Le novità diffuse dal rapporto sopracitato rimangono comunque sinonimo di alcune prime grandi vittorie, utili anche per dare il giusto via alla ventiseiesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (Cop 26), prevista per novembre a Glasgow.

[di Francesca Naima]

Amazzonia, ad agosto maggiore deforestazione da 10 anni

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L’area deforestata dell’Amazzonia ha raggiunto l’estensione maggiore registrata negli ultimi dieci anni, è quanto emerge dai dati dell’Istituto dell’ambiente e dell’uomo (Imazon), che monitora la regione via satellite. In base alle rilevazioni solo lo scorso mese sarebbero stati deforestati 1.606 km quadrati di Amazzonia (un’area maggiore di quella occupata dal comune di Roma). Sempre secondo i dati diffusi da Imazon nell’ultimo anno sarebbero andati perduti 7.715 km quadrati di foresta, con un tasso di disboscamento del 48% maggiore rispetto a quello registrato lo scorso anno.

Il Codacons vuole che siano ritirati reddito di cittadinanza e pensione ai “no vax”

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In teoria sarebbe l’associazione che tutela tutti i consumatori, in pratica il Codacons ha deciso di fare campagna contro una parte di essi, ovvero i non vaccinati. Attraverso un comunicato l’associazione ha infatti chiesto al governo italiano di aggravare lo scenario per tutti coloro che «scelgono arbitrariamente di non sottoporsi al vaccino». In particolare l’associazione chiede che, dopo l’approvazione dell’obbligo di green pass, il Governo si attivi per revocare il reddito di cittadinanza (i cui percettori sono definiti “scansafatiche del regalo 5 stelle”) e la pensione a chi non si sottopone al vaccino anti-Covid.

Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, è intervenuto nel comunicato, asserendo quanto segue: «Di fatto l’esecutivo ha introdotto l’obbligo della vaccinazione per i lavoratori, prevedendo la sospensione dello stipendio per chi non si vaccina. Lo stesso principio va adesso applicato sia a chi percepisce il reddito di cittadinanza, sia ai pensionati, istituendo la sospensione del sussidio voluto dal Movimento Cinque Stelle nei confronti degli aventi diritto che risultino non vaccinati, e la sospensione della pensione per quegli anziani che rifiutano la vaccinazione». A Rienzi evidentemente non basta che l’Italia abbia partorito la versione del passaporto sanitario più restrittiva di tutta Europa.

Nessuna reazione da parte del governo e, almeno questa volta, ci sarebbe da stupirsi del contrario. Il Codacons d’altra parte non è certo nuovo dall’ingaggiare battaglie dal marcato sapore sensazionalistico. L’associazione negli anni si è distinta per le sue battaglie ad alto coefficiente mediatico passando dagli attacchi a Francesco Totti a quelli contro Fedez, il Grande Fratello Vip, gli smartpgone e gli occhialini 3D. Fino al paradossale esposto contro la pubblicazione di una storia inedita del celebre fumetto Corto Maltese, accusato dall’associazione di inviare “un messaggio scorretto, ineducativo, fuorviante e pericolosissimo, soprattutto per i giovani lettori, per il continuo e ripetuto lasciarsi andare, da parte del personaggio del popolare fumetto, al vizio del fumo“. Molto probabile che, anche in questo caso, il Codacons non abbia fatto altro che lanciare una provocazione su un tema ad alto tasso mediatico per aumentare la propria popolarità.

 

L’Australia usa il riconoscimento facciale per sorvegliare la quarantena

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La tecnologia aiuta non poco a migliorare la vita e a semplificare alcune procedure, tuttavia ogni novità comporta insidie e diffidenze, se non addirittura brutali stravolgimenti. Ecco dunque che il 15 settembre 2021 la Commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ha lanciato un allarme sull’uso scriteriato del riconoscimento facciale, identificandolo al pari di un pericolo potenzialmente «catastrofico».

L’Australia pare non aver percepito il memorandum: proprio in questi giorni sta emergendo come Canberra si sia dedicata come non mai all’utilizzo dei dati biometrici, arrivando al punto di supervisionare la quarantena pandemica direttamente attraverso l’occhio meccanico dello smartphone. Almeno una cinquantina di viaggiatori dell’Australia Meridionale si sarebbero infatti prestati a testare delle app che permettono alle autorità di vigilare agilmente sulla corretta esecuzione delle restrizioni di movimento.

Il software lancia un segnale in un momento casuale della giornata, da allora l’utente ha 15 minuti per avviare il programma e inviare agli organi di controllo una foto attestante il fatto che non sia uscito di casa. L’immagine viene processata da un’intelligenza artificiale che possa autenticare l’identità del soggetto immortalato, mentre la geolocalizzazione conferma effettivamente che il telefono non si sia allontanato dalle coordinate prefissate. Se l’utente non risponde per tempo, l’app avvisa la polizia, la quale passa poi a fare il controllo fisico.

Parallelamente, il Nuovo Galles del Sud e Victoria si sono lanciate nell’esplorazione delle possibilità di un programma del tutto omologo sviluppato dall’azienda privata Genvis, con il risultato che almeno metà della popolazione australiana sia virtualmente candidabile a questa forma di servizio di sorveglianza. Il sistema è ormai attivo da quasi un mese, ma proprio le lapidarie dichiarazioni delle Nazioni Unite hanno spinto stampa e attivisti per i diritti civili a evidenziare su scala globale questo insolito precedente.

Una simile applicazione del controllo digitale non è comune nel mondo occidentale, men che meno se si considera che il Governo australiano non si sia troppo attardato troppo a discutere i dettagli tecnici ed etici dello strumento, caricandosi di quel pragmatismo di chi si dimostra disposto a compiere sacrifici importanti pur di ottenere risultati immediati. Le Amministrazioni coinvolte giurano che i dati saranno gestiti con discrezione e che le informazioni raccolte non saranno registrate, ma molti evidenziano la necessità di aprire una discussione pubblica sulla faccenda, magari nell’ottica di imporre una moratoria che vada a normare quest’intera branca informatica.

Osservatori governativi, sovragovernativi, ONG e accademici ci mettono costantemente in guardia sull’ampia gamma di abusi in cui i cittadini potrebbero incappare qualora il riconoscimento facciale continuasse a evolvere al di fuori di ogni regola, tuttavia l’esplorazione delle intelligenze artificiali e dei dati biometrici si dimostra sempre più cara ai Governi di tutto il mondo, i quali vedono nella digitalizzazione la soluzione a ogni problema economico e di sicurezza.

[di Walter Ferri]

I talebani istituiscono il ministero per la “prevenzione del vizio” al posto di quello delle donne

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A Kabul è stato chiuso il ministero per gli affari femminili. Al suo posto è sorto il ministero “per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”. Nonostante avessero a più riprese cercato di promuovere un’immagine politica più attenta in fatto di parità di genere, i talebani alla prova dei fatti stanno dimostrando di essere gli stessi di prima, quantomeno in tema di diritti delle donne.

Istituito nel 2001, il ministero per gli affari femminili (MOWA) promuoveva i diritti delle donne in Afghanistan, con una crescente capacità di influenzare la politica. Disponeva corsi di formazione, stabiliva partnership, facilitava il raccoglimento e l’analisi di dati di genere, pilotava e sviluppava progetti per facilitare l’integrazione economica e sociale delle ragazze, promuoveva le ONG femminili e per i diritti umani e monitorava l’azione del governo, preparando rapporti periodici sull’attuazione di politiche in favore della parità di genere.

In risposta alla chiusura del ministero e al conseguente licenziamento di tutte le dipendenti, poco più di una decina di donne si sono riunite davanti alla sede per protestare, in nome dei propri diritti e di quelli delle proprie figlie. Dopo una discussione con un uomo, se ne sono andate. I talebani non hanno commentato ufficialmente.

Il dicastero che è andato a sostituire il MOWA, con il suo inquietante nome di “ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”, esisteva già negli anni ’90, anni in cui i diritti delle donne e delle ragazze afghane sono stati regolarmente negati. Il ministero era una sorta di polizia morale, che applicava molto duramente la legge islamista, imponendo severe punizioni alle donne che non la rispettassero – punizioni che ora si teme possano tornare.

Nel frattempo, i talebani hanno anche annunciato la riapertura delle scuole secondarie, ma solo per i maschi. Una grande disfatta per la parità di genere in un paese in cui, dal 2000 al 2020, l’accesso delle ragazze all’educazione aveva visto una crescita esponenziale. E come se non bastasse, il nuovo sindaco della capitale ha chiesto alle impiegate pubbliche (che costituiscono un terzo di tutta la categoria, a Kabul) di rimanere a casa e di smettere di lavorare per un po’.

Continua insomma a crescere la preoccupazione per le sorti delle donne afghane. E le donne afghane si sentono abbandonate, non solo dal loro paese ma anche dal resto del mondo, che guarda impotente, riservando loro niente di più che un po’ di compassione. Come ha dichiarato la fondatrice dell’Afghan Women’s Network Mahbooba Seraj al quotidiano NPR, «Il mondo ci ha lasciate come fossimo una patata bollente. Ci hanno lasciate qui, e noi ci troviamo dove ci troviamo. Quindi dovremo veramente combattere per ciò in cui crediamo. Dobbiamo darci da fare.»

[di Anita Ishaq]

Attentato in Russia, aggiornamento: i morti sono sei, 24 i feriti

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Secondo quanto riportato dalle agenzie russe sono sei (non otto come inizialmente riportato) le vittime dell’attentato all’Università di Perm’, nella Russia orientale. I feriti sarebbero 24, ma su questo dato i numeri sono ancora contrastanti. Alcuni sarebbero in gravi condizioni. Inoltre l’attentatore – un diciottenne studente della facoltà – non sarebbe stato ucciso dalla polizia. I media russi hanno infatti comunicato che si trova piantonato all’ospedale locale, dove è stato ricoverato in gravi condizioni in seguito al conflitto a fuoco con le forze di sicurezza.

Dal Governo altri 20 milioni a radio e tv locali per “informare” sul Covid-19

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Il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti ha firmato il decreto che destina altri 20 milioni di euro in favore delle emittenti radiotelevisive locali che si impegnano a «trasmettere messaggi di comunicazione istituzionale, con l’obiettivo di informare i cittadini e le imprese sulle misure introdotte per fronteggiare l’emergenza Covid e rilanciare l’economia del Paese», a comunicarlo lo stesso sito ufficiale del Mise. Si tratta di 20 milioni che vanno a sommarsi ai 50 già elargiti allo stesso fine nel 2020.

Il decreto specifica che i fondi saranno così ripartiti: 17 milioni alle emittenti televisive locali, 3 alle emittenti radiofoniche locali. Della somma che andrà alle televisioni il 95% è riservato a quelle commerciali e il 5% alle comunitarie (no profit). Dei 3 milioni che andranno alle radio locali, 2.25 milioni finiranno a quelle commerciali e gli ultimi 750 mila euro alle comunitarie. Dal decreto si apprende inoltre che «il contributo è erogato secondo i criteri previsti con decreti del ministro dello Sviluppo Economico». Questi criteri non sono ancora stati pubblicati.

Quello che si sa è che «Le emittenti radiotelevisive locali beneficiarie si impegnano a trasmettere all’interno dei propri spazi informativi i messaggi di comunicazione istituzionale relativi alle misure adottate dalle autorità pubbliche per fronteggiare l’emergenza di sanità pubblica e per superare la crisi economica causata dalla pandemia COVID-19 che saranno resi disponibili dal Ministero dello sviluppo economico» (punto 3 art. 1 del decreto).

In pratica gli spot, prodotti dal governo stesso tramite il ministero dello Sviluppo Economico (Mise) dovranno essere trasmessi all’interno degli spazi informativi delle emittenti, ovvero nel corso dei telegiornali e dei giornali radio. Chiaro che le possibilità che gli spot governativi vengano scambiati da molti spettatori con contenuti giornalistici non è da sottovalutare. Rispetto ai fondi elargiti nel 2020 non è pubblico il dato che permetta di sapere quali emittenti abbiano fatto richiesta dei fondi, ma è fin troppo semplice pensare che – in tempi di crisi del mercato pubblicitario – questi fondi siano un toccasana per i bilanci di molte emittenti.

Revoca dei licenziamenti della Gkn: accolto il ricorso Fiom

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La Fiom si era inizialmente rivolta al giudice del lavoro lo scorso 30 luglio, con un ricorso per comportamento antisindacale ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. Oggi, il Tribunale di Firenze ha espresso il suo giudizio su tale ricorso, presentato contro la discussa scelta della Gkn Driveline Firenze di Campi Bisenzio: presentare una lettera per aprire la procedura di licenziamento collettivo. La Gkn Driveline Firenze è ora tenuta a revocare la lettera di apertura della procedura ex L. 223/91.

Per proteggere l’ambiente è ora di ripensare il commercio marittimo

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Il commercio via mare non è stato abbastanza presente nell’importante dibattito sulla riduzione delle emissioni globali, motivo che ha portato molte comunità nel mondo a muoversi purché venga riconsiderato il pesante impatto ambientale da esso causato. Sorge quindi la necessità di un drastico cambiamento di rotta, fino a ridurre a zero le emissioni di gas serra causate dal trasporto marittimo internazionale entro e non oltre il 2050; questa è l’ultima richiesta avanzata da alcuni stati delle Isole del Pacifico (la Repubblica delle Isole Marshall, Kiribati e le Isole Salomone) i quali, la scorsa settimana, si sono rivolti all’International Maritime Organization (Imo, ovvero l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di regolare il trasporto navale).

L’80 per cento, circa, del commercio globale avviene grazie alle navi da carico alimentate da combustibili fossili, responsabili dell’emissione di quasi 940 milioni di tonnellate di CO2 all’anno (circa il 2,5 per cento delle emissioni di gas serra nel mondo): un dato allarmante che, invece di diminuire, sembra stia pericolosamente aumentando. Infatti, senza una drastica azione da parte di tutti – mettono in guardia i ricercatori – entro il 2050 il trasporto via mare potrebbe arrivare a generare ben il 10 per cento di tutte le emissioni globali. Secondo un recente rapporto dell’IPCC, l’obiettivo stabilito durante gli Accordi di Parigi – ovvero limitare il riscaldamento a circa 1,5 gradi centigradi – è ancora possibile ma solo se verranno messi in atto dei cambiamenti molto significativi, da parte di tutti. A breve avrà anche luogo la ventiseiesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (Cop 26, prevista per novembre a Glasgow) e sarà decisivo trattare – anche – di un’attività tanto inquinante come quella del trasporto marittimo, troppo trascurata fino ad oggi. Seguendo le novità emerse dell’ultimo rapporto dell’IPCC, il mancato raggiungimento dell’obiettivo stabilito nel 2015 a Parigi porterà all’innalzamento del livello del mare, che causerà la perdita di interi paesi, in particolare nella regione del Pacifico.

Nonostante ciò, per il momento l’Imo prevede soltanto di dimezzare le emissioni dei trasporti marittimi entro la metà del secolo, ed ecco perché gli stati insulari del Pacifico hanno chiesto di riconsiderare tale piano, per allineare al meglio anche il settore marittimo, cosicché si possa realmente raggiungere quanto deciso durante gli Accordi di Parigi. Anche a marzo di quest’anno, le Isole Marshall e le Isole Salomone, avevano avanzato la proposta di introdurre una tassa sul carbonio, che avrebbe incentivato il passaggio dai combustibili fossili a nuovi combustibili a zero emissioni di carbonio. I portavoce fanno sapere che la proposta per una tassa sul carbonio sarà discussa all’Imo a ottobre, e poi alla 77esima riunione del comitato per la protezione dell’ambiente marino dell’Imo a novembre, momento in cui si dibatterà anche sulla proposta appena presentata relativa al commercio navale a emissioni zero.

[di Francesca Naima]