giovedì 18 Settembre 2025
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Basta bugie e diffamazioni: il movimento No Tav querela il direttore di Repubblica

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Oltre 150 No Tav hanno depositato le «prime querele contro Maurizio Molinari, direttore de la Repubblica»: lo si apprende dal sito Notav.info, all’interno del quale si legge che venerdì 19 novembre gli attivisti si sono ritrovati per tale motivo «davanti al Tribunale di Torino e alla Caserma dei Carabinieri di Susa». La scelta di querelare Molinari si basa sulle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo lo scorso 10 ottobre durante la trasmissione Rai “Mezz’ora in più”, che sono state ritenute dai No Tav «diffamatorie» nei loro confronti.

«I No Tav sono un’organizzazione violenta, quanto resta del terrorismo italiano degli anni ’70. Aggrediscono sistematicamente le istituzioni, la polizia, anche i giornali. Minacciano i giornalisti a Torino e la cosa forse più grave è che sono in gran parte italiani che si nutrono anche di volontari che arrivano da Grecia, Germania ed a volte dalla Francia». Sono queste le affermazioni che i No Tav contestano a Molinari, il quale ha aggiunto che «per un torinese No Tav significa sicuramente terrorista metropolitano» e che «la cosa più grave nei confronti dei No Tav è che siccome si avvolgono di una motivazione ambientalista, quando questa motivazione viene legittimata loro reclutano, con una dinamica che ci riporta davvero agli anni ’70».

Secondo i No Tav, però, «applicare l’etichetta di terrorismo ad un movimento sociale da tanti anni insediato sul territorio della Val di Susa e radicato in una vasta comunità di cittadini, non solo valsusini, vuol dire proporre una equiparazione non solo falsa e incongrua, ma altamente diffamatoria sia nei confronti dell’intero movimento No Tav che nei confronti dei singoli che ne sono parte». Gli attivisti quindi ritengono che Molinari abbia utilizzato «espressioni pretestuosamente denigratorie e gratuitamente offensive intese a screditare l’avversario politico».

In tal senso, i No Tav ricordano di essere «persone comuni» e «sicuramente non terroristi», come dimostrato anche dal fatto che «nell’unico caso in cui in un “processo No Tav”, per uno specifico fatto accaduto al cantiere di Chiomonte, è stata contestata a 4 imputati la finalità di terrorismo, tale ipotesi abbia ricevuto ripetute e sonore smentite da parte dell’autorità giudiziaria». Per tutti questi motivi, dunque, gli attivisti hanno querelato il direttore del quotidiano la Repubblica, ribadendo di non avere intenzione di lasciarsi intimidire «dalle dichiarazioni di uno dei tanti giornalisti che da sempre sono dichiaratamente Si Tav e che puntualmente si ritrovano a parlare (a sproposito) della lotta dei No Tav».

[di Raffaele De Luca]

Sudan, proteste anti golpe: sale a 40 bilancio dei morti

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Da quando, il mese scorso, i militari hanno preso il controllo del Sudan, è salito ad almeno 40 il bilancio dei manifestanti che hanno perso la vita durante le proteste anti colpo di Stato all’interno del Paese. A riferirlo è stato il Comitato centrale indipendente dei medici del Sudan, il quale nella giornata di oggi ha comunicato che le vittime sono arrivate ad essere 40 in seguito al decesso di un 16enne che mercoledì scorso era rimasto gravemente ferito durante le proteste. Quel giorno, infatti, è stato il più sanguinoso da quando sono iniziate le manifestazioni e 16 persone hanno perso la vita.

L’emergenza climatica nel disegno delle élite globali

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In un mondo in cui la pubblicità la fa da padrone, l’immagine è tutto. Oggigiorno il marketing è immanente e comprende ogni aspetto della vita. Come comprensibile che sia, il settore economico è re e alfiere della pubblicità ma anche la politica è oggi qualcosa di molto simile ad una permanente campagna pubblicitaria che si combatte a colpi di slogan e cinguettii. Alcuni movimenti ambientalisti sono stati inglobati in questo tipo di comunicazione ad effetto, facendo calare sulla società le ombre della manipolazione, con il risultato che la questione ecologica venga da molti vista non come un vero problema ma accostata a qualcosa di sospetto. Come se fosse l’ultima emergenza fittizia inventata dalle élite e propinata al “popolo bue” per imporre i propri disegni egemonici. Di fondamentale importanza è coltivare il dubbio, che deve però essere sviscerato con discernimento rispetto alla complessità di domande che si rivolgono al tema, direttamente e indirettamente, avendo chiara la varia collocazione dei punti che compongono la costellazione del problema indagato.

Ecologia, potere e marketing

Risulta quindi chiaro che l’aspetto ecologico, interdipendente a quello sociale, è una questione problematica da affrontare nel discernimento della complessità. Sotto gli occhi di tutti è il degrado ecologico degli ambienti naturali con inquinamento pesante di acqua, terra e aria. Al di là della “questione climatica”, la distruzione degli ecosistemi è innegabile. Allo stesso tempo, proprio perché non dobbiamo dividere il mondo in bianco e nero o ridurre tutto ad un codice binario di zero e di uno, non si può che comprendere gli enormi dubbi che le persone si pongono su mirabolanti progetti, promesse utopiche, approcci paternalistici e forzature di linguaggio. A maggior ragione quando il “cambiamento” dovrebbe essere portato da chi la situazione da cambiare l’ha creata: in altre parole, quando la soluzione al problema viene proposta proprio da chi questo problema lo ha generato. Risulta quindi lecito coltivare dubbi e resistenze rispetto alla narrazione di coloro che adesso sostengono lo “sviluppo sostenibile” ma che hanno guidato il mondo insostenibile fatto di sfruttamento della natura e dell’uomo, da cui hanno tratto immensi profitti. Quindi, perché il potere capitalistico, dopo anni di negazionismo e ostracismo, ora “picchia” così costantemente sullo “sviluppo sostenibile” affinché si risolvano i problemi ecologici?

Dagli anni Ottanta le pratiche di greenwashing sono diventate man mano sempre più diffuse e si sono avvalse delle tecniche di marketing più all’avanguardia, sostenute da montagne di soldi. Oggi, il greenwashing – ovvero l’attuare strategie di comunicazione e marketing per presentare come falsamente ecosostenibili ed attente all’ambiente le proprie attività – sembra essere diventato endemico nel mercato capitalistico che cerca di rivoluzionarsi nel tentativo di cambiare tutto affinché niente cambi. Tradotto: stravolgere la società umana al fine di mantenere chi detiene le leve del potere ai posti di comando. Il “lavaggio verde” non è più rivolto a singole cause e questioni bensì è legato indissolubilmente all’ideologia dominante capitalista, dall’economia reale alla finanza, di cui è massima espressione il World Economic Forum, ovvero il consesso mondiale delle grandi multinazionali. La pratica delle “menzogne verdi” oggi non coinvolge più solo le grandi aziende, ma è divenuta pratica usuale dei governi stessi, a partire da quello italiano guidato dall’ex banchiere Mario Draghi, che anche su questo tema si sta dimostrando un laboratorio d’avanguardia.

Nuova energia stesso sistema

Le multinazionali impegnate nel settore delle risorse fossili sono quelle che applicano il greenwashing in maniera più sfacciata e palese rispetto ad ogni altro settore; d’altronde fu proprio tale settore produttivo dell’economia capitalista che per primo sentì la necessità di dare all’opinione pubblica una diversa immagine del proprio operato. Il settore energetico è quello che in maniera più evidente è sottoposto alla narrazione dello “sviluppo sostenibile” e, così, la “transizione energetica” sembra essere al centro dell’attenzione dell’intera azione riguardo ciò che viene definito “cambiamento climatico” ma che in maniera più verosimile è degrado ecologico e sociale. Perché questo? L’energia è alla base di tutto e fa muovere il tutto, compresa la nostra società. Controllare il settore energetico appare dunque strategico per controllare ampie parti della società nel suo complesso. Appreso questo è facile comprendere come il potenziale di cambiamento che la transizione energetica porta con sé non è solo ecologico, bensì politico. A differenza degli impianti che utilizzano risorse fossili per la produzione di energia, i quali necessitano di ingenti capitali che concentrano il potere nelle mani di pochi, le energie rinnovabili permetterebbero, con la loro diffusione, il decentramento energetico e la democratizzazione energetica. Ma la logica che si vuol applicare all’energia rinnovabile è la medesima: il concentramento energetico, quindi economico, politico e sociale. Sembrerebbe quindi che la “crisi climatica” sia tutta da ascrivere al tipo di energia utilizzata – e di CO2 prodotta – per spingere avanti l’enorme macchina del mercato capitalista globale. In sostanza, si vorrebbe mettere il catalizzatore all’economia della competizione e dello sfruttamento. Tutto deve cambiare affinché niente cambi davvero, ignorando il reale degrado ecologico mondiale prodotto dal sistema produttivo e distributivo di tipo capitalistico il quale produce  – specialmente con la massiccia componente tecno-digitale – anche la degradazione dell’uomo e del sociale.

Ecologia, finanza e nuova umanità

Come spiegato nel Monthly Report di agosto, nell’approfondimento “Big Three”: i fondi d’investimento che comandano il mondo, in cui vi avevamo parlato del posto di primo rilievo che la finanza ha, e in particolare i fondi d’investimento (alcuni in particolare), nella gestione del potere globale, il settore finanziario pone il proprio peso anche nella questione ecologica tanto nelle sue cause e problematiche quanto nelle soluzioni offerte alle stesse. Da dieci anni a questa parte, abbiamo potuto vedere l’esplosione dei titoli azionari ESG (Environmental, social, governance) che indicano titoli d’investimento che operano in maniera virtuosa nei confronti dell’ambiente, nel sociale e nella governance. L’analista finanziario Roman Gaus, scagliandosi contro il greenwashing, ha recentemente affermato: «L’investimento sostenibile non è mai stato completamente definito. Gli approcci ESG e di investimento sostenibile come le tematiche sostenibili, le basse emissioni di carbonio o gli investimenti a impatto variano in modo significativo in termini di qualità e sostanza, creando la falsa interpretazione che siano ugualmente sostenibili. Prendiamo l’allineamento climatico, ad esempio uno studio EDHEC ha rivelato che quando si confronta un fondo etichettato come “verde” con un fondo di investimento convenzionale, i pesi delle azioni sono diversi solo del 12%, mentre il restante 88% è lo stesso».

E poi dovremmo chiederci: chi, e sulla base di cosa, decide quando un titolo (quindi, un’azienda) sia virtuoso? Persino Steven Maijoor, Presidente dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA), già lo scorso anno si è interrogato su questo aspetto, chiedendo che l’UE intervenga sulla questione. Recentemente, 57 organizzazioni – che gestiscono 8,5 mila miliardi di euro di attività – hanno pubblicato una lettera aperta in cui si chiede che vengano adottati dei criteri standard globali per i titoli ESG. Queste organizzazioni sostengono, in materia finanziaria, l’operato della Fondazione IFRS sul lancio dell’International Sustainability Standards Board (ISSB). In aperta adesione al Green Deal europeo, tali soggetti spronano la Commissione europea ad unirsi alla loro “missione”. Tra i firmatari della lettera troviamo soggetti come Eni, Enel, Leonardo, Snam, Deutsche Bank, Allianz, Total Energies, ABN AMRO, HEINEKEN e altri. La lettera è inoltre sostenuta dal World Economic Forum (WEF), dall’European Round Table for Industry, dal Value Balancing Alliance e dal World Business Council for Sustainable Development (trovate la lettera completa sul sito del WEF).

Greenpeace ha recentemente definito “lavaggio verde” il sistema delle compensazioni di carbonio e la questione climatica sembra essere tornata in cima alla classifica delle preoccupazioni umane, scalzando la pandemia. E c’è chi sembra voler accostare e intersecare la crisi climatica con quella pandemica, volendo affrontare le due problematiche con narrazioni e strumenti simili tra loro, quando non addirittura interdipendenti: questo qualcuno si chiama ancora World Economic Forum.

Le grandi manovre in corso alla COP26

Al G20 tenutosi a Roma, si è parlato di clima ma anche di Covid-19 e vaccini. In tale occasione, il nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha affermato: «Abbiamo intensificato i legami tra finanza e salute anche perché è necessario per prevenire le epidemie, le nuove pandemie e soprattutto, in generale, per assicurarci una preparazione ai prossimi, purtroppo inevitabili, drammi sanitari».

Pochi giorni dopo l’evento internazionale svoltosi nel Bel Paese, si è aperto un altro consesso mondiale, a Glasgow, Scozia, specificamente rivolto alle tematiche ambientali: la CoP26, conferenza delle Nazioni Unite sul clima. In questa occasione Mario Draghi è intervenuto dicendo che «i soldi non sono un problema» e che il settore privato dovrà essere sostenuto dal quello pubblico; tradotto: una marea di soldi dei cittadini in favore di banche e multinazionali, allo scopo dichiarato di «condividere con il settore privato i rischi che quest’ultimo non può sopportare». Insomma le possibili perdite vanno socializzate mentre i profitti rimarranno in poche mani: un mantra del neoliberismo.

Accettare la sfida, pretendere la verità

Draghi, in una specie di monito finale, ha altresì avvertito che il cambiamento climatico «ha anche ripercussioni serie sulla pace e la sicurezza globali». Tant’è che nel discorso di apertura dell’evento, il Principe Carlo – erede al trono britannico – ha detto: «Il mondo deve mettersi in una disposizione di spirito bellica, da ultima spiaggia, di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici che incombono sul pianeta. Dobbiamo metterci sul piede di guerra». E come la pandemia è stata più volte accostata ad una guerra – con congrui atti legislativi e amministrativi – anche la questione climatica inizia ad assumere una disposizione bellica. E lo stato di guerra, dichiarato formalmente o meno, come abbiamo già visto, implica leggi e società di guerra. Insomma, se è vero (e lo è) che l’emergenza ecologica è grave e reale, altrettanto vero è che i soliti hanno già apparecchiato la tavola per trasformare l’emergenza in un’abbuffata senza precedenti. In apertura del pezzo si parlava dell’importanza di discernere e comprendere la complessità dei fatti. In questo caso la soluzione non è negare l’emergenza in sé, ma contrastare il modo in cui l’élite politico-finanziaria globalista intende risolverla.

[di Michele Manfrin]

Dyson Award 2021, 3 i vincitori del premio per l’innovazione tecnologica

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Per la prima volta quest’anno sono 3 i vincitori del Dyson Award, il riconoscimento internazionale conferito a giovani ingegneri che realizzino progetti innovativi utili alla società. Il premio sostenibilità è andato all’olandese Jerry de Von per il Plastic Scanner, uno strumento portatile che permette di ridurre l’inquinamento da plastica riconoscendone i differenti tipi. Ad un trio di ricercatori di Singapore è andato il premio per l’invenzione di un guanto per misurare in modo indolore, autonomo e a basso costo la pressione intraoculare e poter così diagnosticare per tempo il glaucoma. Il terzo premio è andato a Joseph Bentley, dell’Università di Loughborough, per l’invenzione di uno strumento che permette di ridurre l’emorragia nelle ferite da taglio. Ciascun vincitore ha ricevuto la somma di 33 mila euro per sviluppare ulteriormente i progetti.

La libertà è parlare

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“Noi del sottosuolo bisogna tenerci a freno. Siamo magari capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant’anni, ma se una volta usciamo alla luce, e ci apriamo un passaggio, allora si parla, si parla, si parla…” (F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, 1864).

“Si è come malati senza libri. L’essenza della mia anima è come stordita. Quante ore perdute, quante ricchezze sfuggite, inaccessibili… Ma con rimpianto penso alla vita vera, quella degli uomini liberi… Una sfiducia generale regna nel campo e nella nostra baracca. Il disinteresse più assoluto per la sorte degli altri, la mancanza di solidarietà e di cordialità. È quasi impensabile uno scambio di idee qualunque, un contatto intellettuale o semplicemente umano” (Hanna Lévy-Hass, Diario di Bergen-Belsen, 29 agosto 1944).

“Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione… è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue… A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.” (C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, 1945).

“Ogni parola scritta e ogni parola a segni si sono trovate sorelle… Il segno, questa danza delle parole nello spazio, è la mia sensibilità, la mia poesia, il mio intimo, il mio stile vero…Gli udenti non si sforzano abbastanza. Ce l’ho con loro… Riesco a chiamare qualcuno soltanto tirandolo per un lembo del vestito. Una manica, il fondo della gonna o dei calzoni… L’indomani della cerimonia dei Molières, nei giornali, a caratteri cubitali, suppergiù lo stesso titolo: ‘La sordomuta ottiene il Molière’. Non Emmanuelle Laborit… Il mio nome è scritto a caratteri piccolissimi sotto la fotografia” (E. Laborit, Il grido del gabbiano, 1994).

La libertà, prima di tutto, è fatta di parole. Dostoevskij e Hanna Lévy-Hass, nel loro spazio concentrazionario, Carlo Levi, confinato nel paesino dal regime fascista, Emmanuelle, isolata dal mondo perché sordomuta in forma grave, ma poi vincitrice come attrice del premio Molière, tutti convergono a pensare alla parola, alle parole come veicolo di libertà. E di pensiero.

Il filosofo americano Charles Peirce, 1868, ricordava che l’essere umano isolato non potrebbe realmente né ignorare, né sbagliare; il pensiero infatti è tale perché esso si rivolge ad altri, perché diventa parola-segno, perché produce un pensiero successivo, da qualcun altro più o meno condiviso: “L’esistenza del pensiero in questo momento dipende da ciò che sarà tra poco: esso ha soltanto un’esistenza potenziale, che dipende dal futuro pensiero della comunità”.

Anche il fraintendimento è dunque parte costitutiva della libertà di parola come pure, ovviamente, il consenso inatteso.

Ne discende la necessità, l’importanza del dialogo, dell’esercizio sociale della parola, come hanno sostenuto molti filosofi e linguisti russi, da Mihail Bachtin a Vygotskij: “Tutta l’attività della coscienza è connessa con lo sviluppo della parola: essa è assolutamente impossibile per una persona sola ma è possibile per due… La coscienza riflette se stessa nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza come una cellula viva al suo organismo, come l’atomo al cosmo. La parola dotata di senso è il microcosmo della coscienza umana” (Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934).

L’idea che la coscienza non si attivi semplicemente con un dialogo con se stessi ma attraverso una verifica, con altri soggetti parlanti, dei contenuti e delle intenzioni del linguaggio certamente porta a delle conseguenze. Scriveva ad esempio Marcel Proust che “la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri”.

Tutte condizioni, per semplificare, che corrispondono all’idea di responsabilità: il bisogno di risposta che è insito nel nostro parlare ed agire si può soddisfare soltanto se chi ha preso la parola non smentisce quanto ha detto, semmai rettifica, precisa, si corregge oppure conferma, argomenta, insiste. Eppure l’ipocrisia, cioè la volontà di nascondere intenzioni utilitaristiche dietro formalismi di trasparenza e correttezza, è una delle trappole del sistema democratico. Come il disaccordo pregiudiziale, la volontà di essere ostili, di non capire o di non cedere, tipica dei social.

Da qui la profonda difficoltà a condurre dibattiti costruttivi, ad esempio in televisione, se il conduttore ha idee e valutazioni precostituite. Lo spettatore non si sentirà più rappresentato e subentrerà la sfiducia, la disillusione, la rabbia; avvertirà, come annotava Kierkegaard, di far parte “di un gigantesco qualcosa, un vuoto astratto e deserto che è tutto e nulla” (L’età presente, 1846).

La libertà dunque è parola ma è soprattutto lasciare la parola, liberarla dalle nostre intenzioni, accettare che assuma altri destini, cioè altri significati.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Il nuovo stadio di San Siro si farà: ma a chi serve realmente?

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Dopo anni di trattative, c’è l’accordo. I rappresentanti di Inter e Milan hanno incontrato l’amministrazione comunale per gettare fondamenta più concrete per il nuovo stadio “Giuseppe Meazza” di San Siro. L’idea è un progetto mastodontico che va ben oltre le finalità calcistiche. Le due squadre chiedono, infatti, due centri commerciali, dei grattacieli per uffici, un grattacielo per un hotel e un centro congressi. Cemento e consumismo sono quindi le parole chiave dietro l’intenzione, non troppo mascherata, di speculare grazie ad un’infrastruttura tutt’altro che necessaria. I comitati di quartieri sono contrari al progetto in quanto temono il caos che ne deriverebbe, così come lo sono i Verdi, i quali, tuttavia, puntano alla mediazione e pensano a un referendum civico.

Il problema principale riguarderà il consumo di suolo. Tra il 2006 e il 2020, in Italia, sono stati cementati oltre 1.000 chilometri quadrati di terreno in più e, tra il 2012 e il 2020, altri 446. Secondo l’ultimo rapporto del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa), a subire l’incremento maggiore è stata proprio la Lombardia con 765 ettari in più in un solo anno. E sono i progetti come quello previsto per il quartiere milanese di San Siro a peggiorare le cose. «Il piano allargato prevede costruzioni a ridosso delle case e l’impermeabilizzazione di un’area verde di 5 ettari piantumata», ha dichiarato al The Submarine Gabriella Bruschi, presidente del Comitato coordinamento San Siro che da oltre due anni si oppone al progetto. Un impatto non da poco, soprattutto, alla luce di due fattori: le criticità interne delle aree urbane e l’espansione di quest’ultime verso settori esterni un tempo naturali, ora, sempre più frammentati. Ancora peggio, poi, considerando che le alternative ci sono. Come ad esempio ristrutturare il Meazza anziché raderlo al suolo e raddoppiarne la superficie edificata. «Prima del Covid ho parlato con gli ingegneri strutturisti che hanno lavorato al Meazza nel corso degli anni – ha aggiunto Bruschi – e hanno certificato di loro pugno che lo stadio sta benissimo, può sopportare qualsiasi tipo di ristrutturazione».

Il sindaco Sala, dal canto suo, avrebbe imposto tre condizioni: il rispetto dei volumi di costruzione indicati nel Piano di fattibilità, la riconversione dell’attuale stadio in “distretto dello sport” e che le nuove edificazioni non superino il limite previsto nel Piano di governo del territorio. O meglio, ha perlopiù ricordato quali sono le regole da rispettare. L’unico modo per limitare l’impatto sul territorio, infatti, sarebbe quello di non avviare i lavori. Ma gli interessi in ballo sono tanti e tutti che vanno ben oltre il dare un nuovo stadio ai tifosi: in parole povere, si tratterebbe di un’investimento immobiliare. Non molti anni fa, sia il Milan che l’Inter sono state infatti acquisite da due fondi d’investimento esteri: il cinese Suning Holdings Group per i Nerazzurri e lo statunitense Elliott per i Rossoneri. Ad oggi, quindi, sono due Società per azioni, per le quali basterebbe già la conferma del progetto per farle salire di valore. Valore di cui entrambe, alla luce dei bilanci economici, ne hanno evidentemente bisogno. La conferma di ciò e dell’intera strategia celata dietro la costruzione del nuovo stadio viene proprio da Paolo Scaroni, presidente del Milan ed ex Amministratore delegato di Eni. «Elliott un giorno rivenderà il club – ha dichiarato – è parte del loro lavoro. Stanno preparando un nuovo Milan, che sarà valutato al giusto prezzo da un nuovo proprietario. Abbiamo bisogno di un nuovo stadio, perché è questa la strada per crescere. Non sono tanto i posti di lavoro, ma la necessità di un’altra attrazione per Milano. La gente verrà a vedere anche questo nuovo stadio, che sarà emblematico di come questa città possa essere moderna e al top».

[di Simone Valeri]

Rotterdam, violente proteste contro restrizioni per Covid: 20 feriti e 7 arresti

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È di almeno 20 feriti e 7 arresti il bilancio di una manifestazione svoltasi a Rotterdam nella serata di ieri. I dimostranti protestavano contro la reintroduzione di restrizioni alla circolazione, voluta dal Governo come misura di contrasto alla pandemia da Covid 19. Il corteo, inizialmente pacifico, ha presto assunto i torni di una guerriglia urbana: alcuni veicoli sono stati dati alle fiamme e sono stati sparati fuochi d’artificio. La polizia ha prima utilizzato i cannoni ad acqua, poi ha sparato in aria alcuni colpi di avvertimento. Testimoni riferiscono che in seguito la polizia abbia sparato ad altezza d’uomo, causando almeno 2 feriti. Sono stati attaccati con il lancio di pietre anche i pompieri intervenuti per spegnere gli incendi ed un giornalista è stato aggredito.

Stati Uniti: Joe Biden cede temporaneamente poteri a Kamala Harris

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Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, essendo stato sotto anestesia per una colonscopia di routine, nella giornata di oggi ha traferito temporaneamente i suoi poteri alla vicepresidente Kamala Harris. Quest’ultima, secondo quanto riportato dalla CNN, per 85 minuti è diventata la prima donna ad assumere i poteri presidenziali.

Plastic Scanner: una invenzione semplice ed economica può aiutare il Pianeta

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Uno scanner per identificare la plastica è stato uno dei premiati al James Dyson Award – concorso internazionale per giovani inventori. Si tratta di un dispositivo tecnologico economico e portatile, che potrebbe ottimizzare lo smistamento dei rifiuti. Il suo utilizzo è molto semplice: basta appoggiarlo alla plastica e questo segnala da quali materiali è composta, permettendo di riconoscerla e identificare se riciclabile.

Il 91% di plastica nel mondo non viene riciclata. Una quantità esorbitante, considerando che l’uomo produce più di due miliardi di tonnellate di rifiuti, e 300 milioni di tonnellate di questi sono di plastica. Inoltre, i dati dimostrano che la maggior parte della plastica che attualmente inquina le acque del nostro pianeta, proviene prevalentemente da paesi in via di sviluppo, i quali hanno sistemi di raccolta di rifiuti spesso inefficienti se non, addirittura, inesistenti. Proprio questa triste realtà ha spinto il giovane Jerry de Vos dell’università tecnica olandese Tu Delft, a fare qualcosa. 

Per la progettazione del Plastic Scanner, l’ingegnere è partito dalla tecnologia con spettroscopia a infrarossi alla base del progetto ReReMeter – sviluppato da Armin Straller – riuscendo a implementarla e a creare un dispositivo più sofisticato ma meno costoso. Cosa rende, quindi, il Plastic Scanner diverso dagli altri? Per prima cosa, l’apparecchio è caratterizzato da una versione più economica delle tecniche di spettroscopia a infrarossi -impiegata nei grandi impianti di smistamento -, chiamata “spettroscopia a infrarossi discreta”. In secondo luogo, è composto solo da due elementi: una scheda breakout da assemblare e le istruzioni su come trasformarla in un dispositivo portatile. Infine, lo scanner ha un hardware completamente open source, ciò significa che tutte le informazioni riguardanti le sue funzionalità sono disponibili, e che esperti di tutto il mondo possono contribuire al suo miglioramento.

[di Eugenia Greco]

Usa: ok Fda a terza dose Pfizer e Moderna per gli over 18

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La FDA, l’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici, ha autorizzato l’uso in via d’emergenza della terza dose del vaccino anti Covid Pfizer e di quello Moderna per tutti gli individui di età pari o superiore ai 18 anni. Se i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) daranno la loro approvazione in tal senso, alle persone che hanno ricevuto la seconda dose del vaccino Pfizer o Moderna da almeno sei mesi ed a quelle che hanno completato il ciclo di vaccinazione primario sottoponendosi al vaccino Johnson & Johnson da almeno due mesi, potrà essere somministrata la terza dose.