giovedì 18 Settembre 2025
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La FDA chiede 55 anni di tempo per rilasciare i dati sul vaccino Pfizer

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La FDA, l’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici, recentemente ha chiesto ad un giudice federale del Texas 55 anni di tempo per rilasciare completamente i dati in suo possesso sull’autorizzazione del vaccino anti Covid della Pfizer. Come si legge nel documento ufficiale della corte del Distretto Settentrionale del Texas, infatti, la richiesta della FDA è quella di fornire le 329.000 pagine di documenti che Pfizer ha messo a disposizione di quest’ultima per l’autorizzazione al ritmo di 500 pagine al mese, il che appunto significa che essi non verrebbero rilasciati prima del 2076. Tale modus operandi viene giustificato degli avvocati del Dipartimento di Giustizia (DOJ) – che rappresentano l’ente regolatore statunitense – con il fatto che fornire 500 pagine al mese sarebbe «coerente con i programmi di elaborazione inseriti dai tribunali di tutto il paese nei casi riguardanti il FOIA (Freedom of Information Act)».

La richiesta della FDA fa infatti seguito ad una causa basata sul (FOIA)- la normativa che garantisce a chiunque il diritto di accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni – ed intentata a settembre proprio con il fine di far rilasciare all’organo statunitense queste informazioni. A citare in giudizio la FDA è stata Public Health and Medical Professionals for Transparency, un’associazione composta da oltre 30 scienziati e professori di università, i quali ritengono che rilasciare tali dati aiuterebbe a rassicurare le persone che nutrono dubbi sui vaccini dimostrando che essi sono davvero sicuri ed efficaci. In tal senso, gli avvocati dei querelanti sostengono che la FDA dovrebbe rilasciare tutto il materiale entro il 3 marzo 2022, e non entro il 2076. I querelanti in pratica chiedono che le informazioni in questione vengano messe a loro disposizione in un «periodo di 108 giorni», ovvero sia lo stesso tempo impiegato dalla FDA per «rivedere i documenti sensibili per il compito molto più intricato di autorizzare il vaccino COVID-19 di Pfizer».

Tali affermazioni si basano sul fatto che la richiesta dovrebbe essere considerata come una priorità in quanto «l’intero scopo del FOIA è assicurare la trasparenza del governo ed è difficile immaginare che vi sia qualche necessità di trasparenza più importante della divulgazione immediata di questi documenti». In più, gli avvocati dei querelanti sostengono anche che oltretutto il titolo 21 delle norme della FDA stessa stabilisce che l’agenzia deve rendere «immediatamente disponibili tutti i documenti alla base dell’autorizzazione di un vaccino». Nonostante tutto ciò, però, la FDA come detto ha un’idea differente, e se il giudice federale del Texas dovesse essere d’accordo con quanto sostenuto dall’ente regolatore i documenti verrebbero rilasciati in maniera completa solo nel 2076.

[di Raffaele De Luca]

Scuola: studenti protestano in tutta Italia

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Nella giornata di oggi in tutta Italia gli studenti hanno protestato per opporsi alla legge di bilancio e per chiedere maggiori investimenti sul diritto allo studio nonché un cambiamento strutturale dell’istruzione pubblica. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Ansa, sono oltre 150.000 i ragazzi che – in più di 80 piazze italiane – si sono mobilitati. In tal senso, Milano, Torino, Roma e Napoli sono solo alcune delle grandi città in cui hanno avuto luogo le manifestazioni.

L’Euro digitale sarà realtà: il prototipo nel 2023

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La Banca Centrale Europea (BCE) ha confermato le tempistiche per l’euro digitale. A sottolineare il piano d’azione è stato ieri, giovedì 18 novembre, Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della BCE ed ex direttore della Banca d’Italia, il quale ha sintetizzato in un discorso al Parlamento UE la scaletta delle tempistiche: brainstorming e valutazioni varie fino a inizio 2023, quindi via con i test.

Panetta, il quale presiede la task force che si sta occupando del progetto, è imbarcato attualmente in un’azione di proselitismo d’ampio spettro, la sua voce riverbera tanto nei corridoi del Potere quanto sulla carta stampata, il che offre ovviamente un’ottima esposizione al messaggio della BCE, ovvero che il conio digitale sia un futuro indispensabile e necessario.

Il perché di questa necessità viene esplicitato senza mezzi termini: «oggi, il valore del capitale delle criptovalute è superiore al valore che avevano le attività cartolarizzate prima della crisi finanziaria globale». In altre parole, l’Europa deve offrire un sistema alternativo a Bitcoin e omologhi per garantire stabilità e consistenza al Mercato e alla finanza. I toni adottati da Panetta sono drammatici, tuttavia lui deve pur comunque tirare acqua al proprio mulino e il panorama che lo circonda si dimostra eterogeneo e tendenzialmente scettico.

Per lisciare alcuni degli ostacoli che potrebbero compromettere l’avanzata dell’euro digitale, la BCE continua da una parte a ricordare ai cittadini che il conio virtuale non andrà a sostituire le banconote cartacee e dall’altra a rassicurare le banche che non voglia sostituirsi al settore delle carte di credito. Dopotutto, ricorda il sito della Banca Centrale, nella gestione della nuova, ipotetica, moneta «vanno coinvolti intermediari sottoposti a vigilanza».

In tutto questo, la Commissione UE sta ancora facendo orecchie da mercante. L’implementazione dell’euro digitale richiederebbe infatti dei binari guida, delle imposizioni normative che indichino come gestirlo, tuttavia nessuna delle opzioni presenti sul tavolo sembra essere universalmente soddisfacente. La digitalizzazione – parziale o completa – della moneta unica spingerebbe i cittadini ad appoggiarsi su sistemi di pagamento per cui sarà più facile tracciare l’economia sommersa, tuttavia proprio questo meccanismo di sorveglianza potrebbe far desistere coloro che prediligono la privacy. Allo stesso tempo, garantire il totale anonimato degli utenti finirebbe quasi sicuramente a fomentare il riciclaggio e le frodi, dettaglio che certamente non incontra i favori delle varie Amministrazioni.

Non sorprende quindi che gli sforzi di Panetta siano anche mirati a sbloccare questo impasse, tuttavia l’economista si sta dimostrando diplomaticamente accorto, desistendo dal giocarsi sin da subito la carta dell’“emergenza”. Piuttosto, la BCE descrive le criptovalute al pari di un’insidia che nei prossimi dieci anni aumenterà di portata e di spessore, ricordando a chi di dovere che «se gli utenti non avranno un simile servizio da noi, lo avranno da qualcun altro».

[di Walter Ferri]

 

Aerei cinesi e russi entrano in zona difesa aerea Corea del Sud

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Nove velivoli militari (2 cinesi e 7 russi) sono entrati nella zona KADIZ (Zona di identificazione di difesa aerea) della Corea del Sud e sono stati immediatamente raggiunti da aerei da guerra dell’Aeronautica Sud-coreana. I velivoli avrebbero sorvolato la KADIZ per circa 10 minuti, senza violare lo spazio aereo della Corea del Sud, per poi uscirne. Le attività sembrano rientrare nell’ambito di esercitazioni ordinarie, ma la Corea del Sud fa sapere che procederà con ulteriori indagini. Non è la prima volta che aerei cinesi e russi entrano nella KADIZ con la scusa di star conducendo delle esercitazioni: in un caso, gli aerei sudcoreani avevano dovuto sparare centinaia di colpi di avvertimento per farli allontanare.

Italia, con il governo Draghi è riesploso il lavoro precario

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Dopo un anno e mezzo di pandemia i dati sembrano essere incoraggianti, indicando una ripresa economica ed occupazionale. Tuttavia secondo l’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) tale crescita rischia di non essere strutturale. A preoccupare è il boom di contratti a tempo ridotto attivati, insieme con il gap occupazionale di genere che ancora permane in maniera evidente e non solo vede un minor numero di assunzioni femminili, ma anche una maggiore attivazione di contratti part time per le donne rispetto agli uomini. La disparità tra ripresa economica e crescita occupazionale è anche dovuta, secondo il presidente dell’INPS Pasquale Tridico, allo smantellamento del Decreto Dignità da parte del Governo Draghi. Decreto che, nel periodo precedente alla pandemia, aveva portato alla stabilizzazione di oltre mezzo milione di rapporti di lavoro.

La crescita economica c’è, ma quella lavorativa non va di pari passo e soprattutto non è inclusiva. Stando ai dati di giugno 2021, su 3,3 milioni di nuovi contratti attivati oltre un milione di questi sono part time, il più delle volte “involontario” ovvero non richiesto dal lavoratore ma imposto come condizione di assunzione dall’azienda. Il divario di genere permane, come quello tra Nord e Sud Italia: sul totale dei contratti attivati, solamente il 39,6% è riservato alle donne e per lo più nel Nord. Quasi la metà dei contratti delle donne, inoltre, è part time, contro il 26,6% dei contratti a tempo parziale attivati agli uomini. La situazione non è migliorata dalla condizione salariale, che vede l’Italia in una pessima posizione rispetto agli altri Stati dell’Unione Europea.

I lavoratori sotto i 30 anni che si trovano al Sud, in particolare nelle regioni di Sicilia, Calabria e Molise, si trovano in una condizione di particolare svantaggio. Qui un ridotto numero di contratti attivati associato a un 70% di questi costituito da rapporti di lavoro part time rende la prospettiva di reale ripresa altamente incerta.

Per Sebastiano Fadda, presidente di INAPP, “La lettura di questi dati ci dice che la ripresa dell’occupazione in Italia rischia di non essere strutturale perché sta puntando troppo sulla riduzione dei costi tramite la riduzione delle ore lavorate“. Di conseguenza, se il PNRR continua a non investire su assunzioni stabili per guidare la ripresa sono a rischio sia la produttività che la competitività. Nemmeno gli incentivi alle assunzioni hanno contribuito a ridurre part time e precarietà: “Occorre avviare una riflessione sul ruolo “migliorativo” e selettivo che, a partire proprio da questa fase di riavvio, dovrebbe caratterizzare il sistema degli incentivi” afferma Fadda.

La sospensione del Decreto Dignità, voluta dal Governo Draghi con un emendamento al Decreto Sostegni e prolungata sino a settembre 2022, costituisce un passo determinante verso la precarizzazione, come sostenuto dallo stesso Tridico nel corso di un’intervista. Si trattava di una misura emanata nel 2018 da Luigi di Maio, Ministro del Lavoro durante il primo mandato del Governo Conte. Il decreto prevedeva una serie di misure a tutela dei lavoratori, come il divieto di somministrare contratti a tempo determinato per più di 24 mesi (12 in caso di mancata causale), diminuendo sostanzialmente il numero di rapporti di lavoro precari. Con la sua sospensione, tali tutele sono venute a mancare, e i dati lo mostrano chiaramente.

[di Valeria Casolaro]

Lo chiamano pesce povero ma ha incredibili proprietà (se si sa come trattarlo)

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Il cosiddetto “pesce povero” è in realtà il pesce più nutriente e salutare per il nostro organismo. Inoltre acquistare pesci meno conosciuti rispetto ai soliti tonno, salmone o orata allevia la pressione di pesca su queste specie, garantisce il mantenimento della biodiversità dei nostri mari e permette alle specie troppo sfruttate di riprodursi più facilmente.

Il pesce povero si è meritato questo appellativo non perché non sia ricco di proprietà (anzi). L’origine di questo termine è dovuta al fatto che i pescatori andavano in giro a rivendere le rimanenze del mercato nei rioni delle città di mare, per sbarazzarsi di quei pesci che non erano riusciti a vendere durante il mercato. Casse intere di aguglie, sugarelli, alici, canocchie: pesce povero che non voleva nessuno. Ma per quale motivo?

Il principe e il povero

Perché dunque nessuno voleva comprare questi pesci? Per meri motivi di convenienza. Ci sono pesci magri, strutturati, con carni stabili, che vengono considerati “pesce principe”. Li compri, li tieni in frigo anche due, tre giorni, resistono, non ti costringono a cotture immediate. La sogliola è un pesce principe, la spigola, il rombo e il pesce San Pietro pure. Non sono necessariamente più buoni, ma sicuramente più facili da gestire. E poi ci sono i pesci “proletari”, il pesce povero appunto: sgombri e alici su tutti, e poi sardine, mormore, alacce, aguglie, saraghi. Per il bravo cuoco l’alice vale quanto la spigola. Il pesce povero in cucina richiede però un’attenzione maggiore: la sua grande caratteristica, ovvero i grassi miracolosi che fanno godere il palato e intanto ci allungano la vita (gli Omega-3), sono i primi a ossidarsi, cioè a deteriorarsi.

Il pesce povero è ricco di salute

È pesce povero perché più fragile, non si conserva molto, lo compri e lo devi mangiare subito, altrimenti rischi di perderlo. Ma appare evidente come questi pesci non siano affatto poveri se parliamo da un punto di vista nutrizionale e di salute. Anzi. Inoltre, sardine, alici, sgombri ecc. sono tutte specie di pesce azzurro, ed è risaputo come il pesce azzurro sia tra i pesci più ricchi di sostanze benefiche per la nostra salute come appunto i grassi Omega-3 e la vitamina D, una vitamina che si concentra nello specifico proprio nel grasso dell’olio di pesce.
Il cosiddetto pesce povero ha molte qualità benefiche sul nostro organismo:
• effetti antinfiammatori
• riduce l’aggregazione piastrinica
• abbassa la pressione arteriosa
• migliora la sensibilità insulinica
• favorisce la funzionalità del sistema nervoso
• contribuisce a mantenere in salute la vista e il cervello (grazie all’azione di Omega-3 DHA)

Perché ancora pochi lo comprano

Sostanzialmente è una questione di scarsa consapevolezza. Immaginate di stare al mercato del pesce, circondati dal brusìo della gente e dalle urla dei pescivendoli. Di fronte a voi avete un banco colmo di prodotti freschi: orate, pesce spada, polpi, tonni e branzini. In basso, invece, cassette con moscardini, canocchie, seppie e totani. Vi state già leccando i baffi, ma quando vi sentite chiedere: «Desidera?» vi ricordate di avere pochi denari in tasca e già pensate di battere in ritirata o di acquistare al massimo un paio di orate e branzini, come sempre. Ecco, se vi capita di vivere una situazione di questo tipo non scegliete sempre i soliti due tipi di pesce. Avete un amico prezioso: il pesce povero, pronto a immolarsi nelle pentole o se preferite sulla griglia della vostra cucina. Abituiamoci a pensare che il pesce povero è un’eccellenza dei nostri mari italiani: infatti regioni come la Puglia spingono da anni per un suo maggiore consumo con campagne di sensibilizzazione dei consumatori.

Le sardine sono il pesce di piccola taglia più ricco di grassi Omega-3

Un pesce buono anche per l’ambiente

Scegliere pesci meno conosciuti ma altrettanto saporiti rispetto a tonno, salmone o pesce spada, allevia la pressione di pesca su queste specie più ricercate e garantisce il mantenimento della biodiversità di tutte le specie ittiche dei nostri mari, permettendo alle specie troppo sfruttate dalla pesca di riprodursi più facilmente. Per questo i pesci poveri sono “a basso impatto ambientale”. Inoltre, essendo ritenuti di minore valore commerciale, sono meno cari e permettono di risparmiare. Ma un altro beneficio del consumare pesce povero consiste nel fruire di un pescato stagionale locale che in pratica elimina i costi di importazione.

Cucinare il pesce povero

L’Oscar fra tutte le scelte possibili di pesce povero, almeno per quanto concerne il gusto e il sapore, va allo sgombro, senza se e senza ma. Deve essere di giornata, freschissimo. È molto buono e anche molto grasso, quindi guai a dimenticarlo un giorno in frigo perché proprio a causa di questi grassi prende subito un brutto odore. I suoi grassi non devono spaventarci, sono tutti grassi buoni come accennavamo prima, i famosi Omega-3 che fanno bene a corpo e cervello. Inoltre è facilissimo da preparare. Ad esempio con una bollitura breve in court-bouillon fatta con acqua non salata, una fetta di limone, cipolla e prezzemolo. Poi lo si fredda e si spina. Lo si adagia infine in una pirofila con un condimento di pomodoro spellato a dadini, uno spicchio d’aglio, capperi, un’alice salata, olio buono, aceto e pochissimo sale. Ed ecco una panzanella di sgombro. La mangiate così o la mettete su una bella fetta di pane buono ben tostato. Diventa irresistibile! Oppure con una salsina di maionese e senape, allungata con latte di mandorla o di cocco e prezzemolo fresco. Ma è ottimo anche con una salsa tzatziki e crostini di pane.

Lo sgombro è il re dei pesci poveri

L’elenco completo dei pesci poveri

​I pesci poveri disponibili nei mari italiani sono, in ordine alfabetico: aguglia, alaccia, tonno alalunga, alice, tonno alletterato, boga, cefalo, cicerello, costardella, fasolaro, lampuga, lanzardo, leccia, merluzzetto, moscardino, muggine, occhiata, pagello, palamita, patella, pesce castagna, pesce sciabola, pesce serra, potassolo (o melù), sardina, sciabola, sgombro, spratto, suacia (o zanchetta), sugarello, tombarello (o biso), zerro.

Essere informati bene sul cibo che acquistiamo è qualcosa di prezioso per la nostra salute. Imparare a conoscere il cibo e scegliere con consapevolezza cosa acquistare e cosa mangiare è una cosa assolutamente fondamentale oggi ma diventerà addirittura imprescindibile per il futuro. Per questo motivo è sempre più importante dire grazie a tutti gli operatori e professionisti che divulgano conoscenze e informazioni corrette in campo alimentare.

[di Giampaolo Usai]

Panama, indigeni sfrattati con la forza dalle proprie terre

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La polizia panamense ha allontanato con la forza un gruppo di indigeni Ngäbe-Buglé ancora residenti sulle rive del fiume Tabasarà, a Panama, secondo quanto riportato da Osservatorio Diritti. Durante gli scontri, molti tra gli indigeni sono stati gravemente feriti dai proiettili di gomma, ma tutti hanno rifiutato l’aiuto dei paramedici. Quattro agenti di polizia sarebbero stati feriti. La zona si trova nei pressi del progetto idroelettrico Barro Blanco, che ha devastato il territorio nel quale risiedevano gli indigeni e al quale questi erano legati ancestralmente, trasformando il fiume in un lago artificiale e annientando l’intero ecosistema. L’episodio ha scatenato dure critiche contro il presidente di Panama Cortizo, che alla Cop26 ha dichiarato «l’impegno a rispettare i popoli originari e le foreste».

La Toscana vende un’area protetta per fare un enorme uliveto: i cittadini non ci stanno

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A causa di un’asta pubblica indetta dalla Provincia di Grosseto 950 ettari di terreno situati nell’omonimo comune – di cui 200 nella Riserva Naturale Diaccia Botrona e 750 nell’adiacente Padule Aperto – sono stati acquistati per circa 6 milioni e mezzo di euro da un privato che probabilmente li trasformerà in un uliveto. Il trasferimento di proprietà però non è ancora stato formalizzato, motivo per cui alcune associazioni ambientaliste hanno lanciato una petizione con la quale chiedono che l’area rimanga pubblica.

All’interno della petizione, al momento firmata da quasi 34.000 persone, si legge che le associazioni sono preoccupate per la privatizzazione di «un’area di grandissima importanza internazionale», che dovrebbe restare di proprietà pubblica così da raggiungere «obiettivi diversi». In tal senso vengono citati quelli «previsti dalla Strategia della UE per la biodiversità per il 2030», nella quale «si parla anche di rinaturalizzazioni». Proprio per questo, i firmatari ritengono sia «paradossale rischiare di trasformare ambienti che naturali già lo sono, per effetto della loro privatizzazione».

Inoltre se quest’ultima si concretizzasse secondo le associazioni «verrebbe meno una visione unitaria nella gestione della Riserva, come invece previsto dalla delibera n. 73 della Giunta Provinciale del 24/05/2006». In più, «anche per le aree non ricomprese nella Riserva Naturale e oggetto di attività agricola l’unica attività compatibile con l’ambiente è la coltivazione estensiva di cereali e piante erbacee, ed un loro utilizzo diverso dall’attuale andrebbe a vanificare alcuni dei risultati conseguiti nel tempo».

Detto ciò, come riportato da alcuni quotidiani locali l’acquirente trovatosi nell’occhio del ciclone è Pompeo Farchioni, presidente dell’azienda produttrice di olio di oliva Farchioni Olii nonché proprietario all’80% de La Pioppa srl, società agricola attraverso cui è stata conclusa l’operazione. Egli però ha rigettato le accuse, e sulla possibile trasformazione dei terreni in un uliveto ha affermato che la volontà sia quella di convertirli integralmente a coltivazione biologica e che l’olivicoltura rappresenti un’ipotesi concreta ma non ancora una certezza. «Possiamo mantenere le colture cerealicole o di orzo oppure puntare di più sull’olivicoltura» ha dichiarato in tal senso Farchioni, il quale dal canto suo sostiene che l’ulivo sia «l’unica coltivazione arborea che ha un bilancio positivo rispetto all’anidride carbonica».

[di Raffaele De Luca]

Stop alle pellicce: una petizione chiede di vietare l’allevamento di visoni

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«Vietare anche in Italia l’allevamento di animali per pelliccia»: è questa la richiesta contenuta in una petizione lanciata dall’associazione Essere Animali e rivolta al Parlamento ed al Governo italiano. Sono quasi 70.000 le persone che hanno già sottoscritto l’appello, il quale nello specifico ha ad oggetto gli allevamenti di visoni: nel nostro Paese infatti vi sono 5 stabilimenti di questo tipo, ed al loro interno sono presenti circa 10.000 animali. Molte gabbie tuttavia attualmente sono vuote, in quanto negli scorsi mesi il ministro della salute Roberto Speranza ha firmato un’ordinanza con cui sono state sospese le attività di allevamento di tali animali per tutto il 2021. Si tratta però appunto di uno stop temporaneo: da gennaio 2022 gli allevatori potranno riaprire le danze e proprio per questo Essere Animali chiede di abolire definitivamente tale pratica, la cui ripresa «provocherebbe la morte di oltre 40.000 cuccioli di visone».

A tal proposito, bisogna ricordare che la loro morte non è priva di dolore: i visoni di allevamento vengono soffocati tramite gas, ma trattandosi di animali semi-acquatici abituati a trattenere a lungo il respiro il loro decesso non si verifica istantaneamente. Prima di tale sofferenza, però, ve ne sono altre: i visoni vengono infatti rinchiusi in piccole gabbie di rete metallica a fianco di migliaia di altri animali, cosa che non gli permette di soddisfare gran parte delle loro esigenze etologiche. Non è un caso dunque che essi siano inclini a disturbi comportamentali, all’autolesionismo e al cannibalismo, come documentato da Essere Animali in diverse investigazioni.

Ad ogni modo la sofferenza causata ai visoni non rappresenta l’unico motivo alla base della petizione. In tal senso, il loro allevamento comporta anche rischi sanitari: il provvedimento governativo sopracitato, infatti, è stato firmato dal ministro della Salute proprio poiché alcuni visoni erano risultati positivi al Covid-19. L’Italia tuttavia non è di certo l’unica nazione in cui ciò si è verificato, e come sottolineato da Essere Animali «nel 2020 il coronavirus si è diffuso negli allevamenti di visoni in tutto il mondo e ad oggi oltre 440 allevamenti in 12 Paesi in Europa e in Nord America sono infetti». Questi animali infatti «possono infettarsi dall’essere umano» e inoltre possono anche «ritrasmettere il virus in forma mutata compromettendo gli sforzi dei programmi di vaccinazione».

Detto questo, mentre l’Italia non tiene praticamente conto di questi dati di fatto non avendo ancora vietato né totalmente né parzialmente gli allevamenti di animali da pelliccia, sono molti i paesi europei che li hanno aboliti. In tal senso, bisogna ricordare che tali allevamenti sono vietati, o normati così rigidamente da non essere di fatto realizzabili, in 17 Stati europei. Inoltre in Lituania, Bulgaria, Polonia, Ucraina e Montenegro il divieto degli stessi è in corso di dibattito.

Mappa sviluppata dall’associazione Essere Animali.

Tuttavia, seppur in Italia non siano stati al momento aboliti gli allevamenti degli animali da pelliccia, si tratta comunque di un mercato in netto crollo. Nel 1990 infatti nel Bel Paese vi erano più di 120 allevamenti di pellicce tra visoni, volpi e cincillà. Nel 2016, però, gli stabilimenti di questo tipo sono arrivati ad essere circa 30 e da allora essi hanno continuato a diminuire progressivamente. Ad oggi, infatti, sono solo 5 gli allevamenti di visoni attivi nel nostro Paese.

Grafico sviluppato dall’associazione Essere Animali.

[di Raffaele De Luca]

Grecia, carcere per chi diffonde fake news o notizie “che minacciano la fiducia”

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L’11 novembre il Parlamento greco ha approvato una norma che rende reato la diffusione di fake news. Il reato prevede sanzioni sia per i redattori delle notizie sia per i proprietari dei mezzi di informazione, che rischiano fino a cinque anni di carcere, oltre il pagamento di multe. Tuttavia il provvedimento non specifica quali siano i parametri determinanti una fake news, lasciando dedurre che sia discrezione della magistratura dirimere di volta in volta i casi. Il rischio che la libertà di informazione e di parola sia ulteriormente messa in discussione, in un Paese dove risultava già compromessa, è tale per cui diverse associazioni internazionali si sono già mobilitate per chiedere l’immediato ritiro della norma dal parte del Governo greco.

L’art. 191 del codice penale greco ora sancisce che “chiunque, pubblicamente o via internet, diffonda o divulghi notizie false in grado di causare preoccupazione o paura nel pubblico o minacciare la fiducia pubblica nell’economia nazionale, nella capacità di difesa del Paese o nella salute pubblica” venga punito “con l’imprigionamento per almeno tre mesi e una multa”. Inoltre, “se l’atto è stato commesso ripetutamente attraverso la stampa o online, l’autore sarà punito con la reclusione per almeno sei mesi e una multa”. Pene molto più pesanti sono previste per i proprietari dei mezzi di informazione, che rischiano fino a cinque anni di carcere. Una definizione di fake news, tuttavia, è assente dal provvedimento.

L’assenza di una definizione chiara di fake news lascia ampio spazio di interpretazione su cosa costituisca reato e cosa no, di fatto compromettendo la libertà di espressione e costituendo un enorme deterrente per i giornalisti nello svolgimento del loro mestiere. Questo è particolarmente vero in un periodo come quello attuale in cui informazione e disinformazione riguardo la pandemia da Covid-19 mettono in atto un gioco di specchi che rende difficile discernere tra le due. Ora sarà il Governo a decidere quali siano le notizie vere e quali no.

La Grecia già da tempo è nel mirino delle associazioni per la difesa dell’attività giornalistica, come RSF (Reporter Senza Frontiere), che ne denunciano il deterioramento della libertà d’espressione. In diverse occasioni il Governo si è visto accusato di censura, al punto che il Press Freedom Index colloca il Paese al settantesimo posto per la libertà di espressione (l’Italia è quarantunesima), con cinque posizioni in meno dell’anno scorso. Il provvedimento ha incontrato l’opposizione di diversi organismi per la libertà di stampa, compresi RSF e Media Freedom Rapid Response, rete europea di gruppi non governativi per la libertà dei media, che ha sottolineato come “l’interpretazione soggettiva di leggi così vagamente formulate può aprire la porta alla censura delle notizie legittime”.

Nell’ottobre 2020 l’International Press Institute ha riferito che tutti i Paesi europei, esclusa l’Ungheria, hanno varato provvedimenti contro le fake news in conseguenza della pandemia. L’Italia ha istituito, nel 2020, una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla diffusione massiva di informazioni false, volta a verificare le attività di potenziale disinformazione anche “in materia sanitaria” e, più specificamente, “durante l’emergenza da Covid-19, investigando sulle ripercussioni riguardo la gestione dell’emergenza”. Nel nostro contesto le fake news riguardo la pandemia sono all’ordine del giorno sui canali mainstream: resta da vedere se verranno applicate sanzioni anche a queste.

[di Valeria Casolaro]