Una scossa di terremoto di magnitudo 5.9 si è verificata questa mattina alle 9.15 (ora locale) a nord-est di Melbourne, in Australia. Nello specifico, secondo Geoscience Australia, il sisma ha avuto epicentro vicino a Mansfield, cittadina situata nello stato del Victoria a duecento chilometri da Melbourne, ed è stato registrato a una profondità di circa 10 km. In seguito al terremoto, insolitamente potente per il Paese, sono state inoltre effettuate segnalazioni di danni ad edifici in alcune parti dello stato del Victoria. Al momento, però, non sono stati registrati feriti.
La normativa italiana sul Green Pass contravviene le regole europee?
La normativa italiana sul Green Pass sembra essere, a primo impatto, in contraddizione con quanto stabilito dal regolamento europeo n. 935/2021, il quale definisce il quadro giuridico per il rilascio, la verifica e l’accettazione del certificato verde, inteso come uno strumento in grado di «facilitare la libera circolazione durante la pandemia da Covid-19».
In tal senso, principalmente a far nascere alcune perplessità sono i punti 14 e 36 del regolamento. Nel primo, si afferma il principio per cui il Green Pass «non dovrebbe essere inteso come un’agevolazione o un incentivo all’adozione di restrizioni alla libera circolazione o ad altri diritti fondamentali, in risposta alla pandemia». Nel secondo, invece, viene affermata la necessità di «prevenire la discriminazione diretta o indiretta nei confronti degli individui che non sono vaccinati» compresi coloro che, benché non impossibilitati, hanno semplicemente «scelto di non farsi vaccinare». In tal senso, si legge ancora, «il presente regolamento non può essere interpretato nel senso che istituisce un diritto o un obbligo di vaccinazione».
Sono tali principi, dunque, che portano a pensare che vi possa essere una contrapposizione tra tale regolamento ed il modo in cui il Green Pass viene attualmente utilizzato nella nostra nazione. Innanzitutto, infatti, la discriminazione nei confronti degli individui non vaccinati sembra essere presente, quantomeno indirettamente, in Italia. In tal senso, mentre chi sceglie di sottoporsi al vaccino anti Covid non deve personalmente sostenere alcuna spesa per ottenere il Green Pass, per chi decide di ottenerlo tramite il tampone la questione è ben diversa. A tal proposito, seppur dal 15 ottobre verranno introdotti i tamponi gratuiti per chi non si può vaccinare, per tutti gli altri saranno ancora pagamento. Ed anche se i test antigenici rapidi avranno un prezzo calmierato (8 euro per i minorenni e 15 euro per i maggiorenni), ciò darà comunque luogo ad una neanche tanto celata disparità di trattamento tra chi decide di sottoporsi al siero e chi si rifiuta, legittimamente, di farlo.
Di scelta legittima infatti si tratta, dato che al momento in Italia non è presente alcun obbligo (se non per i sanitari) di vaccinarsi contro il coronavirus. In tal senso, come previsto dall’articolo 32 della Costituzione, «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», la quale appunto al momento non vi è. E a tal proposito la tesi da alcuni sostenuta, secondo cui tale articolo sarebbe aggirato dal lasciapassare sanitario in quanto esso obbliga surrettiziamente i cittadini a vaccinarsi, sembra non essere totalmente errata alla luce della sopracitata differenza di trattamento. Ciò determinerebbe però una contrapposizione non solo nei confronti dell’articolo 36 del regolamento europeo, che come detto prevede che esso non possa giustificare l’istituzione di «un diritto o un obbligo di vaccinazione», ma appunto anche nei confronti dell’articolo 32 della Costituzione. Ad ogni modo però, se anche non si volesse considerare fondata l’ipotesi dell’obbligo de facto, il contrasto con l’articolo 36 vi sarebbe comunque dato che, come detto, esso impone la non discriminazione, diretta o indiretta, dei non vaccinati.
Infine, per ciò che concerne il sopracitato punto 14 del regolamento, va detto che in Italia le restrizioni introdotte sembrano essere in contrasto con alcuni diritti fondamentali della nostra Costituzione. L’obbligatorietà del lasciapassare, come ormai è noto, è stata infatti estesa non solo all’accesso a determinati servizi o attività, ma anche, tramite apposito decreto legge, agli studenti universitari ed al personale scolastico e universitario. Ciò induce a ipotizzare che vi possa essere un contrasto con determinati articoli della Costituzione come ad esempio il secondo, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, alcuni dei quali adesso sembrano appunto essere subordinati al possesso del certificato verde.
Per questi motivi, dunque, abbiamo chiesto delucidazioni in merito all’Unione europea tramite l’Europe Direct, il servizio messo a disposizione dalla stessa per entrare in contatto con essa. Tuttavia, dalla risposta che ci è stata data emerge che l’UE in pratica sostenga che non vi sia alcuna contraddizione tra quanto stabilito dal regolamento europeo e dalla normativa italiana. Ciò poiché, nello specifico, «l’uso nazionale dei certificati Covid-19 per altri scopi, quali l’accesso a eventi o luoghi di ritrovo, non rientra nel campo di applicazione del diritto dell’UE» e «quando gli Stati membri decidono di utilizzare i certificati Covid-19 per altri scopi, ciò deve essere previsto dal diritto nazionale».
Ad ogni modo però, pur volendo giudicare fondata la tesi dell’UE, i dubbi sulla legittimità dell’utilizzo che in Italia si sta facendo del Green Pass permangono ugualmente. Come ricordato, infatti, ciò che genera perplessità nei confronti della normativa italiana non è solo l’ipotetico contrasto con il regolamento europeo ma anche, e soprattutto, la apparente contrapposizione nei confronti della nostra Costituzione, la quale resta possibile a prescindere dal fatto che il Green Pass in salsa italiana sia, o meno, realmente inconciliabile con la normativa europea.
[di Raffaele De Luca]
Il Mossad israeliano ha ottimizzato gli assassinii in remoto
Il 27 novembre 2020 Mohsen Fakhrizadeh, fisico nucleare riconosciuto da molti come uomo a capo del programma nucleare iraniano, è stato brutalmente assassinato mentre si stava recando con la moglie verso la sua villa di Absard, cittadina nell’area di Teheran. La vicenda è stata inizialmente inquadrata come un agguato perpetrato da un generico squadrone della morte, tuttavia con l’avanzare delle indagini è risultato evidente che nell’area della sparatoria non fosse presente alcun sicario, dettaglio che non ha mancato di sollevare le perplessità delle guardie del corpo dello scienziato.
Nel tempo è emerso che le ricostruzioni iniziali fossero del tutto errate e che a portare avanti l’esecuzione sia stata una torretta comandata in remoto riconducibile alle Forze del Mossad, l’Intelligence israeliana. Il The New York Times ha voluto andare a fondo della faccenda e lo ha fatto dedicando gli ultimi mesi a intervistare insider reperiti dagli eserciti di Iran, Stati Uniti e Israele, indagine che è culminata recentemente con la pubblicazione di un report approfondito che ha analizzato i dettagli dell’intera operazione.
La manovra militare è stata un esempio perfetto di arguzia strategica e applicazione pragmatica delle più recenti tecnologie. Sarebbe quasi ammirevole, se non fosse spaventoso. Non potendo raggiungere il proprio bersaglio con i bombardamenti via UAV e non potendo fare affidamento sugli agenti locali – in passato si sono dimostrati vulnerabili a cattura -, Mossad ha deciso di puntare su una soluzione estrema, affidandosi a torrette semiautomatizzate più complesse di quanto non sia lecito pensare.
Il primo problema è stato banalmente quello di allestire la postazione, ovvero trasportare e assemblare pezzo per pezzo un braccio robotico su cui era montata una mitragliatrice belga FN MAG. Superato questo ostacolo, è stato necessario superare la grande insidia della connessione in remoto, una connessione che è stata stabilita via satellite in una base operativa posta a distanza di centinaia di chilometri dal luogo dell’azione. Cosa vuol dire? In pratica il fucile ha esploso i colpi con un ritardo di circa 1.6 secondi da che il cecchino ha premuto il grilletto.
In un normale contesto, un simile scarto avrebbe reso molto complesso – se non impossibile – ottenere i risultati sperati dall’Intelligence israeliana, tuttavia il difetto è stato mitigato dall’implementazione di un’intelligenza artificiale, la quale non solo ha compensato la latenza, ma ha anche “ammortizzato” gli effetti del rinculo dell’arma, aumentandone di fatto la precisione. Una prima pioggia di proiettili ha bloccato la vettura di Fakhrizadeh, una seconda gli ha crivellato la spina dorsale uccidendolo. L’arma, montata su un furgone apparentemente abbandonato, è stata quindi fatta detonare con cariche esplosive, così da causare ulteriori danni e cancellare importanti prove.
Stando alle fonti del The New York Times, l’agguato sarebbe stato discusso nel 2019 da Yossi Cohen, l’allora direttore di Mossad, in incontri tenutisi con tutti i personaggi di spicco dell’Amministrazione Trump. Presidente, Segretario di Stato, direttore della CIA erano tutti consapevoli del piano. Piano che peraltro mirava a martellare l’establishment iraniano, gettando benzina sul fuoco che si era già acceso in occasione della controversa esecuzione del Generale Maggiore Qaasem Soleimani, avvenuta in Iraq il 3 gennaio 2020.
Allora, l’Iran aveva reagito pacatamente alla smaccata provocazione, quindi Israele e Stati Uniti avrebbero deciso di rischiare il tutto per tutto e rincarare la dose, certi che il loro avversario fosse riluttante o incapace di rispondere a ulteriori omicidi. Un azzardo che avrebbe potuto portare a una guerra aperta, ma che Israele era disposta a compiere: Donald Trump non sembrava infatti in grado di vincere nuovamente le elezioni presidenziali e una simile esecuzione si è di fatto assicurata che Joe Biden abbia scarse possibilità di successo nel contrattare con l’Iran un nuovo, vitale, patto per il nucleare.
[di Walter Ferri]
Libia: Parlamento approva sfiducia contro governo di unità nazionale
La Camera dei rappresentanti libica ha approvato una mozione di sfiducia nei confronti del governo di unità nazionale, guidato dal premier Abdul Hamid Dbeibah. A comunicarlo è stato il portavoce del Parlamento con sede a Tobruk, Abdullah Bliheg, il quale ha fatto sapere che la mozione è stata appoggiata da 89 dei 133 deputati presenti. La sfiducia votata nei confronti dell’esecutivo incaricato di traghettare il Paese verso nuove elezioni a dicembre, è stata però respinta dal consiglio di Stato libico (Hsc). Il portavoce dello stesso, Mohammed Nasser, ha infatti affermato che la Hsc la considera «nulla», dettando così una linea che lascia prevedere un vero e proprio stallo istituzionale.
Condannato in Ruanda l’uomo che salvò mille persone durante il genocidio
Paul Rusesabagina, un uomo di origine ruandese celebre per aver salvato più di mille persone durante il genocidio dei tutsi nel 1994, è stato ufficialmente condannato per terrorismo per mano del giudice Beatrice Mukamurenzi. L’accusa rivoltagli è quella di essere il fondatore di un’organizzazione terroristica che ha compiuto, negli anni, numerosi attacchi contro civili, tra cui quello che ne ha uccisi 9 nel 2018.
Rusesabagina era già stato arrestato nel 2020 con le stesse accuse, fortemente sostenute dal governo autoritario del presidente Paul Kagame. Un punto da tenere bene a mente: secondo molti Rusesabagina è finito in carcere per le numerose critiche che rivolgeva al governo di Kagame. Il Presidente, infatti, seppur noto per essere riuscito a mantenere dei discreti rapporti pacifici con i paesi occidentali, è da tempo accusato dagli stessi di autoritarismo, metodi violenti e repressivi e violazioni dei diritti umani. Paul Rusesabagina, in prima persona, lo aveva indicato come responsabile di un altro genocidio avvenuto nel paese, contro l’etnia hutu.
Le circostanze che hanno portato Rusesabagina ad essere arrestato non aiutano a fare chiarezza e a eliminare i dubbi sul coinvolgimento del governo Kagame. Non è noto, infatti, dove fisicamente si trovasse Rusesabagina al momento della cattura, visto che le autorità belghe negano di aver mai dato il consenso alla sua estradizione e la famiglia, dall’altra parte, accusa il governo ruandese di rapimento.
Il processo stesso, iniziato a febbraio del 2021 mentre l’uomo si trovava già in carcere da 5 mesi, è stato molto criticato, soprattutto perché alcune fonti sostenevano che Rusesabagina si trovava rinchiuso in condizioni disagevoli e senza le medicine necessarie a tenere sotto controllo la sua pressione alta.
Rusesabagina si era già allontanato dal Ruanda nel 1996, trasferendosi prima in Belgio e poi negli Stati Uniti, cercando di sfuggire ai numerosi tentativi del governo di riportarlo in patria e processarlo. La sua “fuga” si è fermata nel settembre del 2020, mese in cui l’uomo è stato fermato tramite un mandato di arresto internazionale, criticato poi dal Parlamento Europeo. Quest’ultimo, infatti, aveva approvato una risoluzione in cui chiedeva a Kagame di rispettare i diritti di cittadino europeo di Rusesabagina. Il governo ruandese aveva ribattuto con un’altra risoluzione, volta ad accusare l’Unione Europea di voler influenzare un processo in corso.
Come mai la storia di Paul Rusesabagina ci è familiare? Perché ci è stata raccontata nel film Hotel Rwanda, risalente al 2004. L’uomo infatti, presente durante il genocidio ruandese del 1994, tristemente noto perché morirono tra 800mila e un milione di persone appartenenti soprattutto all’etnia tutsi, riuscì a salvare circa 1.268 individui, sia hutu che tutsi, mettendoli a riparo nell’albergo di cui era direttore. Negli anni Rusesabagina scrisse molto sulla vicenda, ricevendo molti riconoscimenti e premi per i diritti umani.
È difficile prevedere come andrà a finire, se Rusesabagina dovrà scontare l’interezza della pena o l’intervento dell’Unione europea riuscirà a mediare la vicenda. Secondo gli avvocati dell’imputato non esistono prove inconfutabili sulle uccisioni di civili per mano dell’organizzazione terroristica che l’uomo è accusato di aver guidato. A loro dire, infatti, il processo è stato influenzato dalla politica e dalle critiche di Rusesabagina al governo di Kagame, poco propenso ad accettare correnti contrarie alla propria.
[di Gloria Ferrari]
Canada: Trudeau ottiene il terzo mandato da premier
Il Primo ministro uscente del Canada, Justin Trudeau, ha ottenuto un terzo mandato alla guida del governo vincendo le elezioni anticipate. Un mandato che però non potrà contare su una maggioranza assoluta in Parlamento, in quanto il Partito Liberale (del quale Trudeau è alla guida) si ferma a 155 seggi contro i 170 necessari per ottenerla. Trudeau aveva portato il Paese ad elezioni anticipate proprio per cercare di riconquistare la maggioranza parlamentare, persa due anni fa. Il risultato non può quindi essere considerato un vero successo per il premier.
Anche il Vaticano impone l’obbligo del green pass
Il Presidente della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano ha emesso un’ordinanza con la quale a partire dal 1° ottobre si richiede il Green Pass per l’accesso all’interno della città del Vaticano e all’interno dei “vari Organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate a tutti i visitatori e fruitori di servizi”. Sono esentati solo “coloro che partecipano alle celebrazioni liturgiche per il tempo strettamente necessario allo svolgimento del rito, fatte salve le vigenti prescrizioni sanitarie sul distanziamento, sull’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, sulla limitazione della circolazione e dell’assembramento di persone e sull’adozione di peculiari norme igieniche”.
L’era del carbone sta finalmente arretrando
Dalla firma degli Accordi di Parigi (2015) gran parte dei piani volti a realizzare nuove centrali a carbone sono stati annullati. A rivelarlo è un nuovo rapporto dei gruppi per il clima E3G, Global Energy Monitor ed Ember richiamato anche dal prestigioso The Guardian, il quale si è occupato di riportare le novità emerse: quarantaquattro paesi hanno scelto di evitare un qualsivoglia piano futuro per l’energia a carbone (una delle più inquinanti, visto che il carbone è uno dei combustili fossili più dannosi per il clima).
Sembra quindi che la fine “dell’era del carbone” sia vicina e che le nazioni stiano mettendo in pratica parte delle decisioni prese durante gli Accordi di Parigi, nonostante una recente analisi di Climate Action Tracker abbia dimostrato quanto molti paesi siano ancora tristemente lontani dal raggiungimento di tale obiettivo. Sarebbe infatti essenziale vedere cambiare rotta anche ai trentuno paesi che – per ora – stanno mantenendo i progetti relativi alla costruzione di nuovi impianti. C’è anche da dire che la metà dei trentuno paesi citati prevede la costruzione di una sola nuova centrale, notizia che fa comunque ben sperare per il “no new coal by 2021″ (appello lanciato del Segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres); se solo la Cina – responsabile di oltre la metà dei piani mondiali per le centrali a carbone – così come India, Vietnam, Indonesia, Turchia e Bangladesh, decidessero di eliminare i propri progetti, il numero previsto di nuovi impianti a carbone si ridurrebbe del 90 per cento. Ridimensionare il più possibile l’uso del carbone è uno degli obiettivi principali per frenare la crisi climatica e, come ha suggerito l’ONU, l’utilizzo dell’inquinante combustibile fossile dovrebbe ridursi del 79 per cento rispetto ai livelli del 2019 entro la fine del decennio, se si vuole davvero tenere fede alla promessa fatta a Parigi.
Senza un reale impegno da parte di tutti paesi a eliminare gradualmente il carbone, sarà però impossibile impedire che le temperature aumentino di oltre 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, com’è stato stabilito durante gli Accordi di Parigi. Le novità diffuse dal rapporto sopracitato rimangono comunque sinonimo di alcune prime grandi vittorie, utili anche per dare il giusto via alla ventiseiesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (Cop 26), prevista per novembre a Glasgow.
[di Francesca Naima]
Amazzonia, ad agosto maggiore deforestazione da 10 anni
L’area deforestata dell’Amazzonia ha raggiunto l’estensione maggiore registrata negli ultimi dieci anni, è quanto emerge dai dati dell’Istituto dell’ambiente e dell’uomo (Imazon), che monitora la regione via satellite. In base alle rilevazioni solo lo scorso mese sarebbero stati deforestati 1.606 km quadrati di Amazzonia (un’area maggiore di quella occupata dal comune di Roma). Sempre secondo i dati diffusi da Imazon nell’ultimo anno sarebbero andati perduti 7.715 km quadrati di foresta, con un tasso di disboscamento del 48% maggiore rispetto a quello registrato lo scorso anno.