mercoledì 17 Settembre 2025
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Reporters sans frontières lancia l’allarme sulla libertà di informazione in Italia

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Reporters sans frontières (RSF), la nota organizzazione non governativa che promuove e difende la libertà di stampa e di informazione, ha lanciato un allarme sullo stato della stessa in Italia: facendo riferimento alla neo direttrice del TG1 Monica Maggioni, RSF ha criticato tramite un tweet il fatto che nel nostro Paese «la tv pubblica non darà voce a chi mette in discussione la politica vaccinale del governo», sottolineando che «anche durante la pandemia bisogna preservare il pluralismo delle opinioni nei media pubblici». Tali critiche hanno infatti fatto seguito alle dichiarazioni recentemente rilasciate da Monica Maggioni, la quale ha affermato che al TG1 non sarà data voce ai cosiddetti “no vax” precisando che «non tutte le opinioni hanno lo stesso valore».

Parole dunque molto dure, nei confronti delle quali c’era da aspettarsi una reazione da parte di Reporters sans frontières. Infatti, l’organizzazione già la settimana scorsa aveva espresso tramite un articolo la sua preoccupazione sulla libertà di stampa in Italia, affermando che nel nostro Paese ci fosse «una volontà politica di controllare l’informazione» che avrebbe potuto «rimettere in discussione un quadro normativo tradizionalmente solido a tutela della libertà di stampa». In tal senso, RSF aveva citato le parole «dell’influentissimo senatore a vita Mario Monti», che il mese scorso aveva dichiarato: «Nella comunicazione di guerra c’è un dosaggio delle informazioni, che nel caso delle guerre tradizionali è odioso, ma nel caso della pandemia bisogna trovare delle modalità meno democratiche secondo per secondo».

Il già espresso disappunto sulla libertà di informazione in Italia, quindi, è stato poi reso noto in maniera più esplicita tramite il recente tweet sopracitato. Quest’ultimo però non è stato di certo l’unico, in quanto ad esso hanno fatto seguito altri due tweet. Con il primo Reporters sans frontières è tornata a criticare, stavolta in maniera molto più esplicita, le parole di Monti, dicendosi «profondamente preoccupata per la nascente volontà politica di controllare l’informazione». Con il secondo, invece, ha espresso apertamente il suo dissenso nei confronti della Rai, ribadendo: «L’obiettivo legittimo di combattere la disinformazione non può essere perseguito a spese della restrizione del pluralismo dei media e della censura delle opinioni critiche nei confronti del governo».

[di Raffaele De Luca]

È morta la regista Lina Wertmüller

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La grade regista italiana Lina Wertmüller si è spenta nella notte a Roma, all’età di 93 anni. Wertmüller, nata il 14 agosto 1928 nella capitale, aveva firmato film come “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto”, “Mimì metallurgico” e  “Pasqualino settebellezze”, segnando così la storia della commedia italiana. Proprio grazie a quest’ultimo, poi, si era affermata come la prima donna nella storia ad essere candidata all’Oscar come migliore regista, nel 1977. Nel 2020, inoltre, le era stato assegnato il Premio Oscar alla Carriera.

Afghanistan: la Corte Internazionale non indagherà sui crimini dell’esercito USA

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Lunedì 6 dicembre, Karim Khan, procuratore per l’Afghanistan della Corte Penale Internazionale (CPI – International Criminal Court), ha confermato che le indagini sui crimini di guerra commessi nel paese verranno momentaneamente concentrate esclusivamente sulle azioni dello Stato Islamico nella provincia del Khorasan (Islamic State Khorasan Province – ISKP) e dei talebani; nessuna inchiesta indagherà invece i crimini dei soldati statunitensi né degli alleati di Washington. Khan, ha infatti dichiarato durante una riunione dei paesi membri della CPI che la decisione è stata presa sulla base di “prove”, considerando che i crimini peggiori in termini di gravità, portata ed estensione sarebbero stati commessi da ISKP e talebani.

Le indagini preliminari sui crimini di guerra in Afghanistan da parte della Corte erano iniziate nel 2006. Nel 2019, l’ex procuratore della CPI, Fatou Bensouda, aveva richiesto un’indagine a tutti gli effetti, poiché c’era un “ragionevole” sospetto che sia le truppe statunitensi che i talebani avessero commesso crimini di guerra. In particolare, Bensouda aveva indicato i centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Investigation Agency (CIA), come luoghi principali in cui tali crimini erano stati commessi. Un esempio è la prigione amministrata dalla CIA denominata “Salt Pit”, nome in codice Cobalt, a pochi chilometri dall’aeroporto di Kabul. Proprio a Salt Pit, morì di ipotermia nel 2002 Gul Rahman dopo essere stato incatenato a un muro seminudo durante la notte a temperature sotto lo zero. La prigione venne poi “casualmente” data interamente alle fiamme prima della ritirata delle truppe statunitensi da Kabul lo scorso agosto. Tra i crimini di guerra contestati alle truppe statunitensi ci sarebbero inoltre uccisioni sommarie e l’utilizzo “sfrenato” di raid aerei, che avrebbero causato migliaia di morti tra la popolazione civile in Afghanistan. Una lunga scia di sangue che si è protratta fino al momento del ritiro, preceduto da un’ennesima strage di civili

La decisione della CPI di indagare sui crimini commessi dalle truppe americane è stata a lungo oggetto di conflitto. Gli Stati Uniti, che non sono membri dello Statuto di Roma che istituisce il tribunale internazionale, hanno sostenuto che la corte non ha giurisdizione per indagare sulle azioni del governo americano o su quelle delle sue truppe. Il solito discorso: secondo Washington nessuno, tolto i tribunali americani, può indagare la condotta delle truppe a stelle e strisce, nemmeno il tribunale internazionale né, tantomeno, i giudici dei paesi dove le violazioni sarebbero accadute. Addirittura, nel giugno 2020 a seguito di questa polemica, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva imposto sanzioni a Fatou Bensouda, predecessore di Khan, e ad altri membri dello staff della CPI. Nonostante i rapporti tra Washington e la CPI siano leggermente migliorati a seguito dell’insediamento dell’amministrazione Biden – che ha revocato le sanzioni contro i membri della corte – gli Stati Uniti continuano ad opporsi alle indagini sull’operato delle sue truppe in Afghanistan.

Per dovere di cronaca va segnalato che presunti crimini di guerra sarebbero stati commessi anche dalle truppe di altri paesi della coalizione. Nel 2019, Panorama, programma investigativo della BBC, aveva evidenziato che uccisioni ingiustificate di civili afgani erano state tenute nascoste dal governo britannico e dai vertici dell’esercito. Mentre nel novembre del 2020, a seguito di un rapporto sull’uccisione di 39 civili e prigionieri afgani, i vertici dell’esercito australiano (Australian Defence Force – ADF) avevano richiesto il licenziamento di 13 soldati delle forze speciali.

Questa vicenda, evidenzia ancora una volta come gli Stati Uniti (e non solo loro), scelgano di evadere le proprie responsabilità a livello internazionale nonostante la propaganda sul rispetto dei diritti umani, della democrazia e della libertà sia il punto cardine della politica estera di Washington. Anche l’utilizzo di sanzioni per mettere a tacere i membri della CPI ha suscitato molto scalpore a livello internazionale, considerando che oltre 120 paesi hanno sottoscritto lo statuto fondatore della corte.

[di Enrico Phelipon]

In migliaia tornano a manifestare contro la Tav: la polizia usa idranti e lacrimogeni

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Nella ricorrenza dell’8 dicembre migliaia di No Tav sono tornati a manifestare per chiedere la chiusura dei lavori, con una marcia che da Borgone si è diretta verso San Didero. I manifestanti chiedono il blocco dei lavori dell’Alta Velocità e del cantiere di San Didero, che ospiterà una nuova zona di sosta per i tir. Non sono mancati gli scontri con la polizia, che ha attaccato con idranti e lacrimogeni i manifestanti.

Una nuova marcia No Tav si è svolta nella giornata dell’8 dicembre: i manifestanti hanno percorso a piedi la strada che va da Borgone Susa a San Didero, rinnovando la richiesta di chiusura dei cantieri. Secondo gli organizzatori erano almeno in 5000 a partecipare. Alla marcia hanno preso parte anche numerosi sindaci dei comuni della Valle di Susa, che si oppongono alla costruzione di “un’opera considerata con costi elevatissimi e dannosa per l’ambiente, ritenendo che i soldi pubblici possano esser meglio spesi per opere utili al territorio”. Una volta giunti ai margini del cantiere di San Didero alcuni manifestanti hanno iniziato a strappare il filo spinato, mossa alla quale gli agenti hanno risposto con lancio di lacrimogeni e idranti.

San Didero, dove i presidi No Tav sono iniziati già nella sera del 7 dicembre, è la sede della costruzione del nuovo autoporto, punto di sosta di emergenza dei tir in caso di necessità o eventi climatici avversi (come le forti nevicate). Si tratta di un cantiere di 68 mila metri quadrati dal costo di 47 milioni di euro. Un’opera che deturpa ulteriormente una valle già esausta per i lavori dell’Alta Velocità e dalla dubbia utilità, esistendo già due autoporti non sfruttati al 100% nelle zone adiacenti a Torino. Il 7 dicembre nei pressi del cantiere ci sono stati alcuni scontri tra un gruppo di manifestanti No Tav e le Forze dell’Ordine, che hanno risposto al lancio di pietre con idranti e lacrimogeni.

L’8 dicembre è una giornata simbolo per il movimento No Tav, che quest’anno celebra 16 anni dalla marcia Susa-Venaus. Al termine della giornata di proteste i manifestanti erano riusciti a invadere i prati di Venaus e a bloccare l’inizio dei lavori dell’originale progetto del 2003 per l’Alta Velocità Torino-Lione. In prima fila allora vi era Nicoletta Dosio, storica militante No Tav al momento in custodia presso il carcere Le Vallette di Torino. Le iniziative degli scorsi giorni hanno anche ricordato l’ingiusta estradizione di Emilio Scalzo in Francia in seguito alle accuse di aggressione a pubblico ufficiale.

[di Valeria Casolaro]

UE: nucleare e gas inseriti tra gli investimenti sostenibili

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L’UE ha inserito il nucleare e il gas nella lista degli investimenti sostenibili, iniziativa controversa fortemente criticata da diversi Stati membri, gruppi finanziari e ambientalisti, esperti e agenzie ONU. La tecnologia nucleare non è ancora infatti sufficientemente sviluppata per costituire un’effettiva innovazione green, tanto più che non si è ancora risolto il problema dello smaltimento delle scorie. L’impatto deleterio del metano, dal canto suo, è ancora fortemente sottostimato. La classificazione europea poteva costituire “uno strumento utile per smascherare le iniziative di greenwashing“, ma si è trasformato “in un boomerang”, scrive Greenpeace.

Nel governo si continuano a studiare nuovi usi del green pass, è la volta dei biglietti

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Il green pass rafforzato è appena entrato in vigore e già all’interno del governo c’è chi annuncia la prossima introduzione di nuovi campi di utilizzo per la certificazione sanitaria: è il caso del ministro dei Trasporti, Enrico Giovannini, che ha annunciato lo studio di un sistema per permettere solo a chi è in possesso della certificazione verde di acquistare biglietti per autobus, treni e metropolitane. «Stiamo dialogando con tutte le aziende di trasporto in questa prospettiva – ha dichiarato a Rai News – stiamo studiando dei meccanismi, credo ci siano le condizioni per farlo e siamo abbastanza ottimisti che nelle prossime settimane possano iniziare le sperimentazioni».

Il modello preso ad esempio, riporta il ministro, è quello del Dolomiti Supersky, l’abbonamento che permette di accedere agli impianti sciistici delle Dolomiti: l’utente deve caricare sul sito internet del servizio o sulla app il proprio codice greenpass e associarlo all’abbonamento o al biglietto acquistato. In questo modo il sistema lo accredita e solo allora attiva la validità del codice a barre stampato sul titolo di viaggio, rendendo possibile l’apertura del tornello della stazione una volta che viene posto sullo scanner. Nessuna verifica umana e quindi nessun problema con le leggi sulla privacy, almeno secondo quanto dichiarato dai proponenti.

Facile notare un dettaglio, sul quale tuttavia nessun media si è soffermato: teoricamente lo stato di emergenza sarebbe in scadenza il prossimo 31 dicembre: probabilmente sarà rinnovato, ma senza forzare la legge sarà possibile farlo solo per un altro mese. Il decreto di protezione civile del 2008 infatti afferma che “La durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi”. Entrò in vigore il 31 gennaio 2020, quindi lo stesso giorno del 2022 dovrebbe decadere. Tuttavia il ministero dei Trasporti sta sperimentando un sistema di utilizzo dello stesso che necessità di diverse settimane solo per iniziare la sperimentazione. Quindi, fino a quando sarà attivo realmente il green pass? Forse non a caso nella norma sulla certificazione verde il governo scelse di non porre nessuna data di scadenza, rifiutando di mettere nero su bianco che la sua validità decadrà automaticamente al termine dell’emergenza sanitaria.

La lotta eco-sociale degli indigeni non si ferma in tutto il Nord America

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«We are on the front line, walking with the death», è la frase di una celebre canzone del collettivo Savage Family e rappresenta in maniera forte la realtà che le comunità indigene del Nordamerica si trovano a dover affrontare quotidianamente. Dal Canada passando per i due Dakota, al Minnesota fino a Corpus Christi in Texas, le comunità sono in lotta per affermare la loro sovranità, rivendicare la propria identità, cultura e tradizioni, e per difendere i territori sacri e ancestrali dallo scempio del pauperismo colonizzatore che subiscono da secoli.

È questo il caso delle comunità indigene della British Columbia, in Canada, che si oppongono alla devastazione che i progetti di oleodotti e gasdotti portano sulle terre in cui vivono da migliaia di anni. Queste comunità hanno costruito dei campi, degli accampamenti, da cui portano avanti la loro resistenza nei confronti delle compagnie private impegnate nelle opere di costruzione delle infrastrutture energetiche e anche della polizia e del governo da cui essa dipende. Così come la Royal Canadian Mounted Police (RCMP) ha costituito dei veri e propri checkpoint con cui non fa accedere certe persone a certi luoghi, ovvero i discendenti di quelle stesse persone che popolavano quelle terre, Gidimt’en Access Point è il luogo di accesso al Coyote Camp, uno degli accampamenti di resistenza situati nell’Ovest del Canada, così come 44 Camp, spazi di resistenza indigena al progetto denominato Coastal Gaslink, o CGL, considerato un pericolo enorme per tutte le comunità indigene che vivono nei territori interessati dal progetto. Negli ultimi tempi sono andati intensificandosi gli attacchi e gli arresti da parte della polizia a danno delle tribù Wet’suwet’en, in prima linea in questa lotta, come anche il tentativo di creare divisione e conflitto tra le varie tribù.

In merito al gasdotto CGL, i membri del Coyote Camp, dicono: «Se costruito, accelererebbe la costruzione dei successivi gasdotti bituminosi e fratturati e creerebbe un incentivo per le compagnie del gas a sfruttare i depositi di scisto lungo il passaggio del gasdotto. Questo progetto mira a tracciare un percorso, in quello che è stato concepito come un “corridoio energetico” attraverso alcune delle uniche aree incontaminate rimaste in tutta questa regione. Se il CGL dovesse essere costruito e diventare operativo, trasformerebbe irreversibilmente l’ecologia e il carattere dello Yintah e dei territori circostanti».

Se nel giugno di questo anno per i Lakota si è registrata un importante vittoria dopo anni di dura battaglia contro il Dakota Access Pipe Line (DAPL), che però non deve far cedere a comprensibili entusiasmi, nel Minnesota la lotta prosegue contro la famosa Line 3 che dal Canada trasporta greggio da scisti bituminosi fino al Lago Superiore, attraversando la Chippewa National Forest e la Leech Lake Reservation, ovvero una riserva Ojibwe facente della Minnesota Chippewa Tribe. L’oleodotto è ormai entrato in funzione ma gli attivisti rimango accampati sulla “linea del fronte”, come a Camp Migizi.

Adesso che la Line 3 è pronta, funzionante e inserita nella fitta rete di tubature che si estendono per tutto il Nordamerica, la medesima compagnia canadese che gestisce la “linea Chippewa”, la Enbridge, ha annunciato di voler aumentare la capacità del proprio sistema di oleodotti al fine di collegare un hub di stoccaggio in Oklahoma con il più grande hub di esportazione di petrolio degli Stati Uniti, quello di Corpus Christi, in Texas. Lo scorso ottobre, Enbridge ha acquistato questo strategico nodo dell’esportazione del greggio dalla compagnia Ingleside Energy Center potendo adesso gestire una gran parte del greggio che dal Canada arriva al Golfo del Messico, dopo varie diramazioni, per essere esportato nel mondo.

Dura la reazione da parte della tribù Carrizo Comecrudo, uno dei popoli originari del peyote e non federalmente riconosciuto, e dell Indigenous Environmental Network (IEN) oltre che di altre organizzazioni e gruppi locali. «Abbiamo combattuto Enbridge sin dal pre-NAFTA per proteggere i nostri siti sacri», ha detto Juan Mancias, Presidente tribale di Carrizo Comecrudo. In un comunicato dell’IEN si legge che «I popoli indigeni della Coastal Bend non permetteranno a Enbridge di sentirsi a proprio agio con i loro modi coloniali di distruggere le comunità indigene. Possono aspettarsi la stessa resistenza dalle comunità tribali in Texas come hanno fatto con la Line 3». La rete di attivisti si scaglia contro «l’effetto devastante dell’industria estrattiva a cui è stato permesso il regno libero per troppo tempo».

[di Michele Manfrin]

Francia, nuovo accordo nell’industria militare con Arabia Saudita

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La società francese Figeac Aéro (FGA.PA) potrà avere una propria fabbrica di produzione di componenti di strutture aeree in Arabia Saudita, grazie a un accordo siglato con la Saudi Arabian Military Industries (SAMI). Oltre alla produzione si mirerà alla formazione di tecnici sauditi, per permettere la localizzazione della produzione in campo aerospaziale e civile e porre fine alla dipendenza militare dell’Arabia Saudita. Si calcola che entro il 2030 la mossa comporterà un guadagno di circa 200 milioni di dollari per le parti. L’Arabia Saudita è considerata uno dei maggiori importatori di armi nel mondo: negli ultimi 5 anni è stata infatti destinataria dell’11% delle importazioni di armi globali.

Amazon, multa da 1,3 miliardi dall’Antitrust italiana

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L’Antitrust italiana ha multato Amazon per 1,3 miliardi di euro per pratiche discriminatorie nei confronti di alcuni venditori indipendenti. Tali rivenditori non si servivano infatti dei servizi di logistica di Amazon per lo stoccaggio e il recapito dei prodotti venduti, motivo per il quale la visibilità della loro merce sulla piattaforma era molto ridotta. A coloro che si servivano della logistica di Amazon veniva invece riservato un trattamento decisamente migliore, oltre alla garanzia di tutela da reclami e recensioni negative. Più della metà dei prodotti presenti su Amazon sono offerti da venditori indipendenti, motivo per il quale, secondo l’Antitrust, questi necessitano di adeguata protezione.

La Nuova Zelanda lancia la coalizione contro i robot killer

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Mezzi blindati dotati di cannoni, droni volanti che si lanciano a grande velocità contro i nemici in fuga, battelli senza equipaggio che circondano natanti in movimento: questo è il fosco panorama delle armi autonome odierne, un panorama che è reso ancora più claustrofobico dal fatto che i Governi coinvolti si dimostrano restii a discutere nuovi trattati che vadano a normare l’applicabilità di questi ancora inusuali strumenti bellici.

Nell’oceano di maliziosa ignavia, si erge come un’anomalia la Nuova Zelanda, nazione che ha orgogliosamente dichiarato di voler combattere la diffusione e l’utilizzo dei cosiddetti “killer robot”. Phil Twyford, Ministro del Disarmo e del Controllo delle Armi, ha evidenziato come il delegare la responsabilità degli omicidi a delle macchine sia esplicitamente in opposizione agli «interessi e ai valori» della nazione, tacitamente creando una bilancia etica su cui soppesare le motivazioni dei Paesi maggiormente belligeranti.

Nonostante una fetta significativa del mondo accademico stia infatti chiedendo l’imposizione di limiti alle armi autonome e all’uso militare delle intelligenze artificiali, le Amministrazioni che più si dicono preoccupate dei killer robot – Cina, Russia e Stati Uniti su tutte – sono anche quelle che vi dedicano maggiori risorse, considerandone lo sviluppo un vero e proprio «imperativo morale». In sostanza, le principali avanguardie militari sostengono la necessità di portare avanti la ricerca bellica proprio come forma di difesa dalla tecnologia automatizzata altrui, cosa che crea un circolo vizioso che ha il retrogusto della corsa alle armi.

Inutile dire che la Nuova Zelanda non possiede di per sé l’incisività diplomatica necessaria a piegare le posizioni delle grandi potenze, tuttavia lo scenario che si prospetta è quello di una «coalizione di Stati, di esperti e della società civile» a cui Wellington vorrebbe presiedere. Twyford non è infatti il primo a esprimersi avversamente ai killer robot, tuttavia la sua voce intensifica non poco le potenzialità di un coro che fino a oggi si è dimostrato pressoché inerme, con il risultato che si potrebbero presto aprire diverse strade diplomatiche alternative ai confronti ospitati dalle Convention on Conventional Weapons (CCW).

Già si parla di un possibile trattato che potrebbe o meno cadere in seno alle Nazioni Unite. Una legge internazionale generata da un processo indipendente potrebbe coinvolgere un bacino maggiore di Governi, molti dei quali – non possedendo armi autonome – sarebbero ben felici di appoggiare standard severi sull’applicazione degli strumenti presi in analisi. D’altro canto, una più lenta e complessa contrattazione dell’Assemblea Generale ONU avrebbe la possibilità di garantire delle linee guida maggiormente solide e rilevanti sul piano della politica internazionale. Tra le due opzioni, la prima sembra fornire ai detrattori dei killer robot concrete opportunità di successo, con gli osservatori che teorizzano un accordo che possa somigliare al trattato di Ottawa, trattato che impone un giro di vite alle mine antiuomo, ma che Cina, Russia e Stati Uniti si sono ben visti dal firmare.

La lotta neozelandese contro le armi autonome è appena iniziata, ma la nazione ha una lunga storia di battaglie per la demilitarizzazione ed è ormai abituata a litigare con l’alleato statunitense per questioni di armamenti; la possibilità che la “discesa in campo” di Wellington sia in grado di avviare un percorso di regolamentazione dei killer robot è reale, ora non resta che trovare qualcuno che possa farsi garante diplomatico di una normativa che soffochi le manovre militari spaziali.

[di Walter Ferri]