sabato 8 Novembre 2025
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Monthly report: Mare nostrum? Storia, presente e futuro del Mediterraneo

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La consuetudine quotidiana dei pescatori ragusani è stata interrotta da un perentorio avviso della Guardia costiera lo scorso 8 febbraio: attenzione a dove andate a pescare, c’è il rischio concreto di imbattersi in un sottomarino miliare. Poche centinaia di chilometri più a oriente, nello specchio di mare tra Grecia e Siria, una trentina di navi da guerra battenti bandiera di Stati Uniti, Francia e Italia sono impegnate in esercitazioni militari che dureranno fino ad aprile. Pochi giorni prima, il 2 febbraio, i satelliti avevano ripreso una flotta navale dell’esercito russo in navigazione nello stretto di Sicilia, tallonata da vicino da una fregata della Nato che ne monitorava i movimenti. Mediterraneo deriva dal latino mediterraneus, letteralmente in mezzo alle terre, ovvero, secondo la geografia degli antichi, al centro del mondo. E in un certo senso è ancora così, quantomeno parlando del nostro mondo, quello strategicamente a cavallo tra Occidente e Oriente. Ce lo ricordano i venti di guerra di questi giorni, ce lo ha ricordato pochi mesi fa il disastro sui commerci globali provocato dal banale intraversamento di una nave nel canale di Suez, ce lo ricordano quotidianamente le barche della speranza che cercano attracco sui nostri moli.

Peccato non se lo ricordino sempre i governi, a cominciare da quello italiano che ha declinato ad ogni ruolo guida nonostante il nostro Paese sia ancora oggi l’economia più forte dell’area. Il risultato è che quello che fu il mare nostrum somiglia sempre più a un mare degli altri. Se a livello ecologico il bacino mediterraneo è a rischio per la presenza di specie aliene che, causa il surriscaldamento delle acque, vi trovano accoglienza mettendo a rischio la biodiversità che da sempre lo caratterizza, la stessa presenza ingombrante di specie aliene si verifica anche a livello geopolitico. Gli Usa controllano tre basi militari sulle sue sponde (Rota in Spagna, Creta in Grecia e Napoli in Italia); il Regno Unito gli storici avamposti di Gibilterra e Cipro; la Russia controlla la base di Tartus, in Siria; mentre la Cina sta avanzando con le armi dell’economia dopo essersi assicurata il controllo di alcuni dei principali porti commerciali: da Marsiglia al Pireo, passando per Taranto. Da capitali distanti migliaia di chilometri si sono recentemente decise anche le sorti di due grandi nazioni mediterranee, Siria e Libia, con gli effetti che ancora vediamo e viviamo.

Insomma, tutto il mondo si interessa al Mediterraneo e cerca di conquistare una fetta di questo specchio di mondo, dove da millenni si consumano gli incontri, gli scontri e i commerci più prolifici. A disinteressarsene sembra proprio la nazione che ne occupa strategicamente il centro geografico, l’Italia. Per riempire questo vuoto di consapevolezza e conoscenza abbiamo deciso di dedicare proprio al Mediterraneo questo numero 7 del Monthly Report, il mensile de L’Indipendente.

Indice:

  • Siamo tutti mediterranei, una storia di identità e stereotipi
  • Mediterraneo, un mare di sguardi
  • La geopolitica del Mediterraneo: da mare nostrum a mare loro?
  • La pentola a pressione del Mediterraneo Orientale
  • L’Italia si è persa nel grande Risiko della pesca nel Mediterraneo
  • Mediterraneo, hotspot di biodiversità e cambiamento climatico
  • Il mare è in pericolo: l’impegno dei volontari di Sea Shepherd Italia
  • L’imbroglio Mediterraneo, l’Italia e la fabbricazione perpetua dell’emergenza migranti
  • Ma, in definitiva, cos’è di preciso la dieta mediterranea?
  • Enrico Mattei, un caso al centro del Mediterraneo
  • Pasta Nera: una storia italiana

Il mensile, in formato PDF, può essere scaricato dagli abbonati a questo link: lindipendente.online/monthly-report/

‘Ndrangheta, maxi operazione a Roma: 65 arresti

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Maxi blitz contro la ‘Ndrangheta questa mattina nella zona di Roma e provincia: i Carabinieri del Comando provinciale, su disposizioni della Direzione distrettuale antimafia e del gip, stanno eseguendo perquisizioni, sequestri e misure cautelari nei confronti di 65 soggetti accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. I soggetti avrebbero costituito una locale di ‘Ndrangheta che, infiltratasi nelle pubbliche amministrazioni, avrebbe assunto il controllo del litorale a sud di Roma, dove svolgeva anche operazioni di narcotraffico internazionale.

Anche l’Austria ritira il super green pass: Italia sola nelle restrizioni a oltranza

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Il governo austriaco ha annunciato una serie di allentamenti delle misure anti-Covid, che saranno quasi tutte revocate nelle prossime settimane, rendendo così l’Italia l’unico Paese europeo in cui le restrizioni andranno avanti ad oltranza. Nello specifico, a partire dal prossimo 19 febbraio in Austria non sarà più richiesta la prova della vaccinazione o della guarigione, dunque l’equivalente del nostro super green pass, in tutti i “contesti essenziali”. Di conseguenza per accedere, tra l’altro, ai ristoranti, agli impianti sportivi ed alle fiere nonché per viaggiare in autobus si potrà anche semplicemente esibire un test negativo, dunque basterà l’equivalente del nostro green pass. Oltre a ciò, a partire dal 5 marzo quasi tutte le restrizioni legate al Covid saranno ritirate: tra le principali novità il fatto che non vi sarà più nessun “regolamento relativo all’accesso” nonché nessun “coprifuoco generale” e di conseguenza i ristoranti, che al momento devono chiudere dopo la mezzanotte, potranno restare aperti. Le mascherine invece rimarranno obbligatorie, ma solo nei negozi di prima necessità e sui trasporti pubblici, mentre restrizioni anti Covid continueranno ad esservi nei luoghi in cui vi sono persone vulnerabili, ossia le case di riposo e di cura nonché gli ospedali.

L’Austria si affianca così alle tante nazioni europee che hanno deciso nell’ultimo periodo di rimuovere gradualmente le restrizioni introdotte per contrastare l’emergenza sanitaria. Basterà citare la Danimarca, dove nelle scorse settimane si è deciso di rimuovere tutte le misure anti Covid in virtù del fatto che il coronavirus non sarebbe più una “malattia socialmente critica”, la Finlandia, che ha fissato un vero e proprio calendario per uscire dalla pandemia o, ultima in ordine di tempo, la Svizzera. Nella giornata di oggi, infatti, il governo locale ha fatto sapere che a partire da domani non sarà più necessario indossare obbligatoriamente la mascherina ed esibire il certificato Covid, in alcuni casi ottenibile tramite vaccino o guarigione ed in altri anche tramite il test negativo, per accedere a negozi, ristoranti, istituzioni culturali, altre strutture aperte al pubblico e manifestazioni. L’isolamento delle persone risultate positive e l’uso obbligatorio della mascherina sui trasporti pubblici e nelle strutture sanitarie sono le uniche due misure che rimarranno in vigore fino a fine marzo, con lo scopo di proteggere gli individui particolarmente a rischio.

L’Austria, finora, era sostanzialmente stata insieme all’Italia la nazione europea ad aver introdotto le restrizioni più dure contro i non vaccinati, avendo imposto anche il lockdown – poi revocato – per i non vaccinati e l’obbligo vaccinale per i maggiorenni. Quest’ultimo è ad oggi formalmente in atto, ma le relative sanzioni sono previste solo dal 15 marzo ed entro tale data il governo, che sembra voler ritornare gradualmente alla normalità, dovrebbe decidere se attuare effettivamente la legge sulla vaccinazione obbligatoria o meno. Di conseguenza, seppur in Austria alcune restrizioni vi siano tuttora, l’atteggiamento dell’esecutivo appare molto differente da quello dell’Italia, dove si discute ancora vagamente della rimozione o quantomeno dell’ammorbidimento del lasciapassare sanitario. Il tutto mentre proprio oggi è stata posta l’ennesima questione di fiducia da parte del governo, in tal caso sul disegno di legge che dovrà convertire e approvare il decreto 24 dicembre 2021 n. 221, avente ad oggetto proprio la proroga dello stato di emergenza nazionale fino al 31 marzo 2022.

[di Raffaele De Luca]

Referendum: Corte costituzionale boccia quesito su cannabis

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La Corte costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito referendario sulla depenalizzazione della coltivazione di cannabis. A renderlo noto è stato il presidente Giuliano Amato, che durante una conferenza stampa ha affermato: “Il referendum non era sulla cannabis ma sulle sostanze stupefacenti, si faceva riferimento a sostanze che includono papavero e coca, le cosiddette droghe pesanti, e questo era sufficiente a farci violare obblighi internazionali”. Inoltre, in materia di giustizia, la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, mentre si terrà il quesito referendario che ha l’obiettivo di riconoscere nei consigli giudiziari il diritto di voto degli avvocati sulle valutazioni di professionalità dei magistrati.

Rete, chat e dark web: croce e delizia per le voci di opposizione sociale

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Che ci siano in campo prospettive d’opposizione, macchinazioni di stampo terroristico o semplice divulgazione di controinformazione, è innegabile che la Rete si stia sempre più facendo notare come un potente mezzo che le minoranze adoperano per combattere quella che è una battaglia ideologica asimmetrica. Il cosiddetto “dark web” e i programmi di messaggistica criptati hanno fatto sì che il discutere pubblicamente di argomenti ritenuti scabrosi sia ormai alla portata di tutti, cosa che a sua volta ha portato a interazioni più rapide ed efficienti, nel bene e nel male.

Non tutto è oro ciò che luccica, però. Sebbene il tramandare le idee e i contenuti sia innegabilmente sempre più agile, risulta anche più facile che Governi, dittature e potenti riescano a risalire alla fonte dei proselitismi, mettendo profondamente a rischio tutti coloro che osano alzare la voce contro l’establishment. Un esempio chiaro di queste dinamiche apparentemente paradossali lo abbiamo in Alexei Navalny, politico russo d’opposizione che è stato capace di fare dei social un’arma, un’arma che si è dunque parzialmente ritorta contro il suo stesso entourage. Il dubbio è quindi chiaro: la Rete ci libera o ci rende schiavi?

Le origini del World Wide Web

Non è corretto sostenere che la Rete per come la conosciamo oggi, il World Wide Web, sia nato con intenti democratici: la primissima iterazione, l’Arpanet, era stata pensata in seno alla Difesa statunitense, quindi la tecnologia è immediatamente passata in mano alle alte sfere accademiche degli USA. Neppure le università si sono approcciate allo strumento con fare libertario, la loro priorità era infatti quella di consolidare un network che permettesse di consultare comodamente tutte le informazioni depositate nei singoli computer degli atenei, un sistema che ha preso progressivamente la forma degli hyperlink che ancora oggi sono alla base del protocollo HTTP.

Sebbene il World Wide Web non sia stato generato da una profonda ricerca di libertà, il più celebre dei suoi padri, Tim Berners-Lee, ha sempre mantenuto un atteggiamento dichiaratamente “open source” alla digitalizzazione, un approccio che al giorno d’oggi pare alquanto anacronistico, ma che viene portato avanti da molti hacker, soprattutto da quei “white hat” convinti che una maggiore condivisione dei dettagli informatici possa ottimizzare le macchine in chiave umanistica.

Da che si è diffusa la Rete – nei primi anni Novanta – si è però consolidato un cartello aziendale che è finito con il monopolizzare le prospettive, presenti e future, del digitale. Il sogno di un’infrastruttura orizzontale sviluppata dal basso è stato lacerato e alcuni, Berner-Lee compreso, si rifugiano nell’idea di un nuovo web decentralizzato in cui si possa ricominciare da zero. Si tratta di una speranza utopica che però viene contrastata dai piani delle Big Tech e dei Governi, i quali vorrebbero puntare rispettivamente sul trasformare la Rete in un gigantesco centro commerciale virtuale e sulla tracciabilità degli utenti.

Eccoci dunque al punto nevralgico della questione: le parti che stanno dettando l’evoluzione informatica sono quelle indissolubilmente legate all’economia della sorveglianza. Ai tempi di George W. Bush Jr., gli Stati Uniti, area madre delle principali aziende digitali occidentali, sono stati ben felici di lasciare terreno libero ai traffici commerciali di imprenditori desiderosi di assorbire i dati degli utenti, dati che formalmente erano poi convogliabili all’interno del programma governativo PRISM. Si era formato un rapporto stabile in cui Stato e industrie hanno camminato fianco a fianco per anni, un rapporto che però si è andato progressivamente a deteriorare a causa di fughe di informazioni, gravi incidenti commerciali e una marcata alterazione degli equilibri di potere. Le Big Tech, sempre più influenti, stanno offrendo mezzi e assistenze che modificano esplicitamente le tendenze sociali e politiche, con il risultato che le Amministrazioni di tutto il mondo si sono scoperte violentemente sensibili a ciò che succede nei dietro le quinte del settore tecnologico, minacciando sanzioni, normative o ripercussioni disperatamente pensate per arginare com’è possibile la situazione.

Un approccio aziendale 4.0

La cultura della globalizzazione precedente agli anni Duemila era dominata da aziende di matrice statunitense la cui influenza veniva adoperata anche per propagandare i valori ideologici del gigante d’oltreoceano. Almeno per quanto riguarda lo sviluppo di un immaginario condiviso, della produzione del concetto di “progresso”. Da allora le cose sono cambiate, le comunicazioni e i trasporti sono divenuti fulminei e nazioni che prima venivano solamente sfruttate si sono oramai elevate a giganti economici. In generale, si è strutturato un mondo più interconnesso e interdipendente, un mondo ibrido in cui diverse culture sentono la necessità di esprimere i propri valori e i propri interessi.

Contemporaneamente, diverse aziende tech americane si sono rese conto di aver ormai saturato il Mercato occidentale, consapevolezza che le ha portate a cercare uno spazio di crescita nelle cosiddette aree in via di sviluppo, prime tra tutte India e Cina. Le due nazioni, ambo estremamente popolose, rappresentano infatti un bacino d’utenza più che desiderabile e i mastodonti americani hanno volentieri limato i loro tratti più caratteristici per accomodare i loro gusti, le loro sensibilità e i loro interessi politici.

Le Big Tech, in particolare, si trovano quotidianamente a ridimensionare i contenuti legali e valoriali delle proprie policy per assecondare le leggi delle Amministrazioni per loro più influenti, dando il via ad atteggiamenti manageriali ambigui e disomogenei dettati dal bieco calcolo del rapporto costi-benefici. Non che la posizione dei leader d’impresa sia semplice: da una parte bisogna tutelare l’identità dei brand, dall’altra è doveroso sottostare alle norme locali, norme che magari sono state introdotte strada facendo da cariche politiche dallo smaccato carattere autoritario. Come comportarsi dunque nel caso un Governo antidemocratico decida di imporre delle leggi contrarie alla sensibilità occidentale? La risposta ovvia sarebbe quella di operare solamente in nazioni di cui si rispetta e condivide l’etica, tuttavia è ben noto che questa prospettiva sia smaccatamente anti-economica.

Le imprese più ingombranti si dimostrano quindi ben pronte a esibire una certa elasticità: quando legge e policy aziendali non combaciano, si decide di confinare l’applicabilità della legge al solo territorio coinvolto. In altre parole, un dissidente indiano sarà oscurato in India, ma i suoi post potranno essere intercettati da coloro che vivono fuori confine. Si definisce quindi un atteggiamento per cui la tutela degli utenti ha un valore subordinato ai capricci del Mercato, con molti dei giganti del settore che accomodano anche le dittature, ammesso che dette dittature gestiscano corposi interessi finanziari.

Fossero rimaste confinate in aree remote del globo, l’Occidente sarebbe anche stato anche pronto a tollerare queste ambiguità, tuttavia l’assalto a Capitol Hill da parte di invasati internettiani ha convinto la Casa Bianca a ridiscutere il suo rapporto con le Big Tech. Allo stesso tempo, l’Unione Europea ha iniziato a questionare quanto siano tollerabili, economicamente e strategicamente, i soprusi subiti dal settore digitale nella sua inquadratura normativa di stampo americano, inquadratura che è tendenzialmente poco compatibile con il GDPR europeo.

La sicurezza è sconveniente (e insicura)

Nella lingua tedesca, “sicurezza” può essere tradotto con le parole “sicherheit” e “geborgenheit”. Sono due forme di sicurezza qualitativamente differenti: la prima è affine alla lettura comunemente accettata anche nel nostro idioma, mentre la seconda esplora un’altra forma più emotiva della sicurezza, una che sfocia nel contesto della “stabilità”. Nel parlare della sicurezza in campo digitale è opportuno tenere in considerazione ambo le sfumature, se non altro perché questa deriva filologica nasconde al suo interno un’insidia che rischia altrimenti di rendere effimero il dibattito.

Nella lettura tradizionale, l’ideale della “sicherheit” combacia con la sorveglianza ossessiva in cui molti Governi stanno defluendo. Secondo questo approccio, meglio affidarsi a un Governo che nuclearizza su di sé il controllo, che ad aziende pronte ad approfittare dei cittadini o ad abbandonare la Rete nelle mani dei terroristi che prolificano nel sottobosco digitale. Da qui, il passo verso l’ur-fascismo codificato da Umberto Eco è breve. Vale dunque la pena di sviluppare consapevolezza sulla tutela autonoma della privacy, sia perché il confine tra legge e oppressione non è sempre chiaro, sia perché le fughe di dati sono considerate ormai un problema endemico della digitalizzazione, un problema la cui soluzione non rientra certamente nelle priorità governative italiane o europee.

L’uso di app quali WhatsApp, Instagram, Facebook è praticamente fuori questione e anche adoperare Google è poco lungimirante. Quelle citate sono realtà che raccolgono in maniera compulsiva i dati dei loro utenti, che li tracciano in maniere sorprendenti e che in tutta probabilità non comprendiamo ancora pienamente, realtà che sarebbe raccomandabile evitare in assoluto, ma che sono anche talmente intrecciate con la socialità 4.0 che la loro esclusione rasenta l’impossibile. Tralasciando la sfera privata, esistono contesti in cui la presenza sui social è essenziale alla dimensione professionale: vuoi che sia indispensabile per fare conoscere all’estero il proprio brand o che la creazione degli account sia “suggerita” da una dirigenza che vuole aumentare la visibilità dei propri contenuti, resta il fatto che l’emarginarsi dai social possa avere ripercussioni sociali e lavorative.

Molti cercano di compensare affidandosi a Telegram, servizio di chat il cui sistema di archiviazione in cloud è accusato di enormi fragilità. Meglio piuttosto divergere su Signal, programma che, essendo meno popolare, difficilmente vi permetterà di rimanere in contatto con amici, familiari e colleghi. Utile sarebbe anche cambiare le proprie abitudini a proposito dei motori di ricerca. Al posto di appoggiarsi al già citato Google, si potrebbe far riferimento a portali quali Startpage, Searx e DuckDuckGo, i quali non targettizzano l’utenza, ma si limitano a mostrare inserzioni affini alle tematiche delle ricerche eseguite. Manco a dirlo, questi siti incappano però in un’indicizzazione meno efficiente, soprattutto per quanto riguarda la ricerca di e per immagini, con il risultato che molte delle indagini che passano per i loro server potrebbero risultare infruttuose o frustranti.

Esistono dunque le reti virtuali private sicure (Secure VPN), reti che possono essere consolidate attraverso software o estensioni che cifrano i dati trasmessi e simulano gli IP, ovvero alterano il codice di identificazione del dispositivo usato per navigare, così da concedere agli internauti un maggiore anonimato. Si tratta di strumenti che potrebbero essere poco accessibili a coloro non avvezzi all’informatica, tuttavia si dimostrano sempre più essenziali per sopravvivere al mondo digitale odierno. La loro esistenza permette infatti di simulare IP di qualsiasi parte del mondo, uno stratagemma che è in grado di valicare le censure imposte a livello nazionale. I servizi di VPN mostrano tuttavia delle limitazioni evidenti: i migliori richiedono il pagamento di un abbonamento e, a ben vedere, neppure loro garantiscono l’immunità completa dalla fuga di dati. Solo lo scorso marzo è emerso che i dati di almeno 21 milioni di user di VPN sono stati compromessi e non si è neppure trattato di un caso isolato: grandi aziende del settore hanno manifestato criticità già a partire dal 2019.

Un’ulteriore difesa la si può cercare nel software open-source The Onion Router, comunemente detto TOR. Si tratta di un programma pensato per massimizzare l’anonimato nella comunicazione dei dati, un presupposto che però dev’essere mantenuto preservando un rigoroso codice di condotta: è necessario alterare a monte il proprio IP, ricordarsi di non aprire il browser di navigazione a tutto schermo (rivelerebbe ad eventuali osservatori dei dettagli sull’hardware in uso), evitare i siti che non usano il protocollo HTTPS e assicurarsi di aprire i file scaricati solamente dopo essersi disconnessi dalla Rete. Usare TOR in maniera efficiente è complesso, inoltre la sua navigazione è estremamente lenta e poco pratica poiché i server non vantano portata e dimensione di quelli a disposizione delle Big Tech. Per evitare le censure dittatoriali, poi, il programma si appoggia a “nodi” indipendenti, sistemi di supporto sparpagliati in diverse nazioni e gestiti da volontari che non sempre vengono selezionati con la dovuta accortezza. A inizio 2021 è infatti emerso che un’entità dotata di immense risorse stesse foraggiando centinaia di nodi con l’intento di compromettere il sistema annichilendo l’anonimato della piattaforma.

L’ideale sarebbe approcciarsi alla Rete con un computer dedicato, con le opportune tutele e attraverso TOR, ricordandosi di non fare o scrivere nulla che possa rivelare dettagli importanti su di sé. Qui entra in campo il problema della “geborgenheit”: una simile sicurezza di navigazione rischia di ledere la stabilità socio-economica garantita da un’esperienza internettiana tradizionale. L’uso intensivo di sistemi che tutelano la privacy va infatti a discapito di un universo globalizzato che fa della rapidità del consumo e della visibilità dei paradigmi essenziali. La dissonanza tra tutela e presenza digitale rischia di ledere i rapporti sociali e limitare le possibilità professionali, trainando l’utente in quello che si potrebbe definire un ascetismo virtuale che ha forti ripercussioni sulla vita privata.

In verità, i casi in cui sia opportuno non lasciare alcuna traccia del proprio passaggio sono comunque casi estremi, spesso non ha senso abbandonarsi ad atteggiamenti che sono di per loro propensi a tramutarsi in ossessioni, basta piuttosto affidarsi ad accorgimenti basilari quali l’evitare il più possibile i prodotti di aziende note per i loro abusi, evitare l’acquisto di accessori che si connettono immotivatamente alla Rete e, magari, pretendere che sia la politica a difendere gli interessi dei cittadini. Dopotutto la “sicherheit” non può limitarsi alla mera sorveglianza, deve fornire anche qualche forma di tutela, altrimenti il contratto sociale si va a lacerare.

[di Walter Ferri]

 

Svizzera: da domani revocate gran parte delle restrizioni anti-Covid

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La Svizzera ha deciso di revocare gran parte delle restrizioni anti-Covid: il governo, infatti, nella giornata di oggi ha fatto sapere che a partire da domani non sarà più necessario indossare obbligatoriamente la mascherina ed esibire il certificato Covid per accedere a negozi, ristoranti, istituzioni culturali, altre strutture aperte al pubblico e manifestazioni. Il governo ha inoltre eliminato la raccomandazione del telelavoro e l’obbligo di utilizzare la mascherina sul luogo di lavoro. L’isolamento delle persone risultate positive e l’uso obbligatorio della mascherina sui trasporti pubblici e nelle strutture sanitarie sono le uniche due misure che rimarranno in vigore fino a fine marzo, con lo scopo di proteggere le persone particolarmente a rischio.

Dalla crisi energetica ai fertilizzanti: le conseguenze delle politiche “green”

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Una notizia piuttosto trascurata sui media nazionali è quella che riguarda l’aumento del costo dei fertilizzanti nel settore agricolo. Notizia non di poco conto se si pensa che costituisce una delle principali cause dell’inflazione nei beni alimentari. Secondo l’Istat, nel mese di gennaio 2022, la svalutazione si attestava a + 2,4% per gli alimenti lavorati e a + 5,4% per quelli non lavorati. L'aumento dei prezzi dei fertilizzanti deriva in parte dai costi energetici globali, con il prezzo medio del gas naturale in Europa per il trimestre ottobre-dicembre, 10 volte superiore a quello dell’anno...

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Referendum: ok della Corte costituzionale a 4 quesiti sulla giustizia

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La Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili quattro dei sei quesiti referendari sulla giustizia, relativi rispettivamente a: abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità, limitazione delle misure cautelari, separazione delle funzioni dei magistrati ed eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm. Ora dunque mancano all’appello ancora due quesiti sulla giustizia, aventi ad oggetto la responsabilità civile dei giudici e il diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari, nonché il quesito sulla cannabis.

Alternanza scuola-lavoro, cresce la protesta: a Torino già 20 scuole occupate

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Salgono a venti gli istituti occupati nell’area metropolitana di Torino, uniti per protestare nei confronti dell’alternanza scuola-lavoro che soltanto nell’ultimo mese è stata teatro della morte di due studenti: il 18enne Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, di appena 16 anni.  Fatti ingiustificabili che hanno alimentato la protesta degli studenti, in particolare nel capoluogo piemontese, dove alle scuole occupate nei giorni scorsi si sono aggiunti l’istituto Albe Steiner, l’istituto Buniva e il liceo Regina Margherita, chiedendo sicurezza sul lavoro e investimenti sul settore dell’educazione. Mentre in tutta Italia i ragazzi si preparano alla giornata di sabato 18 febbraio, quando in tutte le principali città italiane scenderanno in piazza a protestare contro l’alternanza scuola-lavoro, contro l’aziendalizzazione dei saperi e contro la riforma dell’esame di stato.

Il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) definisce l’alternanza scuola-lavoro “una modalità di didattica innovativa, che attraverso l’esperienza pratica aiuta a consolidare le conoscenze acquisite a scuola e testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti, arricchirne la formazione e orientarne il percorso di studio e in futuro di lavoro”. Nella pratica l’alternanza scuola-lavoro si traduce spesso – secondo gli studenti che protestano – in un’esperienza di sfruttamento istituzionalizzato e legittimato dallo Stato, nella quale i ragazzi sostituiscono centinaia di ore di apprendimento con “pratica lavorativa” in luoghi come aziende o associazioni. Una pratica giustificata a livello teorico con la necessità di rendere il percorso scolastico più funzionale al mondo del lavoro ma che, secondo gli studenti in lotta, “ha progressivamente allontanato la scuola dalla sua funzione emancipatrice, didattica e pedagogica, per allinearla alle necessità delle aziende e dei privati”.

Ed è a questa deriva che gli studenti hanno deciso di opporsi, manifestando da mesi per una scuola da riformare non in nome del profitto ma del sapere, della sicurezza, dell’inclusione. Così dal 18 al 20 febbraio si terranno a Roma gli Stati Generali della scuola, dove migliaia di studenti di tutta Italia si incontreranno per andare oltre la protesta e gettare le basi per un nuovo progetto di scuola pubblica “che sappia mettere al centro la costruzione del pensiero critico e sia partecipata dalla componente studentesca”, scrive l’Unione degli studenti. Per il 18 febbraio sono previste, inoltre, diverse manifestazioni in decine di città italiane: da Napoli, a Torino, in cui avverrà in piazza XVIII dicembre una mobilitazione contro stage, maturità e repressione, passando per Milano, dove nelle scorse ore sono stati occupati il liceo Parini e il Bottoni. Nel frattempo il Viminale ha appena inviato una circolare a tutti i prefetti chiedendo di “intensificare i servizi di prevenzione e controllo del territorio, allo scopo di garantire il regolare svolgimento delle manifestazioni”. L’auspicio è che non si verifichino più quelli che il ministro Lamorgese ha chiamato improvvidamente «cortocircuiti comunicativi», ovvero i pestaggi di piazza ai danni degli studenti da parte delle forze dell’ordine.

[di Salvatore Toscano]

Uso illegittimo dei dati biometrici: il Texas porta Meta in tribunale

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Anche il Texas, nazione simbolo della deregulation, si sta muovendo contro la Big Tech Meta avviando una crociata l’estrazione di profitto dall’uso incontrollato dei dati degli utenti. Il 14 febbraio il Procuratore Generale Ken Paxton ha infatti consegnato ai giudici tutte le carte necessarie a intentare causa contro l’azienda un tempo nota come Facebook, la quale è accusata di aver raccolto i dati biometrici dei texani per ricavarne un tornaconto economico. I documenti fanno riferimento al sistema di riconoscimento facciale della piattaforma, ovvero citano quell’algoritmo che ha lungamente permesso al sistema di scansionare automaticamente le foto caricate sul portale social per identificare i soggetti immortalati negli scatti. Si trattava di una funzione tanto controversa e invasiva che l’UE ne ha imposto la rimozione nel 2012 e che persino gli USA ve ne sono infine ribellati, con il risultato che Meta ne ha annunciato l’abbandono definitivo nel 2021.

Il Texas propone dunque una soluzione tardiva nel reagire all’abuso, tuttavia ha buone possibilità di ricavarne comunque risultati positivi. Paxton ha infatti formalizzato le sue accuse affidandosi alle leggi CUBI che il Governo texano ha passato nel 2009, leggi che prevedevano già allora che le aziende chiedessero esplicitamente il consenso informato da parte di tutti coloro che vengono assoggettati al riconoscimento facciale. Non solo, a inizio 2021 il tanto criticato sistema di tag fotografiche si è già meritato da parte dell’Illinois una class action da 650 milioni di dollari, generando un precedente che ha fatto storia.

Basta leggere tra le righe della nuova causa per capire che chi se ne è fatto autore sta ben pensando di batter cassa: per quanto non sia stata formalizzata una cifra definitiva, vengono richiesti 25.000 dollari per ogni violazione di CUBI e altri 10.000 dollari per ciascun caso riconosciuto di pratica commerciale ingannevole. Le carte stimano che dal 2011 al 2021 gli utenti texani siano aumentati da 12 a 20,5 milioni, quindi tra le righe si evince che un conteggio minuzioso delle violazioni porterebbe a una multa potenziale da centinaia di miliardi di dollari.

Facendo affidamento alla storia, è facile prevedere che un simile traguardo non sarà raggiunto e che piuttosto la causa sia destinata a concludersi con un patteggiamento che rimpinguerà le casse texane senza danneggiare eccessivamente gli interessi di Meta. Anzi, è molto facile che l’accordo si riesca a trovare in tempi relativamente celeri, visto che l’azienda sta passando un periodo orribile a Wall Street e non vede l’ora di levarsi di torno i problemi passati per ricominciare di fresco nel cosiddetto “metaverse”.

La contestazione mossa da Paxton non è certamente rivoluzionaria, tuttavia stranisce notare che anche l’accomodante Texas si stia muovendo contro gli eccessi speculativi delle grandi aziende tecnologiche. O, perlomeno, che lo stia facendo nei confronti di quelle Big Tech che non hanno le loro sedi legali-amministrative all’interno della sfera d’influenza di Austin.

Non solo, un’eventuale, ennesima, multa a Meta potrebbe contribuire a tenere a bada le mire commerciali del social, le quali si stanno progressivamente muovendo verso l’integrazione di realtà virtuali da fruire attraverso visori. Visori che saranno in grado di scansionare ogni elemento degli ambienti che inquadrano, offrendo a chi si occupa di raccolta e vendita dati una vera e propria miniera d’oro di informazioni non ancora debitamente sondate.

[di Walter Ferri]