giovedì 17 Luglio 2025
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Il Mossad israeliano ha ottimizzato gli assassinii in remoto

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Il 27 novembre 2020 Mohsen Fakhrizadeh, fisico nucleare riconosciuto da molti come uomo a capo del programma nucleare iraniano, è stato brutalmente assassinato mentre si stava recando con la moglie verso la sua villa di Absard, cittadina nell’area di Teheran. La vicenda è stata inizialmente inquadrata come un agguato perpetrato da un generico squadrone della morte, tuttavia con l’avanzare delle indagini è risultato evidente che nell’area della sparatoria non fosse presente alcun sicario, dettaglio che non ha mancato di sollevare le perplessità delle guardie del corpo dello scienziato.

Nel tempo è emerso che le ricostruzioni iniziali fossero del tutto errate e che a portare avanti l’esecuzione sia stata una torretta comandata in remoto riconducibile alle Forze del Mossad, l’Intelligence israeliana. Il The New York Times ha voluto andare a fondo della faccenda e lo ha fatto dedicando gli ultimi mesi a intervistare insider reperiti dagli eserciti di Iran, Stati Uniti e Israele, indagine che è culminata recentemente con la pubblicazione di un report approfondito che ha analizzato i dettagli dell’intera operazione.

La manovra militare è stata un esempio perfetto di arguzia strategica e applicazione pragmatica delle più recenti tecnologie. Sarebbe quasi ammirevole, se non fosse spaventoso. Non potendo raggiungere il proprio bersaglio con i bombardamenti via UAV e non potendo fare affidamento sugli agenti locali – in passato si sono dimostrati vulnerabili a cattura -, Mossad ha deciso di puntare su una soluzione estrema, affidandosi a torrette semiautomatizzate più complesse di quanto non sia lecito pensare.

Il primo problema è stato banalmente quello di allestire la postazione, ovvero trasportare e assemblare pezzo per pezzo un braccio robotico su cui era montata una mitragliatrice belga FN MAG. Superato questo ostacolo, è stato necessario superare la grande insidia della connessione in remoto, una connessione che è stata stabilita via satellite in una base operativa posta a distanza di centinaia di chilometri dal luogo dell’azione. Cosa vuol dire? In pratica il fucile ha esploso i colpi con un ritardo di circa 1.6 secondi da che il cecchino ha premuto il grilletto.

In un normale contesto, un simile scarto avrebbe reso molto complesso – se non impossibile – ottenere i risultati sperati dall’Intelligence israeliana, tuttavia il difetto è stato mitigato dall’implementazione di un’intelligenza artificiale, la quale non solo ha compensato la latenza, ma ha anche “ammortizzato” gli effetti del rinculo dell’arma, aumentandone di fatto la precisione. Una prima pioggia di proiettili ha bloccato la vettura di Fakhrizadeh, una seconda gli ha crivellato la spina dorsale uccidendolo. L’arma, montata su un furgone apparentemente abbandonato, è stata quindi fatta detonare con cariche esplosive, così da causare ulteriori danni e cancellare importanti prove.

Stando alle fonti del The New York Times, l’agguato sarebbe stato discusso nel 2019 da Yossi Cohen, l’allora direttore di Mossad, in incontri tenutisi con tutti i personaggi di spicco dell’Amministrazione Trump. Presidente, Segretario di Stato, direttore della CIA erano tutti consapevoli del piano. Piano che peraltro mirava a martellare l’establishment iraniano, gettando benzina sul fuoco che si era già acceso in occasione della controversa esecuzione del Generale Maggiore Qaasem Soleimani, avvenuta in Iraq il 3 gennaio 2020.

Allora, l’Iran aveva reagito pacatamente alla smaccata provocazione, quindi Israele e Stati Uniti avrebbero deciso di rischiare il tutto per tutto e rincarare la dose, certi che il loro avversario fosse riluttante o incapace di rispondere a ulteriori omicidi. Un azzardo che avrebbe potuto portare a una guerra aperta, ma che Israele era disposta a compiere: Donald Trump non sembrava infatti in grado di vincere nuovamente le elezioni presidenziali e una simile esecuzione si è di fatto assicurata che Joe Biden abbia scarse possibilità di successo nel contrattare con l’Iran un nuovo, vitale, patto per il nucleare.

[di Walter Ferri]

Libia: Parlamento approva sfiducia contro governo di unità nazionale

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La Camera dei rappresentanti libica ha approvato una mozione di sfiducia nei confronti del governo di unità nazionale, guidato dal premier Abdul Hamid Dbeibah. A comunicarlo è stato il portavoce del Parlamento con sede a Tobruk, Abdullah Bliheg, il quale ha fatto sapere che la mozione è stata appoggiata da 89 dei 133 deputati presenti. La sfiducia votata nei confronti dell’esecutivo incaricato di traghettare il Paese verso nuove elezioni a dicembre, è stata però respinta dal consiglio di Stato libico (Hsc). Il portavoce dello stesso, Mohammed Nasser, ha infatti affermato che la Hsc la considera «nulla», dettando così una linea che lascia prevedere un vero e proprio stallo istituzionale.

Condannato in Ruanda l’uomo che salvò mille persone durante il genocidio

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Paul Rusesabagina, un uomo di origine ruandese celebre per aver salvato più di mille persone durante il genocidio dei tutsi nel 1994, è stato ufficialmente condannato per terrorismo per mano del giudice Beatrice Mukamurenzi. L’accusa rivoltagli è quella di essere il fondatore di un’organizzazione terroristica che ha compiuto, negli anni, numerosi attacchi contro civili, tra cui quello che ne ha uccisi 9 nel 2018.

Rusesabagina era già stato arrestato nel 2020 con le stesse accuse, fortemente sostenute dal governo autoritario del presidente Paul Kagame. Un punto da tenere bene a mente: secondo molti Rusesabagina è finito in carcere per le numerose critiche che rivolgeva al governo di Kagame. Il Presidente, infatti, seppur noto per essere riuscito a mantenere dei discreti rapporti pacifici con i paesi occidentali, è da tempo accusato dagli stessi di autoritarismo, metodi violenti e repressivi e violazioni dei diritti umani. Paul Rusesabagina, in prima persona, lo aveva indicato come responsabile di un altro genocidio avvenuto nel paese, contro l’etnia hutu.

Le circostanze che hanno portato Rusesabagina ad essere arrestato non aiutano a fare chiarezza e a eliminare i dubbi sul coinvolgimento del governo Kagame. Non è noto, infatti, dove fisicamente si trovasse Rusesabagina al momento della cattura, visto che le autorità belghe negano di aver mai dato il consenso alla sua estradizione e la famiglia, dall’altra parte, accusa il governo ruandese di rapimento.

Il processo stesso, iniziato a febbraio del 2021 mentre l’uomo si trovava già in carcere da 5 mesi, è stato molto criticato, soprattutto perché alcune fonti sostenevano che Rusesabagina si trovava rinchiuso in condizioni disagevoli e senza le medicine necessarie a tenere sotto controllo la sua pressione alta.

Rusesabagina si era già allontanato dal Ruanda nel 1996, trasferendosi prima in Belgio e poi negli Stati Uniti, cercando di sfuggire ai numerosi tentativi del governo di riportarlo in patria e processarlo. La sua “fuga” si è fermata nel settembre del 2020, mese in cui l’uomo è stato fermato tramite un mandato di arresto internazionale, criticato poi dal Parlamento Europeo. Quest’ultimo, infatti, aveva approvato una risoluzione in cui chiedeva a Kagame di rispettare i diritti di cittadino europeo di Rusesabagina. Il governo ruandese aveva ribattuto con un’altra risoluzione, volta ad accusare l’Unione Europea di voler influenzare un processo in corso.

Come mai la storia di Paul Rusesabagina ci è familiare? Perché ci è stata raccontata nel film Hotel Rwanda, risalente al 2004. L’uomo infatti, presente durante il genocidio ruandese del 1994, tristemente noto perché morirono tra 800mila e un milione di persone appartenenti soprattutto all’etnia tutsi, riuscì a salvare circa 1.268 individui, sia hutu che tutsi, mettendoli a riparo nell’albergo di cui era direttore. Negli anni Rusesabagina scrisse molto sulla vicenda, ricevendo molti riconoscimenti e premi per i diritti umani.

È difficile prevedere come andrà a finire, se Rusesabagina dovrà scontare l’interezza della pena o l’intervento dell’Unione europea riuscirà a mediare la vicenda. Secondo gli avvocati dell’imputato non esistono prove inconfutabili sulle uccisioni di civili per mano dell’organizzazione terroristica che l’uomo è accusato di aver guidato. A loro dire, infatti, il processo è stato influenzato dalla politica e dalle critiche di Rusesabagina al governo di Kagame, poco propenso ad accettare correnti contrarie alla propria.

[di Gloria Ferrari]

Canada: Trudeau ottiene il terzo mandato da premier

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Il Primo ministro uscente del Canada, Justin Trudeau, ha ottenuto un terzo mandato alla guida del governo vincendo le elezioni anticipate. Un mandato che però non potrà contare su una maggioranza assoluta in Parlamento, in quanto il Partito Liberale (del quale Trudeau è alla guida) si ferma a 155 seggi contro i 170 necessari per ottenerla. Trudeau aveva portato il Paese ad elezioni anticipate proprio per cercare di riconquistare la maggioranza parlamentare, persa due anni fa. Il risultato non può quindi essere considerato un vero successo per il premier.

La clessidra: come le multinazionali controllano la filiera alimentare

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Il settore alimentare globalizzato mette in stretta relazione persone e luoghi lontani in rapporti di dipendenza talvolta oscuri ad essi stessi. Decine di milioni di produttori agricoli e miliardi di consumatori sono collegati tra loro da uno “schema a clessidra” che determina e gestisce lo scorrere delle merci. Sia gli agricoltori da una parte che i consumatori dall’altra, sono sfruttati da coloro che sono posizionati nel piccolo spazio centrale della clessidra determinando povertà per gli agricoltori e malnutrizione per i consumatori: tradotto, immensi profitti per i padroni del cibo, come l...

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Anche il Vaticano impone l’obbligo del green pass

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Il Presidente della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano ha emesso un’ordinanza con la quale a partire dal 1° ottobre si richiede il Green Pass per l’accesso all’interno della città del Vaticano e all’interno dei “vari Organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate a tutti i visitatori e fruitori di servizi”. Sono esentati solo “coloro che partecipano alle celebrazioni liturgiche per il tempo strettamente necessario allo svolgimento del rito, fatte salve le vigenti prescrizioni sanitarie sul distanziamento, sull’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, sulla limitazione della circolazione e dell’assembramento di persone e sull’adozione di peculiari norme igieniche”.

L’era del carbone sta finalmente arretrando

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Dalla firma degli Accordi di Parigi (2015) gran parte dei piani volti a realizzare nuove centrali a carbone sono stati annullati. A rivelarlo è un nuovo rapporto dei gruppi per il clima E3G, Global Energy Monitor ed Ember richiamato anche dal prestigioso The Guardian, il quale si è occupato di riportare le novità emerse: quarantaquattro paesi hanno scelto di evitare un qualsivoglia piano futuro per l’energia a carbone (una delle più inquinanti, visto che il carbone è uno dei combustili fossili più dannosi per il clima).

Sembra quindi che la fine “dell’era del carbone” sia vicina e che le nazioni stiano mettendo in pratica parte delle decisioni prese durante gli Accordi di Parigi, nonostante una recente analisi di Climate Action Tracker abbia dimostrato quanto molti paesi siano ancora tristemente lontani dal raggiungimento di tale obiettivo. Sarebbe infatti essenziale vedere cambiare rotta anche ai trentuno paesi che – per ora – stanno mantenendo i progetti relativi alla costruzione di nuovi impianti. C’è anche da dire che la metà dei trentuno paesi citati prevede la costruzione di una sola nuova centrale, notizia che fa comunque ben sperare per il “no new coal by 2021″ (appello lanciato del Segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres); se solo la Cina – responsabile di oltre la metà dei piani mondiali per le centrali a carbone – così come India, Vietnam, Indonesia, Turchia e Bangladesh, decidessero di eliminare i propri progetti, il numero previsto di nuovi impianti a carbone si ridurrebbe del 90 per cento. Ridimensionare il più possibile l’uso del carbone è uno degli obiettivi principali per frenare la crisi climatica e, come ha suggerito l’ONU, l’utilizzo dell’inquinante combustibile fossile dovrebbe ridursi del 79 per cento rispetto ai livelli del 2019 entro la fine del decennio, se si vuole davvero tenere fede alla promessa fatta a Parigi.

Senza un reale impegno da parte di tutti paesi a eliminare gradualmente il carbone, sarà però impossibile impedire che le temperature aumentino di oltre 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, com’è stato stabilito durante gli Accordi di Parigi. Le novità diffuse dal rapporto sopracitato rimangono comunque sinonimo di alcune prime grandi vittorie, utili anche per dare il giusto via alla ventiseiesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (Cop 26), prevista per novembre a Glasgow.

[di Francesca Naima]

Amazzonia, ad agosto maggiore deforestazione da 10 anni

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L’area deforestata dell’Amazzonia ha raggiunto l’estensione maggiore registrata negli ultimi dieci anni, è quanto emerge dai dati dell’Istituto dell’ambiente e dell’uomo (Imazon), che monitora la regione via satellite. In base alle rilevazioni solo lo scorso mese sarebbero stati deforestati 1.606 km quadrati di Amazzonia (un’area maggiore di quella occupata dal comune di Roma). Sempre secondo i dati diffusi da Imazon nell’ultimo anno sarebbero andati perduti 7.715 km quadrati di foresta, con un tasso di disboscamento del 48% maggiore rispetto a quello registrato lo scorso anno.

Il Codacons vuole che siano ritirati reddito di cittadinanza e pensione ai “no vax”

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In teoria sarebbe l’associazione che tutela tutti i consumatori, in pratica il Codacons ha deciso di fare campagna contro una parte di essi, ovvero i non vaccinati. Attraverso un comunicato l’associazione ha infatti chiesto al governo italiano di aggravare lo scenario per tutti coloro che «scelgono arbitrariamente di non sottoporsi al vaccino». In particolare l’associazione chiede che, dopo l’approvazione dell’obbligo di green pass, il Governo si attivi per revocare il reddito di cittadinanza (i cui percettori sono definiti “scansafatiche del regalo 5 stelle”) e la pensione a chi non si sottopone al vaccino anti-Covid.

Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, è intervenuto nel comunicato, asserendo quanto segue: «Di fatto l’esecutivo ha introdotto l’obbligo della vaccinazione per i lavoratori, prevedendo la sospensione dello stipendio per chi non si vaccina. Lo stesso principio va adesso applicato sia a chi percepisce il reddito di cittadinanza, sia ai pensionati, istituendo la sospensione del sussidio voluto dal Movimento Cinque Stelle nei confronti degli aventi diritto che risultino non vaccinati, e la sospensione della pensione per quegli anziani che rifiutano la vaccinazione». A Rienzi evidentemente non basta che l’Italia abbia partorito la versione del passaporto sanitario più restrittiva di tutta Europa.

Nessuna reazione da parte del governo e, almeno questa volta, ci sarebbe da stupirsi del contrario. Il Codacons d’altra parte non è certo nuovo dall’ingaggiare battaglie dal marcato sapore sensazionalistico. L’associazione negli anni si è distinta per le sue battaglie ad alto coefficiente mediatico passando dagli attacchi a Francesco Totti a quelli contro Fedez, il Grande Fratello Vip, gli smartpgone e gli occhialini 3D. Fino al paradossale esposto contro la pubblicazione di una storia inedita del celebre fumetto Corto Maltese, accusato dall’associazione di inviare “un messaggio scorretto, ineducativo, fuorviante e pericolosissimo, soprattutto per i giovani lettori, per il continuo e ripetuto lasciarsi andare, da parte del personaggio del popolare fumetto, al vizio del fumo“. Molto probabile che, anche in questo caso, il Codacons non abbia fatto altro che lanciare una provocazione su un tema ad alto tasso mediatico per aumentare la propria popolarità.

 

L’Australia usa il riconoscimento facciale per sorvegliare la quarantena

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La tecnologia aiuta non poco a migliorare la vita e a semplificare alcune procedure, tuttavia ogni novità comporta insidie e diffidenze, se non addirittura brutali stravolgimenti. Ecco dunque che il 15 settembre 2021 la Commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ha lanciato un allarme sull’uso scriteriato del riconoscimento facciale, identificandolo al pari di un pericolo potenzialmente «catastrofico».

L’Australia pare non aver percepito il memorandum: proprio in questi giorni sta emergendo come Canberra si sia dedicata come non mai all’utilizzo dei dati biometrici, arrivando al punto di supervisionare la quarantena pandemica direttamente attraverso l’occhio meccanico dello smartphone. Almeno una cinquantina di viaggiatori dell’Australia Meridionale si sarebbero infatti prestati a testare delle app che permettono alle autorità di vigilare agilmente sulla corretta esecuzione delle restrizioni di movimento.

Il software lancia un segnale in un momento casuale della giornata, da allora l’utente ha 15 minuti per avviare il programma e inviare agli organi di controllo una foto attestante il fatto che non sia uscito di casa. L’immagine viene processata da un’intelligenza artificiale che possa autenticare l’identità del soggetto immortalato, mentre la geolocalizzazione conferma effettivamente che il telefono non si sia allontanato dalle coordinate prefissate. Se l’utente non risponde per tempo, l’app avvisa la polizia, la quale passa poi a fare il controllo fisico.

Parallelamente, il Nuovo Galles del Sud e Victoria si sono lanciate nell’esplorazione delle possibilità di un programma del tutto omologo sviluppato dall’azienda privata Genvis, con il risultato che almeno metà della popolazione australiana sia virtualmente candidabile a questa forma di servizio di sorveglianza. Il sistema è ormai attivo da quasi un mese, ma proprio le lapidarie dichiarazioni delle Nazioni Unite hanno spinto stampa e attivisti per i diritti civili a evidenziare su scala globale questo insolito precedente.

Una simile applicazione del controllo digitale non è comune nel mondo occidentale, men che meno se si considera che il Governo australiano non si sia troppo attardato troppo a discutere i dettagli tecnici ed etici dello strumento, caricandosi di quel pragmatismo di chi si dimostra disposto a compiere sacrifici importanti pur di ottenere risultati immediati. Le Amministrazioni coinvolte giurano che i dati saranno gestiti con discrezione e che le informazioni raccolte non saranno registrate, ma molti evidenziano la necessità di aprire una discussione pubblica sulla faccenda, magari nell’ottica di imporre una moratoria che vada a normare quest’intera branca informatica.

Osservatori governativi, sovragovernativi, ONG e accademici ci mettono costantemente in guardia sull’ampia gamma di abusi in cui i cittadini potrebbero incappare qualora il riconoscimento facciale continuasse a evolvere al di fuori di ogni regola, tuttavia l’esplorazione delle intelligenze artificiali e dei dati biometrici si dimostra sempre più cara ai Governi di tutto il mondo, i quali vedono nella digitalizzazione la soluzione a ogni problema economico e di sicurezza.

[di Walter Ferri]